CAPO XII.

CAPO XII.

Luogo e regole della quarantena. Se sieno necessari 40 giorni per essa. Regolamenti per l’introduzione delle vettovaglie. Obbligazione dei ricchi di soccorrere i poveri. Doversi facilitare il fare i testamenti. Cura degli spedali e delle prigioni.

Luogo e regole della quarantena. Se sieno necessari 40 giorni per essa. Regolamenti per l’introduzione delle vettovaglie. Obbligazione dei ricchi di soccorrere i poveri. Doversi facilitare il fare i testamenti. Cura degli spedali e delle prigioni.

Volendo persone o robe procedenti da luoghi sospetti introdursi in un territorio sano, ognuno sa che debbono elle soggettarsi alla contumacia, o sia alla quarantena, la quale nè pur si dee, se non con gran riguardo, concedere a chi venga da paese infetto e vicino. Per la quarantena si ha da eleggere un luogo ameno e separato dalla frequenza degli altri, colle sue divisioni per varie famiglie e persone, e regolarsi poi nella seguente forma. Sul principio, spogliate le persone delle loro vesti, si lavino ben bene i loro corpi con aceto in ogni parte e si rivestano con altri vestimenti non sospetti. In mancanza di questi altri abiti, dovranno sopportare il profumo della sanità per lo spazio di mezz’ora in circa con tutte le robe che avranno portato, in una camera ben chiusa, avendo ben distese essa robe ivi, in maniera che per due orepossano ricevere perfettamente il profumo, dopo il quale si possono usar come nuove. Ciò fatto, si noti in un libro il giorno da cui comincerà la quarantena. Non parlino, nè trattino con altri se non con le cautele prescritte per la gente sospetta. Se si ammalasse alcuno, il visitino i medici o cerusici; e scoperto appestato o temuto per tale, si farà porre in una capannetta molto separata dall’altrui abitazione con guardie. Ma non avendo peste, si potrà curare in compagnia de’ suoi, i quali, solamente in caso ch’egli fosse scoperto infetto di mal contagioso, dovranno ricominciare la quarantena. Sui principj si può con questo ripiego soffocar la peste nascente.

Il tempo della quarantena, secondo la pratica de’ prudenti maestrati di Venezia, ora è di pochi, ora è di molti giorni, prendendosi la misura di ciò dal maggiore o minor pericolo e sospetto, e dalla maggiore o minor lontananza dell’infezione. L’intera quarantena è di 40 dì, dal che venne il suo nome, e tanto si suol richiedere negli urgenti sospetti di peste. Nulladimeno a me sembra meritevole di molta riflessione e fondatissima la sentenza di Lodovico Settala e del P. Maurizio da Tolone cappuccino, dell’ultimo de’ quali rapporterò i sentimenti e le ragioni. La pratica, dice egli, di 20 e più anni mi dà animo di francamente asserire essere bastevoli 20 giorni di quarantena, benchè l’uso sia introdotto di 40. Certo è che chi avrà maneggiato robe infette, o attratta aria appestata, in guisa che gli si sia attaccato il male, proverà prima che passino 15 dì qualche grave accidente, come di febbre con vertigini ed inquietudine;camminerà vacillando; avrà gli occhi ottusi ed aggravati, la faccia pallida e livida, vomito, sonno grave che ha del letargo, frenesia, ecc., o veramente mostrerà segni esterni di buboni, petecchie, ecc. Quindi è che se qualche persona sospetta si sarà, nell’entrare in quarantena, lavata bene con aceto, mutando le vesti e insieme profumando tutte le altre suppellettili, nè avrà sentito ombra o apparenza di male, si può, passato il ventesimo giorno, licenziare come sicura di ogni infezione, avendo io più volte osservato non esservi infetto che prima de’ 15 evidentemente non si conosca, o abbia passato quel termine con salute e poi si sia scoperto appestato. Vero è che se si trascurassero le cautele suddette e le diligenze prescritte ne’ lazzeretti, potrebbe la peste divampare non solo dopo i 30, ma anche dopo i 40 giorni. Avverto che la mutazione dell’aria fatta da luogo infetto in altro sano è cagione che la malignità del morbo si dia più presto a conoscere che se si fosse fermato nel primo.

Stieno poi bene oculati i conservatori della sanità, perchè nel dare le quarantene si commettono tutto dì dei gran disordini, con venir delusi i saggi editti. Le guardie, persone vili, per danari permettono tutto, e spezialmente l’oltrepassar le mete sì a’ quarantenari come a quei di fuora. Spirando scirocco, o aria umida e piovosa, avvertano che l’infezione delle robe, anche esposte all’aria, non si leva, ma si fomenta, facendosi talvolta la quarantena intera senza purgarsi. Si dee anche temere d’un inconveniente nel verno che non suol accadere la state, cioè che in tempo freddo, o spirandola tramontana, si nascondono e si concentrano nei panni e nelle robe gli spiriti pestilenziali, i quali, venuto poi il caldo, fanno strage orribile. Ma in qualunque tempo che corra, se saranno ben fatti i profumi alle robe e verrà ben custodita la persona e governata coll’aceto e colla mutazione dei panni, la quarantena sarà mezzo sicuro per accertarsi se la persona abbia condotta seco l’infezione, e per liberarnela ancora. Nessuno (aggiunge il mentovato Cappuccino) adduce una ragion soda e vera per cui si assegnino 40 giorni alla purga suddetta. Ma posto per vero che la pestifera qualità del male non può stare più di 15 dì a scoprirsi, hanno da bastar 20 giorni. E per le robe, quantunque infettissime, si purgano queste in 24 ore a segno che si potranno dipoi maneggiare con tutta sicurezza. Ad un uomo che parla colla sperienza alla mano e reca buone ragioni, parmi che si possa acquetar la prudenza anche a’ tempi nostri. Veggasi Paolo Zaccaria, lib. 9, tit. 5 delle Quist. Medico-Legali, che tiene e diffusamente tratta la sentenza medesima.

Una delle più dure e difficili, ma delle più necessarie applicazioni di chi governa in congiuntura di contagio, si è quella dell’annona e delle grasce, cioè di provveder grani e vettovaglie, e massimamente per mantenere alle spese del pubblico i poveri e chiunque non ha mezzo allora per alimentarsi colle sue rendite o colle sue fatiche. Il cardinale De Luca saggiamente insegna che i due punti principali del buon governo in tempi di peste sono l’ubbidienza rigorosa, eguale in tutti e senza eccezione o rispetto di persona alcuna, el’allettamento e la piena libertà de’ vivandieri che da’ paesi non infetti, colle dovute cautele, portino vettovaglie. E certo non si dee in tempi tali perdonare a diligenza e spesa veruna, perchè la fame può fare non meno danno allora che la peste medesima. Questo è un atto di somma carità, ed è medesimamente un interesse importantissimo, perchè, perduti gli artigiani, i contadini, i trafficanti e gli altri operai, non si può dire che pregiudizio ne venga a coloro che restano in vita. È misero il capo allorchè nol servono o gli mancano le membra. Finita la peste del 1630, e finite tante altre, fu carestia in alcuni paesi perchè erano mancati i contadini. Le persone ricche e nobili furono gastigate nella morte dei poveri, perchè non trovavano più chi loro servisse, nè chi rendesse loro frutto de’ loro poderi, case, botteghe, dazi, gabelle e fondachi. Tutte le mercatanzie, sì del paese, come straniere, e le manifatture del vestire, fabbricare, ecc., vennero carissime, con tanti altri danni e sconcerti che si possono bene immaginare moltissimi, ma che non si possono saper bene tutti se non da chi ha la disavventura di farne la prova. Il perchè gran gastigo è la peste, anche dopo esser finita, per gli effetti suoi, e per conseguente i principi, le città, i ricchi e i nobili dovrebbono ben accudire per preservare il paese da sì aspro flagello, o almeno per conservare in vita il più che potessero il misero popolo, contro del quale suol per l’ordinario sfogarsi il principal furore della pestilenza. E i vicini sani anche debbono, purchè possano, vendere e condurre al paese infetto, che ne abbisogni, i viveri, sì per motivodi carità cristiana, e sì per altri riguardi. Si ricordino che nella peste del 1576 i cittadini di Monza rinserrati, non sapendo come vivere, per disperazione saccheggiarono il paese circonvicino.

Non solamente hanno i maestrati e i principi da adoperare ogni sforzo per la pronta ed anticipata provvisione delle biade, e perchè si seguiti a fare il trasporto delle vettovaglie, col concedere ancora, occorrendo, esenzioni al condottieri, ma debbono con egual cura invigilare, affinchè non succedano monopolj e frodi, assai facili in tempi sì sconcertati, con troppo aggravio o delle borse o della sanità del popolo. Non si vendano dunque commestibili a prezzo eccedente, nè vini guasti, nè altre robe nocive; e però sieno vietate le frutta acerbe o fradice, i citroni, l’uve immature, i moscatelli, le persiche, i funghi di qualsivoglia sorta, il latte quagliato e il pesce preso con pasta o esca, o pur cattivo o fradicio, e anche il marinarlo o friggerlo per poi venderlo. Ricordo nondimeno che il sugo d’agresta è utile in tempi tali per condirne le vivande entrando esso fra gli acidi che possono o debbono adoperarsi. Nella nostra città fu in fine proibito il vendere anche ogni sorta di pesce forestiero fresco, tanto vivo quanto morto, a fine di fuggire vari mali effetti che ne venivano o ne poteano venire. Così è da vietare l’estrazione dell’olio, delle droghe, dei commestibili e d’altre robe non facili ad aversi. Appresso è da tener l’occhio attentissimo ai macelli, acciocchè non si vendano se non carni sane, e molto più ai fornai e ai provveditori di grani, farine e pane, per impedire che non si vendanobiade guaste o immonde, o non si assassini, col pane stesso pieno di loglio e d’altre brutture, il povero popolo, e non succedano frodi o ruberie nella loro distribuzione. Meglio è pane sano con acqua pura che cibo guasto. Tengano l’occhio ai mulini ove sì macina grano, perchè si schivi il mescuglio de’ sacchi per quanto si potrà. Facciano custodire con buon recinto i pubblici forni, ed abbiano premura che i fornai si tengano lontani dal commercio dei popolo, mentre più volte è accaduta la disgrazia che o morti, o caduti infermi essi fornai per poca loro avvertenza, s’è provata per qualche giorno nella città non lieve penuria d’un alimento sì necessario. In Firenze l’anno 1630 la maggior parte de’ fornai s’infettò pel concorso di tante persone e maneggio di tante asse e tele. Convien pensare al rimedio. Dovrassi anche ordinare per tempo che le spezierie sieno provvedute con abbondanza di medicamenti, droghe ed altre cose occorrenti in simili congiunture, prestando anche danaro del pubblico agli speziali, qualora mancasse loro il mezzo di far simili provvisioni. Toccherà poi ai medici l’osservare che non si vendano ivi robe tarlate, muffate o guaste, e medicamenti inutili o finti, senza verun giovamento e forse con pregiudizio della salute altrui, e nulla si venda a troppo caro prezzo. Sarà anche interdetto agli speziali il vendere medicine solutive e a’ barbieri il cavar sangue senza licenza de’ medici per le ragioni che si diranno.

E perchè in sì fastidiosi tempi sogliono i nobili, i cittadini e l’altre persone comode allontanarsi dalla città, il che pure s’è da me ancoraconsigliato di sopra, alla riserva di quelli che sono tenuti alle pubbliche incumbenze e a certe obbligazioni per la cura della patria, sarà necessario provvedere che la loro ritirata non gli esima dal sovvenimento dei poveri e dall’impiego dei pubblici uffizj, quotizzando tutti nel far collette di letti, biancherie, buoi, cavalli, carrette e simili cose, e obbligandoli, se sarà creduto bene, a supplir col danaro l’opera che negassero prestar colla propria persona, essendo pur troppo in tali disgrazie gravissimi i pubblici dispendi. Nella nostra città l’anno 1630, a dì 3 di settembre si venne al seguente placido ripiego. Fu fatta pubblica intimazione a tutti i capi di famiglia, abitanti o soliti ad abitare in città in casa propria o tenuta ad affitto, e ad ogni altro cittadino originario abitante del distretto, purchè questi possedessero beni in essa città o suo distretto, che in termine di tre giorni sotto pena di molti scudi si trovassero, o venissero, o mandassero deputato in città a fare l’infrascritta obblazione, con obbligare a ciò anche i minori e le donne, ed altri che fossero capi di famiglia, per i quali erano tenuti i tutori e curatori. Cioè sapendosi pur troppo il bisogno della città per le intollerabili spese che giornalmente si faceano in occasione della peste, doveano tutti fare un’offerta di danari, o biade, o argento, o oro conforme alla loro possibilità, presentandola con polizza a chi era deputato. Si aggiunse che non si voleva far colletta forzata, perchè più si sperava dalla spontanea amorevole carità de’ cittadini. Tuttavia a chi fosse più scarso di quello che portassero le forze sue (sopra che s’invigilerebbe) sifacea sapere che verrebbero presi contro di lui altri spedienti; e che incorrerebbe nella pena chi mancasse all’offerta fatta, la quale si dovea poi pagare in termine di quindici giorni: sperandosi intanto che il Signore Iddio avrebbe inspirato nella mente e nel cuore di tutti un acceso e piissimo sentimento di carità, e una pronta risoluzione d’impiegare tutto quel che potessero in soccorso e servizio dell’afflitta loro patria.

Fu anche nella nostra città facilitata con dispensa del principe la maniera di far testamento durante il contagio. In città era lecito il farlo con un legittimo notaio e tre testimoni, bastando pei codicilli il notaio con due testimoni. Quanto al distretto e alle ville sue, ove non si potesse facilmente trovar notaio, bastava che del testamento o codicillo si rogasse il proprio paroco, o pure il cappellano, in assenza o legittimo impedimento del paroco, alla presenza di due soli testimoni; ma che non si usassero fraudi, perchè, scoperte, sarebbono con ogni rigor punite. Che se venissero a mancare nella città i notai, allora anche per la città si concedeva la facoltà conceduta alle ville suddette. Così furono levate via le dispute che possono nascere per le formalità d’essi testamenti, intorno ai quali hanno, oltre a vari legisti, scritto due teologi, cioè il P. Marchino o il P. Gio. Angelo Bossio, t. 2, tit. 9. Gli appestati si potranno far portare alle finestre o alle porte, ed ivi alla presenza de’ testimoni e del notaio pubblicare la loro ultima volontà. Non aggiungo altro intorno a questo argomento per non entrare nel caos. Certo è che in tempo di peste sono validi molti atti,benchè mancanti di alcune solennità richieste dalle leggi in altri tempi; perchè, a cagion d’esempio, allora basta un testimonio, dove regolarmente ce ne vorrebbero due; e una donna può servire di testimonio a un testamento, ed essa può far dei contratti senza l’intervento de’ parenti o vicini, per tacer altri privilegi di que’ miseri tempi. In Roma fu anche ordinato che gli strumenti pubblici allora fatti si conservassero diligentemente ne’ protocolli, e se ne desse copia senza dilazione al pubblico archivio.

Abbiano cura i maestrati anche degli spedali. Se ve n’ha di quegli ove si ricevano bambini esposti, orfani e vecchi inabili, non si permetta che vi entri o ne esca alcuno se non per necessità e con gran riguardo, tenendoli chiusi con rigoroso sequestro. Si può provvedere al loro bisogno senza capitarvi dentro; e quando vi penetrasse il morbo, sarebbe difficile l’impedire che non vi facesse un eccidio universale. Gli altri spedali, ne’ quali si sogliono ricevere o i febbricitanti, o i piagati, sarà necessario chiuderli affatto per tali persone, affinchè sotto l’apparenza d’altro male non vi entrasse la peste che di tutti farebbe scempio. Non meritano minor attenzione le pubbliche carceri. Per le segrete, ove non suol trattenersi che uno o pochi altri per cadauna, la disgrazia stessa è una specie di ventura per quei prigionieri, mentre, segregati dal commercio altrui, possono facilmente assicurarsi ancora dal morbo. Solamente per costoro s’ha d’aver cura de’ loro custodi, acciocchè incautamente somministrando il cibo, non portino la morte entro que’ nascondigli,o pure se venissero a mancar tali guardiani, i miseri carcerati, coll’essere dimenticati, non perissero anch’essi. Il pericolo e la difficoltà maggiore si è per le prigioni comuni, che essendo d’ordinario ripiene di rei e di sordidezze, sono per conseguente una facile occasione e un più facile pascolo alla pestilenza. Adunque o liberare i rei di minore importanza e mettere nelle segrete gli altri, o pur chiuderli tutti, o trovarvi altro più utile o più plausibile e spedito ripiego, comandato dalla giustizia o consigliato dalla carità. In Palermo nella peste del 1625 non si carcerava alcuno per liti civili. Per delitti criminali leggieri si assegnava la casa per carcere sotto pena della vita; e per gli eccessi gravi il reo si metteva in prigione, ma non se gli lasciava portar seco altro che il solo vestito e una camicia bianca. E ciò sia detto del Governo Politico io tempo di peste. Passiamo al Governo Medico.


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