XLI.

XLI.Mi pare quasi inutile di dirvi, che non sapendo io lavorar nulla da principio, ne anche far la calza o filare, e poscia che l'imparai, spesso a bello studio non essendomi dato lavoro da quelle streghe, nè trovandomi io altro modo di soddisfare a quel grano di più il giorno, ch'era mestieri per aver la minestra, nè dandomi il cuore, così cagionevole com'ero, di rosicchiarmi quel vituperevole tozzo; che, quando il mese della tonacella fu finito, io mi lasciai scroccare in simigliante guisa quel misero spillo d'acciaio, e quel paio di calze ch'avevo; rimanendone a gambe e piedi nudi, e ultimamente quel paio di scarpette, in iscambio delle quali, per non lasciarmi al tutto scalza, fui provveduta d'un paio di zoccoli assai ben vecchi. Nè fu una sola quella settimanao quel mese, ch'io dovetti per filo, a malgrado dell'orrore che ne avevo, contentarmi di quel nefando tozzo di pane. Mi pare inutile ancora di dirvi che suora Geltrude, come poscia riseppi, quel dì medesimo ch'io fui strascinata in quelle grotte, mi aveva mandato per la sua donnicciuola l'altro paio di calze, l'altra sottana, l'altra camicia, e di più di ciò che già mi aveva donato, due moccichini di refe; e tutto mi fu rapito dalle suore, se non che, in quello scambio e in nome di suora Geltrude, mi fu recata una camicia, non veramente quella donatami da lei, ma un'altra di tela più grossa e già assai ben logora; e che non avendo ottenuta la licenza chiesta al duca (il quale, acciocchè dalla partita di lei non rimanesse offesa la sua ducale maestà nella opinione degli ufficiali dell'ospizio, bravandola in pubblico e mitigandola in privato, la riteneva), non lasciava passare mai nè mese nè settimana, ch'ella non mi mandasse qualche soccorso in roba o in danari, ch'era tutto rubato dalle suore.Questa vita strascinai io per ben undici mesi, morendomi ora di caldo, ora di freddo e sempre di fame; non vedendo anima nata, fuorchè le orride vecchiarde, e le cattivelle e malcondotte giovanette; ed essendo, solo i dì di festa, menata, come pecora insieme con tutta la mandria, in certe paurose buche, donde per fittissime gelosie si udiva la messa nella magnifica chiesa dell'Annunziata. Quella chiesa, udiva dire io, che per instinto naturale ebbi sempre un'ardentissima cupidità di sapere, bruciò nell'anno mille settecento cinquantasette, e dal sessanta all'ottantadue fu rifatta, con assai lode, dal Vanvitelli. Quarantaquattro grandi e belle colonne corintie di marmo bianco facevano un vivo contrasto ai miseri occhi miei con quelle tetre spelonche alle quali eranoassuefatti. Ma il contrasto più grande era fra i visi di uomini e di donne ch'io vedeva nella chiesa, e quelli ch'ero solita di vedere. Quelli e quegli altri non mi pareva possibile che appartenessero alla medesima specie. E non potendo dubitare che quelli che m'erano da presso non fossero stati visi di femmine, quegli altri ch'io vedeva nella chiesa mi parevano visi d'angeli; e di tutti io m'innamorava come di qualcosa di superiore a me. Ah padre! dove troverò io le parole per esprimervi la gioia, il dolore, la speranza, la disperazione ch'io provai un dì, che vi scorsi suora Geltrude?...Ell'era appoggiata ginocchioni a uno scanno innanzi all'immagine di Maria Vergine, e pareva profondata in una preghiera ferventissima. A un tratto sollevò gli occhi al cielo tutti rilucenti di speranza; poi gl'inchinò serenati, come se la sua preghiera fosse stata esaudita. Ed, inchinandoli, li sostenne mollemente qualche istante sulle gelosie che me le nascondevano, come se m'avesse cercata. Poi li ritornò alla cara immagine, in cui li tenea fissi quand'io la scorsi.Ah padre! e non è favola; v'ha qualcosa al mondo ch'è più sublime dell'amore. Il piacere di beneficare, la gratitudine d'essere stato beneficato; ah! questi due soli sentimenti rammentano l'origine divina dell'uomo, e rendono la somiglianza del suo Fattore! E però, credo, sdegnano di albergare questa terra e solo nel cielo si può sperare di ritrovarli.

Mi pare quasi inutile di dirvi, che non sapendo io lavorar nulla da principio, ne anche far la calza o filare, e poscia che l'imparai, spesso a bello studio non essendomi dato lavoro da quelle streghe, nè trovandomi io altro modo di soddisfare a quel grano di più il giorno, ch'era mestieri per aver la minestra, nè dandomi il cuore, così cagionevole com'ero, di rosicchiarmi quel vituperevole tozzo; che, quando il mese della tonacella fu finito, io mi lasciai scroccare in simigliante guisa quel misero spillo d'acciaio, e quel paio di calze ch'avevo; rimanendone a gambe e piedi nudi, e ultimamente quel paio di scarpette, in iscambio delle quali, per non lasciarmi al tutto scalza, fui provveduta d'un paio di zoccoli assai ben vecchi. Nè fu una sola quella settimanao quel mese, ch'io dovetti per filo, a malgrado dell'orrore che ne avevo, contentarmi di quel nefando tozzo di pane. Mi pare inutile ancora di dirvi che suora Geltrude, come poscia riseppi, quel dì medesimo ch'io fui strascinata in quelle grotte, mi aveva mandato per la sua donnicciuola l'altro paio di calze, l'altra sottana, l'altra camicia, e di più di ciò che già mi aveva donato, due moccichini di refe; e tutto mi fu rapito dalle suore, se non che, in quello scambio e in nome di suora Geltrude, mi fu recata una camicia, non veramente quella donatami da lei, ma un'altra di tela più grossa e già assai ben logora; e che non avendo ottenuta la licenza chiesta al duca (il quale, acciocchè dalla partita di lei non rimanesse offesa la sua ducale maestà nella opinione degli ufficiali dell'ospizio, bravandola in pubblico e mitigandola in privato, la riteneva), non lasciava passare mai nè mese nè settimana, ch'ella non mi mandasse qualche soccorso in roba o in danari, ch'era tutto rubato dalle suore.

Questa vita strascinai io per ben undici mesi, morendomi ora di caldo, ora di freddo e sempre di fame; non vedendo anima nata, fuorchè le orride vecchiarde, e le cattivelle e malcondotte giovanette; ed essendo, solo i dì di festa, menata, come pecora insieme con tutta la mandria, in certe paurose buche, donde per fittissime gelosie si udiva la messa nella magnifica chiesa dell'Annunziata. Quella chiesa, udiva dire io, che per instinto naturale ebbi sempre un'ardentissima cupidità di sapere, bruciò nell'anno mille settecento cinquantasette, e dal sessanta all'ottantadue fu rifatta, con assai lode, dal Vanvitelli. Quarantaquattro grandi e belle colonne corintie di marmo bianco facevano un vivo contrasto ai miseri occhi miei con quelle tetre spelonche alle quali eranoassuefatti. Ma il contrasto più grande era fra i visi di uomini e di donne ch'io vedeva nella chiesa, e quelli ch'ero solita di vedere. Quelli e quegli altri non mi pareva possibile che appartenessero alla medesima specie. E non potendo dubitare che quelli che m'erano da presso non fossero stati visi di femmine, quegli altri ch'io vedeva nella chiesa mi parevano visi d'angeli; e di tutti io m'innamorava come di qualcosa di superiore a me. Ah padre! dove troverò io le parole per esprimervi la gioia, il dolore, la speranza, la disperazione ch'io provai un dì, che vi scorsi suora Geltrude?...

Ell'era appoggiata ginocchioni a uno scanno innanzi all'immagine di Maria Vergine, e pareva profondata in una preghiera ferventissima. A un tratto sollevò gli occhi al cielo tutti rilucenti di speranza; poi gl'inchinò serenati, come se la sua preghiera fosse stata esaudita. Ed, inchinandoli, li sostenne mollemente qualche istante sulle gelosie che me le nascondevano, come se m'avesse cercata. Poi li ritornò alla cara immagine, in cui li tenea fissi quand'io la scorsi.

Ah padre! e non è favola; v'ha qualcosa al mondo ch'è più sublime dell'amore. Il piacere di beneficare, la gratitudine d'essere stato beneficato; ah! questi due soli sentimenti rammentano l'origine divina dell'uomo, e rendono la somiglianza del suo Fattore! E però, credo, sdegnano di albergare questa terra e solo nel cielo si può sperare di ritrovarli.


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