Bando e comandamento per ordine di Sua Eccellenza.PHILIPPUS DEI GRATIA REXIn esecutione dell'ordine oretenus dato a noi da S. E. si fa il presente Bando, per il quale si ordina et comanda a tutte et qualsivogliano persone di qualsivoglia grado, stato et conditione si sia, che fra il termine di 24 hore debbiano restituire et dar nota in poter nostro di tutte et qualsivogliano robe, cioè oro, dinari, argento quadri et ogni altro mobile di qualsivoglia sorte che sia, che si ritrovano in potere di qualsivoglia persona, pigliate dal q. Tommaso Aniello d'Amalfi o d'altri in suo nome da qualsivoglia persona e casa, et anche in potere di chi fossero andate dette robe, sotto pena di confiscazione de' loro beni, di morte naturale e diroccatione delle loro case; acciò havuta detta notizia se ne faccia avvisata S. E. per eseguire quanto comanderà. Ed acciò tutto venga a notitia di ciascuno, e nessuno possa allegare causa d'ignoranza, si ordina che si pubblichi il presente Banno, non solo nel Mercato di Napoli, dove solea vivere detto q. Tommaso Aniello, ma anche in ogni altro luogo dove sogliono pubblicarsi detti Banni. — Napoli 16 luglio 1647.D. Giulio Genoino
Bando e comandamento per ordine di Sua Eccellenza.PHILIPPUS DEI GRATIA REX
In esecutione dell'ordine oretenus dato a noi da S. E. si fa il presente Bando, per il quale si ordina et comanda a tutte et qualsivogliano persone di qualsivoglia grado, stato et conditione si sia, che fra il termine di 24 hore debbiano restituire et dar nota in poter nostro di tutte et qualsivogliano robe, cioè oro, dinari, argento quadri et ogni altro mobile di qualsivoglia sorte che sia, che si ritrovano in potere di qualsivoglia persona, pigliate dal q. Tommaso Aniello d'Amalfi o d'altri in suo nome da qualsivoglia persona e casa, et anche in potere di chi fossero andate dette robe, sotto pena di confiscazione de' loro beni, di morte naturale e diroccatione delle loro case; acciò havuta detta notizia se ne faccia avvisata S. E. per eseguire quanto comanderà. Ed acciò tutto venga a notitia di ciascuno, e nessuno possa allegare causa d'ignoranza, si ordina che si pubblichi il presente Banno, non solo nel Mercato di Napoli, dove solea vivere detto q. Tommaso Aniello, ma anche in ogni altro luogo dove sogliono pubblicarsi detti Banni. — Napoli 16 luglio 1647.
D. Giulio Genoino
Letto il bando[200]e replicato tre volte il suono di tromba, il banditore procedette altrove, ma quella ciurma di popolo si volse verso la casa di Masaniello; altri, come dice un testimone di veduta, per guardare quante robe in essa vi erano, altri per rubarle, giacchè erasedia vacante, altri finalmente per impadronirsi della moglie e della sorella e condurle prigioni innanzi al vicerè[201]. Capo di questi ultimi era Carlo Catania di Bracigliano, fornaio al Carminello, uno degli uccisori dello stesso Masaniello, compare ed amico di lui, e che era stato dal capitan generale, nel tempo del suo potere, nominato provveditore delle milizie popolari. Pure i beneficii non erano stati da tanto a vincere l'astio invidioso di lui, e il dispetto per le minacce fattegli da Masaniello, allorchè credendo di poter profittare del suo posto e della sua influenza, non temette di fare nel suo forno il pane cattivo e mancante. Forse anche la moglie di Masaniello entrava per qualche cosa in quest'odio e dispetto del Catania.
Egli dunque alla testa dei suoi seguaci, irruppe nella casa del compare; andò difilato a Bernardina, la prese pel corsetto, e, servendomi delle stesse parole del Pollio, “maltrattandola di poco onore et boffettoni, et strascinata la condusse in istrada, con la suaguancia(mano) dentro il petto di quella meschina„, che colseno scoperto e scarmigliata empiva l'aria di strida[202]e disperatamente piangeva. Nello stesso modo Grazia di Amalfi maltrattata e vituperata, era presa da altri compagni del Catania. Nè d'altra parte la grave età era di schermo all'Antonia. Anch'essa insieme colla madre di Marco Vitale, il segretario di Masaniello[203], veniva da quei popolani imprigionata. Così le povere donne tra le beffe e gli scherni erano condotte a Palazzo, facendo le stesse vie, che avevano fatte nella domenica antecedente in un modo tanto diverso. Non vi furono vituperii ed ingiurie, che quella gente villana ed inferocita non facesse a quelle infelici. Non era persona, dice pure un grave scrittore di quegli avvenimenti, che non si accostasse a darle un calcio o a strapparle i capelli[204]. Alcuni plebei precedendo la ciurmaglia, gridavano;largo largo alla signora Duchessa delle sarde; e qualcuno, che non aveva mancato d'inchinarle e reverirlenei tempi della loro fortuna, ora vilmente non risparmiava i motteggi e gli strapazzi[205].
Nè d'altra parte il vicerè e la viceregina più generosi si mostrarono nel giorno del loro trionfo. Allorchè le donne, giunte finalmente a Palazzo e portate innanzi al vicerè, si gettarono ai suoi piedi chiedendo misericordia ed aiuto, il Duca d'Arcos non ebbe pietà alcuna di quelle infelici. La stessa viceregina, che volle vederle, quasi per prendersi la sua rivincita, sfogò (come accennano alcuni, sebbene altri lo neghino) il dispetto della domenica antecedente, dileggiando la povera vedova, veneranda allora per l'improvvisa sventura, col titolo d'illustrissima, di generalissima e di viceregina delle popolane.
Soli il cardinale Filomarino e l'Eletto del popolo Francesco Antonio Arpaia fecero sentire una parola di compassione tra gli strapazzi e gl'insulti di tutti. Essi pregarono il vicerè a risparmiare quelle povere donne, e così furono mandate nel Castel Nuovo, ove per alcuni giorni ebbero vitto ed abitazione, ed ove furono pure trattenuti in seguito il fratello, il cognato e gli altri parenti di Masaniello, che al primo conoscere della morte di lui, si erano fuggiti o nascosti[206].
Ucciso Masaniello, il Duca d'Arcos credette che la rivoluzione con lui fosse omai spenta. Egli, ordinata una gran cavalcata, a cui intervennero i cavalieri e gli uffiziali o ministri principali dei regii tribunali, colcardinale arcivescovo e con buona guardia di fanteria e cavalleria ben armata, andò al Duomo per render grazie a Dio ed al Glorioso S. Gennaro, patrono principale della nostra città, per la quiete omai ottenuta, e girò lieto e contento pel Mercato e per le altre vie della città. Nello stesso tempo ordinò che si facesse l'inventario delle robe conservate tanto nella casa di Masaniello quanto nei magazzini del Mercato, del che fu dato incarico all'Eletto del popolo. Secondochè asserisce il buon prete Pollio, il quale accompagnava il compare in questa occasione, lo Arpaia chiamò per suo segretario Vito Antonio Cesarano, onde scrivere minutamente tutto ciò che ivi si fosse rinvenuto; e nel far l'inventario, molti dissero che gli uccisori di Masaniello, in quella notte che seguì la morte di lui, si avessero pigliato gran quantità di oro ed argento ed un baule di monete, trasportando il tutto per gli astrici della casa[207].
Poco dopo due bandi, uno dei 17 e l'altro de' 21 luglio, alle preghiere dello stesso Eletto e per far cosa grata alfedelissimopopolo, estendevano l'amnistia accordata pei fatti del 7 luglio in poi anche al fratello ed al cognato di Masaniello, che ne erano stati prima col bando dei 16 di quel mese eccettuati[208]. Se non chè Giovanni fu dato, come suol dirsi, in consegna a Marcodi Lorenzo macellaio, che cogli onesti guadagni del suo mestiere, si aveva procurato grandi e straordinarie ricchezze, tuttora tradizionali nella memoria del popolo perchè lo guardasse in sua casa, trattandolo nel miglior modo che fosse possibile[209].
D'altra parte la moglie, la madre e la sorella di Masaniello cacciate dal Castel Nuovo[210], furono consegnate al Genoino, che era stato creato presidente della Regia Camera della Sommaria, e furono condotte alla casa di costui a S. Agnello dei Grassi ove per alcune settimane furono con conveniente assegnamento mantenute.
Ma il fuoco era coverto di cenere e non tardò guari a divampar nuovamente, ed in modo anche più terribile e funesto di prima. I tumulti dei mercanti e dei tessitori di seta, degli studenti forestieri, dei pezzenti, e perfin delle donne contro il governo del Banco della Pietà o Monte dei Pegni, ciascuno per la revindica dei proprii diritti perduti, o per l'abolizione di qualche abuso introdotto, manifestavano gli animi sempre torbidi ed inquieti del popolo, e facevano agevolmente prognosticare altre più gravi ed aperte ribellioni[211].
Il vicerè dal canto suo non negava cosa alcuna. Dissimulando, accordava e prometteva tutto, ben risoluto, quando che fosse, a non attender nulla.
In questo stato di cose non mancava che un'occasione qualunque, la quale soffiasse nella brace ad eccitar l'incendio, e desse ai tumultuanti un novello capo. Questa occasione presto si offerse. Per la imprudenzaed ambizione del presidente Cennamo ai 21 agosto una seconda generale sollevazione del popolo scoppiò nella piazza della Sellaria, e, sebbene per poco, fece nuovamente comparire nella storia della rivoluzione del 1647 la famiglia di Masaniello.
Le più antiche memorie, che io trovo della piazzadella Sellariarimontano al secolo XII. In quel tempo esso chiamavasi strada diCapo di piazza(platea capitis plateae). In due istrumenti uno dei 5 febbraio 1194, e l'altro del 6 dicembre 1198, accennati nellaPlateadel monastero di S. Severino della nostra città, si ricorda una casa con orto sita in Napoli in capo della strada dettaCapo di Piazza, pertinenze di Portanova, non lontana dalla portadelli Monaci, e vicino alla chiesa dei SS. Cosmo e Damiano,granciadi detto monastero. Con un altro istrumento dell'anno 1263 la detta casa è descritta come sita accanto alla strada, che andava a S. Arcangelo (degli armieri), chiesa appartenente al monastero Cavense, giusta il muro pubblico, e la torre vecchia della città[212]. Documenti posteriori determinanocon maggior precisione il sito di quella chiesa e della contrada circostante. Da essi rilevasi che quella era posta propriamente nella piazzetta, ora vicoMolinello alla Sellaria, tra il vicoGiudechella al Pendino, che allora e in tempi anche più remoti dicevasiDeposulum, ed indifondaco di S. Martino, e lastrettola degli armieri, già vicoarmentario armentariorum[213]. Nel 1743 questa chiesa fu profanata, e, come rilievo della citata Platea, la cona dei SS. Cosmo e Damiano, che era sull'altare maggiore di essa, fu trasferita nella cappella degli Spinola dentro la chiesa vecchia di S. Severino[214].
Qui in processo di tempo, e propriamente nel 1585, esisteva la bottega e l'abitazione di Giov. Leonardo Pisani speziale che fu uno dei principali istigatori e capi della sedizione della plebe napoletana e della infelice morte dell'eletto del popolo Giov. Vincenzo Storace[215],avvenuta nel maggio di quell'anno. Allorchè sedato il tumulto e rimesso l'ordine nella città, il vicerè dopo qualche mese procedette al giudizio ed al castigo di quelli che vi avevano preso parte, il Pisani, essendosi a tempo posto in salvo, fu condannato a morte in contumacia, la sua casa fu diroccata, e sul suolo di essa, ove si era seminato il sale, fu eretto un monumento, nel quale in apposite nicchie si collocarono le teste e le mani di 24 principali giustiziati con grate di ferro sopra perchè non potessero indi togliersi. Una iscrizione in mezzo ricordava il nome del Pisani, il delitto commesso, ed il castigo[216]. Per parecchi mesi quel miserando ed orribile spettacolo contristò lo sguardo dei napoletani, che passavano per quella via, una delle più frequentate della città; ma finalmente il vicerè successore, alle preghiere del nuovo Eletto del popolo Giov. Battista Crispo, permise che quella memoria di lutto e d'infamia venisse cancellata. Allora i teschi e le mani degl'infelici furono condotti al ponteGuizzardoora della Maddalena, luogo di sepoltura dei giustiziati. Più di 2000 persone, molto clero, e diverse religioni di frati accompagnarono colle torce accese le postume esequie,solenne dimostrazione e pubblica protesta del popolo contro il governo spagnuolo[217].
Dall'altro lato della viaCapo di Piazza, dopo l'angolo della strada di S. Biagio deitaffettanaried il vicolo che dicevasi diPistasoed ora deiFerri vecchial Pendino, sorgeva nel secolo XII il palagio di Pietro delle Vigne, di colui cioè:che tenne ambo le chiavi del cor di Federico II, edificato sul suolo già appartenente al monastero Cavense. Ivi nel 1254 dimorò per alcun tempo papa Innocenzo IV, ed ai 7 Dicembre dello stesso anno vi morì. Ivi dopo tre giorni fu eletto il nuovo pontefice Alessandro IV, che vi si trattenne fino al maggio dell'anno seguente. Il palagio, che, tenuto anche conto della modesta maniera di abitare in quel tempo, dovette essere un edificio nobile e vasto, potette albergarvi il pontefice, la curia romana ed i cardinali del Sacro Collegio, ed avere oltracciò sufficiente località, ove tenersi il pubblico studio di teologia, decreti, decretali e leggi canoniche che lo stesso papa Innocenzo IV nella sua venuta in Napoli vi aveva istituito, fu coll'orto adiacente e cogli altri beni di Pier delle Vigne dal medesimo Papa Innocenzo IV conceduto alla famiglia dei Fieschi, cui egli apparteneva, ed alla quale in virtù delle convenzioni stipulate con Clemente IV nella investitura del reame, fu anche da Carlo I d'Angiò confermato. Ivi verso il 1285 dallo stesso re Carlo I furono collocate l'officina o zecca delle monete, e la corte dei conti che da essa dipendeva; ed ivi l'una e l'altra si tennero fino al 1333, allorchè furono trasportate dirimpetto la chiesa di S. Agostino nel sito, dove fino a poco fa era l'officina delle monete. In processo di tempola casa pervenne alla famiglia Barbati, nobile del sedile di Montagna, ed indi nel secolo XVI alla corporazione dell'arte della lana. Così in essa si stabilirono le opere di bagnare, tingere, efrisarei panni, e tutto il fabbricato, al quale si accedeva dalla Sellaria e dal vicoletto di S. Palma, ebbe nei tempi di cui discorriamo, la denominazione diFondaco della zecca dei panni[218].
La stradaCapo di piazza, che, a quanto può rilevarsi dalle vecchie carte, distendevasi dal sito ove ora è la chiesa di S. Biagio fino al vicolettoFate, o alla piccola chiesa di S. Giacomo dei Mormili da un lato, ed a poco più oltre la strada degliArmieridall'altro, formava, sotto gli Svevi e gli Angioini, una delleottineo piazze popolari della nostra città. Essa allora, come ordinariamente le altre piazze sì nobili come popolari,aveva il suo proprio sedile o teatro, che non sappiamo precisamente dove fosse collocato, e che, probabilmente dopo la riforma o la nuova costituzione data ai sedili di Napoli, nella seconda metà del secolo XIV, o cangiò nome o fu abolito, non trovandosene più memoria dopo il 1392[220]. Dopo quel tempo anche la stradaperdette a poco a poco la sua primitiva denominazione, e prese quella dipiazza della Sellaria(Ruga o Platea Sellariorum) dalla via che la continuava ad oriente e che comincia a comparire in alcuni documentidella fine del secolo XIII[222]. In un istrumento del 1334 ricordasi pure la via dellaSellaria vecchia, che andava ad un'altra strada detta dellaPullaria[223]. Sembra inoltre che anche in quel torno di tempo, l'antico sedile o qualche altro, pure appartenente all'ordine popolare, che nella medesima contrada a quello era forse succeduto, raccogliesse i diritti e le prerogative di tutti quei sedili popolari, che erano nell'ambito intero della vecchia città. Questo sedile, che aveva allato una casa ed una cappella intitolata a S. Chirico o S. Ciriaco,onde ingombravasi la via, secondo alcuni nostri scrittori, era posto nella piazzetta, ov'è la seconda fontana, e dove ora comincia la strada delPendino. Per alcune dipinture, da cui era adornato, dicevasi volgarmentelo sieggio pittato[224]
Nel 1466 re Alfonso I d'Aragona ordinò che il sedile insieme colle fabbriche che vi erano attaccate, fosse diroccato, affinchè in tal modo si regolarizzasse quella strada che allora era la più bella ed ampia della città, e vi si potessero fare giostre e tornei, come nelle vie extramurane di Carbonara e delle Corregge. Il fatto produsse grande commozione e dispetto nel popolograsso, come allora dicevasi la borghesia, e nel popolo minuto, la plebe. Si credeva che fosse stato quello un pretesto per favorire Lucrezia d'Alagno, che aveva la casa in quel sito, e che prevalendosi dell'amore ardentissimo a lei portato dal re, lo aveva indotto a far abbattere quell'edificio, onde rendersi spedito e libero l'aspetto della strada. Altri e forse non a torto, credettero che Alfonso avesse voluto ingraziarsi la nobiltà che vedeva mal volentieri come i popolani avessero un luogo proprio di riunione al pari dei nobili. Che che ne sia, certo è che ai 31 marzo dell'anno seguente 1456 il popolo radunato nella piazza della Sellaria tumultuò, la città tutta prese le armi, ed il re fu obbligato a cavalcare per le vie della medesima, onde placare gli animi esacerbati.
Fermandosi in mezzo alla piazza e parlando ai capi dei tumultuanti, Alfonso cercò di dimostrare il miglioramento che da quel fatto la contrada avrebbe avuto, annunziò le giostre che a divertimento del popolo avevaintenzione di farvi, promise d'intervenire ivi alla processione di S. Gennaro detta deipreti inghirlandati, solita farsi il primo sabato di maggio in ciascun anno, la quale, tolti gli impedimenti del Sedile e della casa che stavano in mezzo alla strada, sarebbe comparsa più sontuosa e più bella. La presenza del re, se non le ragioni da lui addotte, acquetò gli animi dei più; il bando che egli poi fece nel giorno seguente, con cui dispose di aggregarsi al sedile di Portanova i principali cittadini del popolograsso, togliendone i capi e quei che formavano la forza principale dei malcontenti, estinse affatto il tumulto. In quello stesso giorno si cominciò, come dice un cronista, “a levare la silicata della piazza e spianare lo terreno, come si ci volesse fare la giostra, e la strada restò longa, diritta ed uguale dal capo de lo Pendino fino lo piede della via di Pistaso[225].„
E le giostre invero furono fatte, la processione fu con maggior pompa solennizzata, ma il popolo per parecchi anni restò senza rappresentanza e senza sede propria nel governo municipale, e quando dopo il breve dominio di Carlo VIII in parte nuovamente l'ottenne[226],non ebbe più un edificio speciale come i nobili, ma gli fu assegnato un locale nel convento di S. Agostino, ove nelle sue occorrenze potesse radunarsi. Senonchè la strada della Sellaria restò sempre come sede propria della giurisdizione popolare. Ivi nella processione di S. Gennaro, di cui innanzi ho parlato, si ergeva in ogni sei anni uncatafalco, che raffigurava il distrutto sedile del popolo, e serviva temporaneamente a quelle stesse pompe, cui i sedili nobili, quando loro toccava, erano destinati. Ivi pure nella festa di S. Giov. Battista l'Eletto del popolo riceveva e faceva omaggio, come in propria dimora, al vicerè con istraordinari e magnifici apparati[227].
Ai tempi di D. Pietro di Toledo questa via ebbe pure altri miglioramenti. La chiesa di S. Felicein pincis, una delle antiche parrocchie della città, che era posta più su verso l'angolo della via di S. Agostino alla Zecca, e che usciva alquanto più in fuori della linea delle case da quel lato, fu per ordine del vicerè abbattuta, e la cura, che vi era, venne aggregata alla parrocchia di San Giorgio Maggiore[228]. Allora fu pure eretta una fontana nel sito, dove già credevasi posto il sedile del popolo coll'immagine di Atlante che sostiene il mondo, il tutto opra del famoso nostro scultore Giovanni Merliano da Nola col disegno dell'architetto Luigi Impò.
Da qui la strada prende ora il nome diPendino, onde si denomina tutto il quartiere. Un tempo tale denominazione si restringeva solo a quel tratto, ove sbocca la via di S. Agostino alla Zecca, che scendendo in pendio da Forcella, si disse in primaPendino di S. Agostino. Tenevasi ivi allora, come adesso per tutta la via, uno dei più affollati ed abbondanti mercati di commestibili in Napoli. Un arco antico finalmente, che non ha guari fu demolito, e la via che segue dei Zappari, chiamata nel secolo XIV piazza deiVindio dell'Inferno, chiudeva la storica contrada ad oriente, e ricordava il vecchio recinto della città, e la nascita di Bartolommeo Prignano, che poi divenne papa col nome di Urbano VI[229].
Or le strade della Sellaria e del Pendino nella mattina del 21 agosto di quel memorabile anno 1647, brulicavano più che mai di gente innumerevole, che alla voce sparsasi di tradimento contro il popolo, vi era precipitosamente accorsa da tutte le parti della città. Uomini di ogni età e condizione,lazzariecappe nere[230], donne del popolo e fanciulli, e perfino frati non pochi ingombravano quelle vie già per l'ordinario così popolose. Uno era il pensiero di quanti ivi si raggruppavano in crocchio o a capannelli, uno il discorso di tutti dall'arco del Pendino alla cantonata dei Taffettanari.
Narravasi ai curiosi ignari della causa di sì nuova e subita indignazione, che Orazio di Rosa, volgarmente dettoRazzullo, tintore efrisatoredi panni abitante nelfondaco della zeccae capitano del popolo, nella sera antecedente insieme col mercante di seta Agostino Campolo, abitante a S. Biagio, aveva sorpreso tra le mani di Marco d'Aprea mercatante di drappi d'oro, e di Giuseppe Vulturale, una specie di petizione o fede che andavasi firmando, e con la quale si attestava come Fabrizio Cennamo, presidente idiota della regia camera della Sommaria, ed il consigliere Antonio d'Angelo, non di ordine del popolo ma per opra di alcuni privati loro nemici, fossero stati ai tempi di Masaniello incendiati; e quindi si domandava che s'istruisse d'un tal fatto regolare processo, e che i colpevoli ne ricevessero condegno castigo. Aggiungevasi essere questa una prima scappatoia, con la quale il vicerè cercava di violare le capitolazioni solennemente giurate nel Duomo ai 12 del passato luglio, e l'amnistia accordata con quelle econfermata nel 16 dello stesso mese. Con tal pretesto voler egli togliersi d'innanzi tutti coloro, che si erano adoprati al disgravamento ed al bene del popolo. Così a poco a poco si sarebbero rimesse le antiche gabelle e le innumerevoli estorsioni, che prima del 7 luglio opprimevano Napoli, i nobili avrebbero ripreso i loro vecchi abusi, ed il governo della città sarebbe tornato ad essere il monopolio di quelli. Ricordavansi pure con affetto le opere di Masaniello in beneficio del popolo che ora, senza un capo, non poteva sostenere i diritti ed i privilegi che si aveva rivendicati. Imprecavasi finalmente ai traditori della patria che ossequenti al vicerè davano mano al Cennamo ed al consigliere d'Angelo, e principalmente a D. Giulio Genoino, che tra musiche e banchetti, ora godevasi il posto di Presidente della regia Camera, prezzo ed arra di tradimenti passati e futuri[231].
Gli animi del volgo si esasperavano oltremodo a queste novelle, e più alle insinuazioni di alcuni, che avevano interesse a portar la rivoluzione oltre i limiti segnati da Masaniello. Tra costoro erano specialmente Giovan Luigi del Ferro da Arpino, il dottor Antonio Basso nativo di Napoli, e poeta non ignobile fi quei tempi, D. Carlo Pedata ebdomadario del Duomo, Don Pietro Iavarone, sacerdote della terra di Giugliano, il dottor Aniello de Falco e qualche altro di parte francese[232], i quali predicavano non potersi aver fede alcunanegli spagnuoli, e rammentavano le loro promesse spesso fallite, i privilegi della città, ottenuti col danaro e col sangue, tante volte spergiurati ed infranti, i reclami del popolo sempre vilipesi e scherniti. Qualche rara e timida voce di moderazione e di fiducia era accolta da beffe e da minacce, e con grida unanimi diabbasso gl'interessati, abbasso i giannizzeri[233], morte ai traditori. Omai al tumulto non mancava più che un indirizzo ed un capo qualunque, e bentosto l'uno e l'altro si ebbero.
All'angolo del Pendino in sulla svoltata della via dei Calderai, una vecchia vestita a bruno e salita sopra un poggiuolo accanto alla bottega di un salsumaio, apostrofava violentemente, tra i pianti e le strida, il popolo circostante. Era la madre di Masaniello, che il dolore e la disperazione rendevano veneranda ed eloquente. L'infelice rimproverava ai napoletani l'ingrata dimenticanza, con cui rimeritavano i beneficii ricevuti dai suoi figliuoli, mentre avevano lasciato trucidare barbaramente il primo e facevano ora perire nelle segrete di Castel Nuovo l'altro che pure tanto si era adoperato ed avrebbe ancora voluto adoperarsi in pro del popolo. Le parole e l'aspetto della misera genitrice, e più la memoria di Masaniello, determinavano i propositi fin allora incerti e contraddittorii della turba irritata:A palazzo, morte a D. Giulio Genoino, ed ai traditori della patria. Viva Giovanni d'Amalfi!gridò Ciommo Donnarumma, che era quel salsumaio parente di Masaniello, di cui facemmo cenno più sopra. Il gridofu ripetuto dall'un canto all'altro della via del Pendino e della Sellaria, e più migliaia di uomini e di donne si avviarono tumultuosamente verso il palazzo reale.
Il vicerè trovavasi allora in consiglio coi reggenti del Collaterale. Uso omai da qualche mese a queste continue dimostrazioni del popolo, egli alle dimande dei tumultanti di voler libero Giovanni d'Amalfi e consegnato nelle loro mani D. Giulio Genoino, traditore della patria, per mezzo di Bernardino Ferrero usciere della sua camera, rispose: Non poterneli soddisfare, aver mandato il primo a Gaeta per metterlo in sicuro dalle vendette dei suoi privati nemici, non trovarsi punto l'altro nel castello, come essi dicevano; ritornassero dunque tranquilli alle loro case, ai quotidiani lavori, e non disturbassero la quiete della città. La risposta del vicerè accrebbe l'ira dei rivoltosi. Alcuni di essi, volendo entrare nel palazzo, si avanzarono per far forza alle porte, altri con sassi cominciarono a molestare gli alemanni e gli spagnuoli, che vi erano di guardia. Ma costoro memori di quanto era avvenuto nella mattina del 7 luglio, erano preparati, giusta gli ordini del vicerè, a respingere la forza con la forza. Trassero quindi una scarica di archibugiate sugli assalitori, alla quale parecchi ne caddero morti o feriti, tutti gli altri, oltremodo impauriti, si gettarono a terra o fuggirono[234].
Le memorie del tempo narrano di una vecchia che scarmigliata, come una delle furie, inanimiva ilazzaried i popolani all'assalto ed alla vendetta; ne taccionoperò il nome[235]. A me pare assai verosimile che questa fosse la stessa Antonia, che l'amor materno rendeva furibonda e non curante della propria vita.
Io qui non dirò l'irritazione del popolo alla novella sparsa per la città di questo avvenimento, l'accorrere delle schiere di S. Lucia a Mare sotto il comando di Onofrio Cafiero, e del Mercato e del Lavinaio guidate da Gennaro Annese al Regio Palazzo, l'assalto e la presa dei monasteri della Croce, di S. Luigi e di S. Spirito, allora posti di rincontro al medesimo, e della collina di Pizzofalcone che domina tutta la contrada, la morte del presidente Cennamo eseguita in mezzo della piazza della Sellaria, e finalmente le fazioni indi per cinque giorni combattute tra i popolani e gli spagnuoli. Omai si veniva a guerra aperta. Al grido di:viva il re e muoia il mal governo, succedeva l'altro di:viva il popolo, morte agli spagnuoli.Le barricate s'alzavano a Visitapoveri nella strada di Porto, a S. Lucia, in istrada Toledo. I cannoni di Castello dell'Uovo traevano incessantemente su tutte le vie. La città era dovunque piena di strage e di lutto. Se non che il Cardinal Filomarino, richiestone da ambo le parti, anche questa volta s'interpose tra i contendenti. Dopo varie pratiche inutili, il buon prelato ottenne la sospensione delle armi, e poscia ai 26 di agosto la pace. Nuove capitolazioni, nelle quali principalmente stabilivasi la ripristinazione del sedile del Popolo nella stessa Piazza della Sellaria, furono conchiuse e firmate, ed indi ai 7 settembre solennemente giurate dal vicerè.
Fatti son questi estranei al mio racconto[236]. La seconda sollevazione, che erasi iniziata col nome di Giovanni di Amalfi, non si ricordò più di lui nella lotta, non ne fece motto alcuno nelle capitolazioni.
In una notte — era il 4 settembre — un portiere di camera del vicerè si presentò nelle stanze del Castel Nuovo, ove dimorava D. Giulio Genoino con Fra Luca dell'ordine di Malta, poco fa pei meriti dello zio fatto capitano di cavalli, e Giuseppe San Vincenzo, altro suo nipote, testè nominato giudice di Vicaria, e per ordine del vicerè l'invitò a seguirlo. D. Giulio raccolse le sue carte, i nipoti il loro bisognevole, e tutti insieme partirono. Un profondo silenzio regnava nel castello. Dopo di aver attraversato parecchi corridoi, scesero alcune scale e per la porta del soccorso uscirono nell'arsenale. Il soldato che era di guardia, ad alcune parole dettegli dal portiere del vicerè li lasciò passare. Nell'arsenale era pronta a salpare una galea. D. Giulio ed i suoi nipoti vi entrarono, e poco dopo la nave partì[237].
Nella stessa notte un'altra barca conduceva a Gaeta la madre, la zia e la sorella di Masaniello, che insieme al cognato di lui, non so per qual tradimento o caso erano ricadute nelle mani del vicerè[238].
D'altra parte due uomini gettavano in una sepoltura della chiesa di S. Barbara una bara. Era il cadavere di Giovanni d'Amalfi, poco prima strozzato segretamente nella fossa delMiglioper ordine del Duca d'Arcos[239]. La sola moglie di Masaniello, perchè gravida, era risparmiata in questa comune tragedia della sua famiglia, ed era riserbata dal destino a nuovi dolori[240].
Scorsero alcuni mesi. La rivoluzione era entrata nella terza ed ultima fase, in cui al grido di:viva Dio ed il popolo, si era proclamata laserenissima real repubblicadi Napoli, ed Errico di Lorena, Duca di Guisa, era stato chiamato a governarla, come doge di essa. Un giorno verso la fine di novembre, o il principio di dicembre — le memorie non lo precisano — questi, nello entrare che faceva, come era solito in ogni mattina, a sentir messa nella chiesa del Carmine, fu fermato dauna donna vestita a bruno e velata, che inginocchiatasegli innanzi, gli presentava piangendo un memoriale. Il Duca con la gentilezza e con la galanteria propria della sua nazione, e che egli possedeva al sommo grado, invitò la donna ad alzarsi, e volto ad Agostino di Lieto, capitano della sua guardia, che gli era vicino, gli domandò chi fosse quell'infelice.È la vedova di Masaniello, rispose colui,che chiede aiuto e soccorso da vostra Altezza Serenissima.—E non le mancherà nè l'uno, nè l'altro, disse commosso il Duca;la vedova di colui, che iniziò il movimento popolare di Napoli, e che moriva per liberare il popolo dall'oppressione spagnuola, ha dritto alla gratitudine della repubblica.Indi prendendosi il memoriale da mano della Bernardina e consegnandolo al padre Capece, suo confessore, che pur lo seguiva, decretava che fossero assegnati alla medesima 50 scudi al mese[241].
Ma questa fortuna della moglie di Masaniello non fu meno efimera delle altre. Non andò guari che nel 6 aprile dell'anno seguente gli spagnuoli, spenta la rivoluzione e caduto prigione il Guisa, occuparono quella parte della città che si teneva del popolo. Allora il conte d'Ognatte, nuovo vicerè del regno, mentre che promulgava una completa amnistia, cominciava una lenta ma terribile reazione contro il passato. Ora sotto un pretesto ed ora sotto un altro, tutti coloro, che avevano preso parte alle passate rivoluzioni, erano condannati a morte, o condotti in galera. I più accorti nonsi fidarono delle promesse spagnuole ed in numero di circa undicimila, come ricordano le memorie del tempo si fuggirono a Roma.
E la Bernardina? Col ritorno degli spagnuoli tornò nella sua casa il bisogno e la miseria, tristi e spesso poco onesti consiglieri. Le passate guerre e lo scarso ricolto avevano prodotto una mancanza tale di grano e delle altre civaie, che nella nostra città potevasi scorgere quasi la carestia. L'infelice donna senza parenti, senza amici, senza aiuto alcuno, non aveva altra alternativa che la fame o il disonore. Bella e giovine ancora cedette alle seduzioni del vizio. In uno di quei vichi del Borgo di S. Antonio Abbate, ove miserabili donne facevan mercato del loro corpo, la vedova di Masaniello fu costretta a menare una vita di vergogna e di strapazzi[242]. Spesso i soldati spagnuoli, che, perla curiosità o per lo sfogo di brutali voglie, colà si conducevano, dopo averla goduta, aggiungevano all'onta il danno e l'insulto, e beffandola e motteggiandola col titolo altra volta così per breve tempo ottenuto, negavano alla meschina il prezzo del proprio disonore. Quei pochi giorni di fortuna, che sparirono tosto come una brillante meteora, erano allora per lei argomento maggiore di dolori e di oltraggi. Eppure in quel tempo, come a questo proposito il Pollio ricorda, Masaniello spesso usava della sua autorità per salvare gli spagnuoli dal furore del popolo. Egli li mandava via, dicendo esser soldati del vicerè suo compare, a cui spettava dar loro castigo, e così li faceva mettere in salvo[243].
La peste finalmente, che dopo pochi anni desolò la città ed il regno, e colpì indistintamente gli oppressori e gli oppressi, pose nel 1656 termine[244]alle miserie della sciagurata, che era stata moglie di Masaniello.