«1º Tenersi in difesa sulla frontiera.»2º Resistere al nemico se attaccasse.»3º Dato questo caso e supposto di poterlo respingere, inseguirlo oltre il confine sin dove la prudenza consigli arrestarsi.»4º Quando ciò avvenisse, altre truppe della Lega accorrerebbero immediatamente in appoggio di quelle che avessero oltrepassata la frontiera.»5º Qualora una intera provincia, o anche una sola città si sollevasse e proclamasse volersi unire alle Romagne, e domandasse soccorso per essere protetta contro un nuovo eccidio, simile a quello di Perugia, e per mantenere l’ordine pubblico, in tale evenienza doversi spedire ai sollevati armi ed armati, in quella misura che le circostanze consiglieranno.»6º Finalmente se il nemico tentasse colla forza di riprendere quei luoghi, le truppe della Lega dovranno opporvisi difendendoli energicamente, nè desisteranno dalle ostilità contro i Pontificii, se non quando abbiano occupato tanto terreno, quanto riterranno necessario per garantire la loro sicurezza.»
«1º Tenersi in difesa sulla frontiera.
»2º Resistere al nemico se attaccasse.
»3º Dato questo caso e supposto di poterlo respingere, inseguirlo oltre il confine sin dove la prudenza consigli arrestarsi.
»4º Quando ciò avvenisse, altre truppe della Lega accorrerebbero immediatamente in appoggio di quelle che avessero oltrepassata la frontiera.
»5º Qualora una intera provincia, o anche una sola città si sollevasse e proclamasse volersi unire alle Romagne, e domandasse soccorso per essere protetta contro un nuovo eccidio, simile a quello di Perugia, e per mantenere l’ordine pubblico, in tale evenienza doversi spedire ai sollevati armi ed armati, in quella misura che le circostanze consiglieranno.
»6º Finalmente se il nemico tentasse colla forza di riprendere quei luoghi, le truppe della Lega dovranno opporvisi difendendoli energicamente, nè desisteranno dalle ostilità contro i Pontificii, se non quando abbiano occupato tanto terreno, quanto riterranno necessario per garantire la loro sicurezza.»
Non appena però queste istruzioni furono conosciute, grande l’allarme su tutta la linea: gli stramoderati, perchè, a parer loro, si avventurava nell’ignoto tutto il bene conquistato; il Ricasoli, perchè non tollerava di veder complicata di nuovi problemi l’opera dell’annessione, sua nobile monomania; il Cipriani, all’opposto, perchè temeva di sgradir all’idolo bonapartistae di guastar il suo disegnino d’una Romagna separata; il Gabinetto di Torino, perchè si sentiva venir addosso nuovi impicci e nuovi rabbuffi diplomatici; tutti, quali per una ragione, quali per un’altra, biasimavano quella risoluzione, facendo carico al Fanti ed al Farini d’averla presa di loro capo senza nemmeno consultar gli altri due Governi della Lega (nel frattempo i Governi di Parma e di Modena s’eran fusi in un solo detto dell’Emilia), e violando i confini della loro legittima podestà .
Però non andò guari che la procella, lentamente addensatasi in segreto, alquanti giorni dopo scoppiò. Verso gli ultimi di ottobre, il Cipriani, il Ricasoli e Marco Minghetti per terzo, convenuti segretamente alle Filigare, deliberarono d’accordo di sconfessare senza indugio quelle pericolose istruzioni, tenendo tuttavia quanto al modo due vie diverse, secondo i caratteri e gl’ingegni: al Ricasoli essendo bastato di disdire recisamente l’opera tenuta illegale e pericolosa; il Cipriani avendovi voluto aggiungere di suo l’ingiunzione al Fanti di recarsi a Bologna ad una specie diredde rationem, e di rimandar tostamente le truppe ai quartieri d’inverno.
S’impennò alla superba intimazione il Fanti, e fiancheggiato dal Farini ribattè fieramente col noto telegramma: «Non ricevo ordini che dai tre Governi riuniti;» risposta invero più superba che giusta; poichè se i tre Governi riuniti gli parevano necessari a disfare, a maggior ragione avrebbero dovuto parergli indispensabili a fare.
Comunque, durando il dissidio, e persistendo il Fanti a voler rassegnare l’ufficio piuttosto che cedere; il re Vittorio Emanuele, al quale nulla di quanto accadeva nella Penisola era nascosto, risolveva d’intervenirecolla forza dell’autorità sua, chiamando presso di sè Garibaldi a sentire consiglio; e scrivendo contemporaneamente un’affettuosa lettera al Fanti per invitarlo a desistere da’ suoi propositi e piuttosto a deporre l’ufficio ed a tornare presso di lui, lasciando a Garibaldi solo il carico ed il rischio d’una impresa ch’egli, Re, non approvava.
All’augusto invito nessuno de’ due Generali riluttò. Garibaldi si mise tostamente in viaggio; e il 27 ottobre giunto a Torino aveva un abboccamento di quattro ore col Re, di cui molto si novellò, e si novella tuttora; nulla di certo, di preciso trapelò. Che disse infatti Vittorio Emanuele al favorito Capitano popolare? Che rispose questi al suo Re? Vi sono degli storici fortunati che posseggono l’anello d’Alcina, e possono penetrare invisibili nella Reggia, invisibili ascoltare i colloqui delle stanze più segrete, e allo stesso modo uscire per imbandire all’indomani il verbo delle cose udite alla turba credula e beata. A noi questo dono non fu concesso, e però non potendo nè volendo spacciare per verità le nostre divinazioni, ci accontenteremo, più modesti, a proporre quelle congetture che ci sembrino più ragionevoli.
Che Vittorio Emanuele abbia consigliato Garibaldi a sospendere o, se anche si vuole, a rinunciare interamente alla meditata irruzione, è assai probabile; che gliel’abbia espressamente ordinato, due ragioni gravissime c’inducono a dubitarne. Il Generale, infatti, appena tornato da Torino a Rimini, lungi dal differire, affretta così gli ordini dell’insurrezione al di là , come gli apparecchi dell’invasione al di qua del confine; ed ai suoi ufficiali che lo interrogavano sulla possibilità della passata, presente fra gli altri lo scrittore di queste pagine, diceva pubblicamente: «Credoche saremo attaccati noi stessi; maforse non ci mancherà l’occasione di marciare avanti lo stesso.[215]
Ora, che Garibaldi, risuonanti ancora gli orecchi degli augusti consigli di Torino, s’arrischiasse a pronunciare in pubblico quelle parole, ed a contravvenire apertamente e con apparecchi di guerra agli ordini di quel Re, ch’egli ostentava, fin troppo, non che di ubbidire come un Sovrano, di ascoltare come un amico, lo creda chi vuole. Noi fino a prova contraria, fino alla presentazione d’un documento che faccia testimonianza del colloquio di Torino, persisteremo sempre a credere che Vittorio Emanuele consigliò, non comandò; consigliò in guisa da far capire al suo non duro interlocutore, che non avrebbe, per questo, perduto il di lui regale favore, se per avventura sotto la sua responsabilità avesse disubbidito.
Certo il re Vittorio non poteva assumere su di sè l’approvazione d’un’impresa, come quella che il Farini ed il Fanti avevano concertato; e in ogni caso non gli doveva piacere che un Generale dell’esercito suo, come il Fanti, membro d’un Governo posto sotto il di lui patrocinio, se ne immischiasse; ma una volta levato di mezzo questo unico indizio compromettente, che gl’importava, a che s’arrischiava egli, e a che il Piemonte, se una persona qualsifosse, estranea al Governo, libera e al tempo stesso amica, ribelle nei modi e devota al fine, vi si avventurasse a tutto suo rischio e pericolo, e salva sempre la condizione di giovarsene o di sconfessarla, secondo l’opportunità ed il successo?
E che siffatti pensieri passassero per la mente del gran Re, non è maraviglia. Era quella la politica del tempo: mirare al fine, nascondendone i mezzi; onestare di forme legali la rivolta; i rivoluzionari tentare di render complice la Monarchia; i monarchici farsi stromento della rivoluzione; tutti giocar a giova giova, mascherando d’inimicizie pubbliche gli amori privati nel sacro intento di fare l’Italia. Però nulla anche di più naturale che, in quell’armeggÃo di sottintesi, d’ambiguità , di nasconderelli, il semplice Garibaldi si smarrisse, e pigliando di colta le prime parole si credesse in diritto d’interpretarle nel loro senso più naturale e operare a seconda.
Quanto al Fanti il discorso è di poco diverso; chè non volendo trasgredire all’augusto consiglio del Re, e non potendo rassegnarsi a desistere dal suo proponimento, deliberò piuttosto rassegnare l’ufficio e il comando. Ma poichè a nessuno bastava l’animo di accettare quella rinuncia che avrebbe privato l’esercito collegato della sua vera provvidenza, l’indugio, come spesso accade, portò consiglio; e rinata colla calma la fede nella suprema necessità della concordia, il Farini ed il Fanti finirono per persuadersi che quello sperato moto delle Marche era o illusorio o immaturo: lasciando bensì Garibaldi a continuare la sua guardia alla Cattolica, ma tacitamente sottintendendo che egli non avrebbe dato un passo più innanzi, e che le sue istruzioni, senza revocarle espressamente, sarebbero rimaste lettera morta.
E questo solo fu l’errore. Se i Governi dell’Italiacentrale, d’accordo ormai col Capitano supremo della Lega, stimavano di dover rinunziare a quell’impresa, per la quale dianzi avevan giudicati necessari il braccio ed il cuore di Garibaldi, non restava loro che un solo partito onesto e saggio: avvertirlo che i loro ordini erano revocati e richiamarlo dal confine. Trastullar Garibaldi di lusinghe, e credere ch’egli se ne acqueterebbe; abbandonargli nelle mani un ordine bellicoso, come quello di Modena, e pretendere che senza saperlo revocato non lo eseguisse; lasciarlo a cavallo d’un confine a capo di circa dodicimila uomini, quasi a tiro di moschetto d’un nemico provocatore e aborrito, innanzi a mezza Italia da liberare, e sperare, ch’egli si acconcerebbe lungamente all’imbelle gioco ed all’inutile comparsa, era un dar prova, per non dir di peggio, che non si conosceva ancora Garibaldi, nè si era imparato a servirsene.
Garibaldi era allora, come sempre, la rivoluzione; ora un Governo qualsivoglia era certamente nel pieno suo diritto di guidare, di frenare, di repudiare e riprendere a sua posta la terribile alleata, ma ad un patto: che non ponesse il tizzone vicino alla polveriera, nè pretendesse adoperare Garibaldi per spegnitoio. Usar gli uomini per quel che sono e per quel che valgono, è il primo precetto dell’arte di Stato; e non pare che i governanti dell’Italia centrale se lo siano, in quel caso, ricordato abbastanza. Forte delle sue istruzioni non disdette mai, e risoluto, se vuolsi, a interpretarle liberamente, ma a non oltrepassarle, reputando vergogna per un esercito italiano il guardar colle armi al braccio un branco di mercenari, grondanti ancora di sangue cittadino, e non vedendo alcun rischio se di sottomano aiutava e affrettava quellasommossa delle Marche, che tutti, anche i più cauti, stimavan pretesto necessario alla guerra premeditata, Garibaldi fece quel che doveva fare egli; quel che era da aspettarsi da lui; quello che era nella natura sua e nella tradizione dell’intera sua vita; e che si doveva in ogni caso vietargli ed impedirgli prima, per avere il diritto di rimproverarglielo dopo.
Garibaldi infatti non s’era infinto: egli da più settimane non lavorava visibilmente che ad uno scopo: provocare fra i Marchigiani quella sommossa che tutti aspettavano od annunziavano e non iscoppiava mai. Perciò spediva messi, introduceva armi, allestiva barche sul mare, inviava piccoli drappelli per terra; sinchè venne il giorno in cui anche il Governo non potè più nasconderselo, e decise di richiamarlo a Bologna, onde prima persuaderlo coi consigli, intimargli poscia coll’autorità , di desistere da tutti quegli apparecchi e di non muover passo senza nuovi ordini del legittimo suo Comandante.
E Garibaldi accorse senza sospetti, e trovato pronto a riceverlo, oltre al Farini ed al Fanti, il generale Solaroli, inviatogli incontro dal Re per il medesimo scopo, li seguì a Palazzo e si richiuse con essi a consulta. Quivi i tre valentuomini espressero cortesi, ma franchi, le ragioni loro; egli, non meno cortese e tenace, espresse le sue; ma persistendo i primi e facendo appello alla necessità della concordia, ai doveri della disciplina, agli ostacoli della Diplomazia, finirono, se non propriamente col convincerlo, collo strappargli la promessa che avrebbe rinunciato, per allora,alla vagheggiata impresa, e non operato cosa che potesse dispiacere ai reggitori dello Stato.
Se non che appena fuori di Palazzo, ecco farsegli attorno i suoi più accesi partigiani, e susurrargli: tutta quella voltata sentire d’intrigo napoleonico; il Fanti ed il Farini essersi burlati di lui; la rivoluzione essere imminente oltre il Tavullo; le promesse di soccorso già date; fedifrago e crudele il mancarvi. Nè bastò; che giunto nel cuore della notte ad Imola, vi trova, chi disse un messo, chi una lettera, chi un telegramma, ma insomma qualcosa, o qualcuno insieme, che gli annunziava per cosa certa la rivoluzione scoppiata oltre il Tavullo, tutte le Marche andare in fiamme, ed aspettare impazientemente l’aiuto promesso.
Chi abbia portato quella lettera o quel telegramma; d’onde sia nata quella bugiarda notizia, non si sa ancora. Forse l’immaginò l’impazienza e il desiderio; probabilmente fu fabbricata nelle occulte officine delle sètte, nel qual caso la verità vi rimarrà perpetuamente nascosta e intera non si scoprirà mai. Il fatto è che Garibaldi ne fu colto. E soggiungiamo che probabilmente in altra disposizione d’animo non lo sarebbe stato; ma allora, in quella notte, l’idea di esser stato per tutto quel tempo burlato gli si era fitta come un chiodo nel cervello, e non gli pareva vero che un sì felice annunzio venisse a porgergli l’occasione di sventar la trama de’ suoi rivali, e compire al tempo stesso un disegno ch’egli sinceramente credeva lo svolgimento naturale della rivoluzione nazionale e la sua salvezza. Risolvendo quindi con procellosa concitazione, annunzia per telegrafo al Fanti: «Sollevate le Marche, muovere in soccorso de’ fratelli;» e prese le poste, riparte a trotto serrato per Rimini, dove comanda che per la notte stessa del 12 novembre le avanguardieabbiano a varcare il confine e tutta la Divisione seguitare il movimento.[216]
Il telegramma da Imola cessò nell’animo così del Farini come del Fanti ogni dubbiezza, e giustamente ridesti al sentimento della loro autorità e responsabilità , spiccarono pressantissimamente contr’ordini energici, affinchè nessuno de’ corpi sotto il comando di Garibaldi lo obbedisse, e muovesse dalle sue stanze, o procedesse oltre, se per avventura si fosse già mosso. E poichè, se ne eccettui qualche isolata imprecazione e qualche sordo mormorÃo, tutti furono pronti all’obbedienza della legittima autorità , l’impresa restò, pel fatto solo della mancanza di forze, troncata nel suo nascere e sventata. Scoppiò invece all’inatteso contraccolpo l’animo già tumido d’ira e di sospetto di Garibaldi: e risolvendo tosto sotto la prima vampa della passione, rinfocolata da’ suoi più intimi seguaci e partigiani, riparte ancora per Bologna, si presenta al Farini ed al Fanti, li investe di irate rampogne, e intima loro, con temerità quasi ingenua, di cedere a lui la Dittatura politica e militare. Resistettero alla procella i due valorosi; è fama anzi che il Farini replicasse: ben lo si potrebbe gittare dal balcone in piazza, ma non piegarlo per sedizione militare; risposta a dir vero inutilmente romana, poichè Garibaldi parlò bensì imperioso e violento, non minacciò di ribellione o di sedizione chicchessia.
Comunque, il Generale non gittò, come dice lo Zini,[217]il grado e il comando; molto meno partì immediatamente per Torino; ma ritiratosi a consulta con sè stesso e i suoi amici, «lasciò il Dittatore incerto del partito che presceglierebbe.[218]»
Lo premevano infatti due correnti: da un lato i rivoluzionari schietti[219]lo spingevano ad afferrare anche colla violenza la Dittatura ed a varcare il Rubicone, che, forse, non era in quel caso una mera figura rettorica; dall’altro i governativi, i moderati, i prudenti, e più che tutti le segrete voci della sua coscienza, rimasta fino allora provvidenzialmente paurosa della guerra civile, lo consigliavano a contenersi, e a contenere i suoi più audaci; a rassegnare piuttosto un ufficio, che non poteva nè esercitare con libertà , nè tenere senza violenza.
Naturale pertanto che l’aspettazione delle risoluzioni di Garibaldi tenesse in sospeso gli animi, così de’ suoi amici come de’ suoi avversari, e che la battaglia che si combatteva in lui e attorno a lui avesse un’eco in tutto il paese. Poichè se la sua Dittatura non poteva parer provvida che a pochi fanatici o idolatri, la sua ritirata brusca ed improvvisa dall’Italia centrale poteva sembrare pericolosa anche ai più saggi. Giuseppe La Farina, che pellegrinava in quei giorni per le città dell’Emilia, si provò ad intromettersi paciere nel conflitto; ma dimostrando egli pure, come tanti altri, di non conoscere dell’eroeche la corteccia, non gli soccorse altra idea più sublime che quella di proporre che a Garibaldi fosse dato il comando supremo dell’esercito dell’Italia centrale e al Fanti lasciato il Ministero della guerra. Garibaldi pel primo rifiutò netto; ed era da prevedersi; poichè non era nè il suono d’un titolo, nè la lustra d’un grado che egli mendicava; era un comando effettivo, una balÃa assoluta, ch’egli aveva certamente torto di pretendere a quel modo, e gli altri numerose ragioni di ricusargli; ma che pure chiedeva soltanto nella profonda e sincera illusione che quello fosse il miglior mezzo di giovare alla patria sua, e di adempiere alla missione provvidenziale onde si credeva investito.
L’agitazione tuttavia cresceva; conati di manifestazioni rivoluzionarie erano succeduti in varii luoghi; la parte più garibaldina dell’esercito centrale rumoreggiava; conveniva che una risoluzione fosse presa; e la risoluzione venne anche quella volta da Torino. Il 12 novembre il conte di Cavour scriveva da Leri al Rattazzi:Unico mezzo per soffocare la nascente discordia, invitar Garibaldi a deporre il comando.Rattazzi teneva buona l’idea, ma troppo aspro il modo, e suggeriva al Re di esperimentare ancora una volta il consiglio. Perciò il 14 Garibaldi era chiamato da Vittorio Emanuele a Torino; il 17 mattina s’abboccava con lui, e la sera stessa correva per tutti i giornali la notizia ch’egli aveva rassegnato l’ufficio tenuto fino allora nell’Italia del centro. Infatti due giorni dopo l’annunziava agl’Italiani, da Genova, col celebre Manifesto del 19 novembre 1859, che vuol essere integralmente riprodotto, come il primo indizio di quel dissidio tra la politica rivoluzionaria garibaldina e la politica rivoluzionaria cavouriana, le quali procedendoora emule ora rivali, ora complici ora concordi, fecero l’Italia:
«Agli Italiani.»Trovando con arti subdole e continue vincolata quella libertà d’azione che è inerente al mio grado nell’armata dell’Italia centrale, ond’io usai sempre sempre a conseguire lo scopo cui mira ogni buon Italiano, mi allontano per ora dal militare servizio. Il giorno in cui Vittorio Emanuele chiami un’altra volta i suoi guerrieri alla pugna per la redenzione della patria, io ritroverò un’arma qualunque ed un posto accanto a’ miei prodi commilitoni.»La miserabile volpina politica che turba il maestoso andamento delle cose italiane deve persuaderci più che mai che noi dobbiamo serrarci intorno al prode e leale soldato dell’indipendenza nazionale, incapace di retrocedere dal sublime e generoso suo proposito; e più che mai preparare oro e ferro per accogliere chiunque tenta tuffarci nelle antiche sciagure.»G. Garibaldi.»
«Agli Italiani.
»Trovando con arti subdole e continue vincolata quella libertà d’azione che è inerente al mio grado nell’armata dell’Italia centrale, ond’io usai sempre sempre a conseguire lo scopo cui mira ogni buon Italiano, mi allontano per ora dal militare servizio. Il giorno in cui Vittorio Emanuele chiami un’altra volta i suoi guerrieri alla pugna per la redenzione della patria, io ritroverò un’arma qualunque ed un posto accanto a’ miei prodi commilitoni.
»La miserabile volpina politica che turba il maestoso andamento delle cose italiane deve persuaderci più che mai che noi dobbiamo serrarci intorno al prode e leale soldato dell’indipendenza nazionale, incapace di retrocedere dal sublime e generoso suo proposito; e più che mai preparare oro e ferro per accogliere chiunque tenta tuffarci nelle antiche sciagure.
»G. Garibaldi.»
Dopo ciò si poteva credere che il Generale s’apparecchiasse, irato Achille, a ritornare sotto la tenda della sua Caprera, tanto che l’annunziava con un affettuoso e riverente biglietto[220]al Re stesso, quando mutava improvvisamente pensiero; e il 23 mattina, giorno da lui fissato per la partenza, bandiva un nuovo proclama agl’Italiani, in cui, confermata la sua fedein Vittorio Emanuele, gl’invitava di nuovo a versare il loro obolo per la sottoscrizione nazionale delMilione di fucili, già da lui iniziata fin dall’ottobre, affinchè ognuno «preparasse un’arma per ottenere, forse domani, colla forza ciò che si tentenna ora a concedere colla giustizia.[221]»
Partiva invece per Nizza, dove dimorava, occupato di sue faccende private, fino ai primi di dicembre, e dove, stando a svernare l’Imperatrice delle Russie, si divulgava la fiaba ch’egli la visitasse per accordarsi con lei circa ad una immaginaria candidatura d’un Principe russo al trono, non per anco tagliato, dell’Italia centrale.[222]
Di là fece, è vero, una corsa a Caprera, ma breve; chè prima della metà dello stesso mese era di nuovo sul Continente. Dal 14 al 25 dicembre infatti lo troviamo a Fino, villa del marchese Raimondi, presso Como, d’onde indirizza agli studenti di Pavia un infiammato appello;[223]il 26 passa per Milano, ed allafolla, acclamante lui essere la forza d’Italia, risponde: «Errore; la forza di una nazione non è in un uomo solo, ma in sè stessa;[224]» il 29 lo incontriamo a Torino, dove lo porta la speranza di ottenere l’organizzazione della Guardia Nazionale mobile di Lombardia ed ha in proposito un lungo colloquio col Re.[225]Nel giornostesso lo vediamo rinunciare alla presidenza dell’Associazione nazionalee mettersi a capo d’una nuova società , laNazione armata, che però, cedendo agli allarmi della parte moderata, e forse del Re medesimo, scioglie subito dopo (4 gennaio);[226]il 6 del mese stesso, infine, fastidito dalle ambagi di quella politica che non poteva comprendere, attratto dalla larva d’una felicità sognata fin da Valgana, scompare novellamentenell’ombra di Fino, dove il perfido Dio, che si trastulla specialmente degli eroi, gli andava tessendo in silenzio le più grosse bende e i più volgari agguati.
Abbiamo ripetuto più volte che un solo degli amori di Garibaldi, quello d’Anita, ci parve degno di poema e di storia, e avvertiamo nuovamente il volgo dei lettori ingordi d’aneddoti erotici, che questo libro non è per loro. Sul finire del 1859 però, un amore, o fantasia, o avventura amorosa di Garibaldi, si conchiuse nel fatto pubblico d’un matrimonio, e noi possiamo scivolargli accanto e coprirne di discreti veli i particolari, ma non trapassarlo in silenzio.
L’ultimo di maggio, il lettore non l’avrà dimenticato, si presentava a Garibaldi, in Sant’Ambrogio, la giovane marchesa Giuseppina Raimondi, che gli portava le notizie di Como, e insieme la preghiera dei Comaschi di accorrere in aiuto della loro città minacciata da un ritorno degli Austriaci. La messaggera era bella, di quella bellezza ardita e virile, che poteva tanto sulla fantasia del nostro eroe; di più narrava d’essere venuta traverso disagi e pericoli maggiori del suo sesso, ora rompendo, ora deludendo le fitte linee di nemici che imboscavano il paese; e Garibaldi, colto a un punto dalle seducenti attrattive della donna e dal miraggio fascinante dell’amazzone, ne restò ammaliato. Gli eventi d’Italia lo separarono per alcun tempo da lei, ma non poterono cancellarla dalla sua mente; e non appena il tumulto delle armi e l’altro più grande amore della patria gli concederanno un’ora di tregua, l’immagine della fantastica fanciulla rivivrà innanzi a’ suoi occhi, e sognando,illuso, di ritessere in Italia, con una seconda Anita, gli eroici idilli d’America, giurerà nel suo cuore di selvaggio innamorato di farla sua per sempre, come l’aveva giurato alla povera creola di Laguna.
Ed era appunto per sciogliere quel voto ch’egli tornava a quei giorni sul Continente, e che noi lo troviamo nella seconda metà del dicembre nella villa di Fino, dove la marchesa Raimondi villeggiava coi suoi parenti. Indotto d’ambagi galanti, come delle diplomatiche; dimentico de’ suoi cinquant’anni, e ignaro che il cuore della donna è pelago che non si naviga mai senza scandaglio; avvezzo a prendere d’assalto le fortezze d’amore come le fortezze di guerra, e scordandosi che quelle seppelliscono spesso sotto corone di rose i loro vincitori; Garibaldi disse alla bramata fanciulla il suo amore, e la chiese in isposa. Il padre assentì; ella, che aveva già dato il suo cuore ad un altro, doveva ricusare, e non osò; e Garibaldi il mattino del 24 gennaio 1860, nella stessa cappella domestica di Fino, la condusse all’altare.
Poche ore dopo però una lettera, tardamente pietosa, venne ad avvertire il Generale ch’egli aveva un rivale felice; ella, interrogata dal marito, chinò il capo confessando, e Garibaldi, trovando in un impeto subitaneo della sua tempra eroica la sola catastrofe degna del triste dramma, monta a cavallo e fugge la sera stessa da Fino, riparando indi a pochi giorni nella sua Caprera, dove non porterà seco di quella breve fiamma che poca cenere amara e la balza d’un matrimonio di nome, di cui la donna che gli fu moglie per pochi istanti fu la prima certamente a sentire il tormento ed il castigo.[227]
Così finiva anche per Garibaldi il 1859.
Delle cose da lui operate come Capitano nell’estate di quell’anno, il giudizio non è controverso, nè dubbia la gloria. Diversa invece la sentenza intorno alla parte da lui rappresentata nell’Italia centrale. Come non si potè levare dalla mente de’ suoi contemporanei, così non si potrà interamente cancellare dalle pagine della storia l’opinione che il Comandante in secondo dell’esercito centrale, volendo a forza un’impresa che il legittimo Governo disvoleva, abbia tentato, se non compiuto, un atto di ribellione, e posto a repentaglio, non che la disciplina dell’esercito, la quiete e la salute d’Italia.
Pure non è questa la conclusione che scaturisce dai fatti da noi esposti, e chi vorrà persistere in quel giudizio dovrà o smentire con autentiche testimonianze i fatti, od aspettarsi dal tempo un giudizio molto diverso dal suo.
Garibaldi esorbitò certamente nei modi e patrocinò forse con troppa violenza un’idea per lo meno disputabile, e di cui non era giudice egli solo; ma insomma quell’idea egli aveva il diritto di crederla buona, non solo per sè stessa, ma anche perchè era stata caldeggiata fino all’ultimo da quei medesimi che l’avevano poi sconfessata.
Di tutto quanto egli fece per apparecchiare il passaggio della Cattolica, nessuno potrebbe fargli torto; poichè nessuno fino al principiar del novembre pensò ad avvertirlo che gli ordini a lui impartiti erano abrogati, e il mandato a lui commesso sospeso. Fino allora dunque nulla nella sua condotta che non fosse, anchemilitarmente parlando, regolare e corretto. Che se a novembre il Governo mutò disegno e Garibaldi promise che avrebbe desistito dalla cominciata impresa, fu soltanto perchè gli venne dato per certo che l’attesa rivolta nelle Marche, stimata condizione indispensabile all’invasione, non accadrebbe, nè poteva più accadere.
Ora lo si potrà accusare d’avere con troppa precipitazione creduto al messaggio d’Imola, che gli annunziava invece la rivolta già scoppiata; lo si può, lo si deve biasimare d’essersi tolto l’arbitrio di comandare da sè solo una mossa che in qualsivoglia ipotesi spettava al Governo solo di ordinare; ma di volontaria e meditata ribellione, non mai. Egli non fu allora più ribelle al Farini ed al Fanti di quello che il Fanti ed il Farini lo sieno stati un mese prima al Cipriani ed al Ricasoli. In quel tramestÃo rivoluzionario, in quella semi-anarchia di governi, di opinioni, di politiche, che cangiavano, si confondevano, si urtavano ad ogni piè sospinto; in quel parapiglia di ordini dati a Modena, disdetti a Bologna, modificati a Firenze, corretti a Torino, stabilire l’esatto punto in cui l’opposizione diventava ribellione, e la legalità rivoluzione, è difficile assai; e in un paese, dove tutti, da Vittorio Emanuele al Cavour, dal Ricasoli al Farini, dal Fanti al Boncompagni, cospiravano un po’, e spesso ad insaputa, talvolta a rovescio l’un dell’altro, il rimproverare a Garibaldi d’essere tocco dal male comune, deve parere soverchio anche pei più accigliati custodi della rigorosa dottrina governativa.
Garibaldi era un generale, e sta bene; ma un generale unico,sui generis, in tale posizione anormale che non ha riscontro nella storia degli eserciti. Era un generale, ma insieme un capo-popolo, un tribuno,un apostolo armato; era un generale, ma un presidente, riconosciuto ed onorato dallo stesso Governo, di una vasta associazione politica; era un generale, ma a cui era lecito di aprire pubbliche collette d’armi, di scrivere ogni giorno un nuovo Manifesto politico o guerriero, di avere uno Stato Maggiore composto in parte d’uomini politici, di formarsi dei corpi speciali a suo talento, quasi guardie del corpo, di arringare dai balconi il popolo, e di cospirare in segreto col Re. Ora come applicare ad un uomo simile i criterii d’una rigorosa disciplina militare, quando gli si concedeva di violarla ad ogni passo col consenso e colla tolleranza dei suoi stessi superiori? Per impedirgli d’agire di suo capo l’ultimo giorno, conveniva metterlo al dovere fino dal primo; per rimproverargli di agitare il popolo, bisognava non giovarsi o non compiacersi della sua popolarità ; per censurarlo di portar nei consigli militari la sua politica, importava non farne con lui; nè spesso applaudirla e seguitarla in pubblico per sconfessarla in privato. Garibaldi era logico. Convinto, come tutti i veggenti e gl’illuminati, d’aver ricevuto dall’alto una missione, l’adempiva. Persuaso che fosse dannoso l’arrestare «il maestoso andamento della rivoluzione,» e che sola politica degna dell’Italia fossero «un milione di fucili e un milione d’armati,» non nascondeva il suo pensiero; lo gridava anzi ai quattro venti; e poichè il suo concetto trovava un’eco non solo nel fondo di quelle turbe popolari a cui la sua voce più dirittamente arrivava, ma un seguito ed una adesione in quelle medesime classi che per altre ragioni lo combattevano, egli era in pieno diritto di persistere nella sua via, e di chiamarvi a seguitarlo l’Italia.
Garibaldi faceva la parte sua, ed era provvido che la facesse. Le grandi evoluzioni della storia, al paridelle grandi evoluzioni della natura, non sono mai l’effetto d’una forza sola. Al movimento italiano era tanto necessaria la forza impellente della rivoluzione, quanto le forze moderatrici e dirigenti dell’arte di Stato, dell’ordine e della legalità .
Se immaginare la rivoluzione italiana senza il nome di Vittorio Emanuele e il genio del Cavour è impossibile, non meno impossibile è pensarla senza la mano di Garibaldi, che a un dato istante, appena la ruota pareva sviarsi od inciampare, veniva ad imprimerle un moto impreveduto ed a risospingerla verso la sua mèta.
Questo egli volle nel 1859, ed era troppo presto; rivolle nel 1860, e indovinò l’ora del destino.
Fine del Volume Primo.
INDICE DEL VOLUME PRIMODedicaPag.VPrefazioneVIIFac-simile di due pagine delle Memorie di Garibaldi1CapitoloI.Dalla nascita al primo esiglio [1807-1836]iviII.Da Rio Grande del Sud a Montevideo [1837-1841]50III.Da Montevideo al ritorno in Italia [1842-1848]109Carta dell’Uruguay con le provincie del Rio Grande Do Sul, dell’Entrerios e del Corrientes, ad illustrazione dei viaggi e delle azioni di G. Garibaldi nell’America meridionale213IV.Da Nizza a Morazzone [1848]214V.Roma [1849]246VI.Da Roma al secondo esiglio [1849-1854]331Schizzo topografico illustrativo del combattimento di Morazzone [1848]392Schizzo topografico illustrativo della battaglia di Velletri [1849]iviCarta itineraria della ritirata di Garibaldi da Roma [1849]iviVII.Da Varese alla Cattolica [1859]415
ERRATA-CORRIGE.Volume I.Pag.lin.5,7l’anno stesso di Cavourva soppresso27,12RagiundoRaimondi84,25TramandahyTaramandayid.,ult.id.id.85,4id.id.id.,ult.id.id.170,918421843202,1314 gennaio12 gennaio206,22DuymanDayman233,74 luglio4 agosto247,2724 aprile29 aprile259,722 marzo23 marzo280,24Giuseppe RosselliPietro Rosselli398,25barcabara422,24fosse assalitanon fosse assalita424,21MigliavacaMigliavacca437,25giornata stessa del 27giornata stessa del 21450,14maggiore Biolltenente colonnello Bioll453,17colonnello Biolltenente colonnello BiollA pag. 193, riproducendo in nota l’ode a Garibaldi del signor Giuseppe Bertoldi, corse un errore di disposizione.Dopo la strofe sesta «Or leva dai marmorei ec.,» devono seguire le ultime quattro strofe, che cominciano dal verso «Chi sono quei fortissimi» e vanno al verso «Che fa l’americane acque stupir;» poi l’ode continua colla strofe che nel volume sarebbe la settima: «Quando su noi le barbare ec.»
ERRATA-CORRIGE.
Volume I.
A pag. 193, riproducendo in nota l’ode a Garibaldi del signor Giuseppe Bertoldi, corse un errore di disposizione.
Dopo la strofe sesta «Or leva dai marmorei ec.,» devono seguire le ultime quattro strofe, che cominciano dal verso «Chi sono quei fortissimi» e vanno al verso «Che fa l’americane acque stupir;» poi l’ode continua colla strofe che nel volume sarebbe la settima: «Quando su noi le barbare ec.»