PREFAZIONE

PREFAZIONE

Mal vezzo della letteratura presente parve sempre all’autore la facilità e la compiacenza con cui gli scrittori de! tempo nostro raccolgono in volume le loro pagine sparse. La letteratura delle gazzette e delle riviste — moltitudine di efimeri che ciascun giorno vede nascere e morire a migliaia — ha la sua ragione e la sua dignità: ma perde l’una e l’altra, se pretende di vivere oltre la breve ora assegnatale dalla sua stessa natura. Perchè dunque anche l’autore — e per la prima volta in vita sua — si è lasciato persuadere dai solerti editori di questo libro a secondare il corrotto costume del tempo?

Egli spera che l’argomento di questi studi e di questi discorsi gli varrà di scusa presso i più; e che presso alcuni gli servirà di giustificazione il fine per cui furono raccolti e pubblicati. Quale che ne sia il pregio, questi discorsi e questi studi non furono composti per servire con argomenti di occasione le passioni e gli interessi dominanti dell’ora; ma per continuare a svolgere, applicandole ai grandi avvenimenti presenti, alcune idee sulla civiltà moderna e sui nascosti pericoli da cui è minacciata, che l’autore aveva meditate ed esposte alcuni anni prima che la guerra europea scoppiasse. Curioso è spesso il destinodegli uomini e delle idee. Casi ed accidenti che sarebbe inutile perditempo qui ricordare, condussero un giorno l’autore di questi saggi a chiedersi come avevano potuto, nella storia delta civiltà nostra, seguirsi due mondi, di cui l’uno era proprio il rovescio dell’altro, e quale dei due fosse il vero: un mondo — quello in cui noi viviamo — smanioso di oltrepassare sempre la meta raggiunta, animoso a procedere senza appoggi nell’ignoto, insaziabile di novità e dì libertà, tormentato da una inquieta aspirazione al meglio ed al più: e un mondo — quello in cui avevano vissuto i nostri padri — che, come il bambino il quale impara a camminare, temeva di lasciare un appoggio o di fare un passo se non vedesse vicino il nuovo appoggio a cui tender le mani, compunto di profonda venerazione verso le cose antiche, sottomesso all’autorità, tutto intento a rintuzzare con dottrine di rassegnazione e di austerità gli orgogli, le ambizioni e le cupidigie insorgenti. E paragonando questi due mondi, facilmente si accorse che il mondo moderno, se aveva compiute mille opere portentose di ogni natura, aveva però anche osato ribellarsi a quella legge dello spirito umano, per cui la certezza non può essere che effetto di una limitazione, nessuno potendo sicuramente distinguere il bello e il brutto, il bene e il male, il vero e il falso se non creda in una definizione iniziale, e il definire non essendo altro che un limitare. Ma il limitarsi era proprio l’atto che più ripugnava a questo secolo, smanioso di sempre oltrepassare la meta raggiunta: onde il secolo riprecipitava nel caos quell’ordine spirituale, che ai nostri padri era apparso come una vitale necessità della mente.

Senonchè queste considerazioni furono accolte piuttosto male: del che l’autore, se non si compiacque, neppure si meravigliò. Un secolo che ha perduta l’abitudine di paragonarsi dal basso a un qualunque modello di perfezione perchè è sicuro di essere esso il modello insuperabile, non ama sentirsi dire che qualche volta delira: e a chi glielodice, volentieri rinfaccia di non capire il divino trasporto bacchico di un’epoca prodigiosa.... Fatto più singolare: perfino dei cattolici si unirono a quel coro! E per dire il vero anche il vituperato autore era d’opinione che questa spensierata indifferenza dei tempi potesse esser trattata con indulgenza, poichè per lungo tempo ancora, forse per parecchie generazioni, non genererebbe che delle filosofie insensate, delle arti futuristiche e dei costumi assurdi o ridicoli: tutte cose di cui nessuna è mortale. Aveva, sì, Emilio Rosetti detto, sulle soglie del Mediterraneo, che l’America, la Rivoluzione, la macchina «hanno generato un secolo senza limiti e perciò senza appoggi, nel quale l’uomo procede come un gigante che vacilla a ogni passo....». Ma chi poteva credere che in uno di questi vacillamenti il gigante sarebbe caduto, sotto i nostri occhi?

Così volle invece il destino. Ammonimento terribile all’America, l’Europa ha inciampato; è caduta sul ginocchio; si è malamente ferita; geme ora pietosamente e non riesce a rialzarsi.... E allora l’autore, che pure aveva sempre sperato di non vedere tanto orrore, ma che non si è punto meravigliato di doverci assistere, ha creduto fosse dovere ripigliar il discorso, interrotto da tante vociferazioni ed ingiurie, per dimostrare che quel caos, dopo tante filosofie insensate, tante arti futuristiche e tanti costumi assurdi o ridicoli, ha concepita nel suo grembo tenebroso e generata anche la guerra europea. E non per la vanità di raccattare in mezzo a tante rovine una prova, ahimè troppo insanguinata, di una tesi storica e filosofica; ma per aiutare ad orientarsi quanti — e sono i più — soprafatti da questa catastrofe, si chiedono oggi sbigottiti se le leggi che reggevano le cose umane fino ad ora sono state tutte capovolte o se qualche demonio, incomprensibile dalla nostra mente, è entrato nel mondo per devastarlo. Chè la mente non può capire un così smisurato fenomeno e quindi ne è soprafatta, se non guarda che quello; e se non trova il filoper risalire e comprendere la lunga preparazione storica che l’ha maturato.

Ma come chiaro apparisce invece, a chi ha trovato questo filo, il grandioso fenomeno! No: questa guerra non è una guerra come tante altre ce ne sono state, nel mondo; ma, come la Rivoluzione francese, è la crisi di una civiltà da cui nessuna cosa si salva e cheper oraprende forma e aspetto di guerra. È vano illudersi. L’Europa nella quale siamo nati, non è più che un vetusto edificio in rovina. Un terremoto l’ha messa a soqquadro, da capo a fondo. Di fuori, sulla facciata, si è sfaldato l’intonaco di menzogne convenzionali, di pregiudizi e di opinioni interessate, che ne copriva le screpolature e le macchie putride: i pezzi che ancora reggono per miracolo, cadranno fragorosamente da un minuto all’altro. Dentro sono state spezzate tutte le impalcature che lo reggevano: le alleanze e i trattati di commercio, il diritto pubblico e il diritto privato, gli interessi e le simpatie. Sulla terra sconvolta, le correnti del traffico, oggi sbarrate, deviate, risospinte alla sorgente, dovranno aprirsi nuovi letti. Occorrerà domani sottomettere ad una revisione accurata le opinioni, le idee e i principî in cui avevamo creduto sino ad oggi. Nè le Dinastie, nè i Parlamenti, nè i Governi, nè i Partiti, nè alcuna istituzione sarà alla fine della guerra quale era al principio; ma in tutte sarà un impaccio, un disagio, un’incertezza, nascente dal non sentirsi più le medesime e dal sentire intorno il mondo mutato. Occorrerà rifare su nuovi modelli la Finanza e gli Eserciti di tutti gli Stati, e rifatti su nuovi modelli questi due istituti, a quanti ritocchi e riforme occorrerà sottoporre tutti gli altri!

Occorrerà infine sciogliere il gran problema della limitazione degli armamenti, dal quale ormai il nostro destino dipende. Questo secolo, che si era gloriato di rovesciar tutti i limiti, si trova ora alle prese, quasi si direbbe per castigo, con una difficilissima questione di limiti. L’illimitatagara degli armamenti — puntiglio mortale di un’epoca che non riconobbe altro freno del volere che il potere — ha generata questa guerra, che a sua volta sembra non avere limiti, nè nel tempo, nè nello spazio, nè nel modo. E finita la guerra, l’Europa o riescirà a limitare gli armamenti secondo qualche principio che possa essere lealmente applicato da tutti i governi; o precipiterà verso uno stato che, secondo le idee e i principi oggi professati da noi, dovrà essere giudicato di barbarie.

L’Europa ormai dovrà essere rifatta. Ma un’epoca non può rifare un ordine sociale, che è un mondo vivente, composto di parti diverse, se non compie un potente sforzo sintetico con il pensiero; se non scopre i nessi vitali di tutti i problemi che tra loro si intrecciano indissolubili. Perciò questi saggi — troppo piccolo contributo a un’opera gigantesca — furono raccolti in volume; non facendosi quasi nessun ritocco per riempire il distacco che separa scritti e discorsi composti a parte; curando anzi che ognuno di questi studi e di questi discorsi stia di per sè nel libro, come stette di per sè nel giornale e nella rivista che l’accolse, o nell’occasione in cui fu pronunciato. Il lettore dovrà dunque sopportare con pazienza qualche ripetizione. Ma l’autore si lusinga che non manchi al libro, ciò non ostante, una certa unità ideale, unico essendo il pensiero animatore di tutti questi saggi, in apparenza disparati e diversi: che «l’America, la Rivoluzione, la macchina hanno generato un secolo senza limiti e perciò senza appoggi, nel quale l’uomo procede come un gigante, che vacilla a ogni passo...».

Torino, il primo di giugno del 1915.


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