XLIII.

La mattina dopo, il dottor Jemma osservò il bambino e lo dichiarò perfettamente sano. Non diede alcuna importanza al fatto della tosse addotto da mia madre. Pur sorridendo delle cure e delle apprensioni eccessive, raccomandò la cautela in quei giorni di freddo crudo, raccomandò la massima prudenza per le lavande e pel bagno.

Ero presente mentre egli parlava di queste cose d'avanti a Giuliana. Due o tre volte i miei occhi s'incontrarono con quelli di lei, in lampi fuggevoli.

Dunque non veniva aiuto dallaProvvidenza. Bisognava operare, bisognava profittare del momento opportuno, affrettare l'evento. Io mi risolsi. Aspettai la sera, deliberato a compiere il delitto.

Raccolsi quanto di energia ancora mi rimaneva, aguzzai la mia perspicacia, studiai tutte le mie parole, tutti i miei atti. Nulla io dissi, nulla io feci che potesse destare sospetto, muovere stupore. La mia circospezione non si rilasciò mai un istante. Non ebbi un istante di debolezza sentimentale. La mia sensibilità interiore era compressa, soffocata. Il mio spirito concentrava tutte le sue facoltà utili nel preparativo per arrivare allo scioglimento di un problema materiale. Bisognava che nella sera per alcuni minuti io fossi lasciato solo con l'intruso, e in certe date condizioni di sicurtà.

Durante il giorno entrai più volte nella stanza della nutrice, Anna era sempre al suo posto, come una custode impassibile. Se io le rivolgevo qualche domanda, ella mi rispondeva con monosillabi. Aveva una voce roca, d'un timbro singolare. Il suo silenzio, la sua inerzia mi irritavano.

Per lo più ella non s'allontanava se non nell'ora dei suoi pasti. Ma era sostituita per lo più da mia madre o da miss Edith o da Cristina o da qualche altra donna di servizio. In quest'ultimo caso io avrei potuto facilmente liberarmi della testimone, dandole un ordine. Ma rimaneva sempre il pericolo che qualcuno sopraggiungesse all'improvviso nel frattempo. E inoltre io ero in balìa della ventura, non potendo io stesso scegliere la persona subentrante. Era probabile che tanto in quella sera quanto nelle sere successive fosse mia madre. D'altronde, mi pareva impossibile prolungare indefinitamente le mie vigilanze e le mie ansietà, stare in agguato per un tempo incerto, vivere nell'aspettazione continua dell'ora funesta.

Mentre ero là perplesso, entrò miss Edith con Maria e Natalia. Le due piccole Grazie, animate dalla corsa all'aria aperta, chiuse nei loro mantelli di zibellino, con su' capelli il tòcco della stessa pelliccia, con le mani guantate, con le guance invermigliate dal freddo, a pena mi videro si gettarono su di me allegre e leggère. E per alcuni minuti la stanza fu piena del loro cinguettio.

—Sai, sono arrivati i montanari—m'annunziò Maria.—Stasera comincia la novena di Natale, nella cappella. Se tu vedessi il presepe che ha fatto Pietro! Sai che la nonna ci ha promesso l'Albero? È vero, miss Edith? Bisogna metterlo nella stanza della mamma…. La mamma sarà guarita per Natale; è vero? Oh, falla guarire!

Natalia s'era fermata a guardare Raimondo; e di tratto in tratto rideva alle smorfie di lui che agitava le gambe senza posa come se volesse liberarsi dalle fasce. Le venne un capriccio.

—Voglio tenerlo in braccio!

E strepitò per averlo. Raccolse tutta la sua forza per reggere il peso; e il suo volto divenne grave, come quando ella faceva da madre alla sua bambola.

—Ora io!—gridò Maria.

E il fratellastro passò dall'una all'altra, senza piangere. Ma a un certo punto, mentre Maria lo portava in giro sorvegliata da Edith, pericolò, fu per sfuggirle dalle mani. Edith lo sostenne, lo riprese, lo restituì alla nutrice che pareva profondamente assorta, lontanissima dalle persone e dalle cose che la circondavano.

Seguendo un mio pensiero segreto, io dissi:

—Dunque stasera comincia la novena….

—Sì, sì, stasera.

Io guardavo Anna che parve scuotersi e prestare un'attenzione insolita al discorso.

—Quanti sono i montanari?

—Cinque—rispose Maria che sembrava minutamente informata di tutto.—Due cornamuse, due ceramelle e un piffero.

E si mise a ridere ripetendo molte volte di seguito l'ultima parola per incitare la sorella.

—Vengono dalla tua montagna—dissi volgendomi ad Anna.—Ce n'è forse qualcuno di Montegorgo….

Gli occhi di lei avevano perduta la loro durezza di smalto, s'erano animati, rilucevano umidi e tristi. Tutto il volto appariva alterato dall'espressione d'un sentimento straordinario. E io compresi ch'ella soffriva e che la nostalgia era il suo male.

S'approssimava la sera. Scesi alla cappella, vidi i preparativi della Novena: il presepe, i fiori, le candele vergini. Uscii senza sapere perché; guardai la finestra della stanza di Raimondo. Camminai a passi rapidi su e giù per lo spiazzo, sperando di domare il tremore convulso, il freddo acuto che mi penetrava le ossa, le contratture che mi serravano lo stomaco vacuo.

Era un crepuscolo glaciale, polito, quasi direi tagliente. Un lividore verdastro si dilatava su l'orizzonte lontano, in fondo alla valle plumbea ove s'internava l'Assoro tortuoso. Il fiume luccicava, solo.

Uno sgomento repentino m'invase. Pensai: "Ho paura?" Mi pareva che qualcuno, invisibile, mi guardasse l'anima. Provavo lo stesso malessere che danno talvolta gli sguardi troppo fissi, magnetici. Pensai: "Ho paura? Di che? Di compiere l'atto o di essere scoperto da qualcuno?" Mi sgomentavano le ombre dei grandi alberi, l'immensità del cielo, i luccichii dell'Assoro, tutte quelle voci vaghe della campagna. Sonò l'Angelus. Rientrai, quasi di fuga, come inseguito.

Incontrai mia madre nell'andito non ancora illuminato.

—Di dove vieni, Tullio?

—Di fuori. Ho passeggiato un poco.

—Giuliana t'aspetta.

—A che ora comincia la Novena?

—Alle sei.

Erano le cinque e un quarto. Mancavano tre quarti d'ora. Bisognava vigilare.

—Vado, mamma.

Dopo qualche passo la richiamai.

—Federico non è tornato?

—No.

Salii alla stanza di Giuliana. Ella m'aspettava. Cristina preparava la piccola tavola.

—Dove sei stato fino a ora?—mi chiese la povera malata, con un lieve tono di rimprovero.

—Sono stato là, con Maria, con Natalia…. Sono stato a vedere la cappella.

—Già, stasera comincia la Novena—ella mormorò tristamente, accorata.

—Di qui potrai sentire forse i suoni.

Ella restò pensosa per qualche istante. Mi sembrò molto triste, d'una di quelle tristezze un po' molli che rivelano un cuore gonfio di pianto, un bisogno di lacrime.

—A che pensi?—le chiesi.

—Mi ricordo del mio primo Natale alla Badiola. Te ne ricordi tu?

Ella era tenera e commossa; e richiamava la mia tenerezza, si abbandonava a me per essere blandita, per essere cullata, perché io le premessi il cuore e le bevessi le lacrime. Conoscevo quei suoi languori dolenti, quei suoi affanni indefiniti. Ma pensavo, ansioso: "Bisogna che lo non la secondi. Bisogna che io non mi lasci legare. Il tempo fugge. Se ella mi prende, mi sarà difficile distaccarmi da lei. Se ella piange, io non potrò allontanarmi. Bisogna che io mi contenga. Il tempo precipita. Chi rimarrà a guardia di Raimondo? Non mia madre, certo. Probabilmente la nutrice. Tutti gli altri si raccoglieranno nella cappella. Qui metterò Cristina. Io sarò sicuro. Il caso non potrebbe essermi più favorevole. Bisogna che fra venti minuti io sia libero."

Evitai di eccitare la malata, finsi di non comprenderla, non corrisposi alle sue effusioni, cercai di distrarla con oggetti materiali, feci in modo che Cristina non ci lasciasse soli come nelle altre sere d'intimità, mi occupai della cena con esagerata premura.

—Perché stasera non mangi con me?—ella mi chiese.

—Non posso prender nulla, ora; non sto bene. Mangia tu qualche cosa; ti prego!

Per quanti sforzi io facessi non riuscivo a dissimulare interamente l'ansietà che mi divorava. Più volte ella mi guardò con l'intenzione manifesta di penetrarmi. Poi d'un tratto s'accigliò, diventò taciturna. Toccò a pena a pena qualche cibo, bagnò a pena a pena le labbra nel bicchiere. Io raccolsi tutto il mio coraggio allora, per andarmene. Finsi di aver udito il rumore d'una vettura. Mi misi in ascolto, dissi:

—Forse è tornato Federico. Ho bisogno di vederlo subito…. Permetti che vada giù un momento. Rimane qui Cristina.

La vidi alterata nel volto come chi sia per rompere in un pianto. Non aspettai il suo consenso. Uscii in fretta; ma non trascurai di ripetere a Cristina che rimanesse fino a che io non fossi risalito.

A pena fuori, fui costretto a fermarmi per resistere alla soffocazione dell'ambascia. Pensai: "Se non riesco a dominare i miei nervi, tutto è perduto." Tesi l'orecchio, ma non udii se non il rombo delle mie arterie. M'avanzai per l'andito fino alle scale. Non incontrai nessuno. La casa era silenziosa. Pensai: "Tutti già sono nella cappella, anche i domestici. Non c'è nulla da temere." Aspettai due o tre minuti ancora, per ricompormi. In quei due o tre minuti l'intensione del mio spirito cadde. Ebbi uno smarrimento strano. Mi passarono pel cervello pensieri vaghi, insignificanti, estranei all'atto che stavo per compiere. Contai macchinalmente i balaustri della ringhiera.

"Certo Anna è rimasta. La stanza di Raimondo non è lontana dalla cappella. I suoni annunzieranno il principio della Novena." Mi diressi verso la porta. Prima di giungervi, udii il preludio delle cornamuse. Entrai senza esitare. Non m'ero ingannato.

Anna stava in piedi, presso la sua sedia, atteggiata in modo così vivo ch'io subito indovinai ch'ella era allora allora balzata in piedi udendo le cornamuse della sua montagna, il preludio della pastorale antica.

—Dorme?—domandai.

Ella m'accennò di sì col capo.

I suoni continuavano, velati dalla distanza, dolci come in un sogno, un po' rochi, lunghi, lenti. Le voci chiare delle ceramelle modulavano la melodia ingenua e indimenticabile su l'accompagnamento delle cornamuse.

—Va anche tu alla Novena—io le dissi.—Resto io qui. Da quanto tempo s'è addormentato?

—Ora.

—Va, va dunque alla Novena.

Gli occhi le brillarono.

—Vado?

—Sì. Resto io qui.

Le aprii la porta io stesso; la chiusi dietro di lei. Corsi verso la culla, su la punta dei piedi; guardai da presso. L'Innocente dormiva nelle sue fasce, supino, tenendo le piccole mani chiuse a pugno col pollice in dentro. A traverso il tessuto delle palpebre apparivano per me le sue iridi grige. Ma non sentii sollevarmi dal profondo nessun impeto cieco di odio né d'ira. La mia avversione contro di lui fu meno acre che nel passato. Mi mancò quell'impulso istintivo che più d'una volta avevo sentito correre fino alle estremità delle mie dita pronte a qualunque violenza criminale. Io non obedii se non all'impulso d'una volontà fredda e lucida, in una perfetta consapevolezza.

Tornai alla porta, la riaprii; m'assicurai che l'andito era deserto. Corsi allora alla finestra. Mi vennero alla memoria alcune parole di mia madre; mi balenò il dubbio che Giovanni di Scòrdio potesse trovarsi là sotto, nello spiazzo. Con infinite precauzioni aprii. Una colonna d'aria gelata m'investì. Mi sporsi sul davanzale, ad esplorare. Non vidi nessuna forma sospetta, non udii se non i suoni della Novena diffusi. Mi ritrassi, mi avvicinai alla culla, vinsi con uno sforzo l'estrema ripugnanza; presi adagio adagio il bambino, comprimendo l'ansia; tenendolo discosto dal mio cuore che batteva troppo forte, lo portai alla finestra; l'esposi all'aria che doveva farlo morire.

Non mi smarrii; nessuno dei miei sensi s'oscurò. Vidi le stelle del cielo che oscillavano come se un vento superno le agitasse; vidi i moti illusorii ma terrifici che la luce mobile della lampada metteva nella portiera; udii distintamente la ripresa della pastorale, i latrati d'un cane lontano. Un guizzo del bambino mi fece trasalire. Egli si svegliava.

Pensai: "Ora piange. Quanto tempo è passato? Un minuto, forse; né pure un minuto. Basterà quest'impressione breve perché egli muoia? È stato egli colpito?" Il bambino agitò le braccia d'innanzi a sé, storse la bocca, l'aprì; tardò un poco a emettere il vagito che mi parve mutato, più esile, più tremulo, ma forse soltanto perché sonava in un'aria diversa mentre io l'avevo udito sempre in luoghi chiusi. Quel vagito esile, tremulo, m'empì di sgomento, mi diede a un tratto una paura folle. Corsi alla culla, posai il bambino. Tornai alla finestra per chiuderla; ma prima di chiuderla, mi sporsi sul davanzale, gittai nell'ombra uno sguardo, non vidi null'altro che le stelle. Chiusi. Benché incalzato dal pànico, evitai il rumore. E dietro di me il bambino piangeva, piangeva più forte. "Sono salvo?" Corsi alla porta, guardai nell'andito, origliai. L'andito era deserto; passava l'onda lenta dei suoni.

"Sono salvo dunque. Chi può avermi veduto?" Pensai ancora a Giovanni di Scòrdio, guardando la finestra; ebbi ancora un'inquietudine. "Ma no, giù non c'era nessuno. Ho guardato due volte." Mi ravvicinai alla culla, raddrizzai il corpo del bambino, lo copersi con cura, m'assicurai che nulla era fuor di posto. Ora però avevo una ripugnanza invincibile ai contatti. Egli piangeva, piangeva. Che potevo fare per quietarlo? Aspettai.

Ma quel vagito continuo in quella grande stanza solitaria, quel lagno inarticolato della vittima ignara mi straziava così atrocemente che non potendo più resistere m'alzai per sottrarmi in qualche modo alla tortura. Uscii nell'andito, socchiusi la porta dietro di me; rimasi là vigilando. La voce del bambino giungeva a a pena a pena, si confondeva nell'onda lenta dei suoni. I suoni continuavano, velati dalla lontananza, dolci come in un sogno, un po' rochi, lunghi, lenti. Le voci chiare delle ceramelle modulavano la melodia semplice su l'accompagnamento delle cornamuse. La pastorale si spandeva per la grande casa pacifica, giungeva forse alle stanze più remote.—L'udiva Giuliana? Che pensava, che sentiva Giuliana? Piangeva?

Non so perché, m'entrò nel cuore questa certezza: "Ella piange." E dalla certezza nacque una visione intensa che mi diede una sensazione reale e profonda. I pensieri e le imagini che mi attraversavano il cervello erano incoerenti, frammentarii, assurdi, composti di elementi che l'uno all'altro non rispondevano, inafferrabili, d'una natura dubbia. M'assalì la paura della follia. Mi domandai: "Quanto tempo è passato?" E m'accorsi che avevo completamente smarrita la nozione del tempo.

I suoni cessarono. Pensai: "La divozione è finita. Anna sta per risalire. Verrà forse mia madre. Raimondo non piange più!" Rientrai nella stanza, gittai uno sguardo in torno per assicurarmi ancora una volta che non rimaneva alcuna traccia dell'attentato. M'appressai alla culla, non senza un vago timore di trovare il bambino esanime. Egli dormiva, supino, tenendo le piccole mani chiuse a pugno col pollice in dentro. "Dorme! È incredibile. Pare che nulla sia accaduto." Quel che avevo fatto parve assumere l'inesistenza d'un sogno. Ebbi come un mancamento repentino di pensieri, un intervallo vacuo, aspettando.

A pena riconobbi nell'andito il passo greve della nutrice, le andai in contro. Mia madre non la seguiva. Senza guardarla in faccia, le dissi:

—Dorme ancora.

E m'allontanai rapidamente: salvo!

Da quell'ora s'impadronì del mio spirito una specie d'inerzia quasi stupida, forse perché ero esausto, sfinito, incapace d'altri sforzi. La mia conscienza perse la sua terribile lucidezza, la mia attenzione s'indebolì, la mia curiosità non fu pari all'importanza degli avvenimenti che si svolgevano. I miei ricordi, in fatti, sono confusi, scarsi, composti d'imagini non bene distinte.

Quella sera rientrai nell'alcova, rividi Giuliana, mi trattenni al suo capezzale per qualche tempo. Durai una gran fatica a parlare. Le chiesi, guardandola negli occhi:

—Hai pianto?

Ella rispose:

—No.

Ma era più triste di prima. Era pallida come la sua camicia. Le chiesi:

—Che hai?

Ella rispose:

—Nulla. E tu?

—Io non mi sento bene. Mi duole tanto il capo….

Una immensa stanchezza mi prostrava; tutte le membra mi pesavano. Reclinai il capo sul lembo del guanciale; rimasi alcuni minuti in quell'atto oppresso da una pena indefinita. Sussultai udendo la voce di Giuliana che diceva:

—Tu mi nascondi qualche cosa.

—No, no. Perché?

—Perchésentoche tu mi nascondi una cosa.

—No, no; t'inganni.

—M'inganno.

Tacque. Appoggiai di nuovo il capo sul lembo. Dopo alcuni minuti ella mi disse all'improvviso:

—Tulovedi spesso.

Mi sollevai per guardarla, sbigottito.

—Per volontà tua vai a vederlo, vai a cercarlo—ella soggiunse.—Lo so. Anche oggi….

—E bene?

—Ho paura di questo, ho paura per te. Io ti conosco. Tu ti tormenti, tu vai là a tormentarti, vai a divorarti il cuore…. Io ti conosco. Ho paura, Tu non sei rassegnato, no, no; tu non puoi essere rassegnato. Non m'inganni, Tullio. Anche stasera, dianzi, tu sei stato là….

—Come lo sai?

—Lo so, losento.

Il sangue mi s'era ghiacciato.

—Vorresti tu che mia madre sospettasse? Vorresti tu che s'accorgesse d'un'avversione?

Parlavamo sottovoce. Anch'ella aveva l'aria sbigottita. E io pensavo:"Ecco, ora entra mia madre stravolta gridando:—Raimondo muore!—"

Entrarono Maria e Natalia con miss Edith. E l'alcova si rallegrò del loro cinguettio. Parlarono della cappella, del presepe, delle candele, delle cornamuse, minutamente.

Lasciai Giuliana per ritirarmi nella mia camera, protestando il dolor di capo. Come fui sul letto, la stanchezza mi vinse quasi subito. Dormii profondo, molte ore.

La luce del giorno mi trovò calmo tenuto da una strana indifferenza, da una incuriosità inesplicabile. Nessuno era venuto a interrompermi il sonno, dunque nulla di straordinario era accaduto. Gli avvenimenti della vigilia mi apparivano irreali e lontanissimi. Sentivo un distacco immenso tra me e il mio essere anteriore, tra quel che ero e quel che ero stato. C'era una discontinuità tra il periodo passato e il presente della mia vita psichica. E io non facevo alcuno sforzo per raccogliermi, per comprendere il fenomeno singolare. Avevo ripugnanza per qualunque attività; cercavo di conservarmi in quella specie d'apatia fittizia sotto la quale giaceva il viluppo oscuro di tutte le agitazioni trascorse; evitavo d'investigarmi, per non risvegliare quelle cose che parevano morte, che parevano non appartenere più alla mia esistenza reale. Somigliavo un poco a quei malati che, avendo perduta la sensibilità d'una metà del corpo, si figurano d'avere al loro fianco, nel loro letto, un cadavere.

Ma venne Federico a battere alla mia porta. Entrò. Che nuova mi portava? La sua presenza mi scosse.

—Iersera non ci vedemmo—disse.—Tornai tardi. Come stai?

—Né bene né male.

—Iersera ti doleva il capo. È vero?

—Sì: per questo andai a letto presto.

—Sei un po' verde, stamani. Oh, mio Dio, quando finirà la disgrazia? Tu non stai bene, Giuliana è sempre a letto, ho incontrata la mamma or ora tutta sconvolta perché Raimondo stanotte ha tossito!

—Ha tossito?

—Già. Si tratta probabilmente d'un po' di raffreddore; ma la mamma, al solito, esagera….

—È venuto il medico?

—Non ancora. Ma mi pare che tu sia peggio della mamma.

—Sai, qualunque apprensione, quando si tratta di bambini, è giustificabile. Un nulla basta….

Egli mi guardava con i suoi limpidi occhi glauchi, e io ne avevo sgomento e vergogna.

Quando se n'andò, balzai dal letto. Pensavo: "Dunque gli effetti cominciano; dunque non c'è più dubbio. Ma quanto tempo ancora vivrà? È anche possibile che non muoia…. Ah no, è impossibile che non muoia. L'aria era gelata, mozzava il respiro." E rividi dentro di me il bambino respirante, la piccola bocca socchiusa, la fossetta della gola.

Il dottore diceva:

—Non c'è nessun motivo d'inquietudine. Si tratta d'un raffreddore leggerissimo. I bronchi sono liberi.

Egli si chinò di nuovo sul petto denudato di Raimondo ad ascoltare.

—Manca assolutamente qualunque rumore. Potete assicurarvene voi stesso, col vostro orecchio—soggiunse volgendosi a me.

Anch'io appoggiai l'orecchio sul fragile petto, e ne sentii il tepore blando.

—In fatti….

E guardai mia madre che trepidava dall'altra parte della culla.

I soliti sintomi della bronchite mancavano. Il bambino era tranquillo, aveva qualche lieve accesso di tosse a lunghi intervalli, prendeva il latte con la frequenza consueta, dormiva d'un sonno grave ed eguale. Io stesso, ingannato dalle apparenze, dubitavo: "Dunque il mio tentativo è stato inutile. Pare ch'egli non debba morire. Che vita tenace!" E mi tornò il rancore primitivo contro di lui, più acre. Il suo aspetto calmo e roseo mi esasperò. Avevo dunque sofferto tutte quelle angosce, m'ero esposto a quel pericolo per nulla! Si mesceva alla mia collera sorda una specie di stupore superstizioso per la straordinaria tenacità di quella vita: "Credo che non avrò il coraggio di ricominciare. E allora? Sarò io la sua vittima; e non potrò sfuggirgli." E il piccolo fantasma perverso, il fanciullo bilioso e felino, pieno d'intelligenza e d'istinti malvagi, mi riapparve; di nuovo mi fissò con i suoi duri occhi grigi, in atto di sfida. E le scene terribili nell'ombra delle stanze deserte, le scene che aveva un tempo create la mia imaginazione ostile, mi si ripresentarono; di nuovo assunsero il rilievo, il movimento, tutti i caratteri della realtà.

Era una giornata bianca, con un presentimento di neve. L'alcova di Giuliana mi parve ancora un rifugio. L'intruso non doveva uscire dalla sua stanza, non poteva venire a perseguitarmi fin là dentro. E io m'abbandonai tutto alla mia tristezza senza nasconderla.

Pensavo, guardando la povera malata: "Ella non guarirà, non si leverà." Le strane parole della sera innanzi mi tornavano alla memoria, mi turbavano. Senza dubbio, l'intruso era per lei un carnefice com'era per me. Senza dubbio, ella non poteva pensare ad altro che a lui, morendone a poco a poco. Tutto quel peso su quel cuore così debole!

Con la discontinuità delle imagini che si svolgono nel sogno, si risollevavano nel mio spirito alcuni frammenti della vita passata: ricordi d'un'altra malattia, d'una lontana convalescenza. Mi indugiai a ricomporre quei frammenti, a ricostrurre quel periodo così dolce e così doloroso in cui avevo gittato il seme della mia sventura. La diffusa bianchezza della luce mi rammentava quel pomeriggio lento che io e Giuliana avevamo passato leggendo un libro di poesia, chinandoci insieme su la stessa pagina, seguendo con gli occhi la stessa riga. E io rivedevo il suo indice affilato sul margine e il segno dell'unghia.

"Accueillez la voix qui persisteDans son naïf épithalame.Allez, rien n'est meilleur à l'âmeQue de faire une âme moins triste!"

"Io le presi il polso; e chinando il capo lentamente, fino a porre le labbra nel cavo della sua mano, mormorai:

—Tu…. potresti dimenticare?

Ella mi chiuse la bocca, e pronunziò la sua gran parola:

—Silenzio."

Rivivevo quel lembo di vita, in sensazione reale e profonda; e continuavo, continuavo a rivivere, giungevo alla mattina della prima levata, alla mattina terribile. Riudivo la voce ridente e interrotta; rivedevo il gesto dell'offerta, e lei stesa nella poltrona dopo il colpo improvviso, e il séguito. Perché la mia anima non poteva più distaccare da sé quelle imagini? Era vano, era vano il rimpianto. "Troppo tardi."

—A che pensi?—mi chiese Giuliana che forse fino allora, durante il mio silenzio, non d'altro aveva sofferto che della mia tristezza.

Io non le nascosi il mio pensiero. Ella disse, con una voce che le usciva dall'intimo petto fioca ma più penetrante d'un grido:

—Ah, io avevo i cieli per te nella mia anima!

Soggiunse, dopo una pausa lunga in cui ella forse aveva assorbito nel cuore le lacrime che non apparivano:

—Ora, io non posso consolarti! Non c'è consolazione per te né per me; non ci potrà esser mai…. Tutto è perduto.

Io dissi:

—Chi sa!

E ci guardammo; ed era manifesto che ambedue pensavamo in quel punto alla medesima cosa: alla possibile morte di Raimondo.

Esitai un istante; e poi volli domandarle, alludendo al dialogo avvenuto una sera sotto gli olmi:

—Hai pregato Iddio?

La voce mi tremava forte.

Ella rispose (l'udii a pena):

—Sì.

E chiuse gli occhi, e si voltò sul fianco, affondò la testa nel guanciale, si ritrasse, si ristrinse in sé stessa sotto le coperte, come presa da un gran freddo.

Verso sera andai a rivedere Raimondo. Lo trovai su le braccia di mia madre. Mi parve un poco più pallido; ma era ancora molto tranquillo, respirava bene, non aveva alcun segno sospetto.

—Ha dormito fino a ora!—mi disse mia madre.

—T'inquieti di questo?

—Sì, perché non ha mai dormito tanto.

Io guardavo il bambino fissamente. I suoi occhi grigi erano senza vivezza, sotto la fronte sparsa di leggere croste biancastre. Egli moveva di continuo le labbra, come biasciando. A un tratto, riversò un po' di latte grumoso sul bavaglio.

—Ah, no, no, questo bambino non sta bene—esclamò mia madre, scotendo il capo.

—Ma ha tossito?

Come per rispondermi, Raimondo si mise a tossire.

—Senti?

Era una piccola tosse fioca, non accompagnata da nessun rumore degli organi interni. Durò pochissimo.

Io pensai: "Bisogna aspettare." Ma, come risorgeva in me il presagio funesto, la mia avversione contro l'intruso diminuiva, si placava la mia acredine. M'accorgevo che il mio cuore rimaneva stretto e misero, incapace di esultanze.

Mi ricordo di quella sera come della più triste ch'io abbia mai passata nel corso della mia sventura.

Nel dubbio che Giovanni di Scòrdio fosse pei dintorni, uscii dalla casa, m'inoltrai pel viale dove l'avevamo incontrato io e mio fratello quell'altra volta. Nel chiarore del crepuscolo era l'annunzio della prima neve. Lungo la fila degli alberi si stendeva un tappeto di foglie. I nudi rami stecchiti frastagliavano il cielo.

Guardavo innanzi a me, sperando di scorgere la figura del vecchio. Pensavo alla tenerezza del vecchio pel suo figlioccio, a quel desolato amore senile, a quelle grosse mani callose e rugose che avevo visto ingentilirsi e tremare su le fasce bianche. Pensavo: "Come piangerebbe!" Vedevo il morticino in fasce disteso su la bara tra corone di crisantemi bianchi, tra quattro candele accese; e Giovanni inginocchiato piangere. "Mia madre piangerà, sarà disperata. Tutta la casa cadrà nel lutto. Il Natale sarà funebre. Che farà Giuliana quando io comparirò sul limitare dell'alcova, a piè del letto, e le annunzierò:—È morto—?"

Ero giunto al limite del viale. Guardai; non vidi nessuno. La campagna s'immergeva nell'ombra, silenziosa; un fuoco rosseggiava su la collina, in lontananza. Tornai in dietro, solo. A un tratto, qualche cosa di bianco mi tremolò d'avanti agli occhi, si dileguò. Era la prima neve.

E più tardi, mentre stavo al capezzale di Giuliana, riudii le cornamuse che proseguivano la Novena,alla medesima ora.

La sera passò, la notte passò, la mattina seguente passò. Nulla di straordinario accadde. Ma, nella sua visita al bambino, il medico non nascose che esisteva un catarro delle narici e dei bronchi maggiori: un'affezione leggèra, senza importanza. M'accorsi però ch'egli voleva dissimulare una certa inquietudine. Diede alcune istruzioni, raccomandò la massima cautela, promise di tornare nella giornata. Mia madre non aveva requie.

Entrando nell'alcova, io dissi a Giuliana, sotto voce, senza guardarla in viso:

—Sta peggio.

Non parlammo più, per lungo tempo. A quando a quando io m'alzavo e andavo alla finestra per guardare la neve. Giravo per la camera, in preda a un'ansietà insostenibile. Giuliana teneva il capo affondato nel guanciale, stava quasi tutta nascosta sotto le coperte. Se m'avvicinavo, ella apriva gli occhi e mi dava uno sguardo rapido dove io non potevo leggere.

—Hai freddo?

—Sì.

Ma la stanza era tiepida. Tornavo sempre alla finestra per guardare la neve, la campagna imbiancata su cui continuavano a cadere i fiocchi lenti. Erano le due dopo mezzogiorno. Che avveniva nella stanza del bambino? Nulla di straordinario, certo, perché nessuno veniva a chiamarmi. Ma l'ansietà mi cresceva così che risolsi di andare a vedere. Aprii l'uscio.

—Dove vai?—mi gridò Giuliana sollevandosi sul gomito.

—Vadodi là, un momento. Vengo subito.

Ella rimaneva sollevata sul gomito, pallidissima.

—Non vuoi?—le chiesi.

—No: resta con me.

Ella non si lasciava ricadere sul guanciale. Uno strano sbigottimento le alterava il volto; i suoi occhi vagavano inquieti, come dietro a qualche ombra mobile. M'avvicinai, io stesso la riadagiai supina, le toccai la fronte, le domandai con dolcezza:

—Che hai, Giuliana?

—Non so. Ho paura….

—Di che?

—Non so. Non ne ho colpa; sono malata; sono così.

Ma i suoi occhi vagavano invece di fissarmi.

—Che cerchi? Vedi qualche cosa?

—No, nulla.

Le toccai di nuovo la fronte. Aveva il calor naturale. Ma la mia imaginazione incominciava a turbarsi.

—Vedi, non ti lascio; resto con te.

Sedetti, aspettai. Lo stato del mio animo era una sospensione angosciosa nell'attesa di un evento prossimo. Io ero sicuro che qualcuno sarebbe venuto a chiamarmi. Tendevo l'orecchio a qualunque lieve strepito. Udivo di tanto in tanto sonare nella casa i campanelli. Udii il rumore sordo d'una vettura su la neve. Dissi:

—Forse è il medico.

Giuliana non fiatò. Aspettai. Passò un tempo indefinito. A un tratto, udii un rumore di porte che s'aprivano, un suono di passi che s'avvicinavano. Balzai in piedi. Giuliana si sollevò, nel tempo medesimo.

—Che sarà?

Ma io già sapevo quel che era, io sapevo perfino le parole precise che mi avrebbe dette la persona entrando.

Cristina entrò. Appariva stravolta ma cercava di dissimulare la sua agitazione. Balbettò, senza avanzarsi verso di noi, rivolgendosi a me con lo sguardo:

—Senta una parola, signore.

Uscii dall'alcova.

—Che c'è?

Sotto voce, ella aggiunse:

—Il bambino sta male. Corra.

—Giuliana, vado di là un momento. Ti lascio Cristina. Torno subito.

Uscii. Arrivai di corsa nella stanza di Raimondo.

—Ah, Tullio, il bambino muore!—gridò mia madre disperata, curva su la culla.—Guardalo! Guardalo!

Mi curvai anch'io su la culla. Era avvenuto un cambiamento repentino, inaspettato, inesplicabile in apparenza, spaventevole. La piccola faccia era diventata d'un colore cinereo, le labbra s'erano illividite, gli occhi s'erano come appassiti, appannati, spenti. La povera creatura pareva sotto l'azione d'un veleno violento.

Mi raccontava mia madre, con la voce interrotta:

—Un'ora fa, stava quasi bene. Tossiva sì, ma non aveva altro. Mi sono allontanata, ho lasciata qui Anna. Credevo di ritrovarlo addormentato. Pareva che gli fosse venuto il sonno…. Torno e lo vedo in questo stato. Sentilo: è quasi freddo!

Io gli toccai la fronte, una guancia. La temperatura della pelle era in fatti diminuita.

—E il medico?

—Non è ancora venuto! Ho mandato a chiamarlo.

—Un uomo a cavallo ci voleva.

—Sì, è andato Ciriaco.

—A cavallo? Sei sicura? Non c'è tempo da perdere.

Non era una simulazione la mia. Ero sincero. Non potevo lasciar morire così quell'innocente, senza soccorrerlo, senza fare un tentativo per salvarlo. D'innanzi a quell'aspetto quasi cadaverico, mentre il mio delitto stava per compiersi, la pietà, il rimorso, il dolore mi afferrarono l'anima. Non ero meno smanioso di mia madre, aspettando il medico. Sonai il campanello. Si presentò un domestico.

—È partito Ciriaco?

—Sì, signore.

—A piedi?

—No, signore; in calesse.

Federico sopraggiunse, ansante.

—Che è accaduto?

Gridò mia madre, sempre curva su la culla:

—Il bambino muore!

Federico accorse, guardò.

—Soffoca—egli disse.—Non vedete? Non respira più.

E afferrò il bambino, lo tolse dalla culla, lo sollevò, lo scosse.

—No, no! Che fai? Tu l'uccidi—gridò mia madre.

In quel punto la porta s'aprì e una voce annunziò:

—Il medico.

Entrò il dottor Jemma.

—Stavo per arrivare. Ho incontrato il calesse. Che c'è?

Senza aspettare la risposta, s'avvicinò a mio fratello che teneva ancora su le braccia Raimondo; glie lo levò, l'esaminò, si oscurò in viso. Disse:

—Calma! Calma! Bisogna sfasciarlo.

E lo posò sul letto della nutrice, aiutò mia madre a toglierlo dalle fasce.

Il corpicciuolo nudo apparve. Aveva lo stesso colore cinereo del volto. Le estremità pendevano rilasciate, flosce. La mano grassa del medico palpò la pelle qua e là.

—Fategli qualche cosa, dottore!—supplicava mia madre.—Salvatelo!

Ma il medico pareva irresoluto. Tastò il polso, appoggiò l'orecchio sul petto, mormorò:

—Un vizio del cuore…. Impossibile.

Domandò:

—Ma com'è sopravvenuto questo cambiamento? All'improvviso?

Mia madre volle raccontargli come, ma prima di finire scoppiò a piangere. Il medico si risolse a far qualche tentativo. Cercò di scuotere il torpore in cui era immerso il bambino, cercò di eccitarlo a gridare, di produrre il vomito, di richiamare un moto respiratorio energico. Mia madre stava a guardarlo, con gli occhi sbarrati da cui sgorgavano le lacrime.

—Giuliana lo sa?—mi chiese mio fratello.

—No, forse no…. forse ha indovinato…. forse Cristina…. Resta qui tu. Corro a vedere; poi torno.

Guardai il bambino tra le mani del medico, guardai mia madre; uscii dalla stanza; corsi a Giuliana. D'innanzi alla porta mi fermai: "Che le dirò? Le dirò il vero?" Entrai, vidi che Cristina era nel vano della finestra; mi presentai nell'alcova, che le cortine ora chiudevano. Ella stava rattratta sotto le coperte. Essendomi avvicinato, m'accorsi ch'ella tremava come nel ribrezzo della febbre.

—Giuliana, vedi: sono qui.

Ella si scoperse, e volse la faccia verso di me. Mi domandò sotto voce:

—Vienidi là?

—Sì.

—Dimmi tutto.

Io m'ero chinato su lei; e ci parlavamo da vicino, sommessamente.

—Sta male.

—Molto?

—Sì, molto.

—Muore?

—Chi sa! Forse.

Ella con un moto subitaneo mise fuori le braccia e mi si avviticchiò al collo. La mia guancia premeva la sua; e io la sentivo tremare, sentivo la gracilità di quel povero petto malato; e dentro mi balenavano, mentre stavo così stretto da lei, visioni della stanza lontana: vedevo gli occhi del bambino appassiti appannati opachi, le labbra livide; vedevo scorrere le lacrime di mia madre. Nessuna gioia era in quell'allacciamento. Il mio cuore era serrato; la mia anima era disperata ed erasola, così china su l'abisso oscuro di quell'altra anima.

Quando la sera cadde, Raimondo non viveva più. Tutti i segni d'una intossicazione acuta di acido carbonico erano in quel corpicciuolo incadaverito. La piccola faccia era livida, quasi plumbea; il naso era affilato; le labbra avevano una cupa tinta cerulea; un po' di bianco opaco s'intravedeva di sotto alle palpebre ancora semichiuse; su una coscia, presso l'inguine, appariva una chiazza rossastra. Pareva che fosse già incominciato il disfacimento, tanto era miserabile l'aspetto di quella carne infantile che poche ore innanzi tutta rosea e tenera le dita di mia madre avevano accarezzata.

Mi rombavano negli orecchi i gridi, i singhiozzi, le parole insensate che mia madre proferiva mentre Federico e le donne la trasportavano fuori.

—Nessuno lo tocchi, nessuno lo tocchi! Io voglio lavarlo, io voglio fasciarlo…. io….

Nulla più. I gridi erano cessati. Giungeva a quando a quando uno sbattere di usci. Ero là, solo. Anche il medico era nella stanza; ma io ero solo. Qualche cosa di straordinario avveniva in me; ma io non ci vedevo ancora.

—Andate—mi disse il medico, dolcemente, toccandomi una spalla—andate via di qui. Andate.

Io fui docile; obedii. M'allontanavo per l'andito con lentezza, quando mi sentii di nuovo toccare. Ed era Federico; e mi abbracciò. Ma io non piansi, non provai una commozione forte, non compresi le parole ch'egli proferiva. Udii però nominare Giuliana.

—Conducimi da Giuliana—gli dissi.

Misi il braccio sotto il suo, mi lasciai condurre come un cieco.

Quando fummo dinnanzi alla porta, gli dissi:

—Lasciami.

Egli mi strinse forte il braccio; poi mi lasciò. Entrai solo.

Nella notte il silenzio della casa era sepolcrale. Un lume ardeva nell'andito. Io camminavo verso quel lume, come un sonnambulo. Qualche cosa di straordinario avveniva in me; ma io non ci vedevo ancora.

Mi fermai, quasi avvertito da un istinto. Un uscio era aperto: un chiarore trapelava per la tenda abbassata. Varcai la soglia; scostai la tenda; mi avanzai.

La culla era nel mezzo della camera, fra quattro candele accese, parata di bianco. Mio fratello seduto da un lato, Giovanni di Scòrdio dall'altro vegliavano. La presenza del vecchio non mi recò stupore. Mi parve naturale ch'egli fosse là; non gli chiesi niente; non dissi niente. Credo che un poco sorrisi a loro che mi guardavano. Non so veramente se le mie labbra sorrisero, ma io n'ebbi intenzione come per significare: "Non vi prendete pena di me, non cercate di consolarmi. Vedete: io sono calmo. Possiamo tacere." Feci qualche passo; andai a mettermi a piè della culla, tra le due candele; portai a piè della culla la mia anima pavida umile debole, interamente orbata della sua vista primitiva. Mio fratello e il vecchio erano ancora là, ma io ero solo.

Il morticino era vestito di bianco: della stessa veste battesimale, o mi parve. Il viso e le mani soltanto erano scoperti. La piccola bocca, che col vagito aveva tante volte esasperato il mio odio, sotto il suggello misterioso era immobile. Il silenzio medesimo che era in quella piccola bocca era dentro di me, era intorno a me. E io guardavo, guardavo.

Allora, dal silenzio, una gran luce si fece dentro di me, nel centro della mia anima.Io compresi.La parola di mio fratello, il sorriso del vecchio non avevano potuto rivelarmi quel che mi rivelò in un attimo la piccola bocca muta dell'Innocente.Io compresi. E allora m'assalì un terribile bisogno di confessare il mio delitto, di palesare il mio segreto, d'affermare al conspetto di quei due uomini:—Io l'ho ucciso.

Ambedue mi guardavano; e io m'accorsi che ambedue erano ansiosi per me, per la mia attitudine d'innanzi al cadavere, che ambedue aspettavano la fine di quella mia immobilità ansiosi. Dissi allora:

—Sapete voi chi ha ucciso quest'innocente?

La voce nel silenzio ebbe un suono così strano che parve irriconoscibile anche a me medesimo; mi parve che non fosse mia. E un terrore subitaneo m'agghiacciò il sangue, m'irrigidì la lingua, m'oscurò la vista. E mi misi a tremare. E sentii che mio fratello mi sorreggeva, mi toccava la fronte. Avevo negli orecchi un rombo così forte che le sue parole mi giungevano indistinte, interrotte. Compresi ch'egli mi credeva perturbato da un parosismo febrile e che cercava di condurmi via. Mi lasciai condurre.

Mi condusse alla mia stanza sorreggendomi. Il terrore mi teneva ancora. Vedendo una candela che ardeva sola su un tavolo, trasalii. Non mi ricordavo d'averla lasciata accesa.

—Spògliati, mettiti a letto—mi disse Federico, traendomi con tenerezza per le mani.

Mi fece sedere sul letto, mi toccò di nuovo la fronte.

—Senti? La febbre ti cresce. Cominciati a spogliare. Su, via!

Con una tenerezza che mi ricordava quella di mia madre, egli mi aiutava a svestirmi. Mi aiutò a coricarmi. Seduto al mio capezzale, mi toccava a quando a quando la fronte per sentire la mia febbre; mi domandava, sentendomi ancora tremare:

—Hai molto freddo? Non ti cessano i brividi? Vuoi che ti copra meglio? Hai sete?

Io consideravo, rabbrividendo: "Se avessi parlato! Se avessi potuto continuare! Sono stato proprio io, con le mie labbra, che ho pronunziato quelle parole? Sono stato proprio io? E se Federico, ripensando, riflettendo, fosse preso da un dubbio? Ho domandato:—Sapete voi chi ha ucciso quest'innocente?—e null'altro. Ma non avevo io l'aspetto d'un assassino confesso? Ripensando, Federico dovrà certo chiedersi:—Che voleva egli intendere? Contro chi andava la sua strana accusa?—E la mia esaltazione gli sembrerà oscura. Il medico!…. Bisognerebbe ch'egli pensasse:—Ha voluto alludere al medico, forse.—E bisognerebbe ch'egli avesse qualche altra prova della mia esaltazione, ch'egli seguitasse a credermi perturbato dalla febbre, in uno stato di delirio intermittente." Mentre così ragionavo, imagini rapide e lucide mi attraversavano lo spirito e avevano un'evidenza di cose reali, tangibili: "Ho la febbre, e alta. Se sopravvenisse il vero delirio e inconscio io rivelassi il segreto!" Mi sorvegliavo con un'ansietà paurosa. Dissi:

—Il medico, il medico…. non ha saputo….

Mio fratello si chinò su di me, mi toccò di nuovo, inquietamente, sospirando.

—Non ti tormentare, Tullio. Càlmati.

E andò a bagnare una pezzuola nell'acqua fredda, me la mise su la fronte che ardeva.

Il passaggio delle imagini rapide e lucide continuava. Rivedevo, con una terribile intensità di visione, l'agonia del bambino.—Era là agonizzante, nella culla. Aveva il viso cinereo, d'un colore così smorto che su i sopraccigli le croste del lattime parevano gialle. Il suo labbro inferiore depresso non si vedeva più. Di tratto in tratto egli sollevava le palpebre divenute un po' violette e sembrava che le iridi vi aderissero perché le seguivano nel sollevarsi e vi si perdevano sotto mentre appariva il bianco opaco. Il rantolo fioco di tratto in tratto cessava. A un certo punto, il medico diceva, come per un ultimo tentativo:

—Su, su, trasportiamo la culla vicino alla finestra, alla luce.Largo, largo! Il bambino ha bisogno di aria. Largo!

Io e mio fratello trasportavamo la culla che pareva una bara. Ma alla luce lo spettacolo era più atroce: a quella fredda luce candida della neve diffusa. E mia madre:

—Ecco muore! Vedete, vedete: muore! Sentite: non ha più polso.

E il medico:

—No, no. Respira. Finché c'è fiato, c'è speranza. Coraggio!

E introduceva tra le labbra livide del morente un cucchiaino d'etere. Dopo qualche attimo, il morente riapriva gli occhi, torceva in alto le pupille, metteva un vagito fioco. Avveniva una leggera mutazione nel suo colore. Le sue narici palpitavano.

E il medico:

—Non vedete? Respira. Fino all'ultimo non bisogna disperare.

Ed agitava l'aria su la culla con un ventaglio: poi premeva con un dito il mento del bambino per abbassargli il labbro, per aprirgli la bocca. La lingua, che era aderente al palato, si abbassava come una valvoletta; e io intravedevo i fili del muco che si distendevano tra il palato e la lingua, la materia biancastra accumulata nel fondo. Un moto convulso rialzava verso il viso quelle piccole piccole mani divenute violette specialmente nella palma, nelle piegature delle falangi, nelle unghie; quelle mani già incadaverite che mia madre toccava ad ogni momento. Nella destra il mignolo stava sempre discosto dalle altre dita e aveva un lieve tremito all'aria; e nulla era più straziante.

Federico cercava di persuadere mia madre a uscire dalla stanza. Ma ella si chinava sul viso di Raimondo, fin quasi a toccarlo; spiava ogni segno. Una delle sue lacrime cadeva sul capo adorato. Ella subito l'asciugava col fazzoletto, ma s'accorgeva che nel cranio la fontanella s'era abbassata, era divenuta cava.

—Guardate, dottore!—gridava esterrefatta.

E i miei occhi si fissavano su quel cranio molle, sparso di crosta lattea, giallognolo, simile a un pezzo di cera segnata nel mezzo da un incavo. Tutte le suture erano visibili. La vena temporale, cerulea, si perdeva sotto la crosta.

—Guardate! Guardate!

La lieve reviviscenza fittizia provocata dall'etere si spegneva. Il rantolo aveva ora un suono particolare. Le manine cadevano lungo i fianchi, inerti; il mento si faceva più depresso; la fontanella si faceva più profonda, senza alcun palpito. E a un tratto il morente dava segno d'uno sforzo; il dottore subito gli sollevava il capo. E usciva dalla boccuccia paonazza un po' di liquido biancastro. Ma nello sforzo del vomito la pelle della fronte tendendosi, apparivano a traverso la cute le macchie scure della stasi. Mia madre gittava un grido.

—Andiamo, andiamo. Vieni via con me—le ripeteva mio fratello, tentando di trascinarla.

—No, no, no.

E il medico dava un altro cucchiaino di etere. E l'agonia si prolungava, e lo strazio si prolungava. Le manine si risollevavano ancora, le dita si movevano vagamente; tra le palpebre socchiuse le iridi apparivano e sparivano ritraendosi come due fiorellini appassiti, come due piccole corolle che si richiudessero flosce raggrinzandosi.

Cadeva la sera, innanzi all'agonia dell'Innocente. Su i vetri della finestra era come un chiarore d'alba; ed era l'alba che saliva dalla neve in contro alle ombre.

—È morto? È morto?—gridava mia madre, non udendo più il rantolo, vedendo apparire intorno al naso un lividore.

—No, no; respira.

Avevano accesa una candela; e la reggeva una delle donne; e la fiammella gialla oscillava a piè della culla. Mia madre subitamente scopriva il corpicciuolo per palparlo.

—È freddo, tutto freddo!

Le gambe s'erano affloscite, i piedini erano diventati paonazzi. Nulla era più miserevole di quello straccetto di carne morta, d'avanti a quella finestra su cui cadeva l'ombra, al lume di quella candela.

Ma ancora un suono indescrivibile, che non era un vagito né un grido né un rantolo, esciva dalla boccuccia quasi cerulea, insieme con un po' di bava bianchiccia. E mia madre, come una pazza, si gittava sul morticino.—

Così rivedevo tutto, a occhi chiusi; aprivo gli occhi, e rivedevo tutto ancora, con una intensità incredibile.

—Quella candela! Leva quella candela!—gridai a Federico, sollevandomi sul letto, atterrito dalla mobilità della fiammella pallida.—Leva quella candela!

Federico andò a prenderla, andò a metterla dietro un paravento. Poi tornò al mio capezzale; mi fece ricoricare; mi mutò la pezzuola fredda su la fronte.

E a quando a quando, nel silenzio, udivo il suo sospiro.

Il giorno dopo, se bene io fossi in uno stato di estrema debolezza e di stupore, volli assistere alla benedizione del parroco, al trasporto, a tutto il rito.

Il cadaverino era già chiuso in una cassetta bianca, ricoperta da un cristallo. Aveva su la fronte una corona di crisantemi bianchi, aveva un crisantemo bianco tra le mani congiunte, ma nulla eguagliava la bianchezza cerea di quelle mani esigue ove soltanto le unghie erano rimaste violette.

Eravamo presenti io e Federico e Giovanni di Scòrdio e alcuni famigliari. I quattro ceri ardevano lacrimando. Entrò il prete con la stola bianca, seguito dai chierici che portavano l'aspersorio e la croce senz'asta. Tutti c'inginocchiammo. Il prete asperse d'acqua benedetta il feretro dicendo:

—Sit nomen Domini….

Poi recitò il salmo:

—Laudate pueri Dominum….

Federico e Giovanni di Scòrdio si sollevarono, presero la bara. Pietro apriva d'innanzi a loro le porte. Io li seguivo. Dietro di me venivano il prete, i chierici, quattro familiari con i ceri accesi. Passando per gli anditi silenziosi, giungemmo alla cappella, mentre il prete recitava il salmo:

—Beati immaculati….

Come la bara fu dentro la cappella, il prete disse:

—Hic accipiet benedictionem a Domino….

Federico e il vecchio deposero la bara sul piccolo catafalco, in mezzo alla cappella. Tutti c'inginocchiammo. Il prete recitò altri salmi. Quindi fece l'invocazione perché l'anima dell'Innocente fosse chiamata al cielo. Quindi asperse di nuovo la bara con acqua benedetta. Uscì, seguito dai chierici.

Allora ci sollevammo. Tutto era già pronto per la sepoltura. Giovanni di Scòrdio prese la cassa leggiera su le sue braccia; e i suoi occhi si fissarono sul cristallo. Federico scese pel primo nel sotterraneo, dietro di lui scese il vecchio portando la cassa; poi scesi io con un familiare. Nessuno parlava.

La camera sepolcrale era ampia, tutta di pietra grigia. Nelle pareti erano scavate le nicchie, talune già chiuse da lapidi, altre aperte, profonde, occupate dall'ombra, aspettanti. Da un arco pendevano tre lampade, nutrite d'olio d'oliva; e ardevano quiete nell'aria umida e grave, con fiammelle tenui ed inestinguibili.

Mio fratello disse:

—Qui.

E indicò una nicchia che si apriva sotto un'altra già chiusa da una lapide. Su quella lapide era inciso il nome di Costanza; e vagamente le lettere rilucevano.

Allora Giovanni di Scòrdio tese le braccia su cui posava la cassa, perché noi guardassimo ancora una volta il morticino. E noi guardammo. A traverso il cristallo quel piccolo viso livido, quelle piccole mani congiunte, e quella veste e quei crisantemi e tutte quelle cose bianche parevano indefinitamente lontani, intangibili, quasi che il coperchio diafano di quella cassa su le braccia di quel gran vecchio lasciasse intravedere come per uno spiracolo un lembo d'un mistero soprannaturale tremendo e dolce.

Nessuno parlava. Quasi pareva che nessuno respirasse più.

Il vecchio si volse alla nicchia mortuaria, si curvò, depose la cassa, la spinse adagio verso il fondo. Poi s'inginocchiò e rimase per alcuni minuti immobile.

Vagamente biancheggiava al fondo la cassa deposta. Sotto le lampade la canizie del vecchio era luminosa, così china sul limitare dell'Ombra.

Convento di Santa Maggiore.Francavilla al mare: Aprile—luglio 1891.

Nel libro viene usato l'accento acuto sulla e finale, in contrasto colla prassi dell'epoca. In alcune pagine il tipografo si è confuso ed ha usato la prassi corrente ("perchè") o ha ecceduto, usando É come terza persona del verbo essere. Tali errori sono stati conservati senza menzione.

Alcuni refusi sono stati corretti, anche in conformità delle altre occorrenze:

di grazia feminile di grazia femminile intrapresa? Se Giuliana intrapresa? "Se Giuliana "Perché poggiare tutto l'edifizio Perché poggiare tutto l'edifizio le immagini truci le imagini truci Bignava palesare tutto, Bisognava palesare tutto, Ah, ma la notte che viene —Ah, ma la notte che viene ed occcupò tutto il campo ed occupò tutto il campo la femina di Montegorgo la femmina di Montegorgo —Quando se n'andò, Quando se n'andò,

in generale:

cosi così Cosi Così


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