Disegno eseguito da un artista abissineseFac-simile di disegno eseguito da un artista abissinese
Fac-simile di disegno eseguito da un artista abissinese
Gli Egiziani erano bene armati, disciplinati, comandati e istruiti da ufficiali europei, possedevano anche cannoni; gli Abissinesi invece avevano pochi fucili, vere anticaglie, lance e sciabole alquanto rozze, ma erano animati dalla voce risoluta del loro sovrano, spinti dall'odio contro chi quasi in segno di sprezzo li aveva così aggrediti, accecati da fanatismo religioso.
La lotta fu terribile, e finì con un massacro, non con una vittoria. Non si calcolano le vittime da parte dei vincitori, basti dire che degli Egiziani sette soli riuscirono colla fuga a raggiungere la retroguardia, uno solo dei feriti potè nascondersi e guarito vive ora in Adua, temendo un troppo severo castigo se tornasse in patria. Nè prigionieri nè feriti furono rispettati, tutto quanto fu trovato facesse parte del nemico si passò a fil di spada. Trattandosi di mussulmani, questi fanatici cristiani non vollero concedere l'onore della sepoltura, ed anche oggi tutto il campo è seminato delle miserande reliquie di questa fatale giornata. Al centro della trincea, dove era radunato lo stato maggiore difeso da una batteria, le ossa, i teschi, i resti dei cavalli coprono letteralmente il terreno, mostrando come si possano calpestare i più sacri principii di una religione, quando questa sia male interpretata o faccia velo alla ragione col fanatismo.
Profano nell'arte militare, bisogna però che convenga come sia stato imprudente e insieme ardito il dirigere un corpo di soldati attraverso un paese come questo, dove mancano strade, indicazioni, comunicazioni, dove la natura lo rende doppiamente difficile pel nemico, ma altrettanto propizio a chi vi ha l'abitudine, ostile per di più, privo affatto d'ogni risorsa e del più necessario alla sussistenza, dove scarsissima è persino l'acqua, e la poca che si trova, sempre cattiva. Irragionevole poi, mi permetto di dirlo dopo aver visitata la località, di far sostarela truppa laddove da tre lati, alle spalle e ai fianchi, era completamente serrata ogni ritirata dalle pareti verticali basaltiche, restando aperto solo il fronte, da dove si poteva, come avvenne, aspettarsi l'attacco nemico.
Il soldato abissinese ha un modo curiosissimo di battersi: al momento della mischia si sbarazza generalmente di tutto quanto porta con sè, spesso anche del fucile, preferendo l'arma bianca: colla spada al fianco, una o due lance nella destra e lo scudo nella sinistra, difendendosi con questo, quasi strisciando e passando da una pietra all'altra, da un albero all'altro, facendo difesa al proprio corpo di tutto quanto incontra, si porta fino a venti o venticinque metri dal nemico. Coglie allora il momento opportuno, si alza, getta con tutta forza le proprie lance, chè in questo è maestro, e approfittando del momento di confusione che questo nuvolo di lance produce nelle file ordinate del nemico, in due salti gli è addosso e colla sciabola lo assale a grandi fendenti. La maggior parte dei teschi che vedemmo avevano infatti la ferita trasversale all'altezza dell'orecchio. È una manovra difficile se si vuole, ma terribile e che può praticarsi da chi è dotato di gran sangue freddo, ha poco attaccamento alla vita, ed è spinto da una forza misteriosa che al pensiero della vita futura gli rende cara la morte se guadagnata col sangue di un nemico nella fede.
Sul campo di battaglia, presso alcuni pozzi di acqua verde, puzzolente e fangosa, a poca distanza dal villaggio di Gundet, piantammo le nostre tende verso le dodici e mezzo, a circa 1700 metri di elevazione.
I nostri servi credettero fare dello spirito, sfogare forse un po' ancora della loro ira, forse anche procurarci spettacolo grato, col mettersi a giuocare alla palla ed inseguirsi gettandosi dei teschi, come fossero pallottole di neve, ma invece dei nostri applausi s'ebbero una buona lezione di carità cristiana.
Mercoledì 26.In Gundet è impossibile trovare quadrupedi pel trasporto della nostra roba. Proponiamo quindi agli stessi che vennero fin qui di proseguire: alcuni acconsentono ad accompagnarci ma solo fino ad una giornata da Adua, altri si rifiutano recisamente. Come al solito nascono mille difficoltà chè pare che le casse siano divenute più pesanti, e si perdono delle ore in chiacchere e questioni inutili. Baramascal, il capo dei servi, addetto al bagaglio, ci mette tutta la sua pazienza e la sua voce, accetta i buoi che vogliono proseguire, trova qualche buricco e qualche portatore e riesce così di combinare tutto. Fra noi, i Naretti, e qualche altra piccola carovana che ci segue sperando trovare nella nostra compagnia maggior sicurezza, abbiamo almeno un centinaio di buoi, muli e buricchi, una quarantina di indigeni che accompagnano questi animali col bagaglio, una trentina di servi ed altrettanti portatori. La carovana è ben numerosa e stupendo lo spettacolo sia della marcia, sia dell'accampamento. Appena si giunge alla tappa è un vero formicaio di uomini e di animali. Chi scarica il bagaglio, chi pensa a radunarlo: gli animali intanto, sollevati dal noioso peso se ne vanno pascolando: chi subito si mette in cerca di fieno per tenerli tranquilli la notte, chi se ne va colle pelli al vicino pozzo a prender acqua, chi a far della legna, alcuni piantano le tende, altri accende il fuoco, quello fra noi destinato alla cucina s'accinge subito al lavoro, i suoi assistenti lo aiutano a scorticare qualche lepre o spennare pernici, altri vanno in cerca di nuove vittime, i servi sgozzano il bue o il montone destinato alla giornata, quando c'è, le donne attorno ai fuochi s'accingono subito a fare il nostro pane, i servi fanno il loro, gli indigeni che accompagnano i buoi il loro; chi cuce, chi rade la testa al compagno, chi applica il ferro rovente a qualche povera mula piagata, chi si sta liberando da molesti abitatori. Appena fa buio si richiamano tutti i quadrupedi che si legano nell'interno dell'accampamento,all'ingiro si accendono enormi fuochi e attorno a questi stanno accovacciati i diversi gruppi dei nostri seguaci, poi sorgono le voci di quelli che se la passano colla solita cantilena, poi il ballo o fantasia degli indigeni. È una continua lanterna magica di quadri e costumi, cui va aggiunta l'imponenza e l'originalità che non può dare che il pennello di madre natura.
In coda alla carovana, alle due, partiamo noi pure: le colline si fanno un po' più alte, l'aspetto generale assume un po' più l'imponenza delle montagne: il carattere di sterilità va diminuendo, e di quando in quando l'occhio trova a riposarsi su qualche masso verde: i profili delle alture che si disegnano all'orizzonte sono mossi e artistici e non più tanto bassi, orizzontali o quasi geometricamente conici e altrettanto monotoni, come nei giorni scorsi. Proseguiamo di collina in collina: sulle creste delle circostanti qualche capanna conica che dà indizio di piccoli villaggi: di tempo in tempo qualche colonna di fumo infuocato si innalza nell'atmosfera: sono praterie incolte e secche che i nativi incendiano per concimare il terreno colle ceneri e disporlo a ricevere l'anno dopo qualche seme di dura. Allo svolgere da una altura che andavamo salendo sulla costa, ci si presenta come incorniciato dai profili dei pendii di due altre alture che si incontrano a valle, uno stupendo panorama delle montagne d'Adua: fiere parevano innalzare il capo nell'atmosfera, superbe di trovarsi giganti fra la miriade di colline che sotto loro formavano come un mare agitato: vette acuminate, creste frastagliate, pareti all'apparenza rocciosa e dirupata, mi richiamavano le care Alpi e la loro maestosità. Discendiamo lungamente ed aspramente per uno dei soliti sentieri dove ad ogni passo v'ha da rompersi le ginocchia contro le punte di granito sporgenti, o da cavarsi un occhio colle spine delle acace che qui crescono fitte come gramigna. Finita la gran discesa seguiamo per qualche tratto il letto di un piccolo torrente, poi una lieve altura, poialtro torrente, e nei campi vicini troviamo sparsi gli avanzi umani che stanno a memoria della prima scaramuccia avvenuta fra Egiziani e Abissini. Attraversata ancora una campagna coltivata a dura, scendiamo nel letto del Mareb che presenta ancora tutte le tracce abbastanza recenti del passaggio dell'acqua, che ora è limitata a pochissima quantità che scorre per qualche tratto per poi sprofondarsi nelle sabbie e ricomparire più a valle. Le sponde coperte da bellissima vegetazione, piante gigantesche, specialmente acace eficus dealbata, oltre una massa di piccole piante, cespugli, fiori, liane. Molta caccia trovammo laddove scorreva l'acqua, e la cucina ne fu subito ben fornita. Piantammo il campo alle sei a circa 1320 metri di elevazione: la posizione per sè ed un bellissimo chiaror di luna lo resero ancora più bello, più grandioso, più fantastico del solito.
Giovedì 27.Di buon'ora i buoi sono carichi, talchè anche noi alle 6-½ partiamo. Sempre si attraversano brevi altipiani rinserrati da alture che si oltrepassano per portarsi dall'uno all'altro: poche tracce di coltivazione e qualche misera capanna sono i soli indizii della vita e della attività di questo paese. Finalmente abbiamo la fortuna di attraversare un pajo di corsi d'acqua, dove poca e lenta, ma limpida, ne scorre. Alle nove troviamo la carovana fermata sotto un enorme sicomoro, che coll'ombra de' suoi giganteschi rami tutta la protegge dai raggi cocenti del sole: vi facciamo la nostra colazione; le armi appese al colossale tronco, e di noi chi sdrajato al suolo, chi seduto sulle sporgenti radici, chi appoggiato a qualcuna delle nostre casse. Era un quadro impossibile a descriversi come mi sarà impossibile dimenticarlo. Gli uomini dei buoi adducono mille ragioni, fra cui che devono cercarsi farina ad un villaggio vicino, tutte scuse per non proseguire. Meno male che quel piccolo corso d'acqua, per quanto meschino, dopo tanta siccità mi ravviva, mi rianima e vi passo vicina buona parte della giornata, cacciandocento varietà di bellissimi uccelli, fra cui delle oche selvatiche assai grosse, e stupende per colori. Su un albero mi fecero sorpresa due grossi nidi sferici, del diametro di circa un metro, coll'apertura di forse venti centimetri, rivolta al basso.
Il forte della nostra carovana è tolto dalla più miserabile classe della popolazione della provincia dell'Amassena che è limitata appunto dal corso del Mareb, e, come passando in altre provincie, tipi e costumi possono variare, è meglio dirne ora qualcosa. Sono figure snelle, robuste, dall'occhio ardito, dalla tinta cioccolata: indolenti ma capaci e pronti a sopportare fatiche e strapazzi quando l'occasione se ne presenti: facili piuttosto alla contesa, ma che prolungano con gridi e discussioni, venendo difficilmente alle mani. Sopportano qualunque insolenza, qualunque osservazione si rivolga loro, ma guai a chi alzasse su loro una mano: sempre coperti, o meglio avvolti in un cencioso lenzuolo che gira attraverso alla cintura, e spingono su una spalla e alle volte fin sulla testa. Lo chiamanoscemma: i benestanti lo portano bianco attraversato da una grossa riga scarlatta, ed allora è elegante e pittoresco quanto mai, ma il povero sopprime il rosso perchè più costoso, e lascia il bianco diventar tutt'altro colore per economizzare la lavatura, per cui perde quasi tutto il suo carattere. Marciano scalzi, rare volte con sandali: portano la lancia, se lo hanno un fucile, lo scudo in pelle da ipopotamo, spesso un rozzo spadone, quasi sempre una grossa clava che serve pei buoi: qualche anello con amuleti in pelle al braccio, alle volte qualche anello d'argento alle mani. I capelli generalmente rasi o corti, spesso le orecchie bucate e passate da un semplice filo annodato. Le abitazioni sono capanne conico-circolari costrutte con tutta la semplicità e la miseria possibili: all'interno non hanno nulla, tutto al più qualcheangarebfisso al suolo, in legno, o fango e pietre: i più cuocciono il pane, che è quasi solo loro nutrimento, come già vedemmo, colla pietra calda al centro,alcuni hanno per questo uso una piastra in ferro leggermente concava. Altri utensili domestici non hanno. Solo si costruiscono rozzi vasi in terra, in forma d'anfora, entro cui conservano burro e miele. Colle pelli di capra e montone formano sacchi entro cui conservano farina, grano, sale, acqua e tutto quanto. Riempite di paglia servono come basto per buoi, muli o somari, sono la loro valigia quando viaggiano, le loro casse per mettervi le mercanzie quando vanno al mercato; se ne coprono alle volte le spalle o le avvolgono alla cintura per tutto costume. Stendono le pelli di bue per dormirvi e difendersi dall'umido e dagli insetti, se ne riparano dalla pioggia, vi mettono al coperto le loro masserizie o la roba che trasportano per forastieri, le stendono nella sabbia facendovi un'infossatura per raccogliervi acqua o per lavarvi, le tagliano a strisce per farne cinghie che per loro sono corde, le stendono su telaj di canne per farne le porte delle loro abitazioni. Insomma non si finirebbe di enumerare gli usi cui sono destinate le pelli in questo paese, ed è sorprendente come se ne sia cavato tanto profitto.
Venerdì 28.Si prosegue fino al fondo dell'altipiano, poi prendiamo a salire lungo la costa di una catena di alture, passandone di quando in quando alcune per poi discendere nel vallone che le separa da altre e salire a queste. I passaggi principali furono a 1550 metri il primo, a 1600 il secondo, poi a 1750 e l'ultimo a 1850. Raggiunta la vetta di questo, ci si stende ai piedi un esteso bacino di piccole alture e lievi avvallamenti, il tutto coperto da boscaglie. Discendiamo qualche poco e verso le undici troviamo i primi muli fermi e accampati sotto una acacia secolare, presso il villaggio di Derataclé, a 1800 metri. La via d'oggi è delle più faticose, perchè le salite e le discese si succedono senza tregua, e spesso il sentiero corre poco meno che verticale su pietra a nudo, e sempre ingombrato da rami, radici, pietre sporgenti, che l'attraversarlo sani e salvi è quasi miracolo, espesso si è obbligati far deviare le mule e i buoi o levarvi il carico perchè possano passare attraverso simili ostacoli. La vegetazione è abbondante ma non grandiosa, predominando gli arbusti, le boscaglie, interrotte a quando a quando da ficus dealbata o da grosse acace che elegantemente si innalzano ad ombrello. Oltre l'ultima altura solo riappare l'ulivo selvatico, il pesco ed il fico. Abitazioni scarsissime e sempre rifugiate sulle più alte vette per non essere tormentate dai passanti e fuori d'ogni pericolo d'aggressione in tempo di guerra. Ci sono guida a sud le acuminate vette dei monti di Adua, e noi andiamo girando verso ovest e sud-ovest per raggiungerle, evitando di sorpassare direttamente i più alti colli che per la linea più breve ne separano. Al campo troviamo alcuni soldati spediti dal governatore di Adua per incontrarci e facilitarci il trasporto delle nostre casse: i condottieri dei buoi intanto, timorosi che colla forza potessero essere costretti a proseguiregratis, più che in fretta se ne tornarono indietro, lasciandoci un'altra volta nell'imbarazzo di doverne trovare dei nuovi. Arriva il capo del villaggio sulla sua mula, accompagnato da un paio di aiutanti e seguiti dai soliti ragazzotti che portano le armi. Grandi inchini e complimenti a Naretti che pare sua vecchia conoscenza; quindi una sequela di promesse, come al solito però seguite da una fila dimaesee di considerazioni sull'annata poco ricca di raccolti. È strano il saluto fra Abissinesi che si rivedono dopo qualche tempo d'assenza: si toccano replicatamente le mani ripetendosi ilbuon giorno, come state, poi si stringono l'un l'altro per appoggiare labbro a labbro e darsi con tutta delicatezza una buona dose di baci. Verso sera ci arriva dal villaggio, in parte a titolo regalo d'amicizia, in parte perchè comandati dal governatore, un vaso di miele, una capra, quaranta pani.
Sabato 1º marzo.La solita questione del bagaglio ci fa perdere ancora una giornata. Adua deve essere a poche ore, ma inquesto paese non si può mai sapere nulla di preciso o di positivo, e mentre alcuni ce la dicono vicinissima, altri ci dicono che non potremmo arrivarvi in una sola tappa. Pare però dal consiglio dei più che a gran distanza non debba essere, quindi stabiliamo di mandarvi le nostre mule col più necessario del bagaglio, dando ordine ai servi di ritornare l'indomani mattina prima di giorno coi quadrupedi che devono servire al nostro ingresso. Lasceremo il bagaglio qui affidato ai soldati che penseranno a farcelo avere. Nella giornata intanto, a rompere la monotonia, arriva qualche altro capo dei villaggi vicini, col solito seguito, e spesso ci offrono deltecc, il loro vino, portato entro gigantesche corna da bue rivestite in pelle, e servito in bicchieri pure di corno.
La sera ci portano miele, una capra e cento pani.
Domenica 2.Siamo inquieti pei nostri muli che si fanno aspettare; senza questi è impossibile partire e in questi paesi siamo ormai persuasi che in fatto di ritardi bisogna aspettarsi qualunque mostruosità. Intanto arrivano piccole squadriglie di indigeni destinati al trasporto del bagaglio. Verso mezzogiorno finalmente possiamo metterci in marcia tutti quanti: la strada malagevole, la natura sempre la stessa; solo più frequente si incontra qualche tratto di terreno con tracce di coltivazione. Andiamo girando da sud-est a sud e sud-ovest per raggiungere la nostra meta dei monti rocciosi, che di quando in quando ci appaiono, se non nascostici da qualche vicina altura. Si sale e scende per sentieri impossibili, tendendo però generalmente al salire, talchè si arriva a 2150 metri circa per principiare poi la discesa lungo la costa di una catena di alture.
Quei benedetti monti pare si vadano allontanando davanti al grande desiderio di raggiungerli per vedere questa sospirata Adua, della quale ci dicono meraviglie, ma che nessuno ancora sa precisamente indicarci all'ombra di quale vetta sia piantata.Cinque o sei si vedono elevarsi a catena che forma un anfiteatro aperto ad ovest, ed entro cui, vedemmo poi, siede la sospirata capitale. Uno, più ad ovest, sta come a sentinella avanzata degli altri, e si eleva quale piramide triangolare, superbo quasi del suo isolamento, da ricordare l'elegante e ardito profilo del Cervino; l'illusione fugge però subito che si osserva ai piedi uno sterile suolo invece di quel mare di ghiaccio tanto ricco di bellezze e di imponenza. Passiamo presso il piccolo villaggio diAdi-Abuna, artisticamente piantato sul pendio di un'altura, e qui ci vengono ad incontrare una quindicina di cavalieri che formano un gruppo alquanto pittoresco. Sono amici di Naretti, spinti dal desiderio d'essere i primi a dargli il benvenuto. Ritorna qualche euforbia e appare qualche palmizzo. Ancora una mezz'ora ed ecco le prime case di Adua. Non aspettavo certo una gran città, speravo anzi che vi fosse tutto il caratteristico di questi paesi, ma immaginavo un bel paesaggio e me lo avevano descritto ricco di corsi d'acqua e sparso di fresca verdura: invece disillusione completa. Confesso che poche volte provai una sensazione così triste, così sconfortante, e la lessi in viso condivisa dai miei compagni. Solo in parte si presenta il panorama della città che sta disposta sui pendii di diverse alture: le case basse, pochissime hanno una camera superiore, la maggior parte sono tugurii circolari col tetto conico in paglia, alcune rettangolari con piccole aperture, il tetto piatto e coperto con terra su cui cresce l'erba come in una prateria, e alle volte persino qualche arbusto. I tetti si confondono quindi col suolo, i muri sono impastati con fango, quindi sono pure all'unisono col pavimento naturale. Qualche pianta che potrebbe dar vita alla monotonia della scena, sta invece intisichita per mancanza di pioggia e coperta di polvere: quasi nessun abitante che dia animo a questo triste quadro. Dal lato da dove arriviamo, incassato in una fenditura scorre un torrente che attraversiamo a guado per entrare dall'altro lato, salendol'altura, nelle vie della città. Peggio che mai; il più meschino dei nostri villaggi di montagna è una Parigi al confronto: case disabitate e cadenti, tetti rovinati, carcami di ogni sorta d'animali che ingombrano ad ogni passo la via, l'eco di morte che pare risuoni ad ogni porta, un vero disastro, una seconda Pompei per lo squallore, senza il bello artistico, ma colle tracce recenti della catastrofe. Ma non precipitiamo un giudizio sotto la prima impressione, e così tutti taciturni e avviliti arriviamo alla casa di Naretti, dove abbiamo squisita accoglienza ed un pranzo fatto preparare dai suoi servi che l'aspettano, e al quale ci sentiamo di far molto onore.
Fra i tipi abissinesi, amici di Naretti, che lo circondano, lo baciano e ribaciano e ci danno così nuova testimonianza della stima e dell'affezione che questo buon piemontese ha saputo acquistarsi in questo paese, spicca un tipo europeo che fa magnifico contrasto, e ancor più che sugli altri, sul suo viso, che porta l'impronta di recenti sofferenze, s'illumina quella scintilla di gioja che svela un profondo contento. Ha un'espressione di bonarietà ad onta della capigliatura e della barba semi-selvagge: piuttosto tozzo nelle proporzioni, veste abiti neri rappezzati o cuciti con filo di ben altro colore, dei bottoni non restano che le tracce e ne fanno le veci delle cordine e degli stecchetti: le orecchie gli sopportano un cappello, dal quale in diversi punti escono a prender aria ciocche di peli biancastri. Alla presentazione ci stringe la mano con tutta effusione, non raccapezzandosi di trovarsi con tanta gente fatta e educata come lui. È il signor Barallon, un bravo artigiano francese che da cinque anni vive in Adua facendo l'armaiuolo. Il primo discorso che ci tiene è il racconto di una puntata di spada che or fa un anno un miserabile quasi pazzo gli diede a tradimento passandolo dal dorso al petto. Era solo europeo allora in paese, e le prime cure le ebbe da un abissino, che vedendo l'apertura fatta dalla lama non trovò nulla di piùlogico che di chiuderla ben bene con una specie di tappo. La provvidenza venne però in suo aiuto, non mancarono i consigli di cento altri Dulcamara, unti, erbe, radici gli furono applicati e dopo lunghe ed atroci sofferenze finì col rimettersi.
Venuto in Abissinia dove sperava trovar tesori, non scoprì questi, ma molto ricercato per l'arte sua ottenne permesso di stabilirvisi e il lavoro non gli faceva certo difetto. Il re lo prese pure a proteggere e lo onorò di sue commissioni, ma avendogli una volta dato un fucile a riparare, fatte le necessarie operazioni, Barallon si presentò alla Corte a riportare l'arma.
Se l'hai bene aggiustata, disse il re, caricala e spara in mia presenza. Ciò fu subito eseguito, ma disgrazia volle che proprio a questo colpo una canna scoppiasse. Il re vide un tradimento preparato e mal riuscito e volevaipso factotoglier la vita al povero armaiuolo. Calmato però e ridotto a miglior consiglio dal Naretti presente all'avvenimento e da qualche altro de' suoi aiutanti, perdonò l'accaduto, ma cessò la sua protezione al disgraziato francese, che deve certamente aver passato un cattivo quarto d'ora.
Gli argomenti di discorso non mancarono certo per far durare il pranzo parecchie ore, poi passammo nella casa che si era noleggiata per noi.
Descrizione di Adua.—Squallore.—Visita al governatore.—Una seduta di tribunale.—Pene diverse.—La cattedrale di Adua.—Industrie abissinesi.—Il mercato.—I regali al governatore.—Un abissino che parla l'italiano.—Considerazioni sulla guerra di Teodoro.—Seconda campagna contro gli Egiziani.—Chirurgia abissinese.
Speravamo di migliorare la nostra prima impressione su Adua, ma anche visitata per bene e con tutto il buon volere immaginabile, bisogna pur confessare che è un vero squallore. Il nucleo principale è disposto su una altura alla vetta della quale sta la chiesa maggiore, il cui tetto conico è sormontato da una grossa sfera dorata; gruppi di abitazioni si distendono nella piccola valle sottostante spingendosi pure alle alture circostanti. Perfettamente a nord sta la prima delle montagne schierate a catena e che vedemmo costituire come un anfiteatro che si protende verso est: a sud e ovest, una distesa di alture lievi e di altipiani in cui si coltiva grano, ma aridi in questa stagione e popolati solo a lunghe distanze da qualche abituro. A rompere la monotonia di queste ultime sorge isolato a sud il picco che già ci rammentò una delle più ardite vette delle nostre Alpi. Ai piedi del colle sul quale sta la città, dal lato nord-est, una pianura tagliata da una profonda fenditura in cui scorre il piccolo torrente Assam, costituisce la piazza principale, il pubblico passeggio se si vuole, e il ritrovo pei mercati. Questo torrente lambe tutta la città daquesto lato, ed all'estremo ovest si unisce coll'altro di minor importanza detto Maiguagua, che scendendo da sud ad ovest delinea il confine della città da questo lato. Entrambi però sono fiumi di poco conto, l'acqua vi è poca e vi scorre lentamente, ma abbastanza limpida: all'epoca delle piogge si riempiono come si riempiono alcune altre fenditure nel suolo, che dalle campagne circostanti scendono a versarsi nell'Assam.
Le vie di Adua sono nè più nè meno di letti da torrente, senza la risorsa dell'acqua che si incaricherebbe di un pochino di pulizia: larghe in media poco più, e qualche volta meno di un metro, e tutte fiancheggiate da mura o da steccati alti da due a tre.
Di quando in quando un'apertura che mette ad un cortile, o dirò meglio recinto, in cui sono una, due, tre o più capanne o semplici tettoie rozzamente costrutte con paglia o fusti secchi di dura. Poche sono le abitazioni che hanno l'aspetto relativamente civile, cioè costrutte con mura ed un piano superiore; alcune di queste sono della solita forma cilindro-conica, altre rettangolari col tetto piatto.
Di queste ultime sono quella di Naretti e la nostra; all'interno però tutto quello di più rozzo che si possa immaginare; di serramenti non se ne parla, chè non li possiede che Naretti perchè se li fabbricò lui stesso; per porta abbiamo un telaio di canne; il soffitto sono tronchi d'euforbia uno presso l'altro e ricoperti di terra; le pareti, ad una certa altezza, adorne di una sequela di corna da bue conficcate nel muro, che servono per appendervi la nostra roba e sono l'unica mobiglia della casa; dell'erba sul suolo ci fornisce il letto, le nostre casse sono sedie e tavolini.
Le guerre continue che tolgono le migliori braccia all'agricultura, la scarsità delle piogge di due anni or sono che tolsero buona parte dei raccolti, produssero in questa miserabile provinciauna carestia terribile che, unita ai miasmi prodotti dalle migliaia dei cadaveri degli Egiziani lasciati insepolti, ebbe per conseguenza un tifo che fece vere stragi, e si calcola a più di due terzi della popolazione di Adua perita; e girando le strade se ne vede ovunque l'impronta.
Quasi nessuno si incontra, la maggior parte delle case sono deserte, in esse si scorge la sciagura, la morte. Vedi il vero abbandono di un'abitazione ove tutti perirono; i pochi vasi che sono tutta la loro suppellettile, sparsi nei cortili; i tetti spesso rovesciati, chè dopo le piogge, quest'anno straordinariamente abbondanti, nessuno rimase od ebbe forza ed agio a ripararli. I buoi morti pure di fame o di malattia popolano cortili e strade coi loro scheletri, avanzi delle jene; i pochi abitanti che si incontrano o si presentano curiosi alla porta, al nostro passaggio, quasi tutti sparuti e macilenti.
Il luogo non è certo dei più simpatici e divertenti, ma ci dovremo pur troppo restare forse qualche settimana per aspettare la risposta di un secondo corriere che Naretti consiglia di spedire al Re per domandargli un'udienza. S. M. si trova ai confini dello Scioa a riscuotere i tributi di quel sovrano, diventato ora suo vassallo, e questo ci fa temere che l'aspettativa sarà assai più lunga di quanto si osa sperare; ma ci vuol pazienza, ed è forza dunque esercitarla tutta quanta. Valga almeno questo riposo a ridare la salute al nostro Tagliabue che si trascinò fino in Adua con mille cure, che fa ogni sforzo per reggersi, ma che si vede seriamente ammalato.
Un paio di giorni dopo l'arrivo si dovette andare a far visita ai governatore.
Partimmo la mattina colle nostre mule, accompagnati da una massa di servì e di pretesi soldati, tanto per dare maggior importanza alla cosa. La pittoresca cavalcata si dirige ad ovest passando per una sequela di alture sterili, bruciate e poco menoche disabitate; troviamo sul sentiero lo scheletro quasi intiero di un miserabile che vi perì forse di fame e di stenti; gli restava ancora accanto un avanzo di cencio che altre volte lo copriva; e si dice ed è fanatico cristiano un popolo che non si cura di dar sepoltura ad un disgraziato fratello?... Dopo circa un'ora e mezzo ci si presenta una collina che si innalza come cono isolato, la cui vetta è coronata da belle macchiette bianche e rosse. Come inforcassimo delle capre ci accingiamo alla salita; a sud-est si spiega la catena dei monti di Adua, il solo panorama di natura che ne ravviva un pochino. Al vertice del cono formicolano soldati e ragazzi; sparse qua e là delle piccole e meschine capannucce; al centro un rozzo steccato circolare di pietre e spini. Si scende di sella, tutti si fanno attorno a noi, che siamo subito invitati ad entrare nel recinto. Sotto una tettoia di una decina di metri di lato e alta forse due, aperta sul davanti e molto primitivamente costrutta con fusti di dura, stava il governatore con cinque o sei magnati, accovacciati su un piccolo tappeto. Sua Eccellenza è un bell'uomo dalle forme erculee, alto, barba quasi nera, occhio vivace, fisonomia simpatica; non ha nessun distintivo e veste una camicia bianca e il solito scemma bianco attraversato dalla riga scarlatta. Fatti i saluti e la presentazione, ci sedemmo per terra accanto a lui. Entrò allora il popolo, chè si doveva tenere una seduta di tribunale. Dietro noi ed ai nostri lati stavano una ventina di pretesi giudici, poi una massa di soldati dei quali credo che due soli non avevano le stesse armi nè lo stesso costume; grandi, piccoli, giovani, vecchi, d'ogni età ed altezza; davanti a noi, in uno spazio vuoto, due grosse pietre sovrapposte dovevano rappresentate l'altare avanti al quale venivano ad inchinarsi i delinquenti; ai lati gli avvocati, poi molti curiosi. Un usciere con un bastone e con molta forza di polmoni, teneva l'ordine. Comparvero i giudicandi che, trattandosi di cause civili, sono solamenteguardati, ma nonlegati.L'accusato introdotto fa atto di umiliazione avanti le pietre, poi racconta il fatto del quale è incolpato: tutti sapevano spiegarsi con molta facilità, parlando con enfasi e con spigliatezza, usando nei momenti di maggior calore nel discorso di fare un nodo sul proprio scemma o su quello di un vicino, poi picchiarvi dei pugni gridandoJoannes imut, «per la morte di Giovanni.» È questa una specie di formola di giuramento, sacramentale per chi la invoca. Trattandosi di cose da poco, il governatore pronuncia da solo il giudizio, ma, se la cosa si complica, domanda il parere degli avvocati che uno dopo l'altro si alzano, si portano presso il delinquente e con molta prosopopea emettono il loro parere in proposito.
Sorge allora anche l'avvocato difensore, che interrotto nello svolgimento delle sue idee, chiude alle volte colla mano la bocca al suo patrocinato, se questi vuol mettere il naso nel discorso. Entrarono poi due creduti ladri, che è sperabile avranno a dar conto delle loro azioni commesse solo prima della prigionia, perchè incatenati l'uno all'altro, e giovani entrambi e di diverso sesso. Dopo lunga discussione ne fu rimesso il giudizio ad altra seduta.
Trattandosi di cause civili o di ladruncoli, un governatore può essere giudice, ma per grossi ladri, per cause importanti, o per chi è scoperto ladro per la seconda volta, bisogna ricorrere al tribunale del re. Per fatti politici si condanna ad esser relegati sulla vetta di una montagna, custoditi da soldati, e dove bisogna lavorare il terreno per procurarsi da vivere; chi è scoperto di apertamente cospirare contro il Re, è acciecato, ma questa pena è ora quasi caduta in disuso; chi pubblicamente sparla della sacra persona di S. M. ha la lingua tagliata; pei ladri la condanna e il taglio della mano destra e del piede sinistro.
L'operazione è fatta da apposito carnefice che stacca questemembra all'articolazione, operando prima una incisione circolare; ne fa poi speculazione sua, chè se il paziente paga qualche tallero, l'operazione è fatta per bene con un'arma affilata, ma se invece non ci sono quattrini, il coltello non taglia e lascio immaginare cosa soffre il miserabile. L'operazione dev'essere fatta in pubblico, a titolo d'esempio, e il condannato deve starsene al posto del supplizio fino a sera, accanto alla sua mano ed al suo piede staccati; nessuno, nemmeno della famiglia, può prestargli soccorso nella giornata. Per fermare l'emorragia, l'operatore stesso appena finito il taglio vi applica della terra asciutta o della sabbia ben fina. E ad onta di questo, moltissimi campano, e ne vedemmo di cicatrizzati meglio forse che se fossero stati operati da alcune nostre celebrità.
Come pena, per delitti minori, vi sono anche le bastonature.
Finita l'udienza del tribunale, che per nostra disgrazia durò tre ore, passammo nel tucul del governatore, dove fummo serviti diteccche fece accrescere l'appetito che già ci tormentava. Rimontati in sella eravamo verso le tre di ritorno al nostro quartiere generale.
Il nome del governatore èGhedano Mariam, che vuol dire Figlio di Maria.
La cattedrale di Adua è, come vedemmo, l'edificio che corona l'altura su cui sorge la città. Due cinte circolari vastissime e di raggi di una decina di metri di differenza, racchiudono il cimitero, le cui tombe non sono che semplici pietre ammucchiate, tanto da ricordare il posto della sepoltura. Al centro della seconda cinta, sopra una piattaforma rialzata da otto o dieci gradini, sorge la chiesa: il tetto conico in paglia porta al vertice una specie di sfera dorata sormontata da una croce ornata con uova di struzzo; le pareti alte circa quattro metri, di circa 26 di diametro, di forma circolare. Il muro esterno è continuamente alternato a pilastri e finestre chiuse da griglie in legno; nessunaintonacatura ai muri, nessuna modanatura nè ornato. Concentrico è altro muro, lasciando un corridoio in forma d'anello di circa tre metri di larghezza, riservato al pubblico devoto; entro questa doppia cerchia sorge ancora un edificio rettangolare, all'infuori tutto dipinto con episodi della storia sacra o fasti dell'armata abissinese. Sul davanti, la Vergine e San Giorgio ai due lati, e nel mezzo l'apertura che mena alla camera interna riservata ai preti. Sollevata, col permesso dei sacerdoti presenti, una cortina, regalo della regina d'Inghilterra, fummo ammessi ai misteri di quel santuario, Non v'è al centro che una edicola in legno, specie di confessionale di poco più di due metri di lato, dove nessuno entra mai, ma solo si appoggia il libro di preghiere al davanzale di un finestrino, e i preti vi stanno attorno a leggere e pregare. Nel circuito esterno sta il campanile costituito da tre dadi sovrapposti, di lato decrescente, e sormontati da una cupola acuminata. È questa la più gran chiesa che oggi esiste in Abissinia; il progetto e parte dell'esecuzione sono dovuti al bravo Naretti.
Cattedrale di AduaCattedrale di Adua
Cattedrale di Adua
Passammo a vedere gli arredi sacri e gli utensili pel servizio religioso. Molto ricche ed originali sono le croci cofte in bronzo ed argento massiccio. I bornus che vestono i preti durante le funzioni, in raso azzurro con ricami in sete a vario colore e grandi ornati e fermagli in argento lavorato ad uso filograna; il cappello, il baldacchino ad ombrello, il turibolo in bronzo dallo stile bizantino, il campanello adUcoi dischi in lamina d'ottone, che scorrendo su fili e battendo un contro l'altro producono il suono; le croci in ferro che i sacerdoti devono sempre tenere fra mani e servirsene per farsi il segno della croce. Cose tutte che difficilmente potrei descrivere e che siccome credo piuttosto interessanti riproduco alla meglio colla matita. Le stoffe sono tutte importazioni dall'Europa o dall'India, ma tutto il resto è fatto in paese, e parmi strano assai come, dove quasiogni traccia di civiltà è scomparsa, dove non ne resta neppure la reminiscenza per tutto quello che costituisce comodi della vita od organizzazione sociale, abbia potuto conservarsi l'uso di questi utensili e la relativa industria.
Questa è assai limitata in Abissinia, e si riduce a pochissimi rami ed a singoli individui che la professano. Si fila il cotone di produzione indigena e lo si tesse con telai affatto primitivi per fare gli scemma, di cui però la riga rossa è fatta con cotone importato, non conoscendosi in paese l'arte del tintore.
Si lavorano un pochino le pelli e se ne fanno selle, bardature per cavalli, sandali, astucci per le armi; si lavora il ferro, che si trova poco meno che puro in natura, e se ne cavano rozze lance e lame per sciabole.
In qualche provincia si fanno panieri bene intrecciati con scorze di palma o di canne palustri; uno o due individui forse, sanno lavorare il bronzo, importato, per farne gli utensili dei quali parlai, e qualche altro lavora l'argento, ottenuto fondendo i talleri, per farne collane, braccialetti, anelli, spilloni per la testa, ornamenti per chiesa.
È sorprendente vedere come possano ottenere una relativa finezza e perfezione di lavoro, mentre il loro laboratorio è una miserabile capanna, la tavola da lavoro, la terra, la fucina, un fuoco acceso contro due pietre disposte ad angolo e ravvivato dal soffio ottenuto comprimendo una pelle da capra; i ferri, qualche rozzo scalpello o punta d'acciaio. Tutto si ottiene colla gran pazienza, che il tempo val poco e il vitto costa meno.
Ebbi la fortuna di trovare in Adua un turibolo di nuovo finito, e il fabbricante che me lo vendette mi confessò che gli costava tre mesi di lavoro.
1.Braccialetti-2.Turibolo-3.Collane.1. Braccialetti. 2. Turibolo. 3. Collane.
1. Braccialetti. 2. Turibolo. 3. Collane.
1. Distintivo. 2. Croce. 3. Campanello.1. Distintivo dell'ordine cavalleresco di Salomone. 2. Croce cofta. 3. Campanello da chiesa. 4. Spilloni per testa.
1. Distintivo dell'ordine cavalleresco di Salomone. 2. Croce cofta. 3. Campanello da chiesa. 4. Spilloni per testa.
La sola industria che abbia un certo sviluppo in paese è quella del sale, che si estrae da immensi depositi che stanno nella provincia di Sokota, e che è monopolio governativo, o meglioreale; lo si riduce in rombi di venti centimetri di lunghezza per cinque di larghezza al centro, e tre di spessore, che sono messi in commercio e corrono come moneta, aumentandone il valore a misura che si allontana dalle miniere. Così, mentre a Sokota se ne possono avere da 25 fino a 30 per un tallero, ad Adua non se ne avevano che 18 a 20, a Gondar da 8 a 12 e nel Goggiam alle volte non se ne danno che quattro.
Del resto come moneta in paese non è noto che il tallero di Maria Teresa, e per gli spiccioli si usano i pezzi di sale o cambi di prodotti. Come misura si usano dei recipienti in legno, scavati entro un pezzo di tronco, più rozzi e certo meno precisi, ma presso a poco come si adoperano da noi per le granaglie. Per misura di lunghezza è adottata quella del braccio, dall'estremo delle dita al gomito, molto variabile quindi a seconda degli individui, ma a tali piccolezze non guardano i commercianti di questo paese.
Ilsabato 8siamo in grande aspettativa, desiderosi di assistere al primo mercato.
La mattina, la piazza o meglio lo spazio a ciò destinato, comincia a popolarsi; gente arriva da ogni lato, chi a piedi, chi colle mule, chi colla modesta aria del commerciante, chi coll'aspetto baldanzoso del compratore o del dilettante che viene a divertirsi, seguito dai suoi servi e dagli armati. Diversi capannelli si formano, parecchi gruppi cominciano a stabilirsi in diversi punti; quell'atmosfera di silenzio e di desolazione che pesa su questa disgraziata città, comincia ad essere rotta da qualche lampo di vita. Verso le dieci l'andirivieni degli accorsi ci pare abbastanza importante e noi pure scendiamo fra loro.
Comincia la noia dell'essere circondati, seguiti, assediati da una massa di curiosi che, non paghi di importunare col chiudere il passo, coi loro commenti e col tenerci fissi gli occhi, ci rivolgono domande e spingono le mani a toccarci gli abiti; mabisogna farvi l'abitudine e sopportare la loro oppressione con pazienza e prudenza.
Il colpo d'occhio è stupendo e per l'animazione e per l'impronta artistica e caratteristica che danno tutti questi manti dai colori vivaci, artisticamente gittati sui dorsi dalle tinte diverse, queste punte di lancie e fucili che luccicano, e parasoli e teste di cavalieri che si elevano sulla folla. L'ineguaglianza del terreno, da un lato limitato dal corso del torrente e dall'altro elevantesi verso la montagna, aggiunge ancora maggior effetto a questa scena in cui la vita ed il moto pare si consumino e si rinnovino sempre. I prodotti che si vendono sono portati da tutti i paesi circonvicini ed i rispettivi venditori si dispongono a crocchi, qualche volta riunendosi quelli provenienti dallo stesso paese, altra invece quelli che apportarono la stessa qualità di merce. Non v'hanno però in complesso grandi negozianti e non si vede ricchezza nè abbondanza; ognuno cerca di far qualche quattrino col poco che il suo campo o la sua arte primitiva gli fornirono dopo qualche mese di lavoro. Verso il fiume stanno gli animali, cavalli, muli, buricchi, buoi e capre. Desiderando fare acquisti di cavalli, il proprietario subito monta in sella, discende al torrente, risale nel campo opposto e su un piano che vi si stende comincia a galoppare e caracollare. Un altro subito gli corre appresso, gli passa vicino in segno di invito alla sfida, si fanno dei tratti alla carriera, si rivolta indietro il cavallo senza fermarlo, come nessuno oserebbe da noi, si arresta di colpo poi si riprende una sequela di volate; ritornano poi col povero animale bagnato di sudore e di sangue alla bocca. Volevamo fare qualche acquisto, ma trattandosi di vendere a dei bianchi, vorrebbero non contrattare, ma rubare, cosa che non ci accomoda punto.
1. Ombrello. 2. Beretto. 3. Ornamenti.1. Ombrello-baldacchino. 2. Beretto da prete in funzione.3. Fermaglio e ornamenti diversi per abiti sacerdotali.
1. Ombrello-baldacchino. 2. Beretto da prete in funzione.3. Fermaglio e ornamenti diversi per abiti sacerdotali.
Rivoltandoci a sud ci si spiega dinanzi tutto il pittoresco spettacolo del complesso del mercato. Circa quattromila eranoparmi le macchiette viventi, tutte nuove per noi e tutte diverse una dall'altra, che animavano questo quadro fantastico. Ecco un gruppo di donne che vendono dura, frumento, ceci, semi di lino, foglie secche per fabbricare il tecc, cipolline, peperoni rossi ed altri prodotti dei suolo, tutti stesi in poca quantità su rozzi pezzi di stoffa o pelli spiegate a terra o piccoli vassoi di scorza d'albero intrecciata. E fra loro chi coperta da tele o da tessuti di cotone, chi da semplici pelli, chi seminuda, chi porta un bambino da latte sul dorso, chi è circondata da altri più grandini, dall'occhio vivace, dalle fattezze regolari, che attirerebbero carezze se non ne allontanasse il sudiciume che li veste. Più avanti ecco alcuni venditori di pezzi di sale, ed a sinistra i crocchi delle madri, mogli o figli che aspettano coi somarelli il ritorno del messere che andò nella folla a cambiare i suoi prodotti con altri che gli necessitavano: pochi passi, ed eccoci nel gruppo dei venditori dei manti tessuti in paese, e così proseguendo senza una direzione fissa, alcuni negozianti di sciabole, di cartuccere, di pelli, di vecchi e sucidibric-a-brac, di otri in terra. Verso la collina tre o quattro orefici che uniti rappresentano il valore di forse una decina di talleri in anelli d'argento, bottoni per orecchini, spilloni per testa e simili gingilli. Più sopra le venditrici delle piastre, in ferro o terra, per cuocere il pane, e accanto a loro i panieri e gli ombrelli pure intrecciati con scorza o canne palustri: di quando in quando qualche miserabile viene ad offrirci delle meschinità d'argento, dei bicchieri in corno da bue, scudi in pelle da ipopotamo, lance od altre simili cose. Parecchi colpi di tamburo richiamano la nostra attenzione verso un punto elevato: molta gente vi sta infatti radunata, molti ombrelli spiccano dalla folla: è il governatore che sta presiedendo il tribunale di giustizia: ad un secondo batter di tamburo vediamo un grande accorrere ed affollarsi di popolo. Era un bando e credo si rendesse noto alla popolazione di Adua che la si obbligavaa spazzare le strade da tutte quelle immondezze che da mesi le infestano. Mi passano accanto i due incatenati che l'altro giorno comparvero al tribunale del governatore: sono accompagnati da soldati e diretti appunto al secondo interrogatorio e forse a sentirsi la sentenza: mi avvicinano e mi supplicano colle lagrime agli occhi che mi interessi a perorare per loro. La donna non bellissima ma un tipo simpatico, l'uomo un bel giovane dall'occhio intelligente. Non scorderò mai l'impressione che mi produsse, col contrasto di questa folla gaja ed irrequieta, un certo istante in cui questo disgraziato, alzando il braccio che gli restava libero dalle grosse catene, e con esso sollevando artisticamente il manto, tese l'indice al cielo e con voce tremante lo domandò testimonio della sua innocenza. In quel momento ho visto un poema di verità in questi compagni di sventura, e un pittore ne avrebbe certo fatto soggetto ad un quadro.
Prima di sera andiamo a far visita al governatore per portargli i regali destinatigli. Una massa di popolo e di soldati stanno avanti l'abitazione in cui siamo ricevuti, e dove noi terremmo i maiali. Egli ci sta però in compagnia della sua mula che ha l'ardire di allungarsi fino a mangiare i pochi fili d'erba che formano sedile e cuscino di Sua Eccellenza. Fatti i soliti complimenti, si fanno entrare i servi che gli stendono ai piedi dodici metri di tela, cinque di velluto, due bottiglie fantasia piene di liquori, quattro pacchi di candele, un candeliere di vetro argentato, avanzo del massacro che della sua specie si fece durante il viaggio, due specchi, qualche scatola fiammiferi. Tutto fu molto bene accetto, e parve soddisfatto della nostra generosità. Il vecchio Desta, assunta un'aria di importanza che a noi pareva ridicola, faceva la spiegazione degli oggetti. Il governatore era affabile ma altrettanto sucido; dovemmo scusarlo quando ci fu spiegato che perdette da un mese suo padre, e in segno di lutto non s'era da quel funesto giorno più cambiata la camicia, e Dio sa fin quando non la cambierà.