CAPO IX.
Carboni pestilenziali. Pronostici intorno ad essi. Varj metodi per curarli poco lodevoli. Maturarli e separarli, maniera più commendata dell’altre. Varj medicamenti per questo effetto, ed altri per levar via l’escara.
Carboni pestilenziali. Pronostici intorno ad essi. Varj metodi per curarli poco lodevoli. Maturarli e separarli, maniera più commendata dell’altre. Varj medicamenti per questo effetto, ed altri per levar via l’escara.
Più perniciosi delle finora descritte aposteme pestilenziali sono i carboni, chiamati antraci dai Greci, e formati anch’essi dal veleno della peste, il quale venendo probabilmente spinto dalla natura alla cute per via dell’arterie e della circolazione del sangue disciolto, ed ivi arrestandosi per qualche stagnazione o fissazione d’esso sangue, forma in varie parti esterne ed anche interne del corpo delle vesciche e pustole dolorosissime e infiammate che mortificando, cioè rendendo morta la carne, a poco a poco diventano dure, livide o nere. Talvolta si son vedute insino a trenta di queste fierissime pustolein un solo appestato, nascendo esse nel petto, collo, schiena, braccia, cosce, diti, ecc, ed anche internamente nelle tuniche del ventricolo e in altre viscere: nel qual ultimo caso è spedita la vita degl’infermi. Notinsi le seguenti osservazioni fatte da medici accurati: I. Se nascono carboni nelle glandule emuntorie in luogo di buboni, ciò è mortalissimo. II. Quei che vengono o nel principio del male, o poco dopo, in siti carnosi, sono lodevoli o tollerabili. III. All’incontro i nati nelle dita de’ piedi e delle mani e sopra la spina del dorso e sopra nervi, danno campo di pessimi augurj; e però questi debbono eccettuarsi dalla regola d’alcuni medici, i quali stimano tanto men pericolosi i carboncelli, quanto più escono lontani dal cuore. IV. Se hanno una certa coda, o pure se nascono tardi, è cattivo indizio; pessimo se prorompono in molta quantità, essendo ciò un effetto di maggiore e più grave copia di veleno. Il Mercuriale con altri tiene diversamente; ma il Sennerio, il Riverio, il Barbetta ed altri assaissimi confermano con troppe sperienze l’osservazione suddetta; potendosi nondimeno immaginare che tal diversità di pareri sia proceduta dal diverso carattere delle medesime pesti. V. carboni biancheggianti senza diminuzion di febbre, levano la speranza di guarire; ma se fra due o tre dì fanno un cerchio rosso all’intorno, più facilmente e più presto degli altri guariscono. VI. Se diventano molto larghi e di gran mole, come talvolta accade, riescono difficilissimi a curarsi, anzi mortalissimi se spuntano sopra qualche parte nervosa. VII. Qualora nel principio si fermano e quasi spariscono, o pure restando invigore la febbre si seccano, predicono la rovina dell’infermo. Nella peste, che in questi medesimi giorni affligge Vienna ed altri paesi, escono buboni, ma non già carboni, segno non essere quella epidemia di gran malignità, e perciò doversene sperare la fine con la venuta del verno. Ivi il maggior benefizio si è ottenuto finora dai sudori provvocati sul principio del male coll’uso delle seguenti
Pillole antipestilenziali d’Emanuele, chiamate anche di Gesù e del general Cusani.
℞.Aloè epatico purissimo onc. 1; zafferano, mirra, ana dram. 1; zedoaria, genziana, ana scrup. 1; rabarbaro scelto dram. 2; agarico bianco dram. 1; triaca d’Andromaco, quanto una noce. Si polverizzino separatamente, poscia si mescolino in mortaio e se ne facciano pillole della grossezza d’un pisello. Per la preservativa se ne prende una ciascun giorno; per la curativa 8 o 10 in acqua, e il malato ben coperto sudi. Non è necessario l’agarico nè il rabarbaro.
In quanto alla cura de’ carboni, il cardinal Gastaldi scrive che nel contagio di Roma del 1656 nessun rimedio era più giovevole, quanto l’adoperare la scarificazione, cioè il tagliar loro d’intorno, con separare la carne morta dalla viva, e lo scarificarli anch’essi e cavar via molta copia di sangue, ungendoli poscia con unguento egiziaco, triaca ed olio di scorpioni, e finalmente ungendo l’escara, o sia la crosta, con sugna, o butirro, finch’essa cadeva. Essendosi prima trovati inutili altri rimedj, questo in fine parve il metodo più utile per curarei carboni ed anche i buboni. Nell’avvertimento stampato in Modena pel contagio del 1630 si legge che i carboni si medicavano con refrigeranti d’intorno e con empiastri in mezzo; tanto che separati dalla carne buona, si cavassero con la molletta, applicando poi in que’ fori gli ordinarj digestivi delle ferite. Oribasio, Egineta ed altri antichi e moderni consigliano anch’essi lo scarificare profondamente, ovvero il tagliarli sino alle radici con un rasoio; imperocchè temono che sia rimedio troppo debole e lento quello degli empiastri.
Il perchè secondo altri si può tagliar la crosta del carbonchio in croce, o in più tagli (quanti più se ne fanno, tanto dicono che sia meglio) profondandoli sino a toccar del vivo, ma non penetrando nel vivo per timore d’arterie, vene, nervi, ecc. Indi si ha da procurar l’uscita al sangue, sbruffandolo d’acqua salsa calda, o fomentando il luogo con ispugna bagnata nell’acqua suddetta, ma avvertendo di far uscire il sangue in quantità discreta e non troppa. Poscia si dee asciugar bene la ferita, e far entrare nei tagli zucchero candido fatto sottilissimo come fior di farina, mettendovi poi sopra qualche empiastro.
Un’altra via di debellare il carbone, è scottarlo con ferro infocato, come sarebbe testa di chiodo grande; e sarà bene aver prima levato via della grossezza della crosta ciò che si potrà levare senza dar dolore al paziente. Dee la scottatura essere tanto larga, che tutto intorno tocchi del vivo; potendosi anche scottarlo in diverse volte con ferro picciolo a parte a parte. Così ci son molti che nelle parti carnose li separano dalla carnebuona con ferro tagliente, e dipoi li spiccano, operando in più volte un poco per giorno, affinchè il dolore riesca più tollerabile. Fanno il taglio in maniera che si veda la carne buona, mettendo, finchè si finisca di spiccarli, tra il buono e il cattivo della carne o zucchero candido ben sottilizzato, o rosso d’uovo con sale ben polverizzato, o pure rosso d’uovo con trementina, ovvero fili asciutti. Se vi resta del cattivo, convien porvi qualche corrosivo, o pure tagliare quel che resta sino a toccar del vivo, facendo uscire il sangue con acqua calda. Che se il carboncello è duro, alcuni lo scarnano tutto intorno assai profondamente in una o più volte; poscia legatolo bene con uno spago o simile legatura, il cavano con una pronta strappata, sicchè talvolta resta la carne netta di sotto, e talvolta ancora vi resta qualche bisogno di mondificare. Altri ancora adoperano vescicatorj e acqua forte, e altri simili aspri rimedi.
Ma si avverta che tutti i metodi finora accennati sono da lasciarsi il più che si può, non solo perchè portano degl’intollerabili dolori agl’infermi, con accrescer loro anche la febbre e la vigilia, ma ancora perchè moltissimi altri medici hanno osservato che questi sì precipitosi tagli, o rimedi crudeli, poco o nulla giovano, e conducono bene spesso più velocemente alla morte i miseri infermi. Siccome per lo contrario la sperienza ha mostrato che i carboni quanto più piacevolmente sono trattati, tanto più presto sono guariti, Tommaso Cornelio, celebre medico, in un suo Dialogo favoloso, composto alla guisa di quei di Luciano,consiglia il lasciare più tosto alla natura che il dare in mano ai medici i malati di peste; perocchè, dice egli, i medici adoperano facilmente rimedi perniciosi, facendo essi ciò che talvolta non giungerebbe a fare il morbo medesimo. Può essere che il Cornelio parli da burla; ma può anche essere che burlando egli colpisca nel vero, e che la suddetta disgrazia non si fermi nella sola malattia pestilenziale. Certo nei lazzeretti troppo spesso s’è fatta vedere la crudeltà de’ cerusici nel ricorrere al ferro infocato per curare i carboni, mentre senza badare bruciavano nervi, tendini, muscoli e vene (e l’osservò anche il Cristini nella peste di Roma del 1656), di maniera che molti non solamente morivano, ma morivano ancora martiri della cirugia per 25 o 30 bottoni di fuoco. Nè pare che si opponga a tali sperienze ciò che testè ci fece udire il cardinal Gastaldi; perchè forse quelle furono scarificazioni modeste, o pure elle cominciarono a trovarsi utili solamente nella declinazione della peste, cioè in un tempo in cui il morbo suol cedere da per sè stesso, con attribuirsi poi la gloria della guarigione ai rimedi che si usano allora: dal che mi figuro io che sieno procedute altre contrarietà, e probabilmente alcuni inganni di molti medici nell’esaltare o biasimare or questo ed ora quel rimedio. La conclusion nondimeno si è, che i tagli prima del tempo nei carboni s’hanno da abborrire, e doversi eleggere il metodo più regolare, più mite e meno pericoloso, qual è quello che ora soggiugnerò.
Presi che avrà l’infermo i sudoriferi ed altri antidoti interni, che sono creduti abili a spingerefuori il più che si può del veleno pestilenziale per i pori, ed usciti i carboni, si dee immediatamente metter loro sopra una foglia di cavolo, o sia verza rossa unta con olio di rape. Dipoi, ed anche sul principio, sarà meglio mitigare il dolore de’ carbonchi con de’ rimedi emollienti ed anodini, a fine di separar con essi la carne morta del carbone dalla vicina viva e buona. Ecco la ricetta d’uno presa dal Diemerbrochio:
Suppurante per i carboni.
℞.Radici di consolida maggiore secche, erba scordio secca, ana dram. 2; radici d’altea secche, farina di semi di lino passata per setaccio, fior di farina di frumento, ana onc. 1. Fanne polvere sottile, in cui metti dentro acqua comune quanto basta. Si cuocano alquanto, acciocchè si sciolgano le mucilagini, e la composizione venga in forma di polenta grossa. Aggiungi mele, trementina, unguento d’apostoli, ana dram. 3; pece liquida, unguento basilicon, ana dram. 2; il rosso d’un uovo; zafferano scrup. 1. Mescola tutto. Se gli può anche aggiungere triaca dram. 2.
Il suddetto Diemerbrochio scrive d’aver provato molti medicamenti; e di non averne trovato alcuno migliore di questo, con cui in breve si otteneva la separazione de’ carboncelli, stendendolo grosso sopra i medesimi, e rinnovandolo due o tre volte il giorno. Ma per facilitare ai poveri e a chi non ha comodità di speziali e di meglio, i soccorsi pel bisogno loro, raccoglierò qui altri suppuranti suggeriti dai medici in tal congiuntura, benchè non tutti di egual vigore.
Altri suppuranti per maturar carboni.
℞.Cipolla cotta con triaca, o aggiuntavi dopo la cottura, ed olio di lino o di noci; e quando questi olj manchino, quello d’ulive, mischiando tutto.
Ovvero ℞.Tuorlo d’uovo e sale prima seccato, poi polverizzato sottilmente come fior di farina. Aggiungi caligine, butirro e carbone pesto ben bene, di quel che è bruciato sul focolare. Unisci tutto con diligenza, e formane empiastro. In vece di sale comune è meglio un oncia di sale ammoniaco.
O pureEmpiastro di butirro mischiato con olio rosato. O empiastro fatto di cipolle di gigli bianchi cotte sotto le ceneri e pestate, o sole, o insieme con butirro o con olio rosato.
Dicono che questi tre empiastri tra i facili e di poca spesa sono i principali che vengano lodati per maturare e far separare i carboni. Nel primo si può mettere mitridato di Diamocrate in vece di triaca; ma comunque si faccia, il tengono per molto utile al suddetto oggetto. Altri adoperano butirro solo lavato, quando loro manchi tutt’altro. Altri mischiano insieme rosso d’uovo, zucchero bianco ben polverizzato e zafferano. Altri foglie di lapazio, che rumice suol chiamarsi, foglie di piantaggine, butirro, o sugna di porco senza sale, pestando tutto insieme. Dicono che sia potente empiastro il prendere radici d’altea, che è malvavischio, cotte nell’acqua, e poi ben peste, e mescolate con alquanto d’olio di lauro e con rosso d’uovo. Il Rondinelli scrive che in Firenze per icarboni grandi si trovò cosa ottima l’applicar loro l’empiastro di cinque farine, che manteneva il calore, e li separava. Ai mezzani si applicava un poco di capitello per poter arrivare più alle radici, e così si fermavano. Ai piccioli si adoperava unguento egiziaco. Nè si trovò mai che chi aveva i carboni non avesse anche i buboni. Se crediamo a Giovanni Tragaulzio, l’erba consolida maggiore, pestata fra due pietre, sana egregiamente i carbonchi, e in termine di 24 ore. Io per me non crederei tanto senza vederne più d’una prova. Anche il Bauderon attribuisce il medesimo valore alla scabbiosa verde, pestata in mortaio di pietra; ed altri scrivono che la carne di bue diligentemente pestata e posta sopra i carboni, in tre giorni li stacca. Paracelso, il Sennerto, ed alcuni spargirici lodano il premere la circonferenza del carbone, subito ch’esso è nato, con un zaffiro o giacinto, girandolo intorno per un quarto d’ora, tanto che il cerchio sulla carne apparisca livido. Scrivono che questo accelera la separazione del carbone, e che la stessa gemma zaffiro è anche buona da impedire il nascere ai carboni, e che in oltre posta sopra i medesimi li estingue. Il rapporto io, non perchè mi senta disposto a crederlo buonamente, ma per dire agli altri che non se ne fidino nè pur essi senza averne veduto de’ legittimi sperimenti.
Altri prendono fichi secchi, sugna di porco maschio e sterco di colombo, il qual empiastro conviene a maturare ogni altro tumore. O pure mele crudo con fior di farina di frumento, dicendo essere empiastro ottimo per far maturare. Anche lefoglie di cavolo crude pestate con sale, e ridotte in empiastro; e parimente il rafano preparato nella stessa maniera, possono servire alla suppurazione de’ carboni. Lodano alcuni come empiastri molto efficaci i due seguenti, e il secondo specialmente dicono che quasi violenta i carboni a cedere.
Suppuranti per maturar carboni.
Togli farina di frumento onc. 1; un rosso di uovo; sterco rosso di gallina, sterco bianco di colombo, seme di eruca, o sia rucula, ana mez. dram.; sale polverizzato sottilissimamente dram. 1; mele tanto che basti per far buona composizione. Tutte le cose sieno ben macinate, e miste insieme.
O pure ℞.Un pomo granato garbo, cioè di mezzo sapore, e tagliatolo in pezzi minuti, fallo cuocer benissimo in aceto; dipoi ben pestato fanne empiastro, accomodandolo al carbone con pezza bianca, sopra bagnata nello stesso aceto della decozione; e tienlo così senza muoverlo, attendendo a bagnarlo coll’aceto sopra la pezza. Va messo grosso questo empiastro, e tenuto caldetto.
Altri consigliano per la gente povera il prendere trementina lavata in acqua di scordio, e mele rosato mezz’oncia per sorta, e farne empiastro. Se gli può aggiungere pece liquida, con un poco di sapone spagnuolo, per renderlo più efficace. E a proposito della pece, in Olanda i poveri in tempo di peste prendono pece navale liquefatta, e mischiando seco altrettanta quantità di pece liquida, ne formano empiastro, attestando il Diemerbrochio d’aver osservato moltissime volte i carboni egregiamenteseparati con questo solo rimedio. Viene stimato e consigliato assaissimo l’empiastro di diachilon con gomma, o il basilicon, o l’empiastro formato di galbano, oxicroceo e diachilon mischiati insieme. Aggiungerò ora altri empiastri creduti anch’essi molto utili. Il Pareo scrive d’essersi spesse volte servito con felicità del primo d’essi.
Empiastro suppurante per i carboni.
℞.Caligine di cammino onc. 4; sale comune onc. 2. Si riducano in polvere sottile, e aggiunti due rossi d’uovo, si sbattano finchè prendano consistenza, e si mettano tepidi sopra i carboncelli.
Altro empiastro maturante.
℞.Fichi secchi polputi, uve passe, noci monde, ana onc. 2. Si cuocano per alquanto tempo in vino bianco quanto basta; dipoi si pestino bene in forma di cataplasma, a cui aggiungi due rossi d’uovo e un poco di sale.
Empiastro di Giulio Palmario.
℞.Rossi d’uovi freschi num. 6; sale comune ben seccato onc. 1; olio di gigli mez. onc.; triaca dram. 1; farina d’orzo quanto basta. Fanne empiastro, che sarà anche più gagliardo se vi aggiungerai sapone, calcina poco fa smorzata, e un poco di lievito acido e di sugna vecchia e salata di porco.
Empiastro lodato assai da Francesco Joele.
℞.Triaca d’Andromaco, mitridato, ana dram. 2; trementina lavata in acqua di scordio, butirro senza sale, ana mez. onc.; mele rosato dram. 3; sale seccato dram. 2; caligine dram. 5; sapone nero dram. 6; un rosso d’uovo. Si pestino e maneggino secondo l’arte, e se ne formi empiastro.
Empiastro d’Angelo Sala.
℞.Pece navale, ragia di pino, gomma ammoniaca depurata, cera vergine, ana onc. 1 e mez.; asfalto onc. 1; mele cotto sino a divenir nero mez. onc.; canfora disciolta in olio di succino dram. 1. Si faccia empiastro.
Il medesimo Sala prescrive un altro empiastro attraente e rottorio per i carboni, chiamato da lui eccellentissimo specifico, e tale ch’egli non crede trovarsi un rimedio simile fra tutti i topici, operando esso in poche ore effetti mirabili. Quantunque io mi sia astenuto dal produrre molte altre composizioni di certi medici spargirici, perchè troppo difficili, e perchè non credute da me di quel valore che viene spacciato da’ loro autori, tuttavia riferirò questo, che però non è molto diverso da quello del Barbetta riferito nel cap. antecedente.
Empiastro chiamato efficacissimo dal Sala.
℞.Gomme sagapeno, ammoniaca, galbano, ana dram. 3; trementina cotta, cera vergine, ana dram. 4 e mez.; magnete arsenicale sottilmente polverizzata dram. 2; radici d’arone polverizzate dram. 1. Le gomme si depurino, cioè si sciolgano con aceto scillitico, e si cuocano a consistenza di empiastro.
Ma affinchè si sappia ciò che sia la magnete arsenicale, ecco la maniera di prepararla:
℞.Arsenico cristallino, solfo vivo, antimonio crudo, ana, cioè parti eguali. Polverizza tutto in mortaio di ferro, e ponlo in vaso fortissimo di vetro al fuoco di arena, finchè il vetro ottimamente si riscaldi, e le suddette cose si disciolgano e liquefacciano, il che si osserverà quando si manderà giù al fondo qualche filo, il quale tirato su sarà rigido a guisa di trementina, e darà segno di bastante cottura. Poi leva il vetro dal fuoco, e quando sarà raffreddato, rompilo, e sottilmente polverizza quella pietra, serbandola per l’uso.
Silvio de le Boe anch’egli loda assaissimo la suddetta magnete. Nell’anno 1655, allorchè la peste malmenava la città d’Utrecht ed altre molte in Fiandra, fu ritrovato per la cura dei carboni l’olio, o sia il butirro d’antimonio. La maniera di adoperarlo era questa: Ungevano leggermente con una piuma intinta in esso olio il carbone, dopo averlo prima attorniato con un cerotto difensivo per impedire la dilatazione del corrosivo. Ora scrivono che esso carbone mirabilmente in poco tempo siseparava dalla carne sana, e che potevasi facilmente staccare. Di più era tale unzione efficacissima per impedire il serpeggiare e dilatarsi dei carboni. Con fidanza m’induco a proporlo e a credere che possa veramente riuscire di gran profitto, perchè il Diemerbrochio, medico poco creduto, e assai guardingo e sincero, ci assicura d’averne provato maravigliosi effetti, con chiamarlo ancheacerrimum quidem, sed aureum certe remedium. Altrettanto ne attesta per esperienza anche il suddetto Silvio de le Boe. E sapendo io che del pari i medici italiani se ne servono con buon successo, come d’ottimo rimedio caustico o corrosivo, in altri casi, purchè se ne vagliano a tempo e con cautela, perciò me l’immagino giovevolissimo anche in tempi di peste. Lo Scradero nella sua Farmacopea, e il Donzelli nel Teatro Farmaceutico con molte lodi rapportano la ricetta della composizione suddetta nella seguente forma:
Olio, o sia butirro d’antimonio.
℞.Antimonio purissimo, mercurio sublimato, parti eguali. Mischia accuratamente in mortaio di pietra con pestello di legno, avvertendo di non toccar mai colle mani la composizione; e poi mettila nella storta di vetro, e quindi posala in cantina per tre giorni, acciocchè gl’ingredienti s’inumidiscano. Appresso per la stessa storta si distillino in arena a fuoco mediocre o a fuoco aperto accresciuto a poco a poco. Ne uscirà liquore, o sia butirro d’antimonio a guisa di ghiaccio. Se si quagliasse nel collo, accostavi cautamente un carboneinfuocato, acciocchè resti libera l’uscita al medesimo. Uscito il butirro, accrescendo il fuoco, sublima nel collo della storta il cinabro, che chiamano d’antimonio. Si rettifichi dunque per istoria il liquore uscito; o pure quest’olio avanti la rettificazione s’impregni del suo cinabro, il che si fa coll’aggiungere al suddetto olio il cinabro tritato, e farlo stare così per 24 ore in vetro chiuso entro la cenere, affinchè in tal maniera s’unisca bene il tutto, dopo di che si rettifichi per istoria di vetro.
Voglio aggiugnere la maniera tenuta dal Cristini (chimico anch’esso) nel curare i carbonchi durante la peste di Roma del 1656. Applicava egli alla vescica de’ carboni, coprendola tutta, uno dei seguenti trocisci, inventati però dal Riverio suo maestro.
Trocisci per curare i carboni.
Togli fecce di regolo d’antimonio, e mettile in luogo umido sopra un marmo e sotto d’un vaso, di modo che non vi possa piovere sopra, ma vi penetri la sola aria. Si scioglieranno in olio, che poi si dee esalare a fuoco lento, e se ne formerà un sale pungentissimo, del quale prendi onc. 1. Aggiungi mercurio sublimato onc. 1; farina d’orzo e di lente, ana onc. 2; gomma dragante liquefatta in acqua rosata dram. 2. Formane trocisci, che applicati ai carboni, mirabilmente corrodono la carne cattiva.
Empiastro da applicarsi intorno ai carboni.
℞.Unguento di mucilagine, d’altea, ana onc. 2; sugna vecchia e non salata di gallina e di porco, ana onc. 1; fichi secchi onc. 6; uva passa mondata da’ suoi acini, o granelli, onc. 3; lievito acido mez. onc.; farina di semi di lino e di fieno greco, ana onc. 1; zafferano scrup. 2; olio di camomilla e di gigli, ana onc. 1. Mescola, e fanne empiastro.
Col sopraddetto trocisco si formava l’escara, o sia la crosta sopra il carbone; e coll’empiastro si maturava in tal maniera, che in termine di 24 ore il carbone si poteva staccare con tutta la sua radice. Espurgava dipoi il Cristini la fossa restata nella carne buona, e la medicava con unguenti atti a rimettere la carne. Se s’incontrava in carboni ostinati che in 24 ore non venissero alla separazione, tagliava loro intorno, e levata via con un coltello l’escara, applicava di nuovo il trocisco e l’empiastro, ed anche la terza volta occorrendo, finchè si sterpasse la radice del carbone, dopo di che adoperava i digestivi ordinari per sanar quelle piaghe. Notisi nondimeno che è proprio de’ chimici, e specialmente di certi empirici, il promettere di guarir molti mali coi loro rimedi in 24 ore; ma il mantener la parola, oh questo è il difficile. Molto più si noti che in tutti i metodi, allorchè il carbone si vede suppurato, o, per dir meglio, disposta la sua carne morta a separarsi dalla viva, si ha da aiutare a cavarlo fuori col ferro. Nell’Avvertimento stampato in Modena l’anno 1630 si vede che ai carboncelli simetteva sul principio una pezzetta sopra, o pure sfilacci, con unguento egiziaco e triaca insieme, e sopra empiastro diachilon semplice. L’altro giorno, dopo aver unto il carbone con butirro, se gli metteva sopra una pezzetta con unguento isis, a cui era mischiato alquanto di precipitato, e sopra essa aggiungevasene un’altra con unguento diapalma. Vedutosi nel terzo dì il carbone mortificato, che si scarnava, il tiravano via colla molletta, medicando poi la piaga con digestivo, e di sopra diachilon semplice o mollitivo, ovvero unguento semplice. Benchè un tal metodo abbia del triviale e qualche pregiudizio de’ nostri vecchi, nè sia proprio per far dei miracoli, tuttavia ho voluto farne menzione, perch’esso in fine non è pericoloso, e può trarsene profitto. Paolo Barbetta scrive che se dal vescicante o da un cauterio attuale in termine di 12 o di 24 ore non è impedito il crescere del carbone, è imminente la morte dell’infermo, come ancora se non ne esce umidità alcuna; ma che venendo la vescica e la marcia nella debita forma, e facendosi la separazione, si salverà. Lascerò considerar meglio a chi è della professione questo aforismo.
E perciocchè accade che i carboni facciano escara, o sia crosta dura, che impedisce l’operazione dei rimedi, insegnavano i secoli antecedenti di ammollirla con butirro fresco, aggiuntovi un poco di zucchero, o con sugna di porco, o con altri simili lenitivi. O pure adoperavano sughi di appio o di porro, cotti con mele; ovvero mollica di pane con sugo d’appio o di basilico; siccome ancora digestivo di rosso d’uovo o d’olio rosatocon trementina, a cui si può aggiungere un poco di zafferano. L’Ingrascia insegna la seguente composizione da usarsi sopra sfilacci, siccome proporzionata non solo per far cadere l’escara, ma per mondificare la piaga.
Unguento per levare l’escara de’ carboni.
℞.Mele rosato onc. 3; sapa onc. 1 e mez.; sugo d’appio, di assenzio, ana dram. 7; sugo di scabbiosa onc. 1 e mez.; trementina onc. 6; farina d’orzo, di frumento, ana onc. 2. Purificati prima i sughi, si bollano insieme tutte le suddette cose, finchè si faccia unguento, a cui s’aggiunga in fine sarcocolla dram. 3, zafferano mez. dram.
Empiastro per far cadere l’escara.
℞.Farina di frumento, d’orzo, ana onc. 3. Impastisi con decozione di malva, di viole, di radici d’altea; aggiugnendo sugna di porco liquefatta e butirro, ana onc. 2, e due rossi d’uovo. Pestate le cose pestabili, si cuocano e si mescolino insieme, facendone empiastro.
Unguento del Barbetta per far cadere la crosta de’ buboni e carboni.
℞.Mele vergine, sugna d’anitra, ana onc. 1; caligine di cammino dram. 6; trementina onc. 1; rossi d’uovo 2; triaca dram. 3; olio di scorpioni semplice quanto basta. Mescola, e fanne unguento.
Quando l’escara sia pertinace, si osservi che non è bene il fare violenza col ferro, apportando ciò molto cruccio e qualche pericolo ai poveri pazienti. Si attenda coi rimedi ad espugnarla. Finalmente separato ed estratto il carboncello, convien purgare e governar la piaga coi digestivi, e poscia a guisa delle altre ulcere condurne la cura, finchè s’incarni a poco a poco, e senza precipizio si cicatrizzi. A questo effetto potrà bastare unguento composto di cera nuova, sugo d’appio o mele bene spumato. Francesco de le Boe Silvio scrive che a mondificar presto la piaga serve mirabilmente il balsamo di solfo, e specialmente l’anisato, mischiato con unguento tetrafarmaco e basilicon, e applicato alla piaga. E fin qui della cura de’ carboni.