APPENDICIDEL TRADUTTORE AL LIBRO SECONDO

APPENDICIDEL TRADUTTORE AL LIBRO SECONDO

Il Padilla, incarcerato, confutò gli accusatori suoi, i luoghi, l’epoca, provando all’evidenza essere egli a que’ giorni assente da Milano, e non avere conosciuti nè mai veduti costoro.Ripam.,Lib. II, pag. 78.

Il Padilla, incarcerato, confutò gli accusatori suoi, i luoghi, l’epoca, provando all’evidenza essere egli a que’ giorni assente da Milano, e non avere conosciuti nè mai veduti costoro.

Ripam.,Lib. II, pag. 78.

Il Processo degli Untori, come dissi (pag. 67), non era conosciuto che per metà, vale a dire, la solaPars offensiva. L’altra, cioè la Difesa del Padilla, e che include altresì le giustificazioni de’ principali accusati, sapevasi esistere, ma a pochi, o forse a nessuno, era riuscito trovarla. Sia che durante il Processo ne fosse stampato un solo esemplare per senatore, come taluni pretenderebbero, sia piuttosto che si perdesse coll’andar del tempo un libro di cui nessuno occupavasi, fatto sta che divenne rarissimo. Verri di certo non lo conobbe, perchè se ne sarebbe moltissimo giovato nelle sueOsservazioni, e d’altronde il Processo manoscritto, postillato di sua mano, esistente tra le carte di lui, contiene la sola prima parte. Tutti gli altri che scrissero dappoi su gli Untori notarono che il Padilla venne assolto, e nulla più.

Ora, essendomi riuscito di avere in mano un esemplare dell’intero Processo, trovai che la Difesa racchiude fatti di somma importanza, e schiarisce molti dubbj, in guisa da spargere viva luce su questo compassionevole e misterioso dramma. Risolsi quindi di aggiungere al Ripamonti codesto nuovo Documento istorico, pubblicandolo non già per intero, perchè altrettanto voluminoso e prolisso come la Parte offensiva, ma bensì offrirne un sunto. Non era però sì agevole il compilarlo, stante che i costituti dal 24 luglio 1631 al 12 agosto 1632, altro non sono che un ammasso di testimonianze in favore del Padilla senz’alcun ordine. A misura che egli e i suoi difensori trovavano prove o testimonj contro alcuno de’ capi d’accusa, li presentavano al Senato, cosichè tutte le giustificazioni trovansi sparpagliate dal principio al fine del Processo.

Io tenterò darvene un saggio, o lettori, con una succinta ed ordinata esposizione, nella quale, a maggior schiarimento, inserii in corsivo varj brani del Processo medesimo, che ha per titolo:

Defensiones D. Joannis Gaytani de PadillaEquitis Sancti Jacobi a SpataDucis Equitis pro S. M.In Dominio Mediolani.

D. Francesco de Padilla, governatore del castello di Milano nel 1630, era un vecchio, religioso, altiero, esatto ne’ proprj doveri fino alla pedanteria; un vero tipo dei cavalieri spagnuoli,inimicissimo di Francesi, Veneziani e di gente forastiera come il diavolo con la croce. Appartenente ad una delle nobilissime famiglie di Spagna, non gli mancavano al certo protettori, dacchè i Padilla coprivano le più cospicue cariche: troviamo un Sancio Padilla, governatore del castello di Milano, il quale resse lo Stato provvisoriamente dal 1580 al 1583, dalla morte cioè del marchese d’Ayamonte alla venuta del duca di Terranova; e un Martino, che era Adelantado Mayor di Castiglia.

Entrato da giovine nella carriera militare, fu nominato cavaliere di San Jago nel 1583 da Filippo II,que està en el Cielo!Nel 1590 venne eletto capitano nel presidio del nostro castello. Sul principio del secolo passò a guerreggiare in Francia, e ne buscò onori e pensioni non poche. Nel 1609 fu eletto membro del Consiglio Segreto a Milano e capitano generale dell’artiglieria dello Stato di Milano, e finalmente il re, con decreto dato dall’Escuriale il 29 agosto 1620,le hace merced del cargo de Castillano de Milan.

Durante l’assenza dello Spinola sotto Casale, era vice governatore dell’armi,e grande fiducia avevasi in lui, dacchè appunto nel 1630haueva sotto la sua custodia in castello circa doi miglioni de’ reali da otto, et di pasta d’argento tali quali vengono dalle Indie. Detto tesoro staua sotto tre chiavi una de’ quali l’hauesse a tenere il sig. Castellano, l’altra il Presidente del Magistrato e la terza il Tesoriere generale.

Scrupolosissimo de’ proprj doveri, scoppiata la peste, custodì il castello con tutta diligenza, chiudendo la porta verso la città, e mettendo guardie a quella del soccorso. Niuno entrava od usciva senza bolletta e saputa di lui,che assisteua in persona benchè piovesse et facesse qualsivoglia mal tempo: e così mentre lui visse non successero in castello doi casi dechiarati di peste. Ed era savio e necessario rigore: infattila mattina o sera seguente alla sua morte, il signor Tenente fece aprire la porta che viene alla città, et serrar quella del soccorso, et allargò la mano nel lasciar uscire li soldati; sicchè fu portata la peste in castello, in modo che ne morsero più de’ quaranta, o quarantacinque persone.

D. Francesco aveva varj figli ed uno di nome Giovanni, che sfuggì all’obblio per essere stato accusato qual capo degli Untori.

D. Giovanni Padilla, soldato come il padre, fu nominato nel 1620 capitano d’infanteria, passò in seguito in cavalleria, avendogli il duca di Feria data a comandare una compagnia di lance, e si trovava coll’esercito sotto Casale all’epoca della peste. Bello della persona, esperto cavallerizzo e schermitore valoroso, il Padilla erabizzarro et peccava piutosto di troppa bravura che di poltroneria. Il giorno di S. Giovanni venne alle mani con alcuni francesi che erano sortiti di Casale, et andò a risigo di restar prigione perchè l’afferrorono in un braccio, ma se li ruppe la manica sicchè si liberò; avendo date molte coltellate all’inimici seguitandoli fino al castello.

Il nostro valoroso, che metteva a repentaglio così spensieratamente la vita, era ben lungi dall’immaginare che il Senato avesse emanato un ordine d’arresto contro di lui come capo degli Untori.

Il Processo frattanto andava per le spiccie, e uscì la fulminante sentenza del 27 luglio. A tale annunzio il castellano tremò per suo figlio.Hauendo inteso che per giustizia si doveva far morire un certo Barbiero et un certo commissario della Sanità e che la detentione del signor D. Giovanni suo figliuolo era causata perchè questi lo hauessero aggravato in cosa toccante la riputazione, ordinò al suo luogotenente, D. Francesco di Bargas che, insieme col segretario Diego Patigna, andasse dal presidente della Sanità, Monti, per pregarloa far sospendere l’esecuzione della sentenza, finchè detti tali s’hauessero potuto confrontare con detto signor D. Giovanni per giustificare la causa; altrimenti per tutto quelloche poteva occorrere per alcun tempo a venire li protestava l’ingiustizia. Andarono i due il dopo pranzo del 31 luglio, e trovarono il Monti incasa sua in una sala abasso. Il quale subito si retirò in studio, et gli feci l’imbasciata. Rispose che non era lui il giudice della causa, ma che toccava al Senato, et però ne douessi parlare al signor Presidente.

Il quale, udita che ebbe l’inchiesta del castellano, diede per rispostache l’esecutione della sentenza non si poteva soprasedere, se non per ordine del patrone supremo o dal signor Governatore perchè il popolo reclamava[120]. Ma, soggiunse,che il detto de’ due vigliacchi non poteua macchiare la reputazione d’un cavagliere della qualità del signor D. Giovanni, et che però Sua Signoria Illustrissima non si douesse pigliar fastidio.

Però il vecchio e altiero spagnuolo, prevedendo le conseguenze del rifiuto, se ne pigliò invece grandissimo fastidio.Restò mortificato; la qual mortificazione fu tale che fra pochi giorni se ne morse.

Mentre ciò accadeva a Milano, un bel giorno arrivò al campo, col mandato d’arresto, l’auditore di Sanità Gaspare Alfieri, lo stesso che aveva esaminati il Mora ed il Piazza. Il marchese Manfrino Castiglioni, commissario generale, intimò al Padilla, per ordine di S. E., che si costituisse prigione nel castello di Pomate.Et esso sig. D. Giovanni con ogni prontezza se ne andò di longo al castello; ma prima senza che alcuno glielo dimandasse, si levò dalle calci una borsa senza quattrini, con dentro una reliquia et un’altra con dentro alcune lettere che erano d’amore e scritti alla francesa o fosse piemontesa, e le consegnò al Castiglioni, che gettolle al fuoco.

L’Alfieri fece una minuta perquisizione delle sue robe, ma senza trovare nulla di sospetto e nemmeno denari, giacchè il nostro D. Giovanni, quantunque facesse debiti allegramente,non haueua mai un soldo.

Dopo essere rimasto qualche tempo nel castello di Pomate, venne condotto in quello di Pizzighettone, dove era libero sulla data parola di girare nel recinto. Spensierato ma leale, non pensava nemmen per sogno violarla, e fermavasi sul limitare del castello ogni qualvolta accompagnava gli amici che lo visitavano. E tanta fiducia avevasi in lui che morto il comandante di Pizzighettone, egli ne fe’ le veci sino all’arrivo del successore.

Alfine, dopo parecchi mesi, giunse l’ordine del Senato di tradurlo a Milano. Il capitano D. Cristoforo Caviglia andò a pigliarlo da Codogno, e, cavalcando uniti da buoni amici, giunsero a Milano la sera del9 gennajo 1631. L’ordine portava di consegnare il Padilla al giudice della causa, ma il Caviglia, che da vero soldato nulla sapeva nè di giudici nè di uffizj, mandò uno de’ suoi uomini a prender lingua, e intanto coll’amico si mise a passeggiare su e giù nella chiesa di Sant’Antonio, non discosta dal Palazzo di Giustizia. Il messo tornò, dicendo aver trovate chiuse le porte, ed il Caviglia, stanco della lunga cavalcata, s’avviava per dormire all’albergo. Se non che D. Giovanni, colla puntigliosa esattezza d’un castigliano, rispose chevoleua andare consegnarsi prigione.

E quasi non vi riuscì, perocchè il custode del Capitano di Giustizia, non avendo ordini, gli diede per grazia una camera. La mattina vegnente, messo in prigione in tutte le regole, fu interrogato, ma siccome, cessata omai la peste, e con essa lo spavento degli untori, le cose avevano ripresa l’ordinaria lentezza, soltanto il 9 maggioil Senato decretò che si procederebbe contro l’inquisito come reo d’aver fabbricati e sparsi gli unti in Milano.

Il 24 luglio cominciò il Padilla a produrre le sue giustificazioni per testimonj, e continuò più d’un anno, dovendo far esaminare parecchi soldati della sua compagnia, i quali si trovavano nelle Fiandre; stante le difficili e scarse comunicazioni a quei tempi, vi volevano mesi per avere le risposte.

Il Padilla provò con un gran numero di testimonj di non avere abbandonato il campo per recarsi a Milano che una sola volta nella quaresima, dando minuto conto delle poche ore che rimase con suo padre. Deposero in favor suo soldati, uffiziali d’ogni grado, e lo stesso governatore Spinola. Il commissario generale della cavalleria Montera disse:Se bisognasse entrare in un fuoco per mantenere questa verità, purchè li miei peccati non resistessero, io v’entrerei sicuro di riuscirne salvo. E il tenente Pojetta:Dio perdoni a chi ha fatto male a questo cavagliere, perche sibbene io ho ricevuto male da lui, perche m’ha levata la tenenza sua al torto, non posso di manco, che non dica la verità che questo cavagliere non è mai mancato in tutta la campagna fuorche questo mercordì santo ed il giorno di S. Pietro. Inoltre l’accusato provò come durante il mese di giugno, essendo straripate le acque del Tanaro, della Sesia e del Ticino, e chiusi tutti i passi a motivo della peste, egli era nell’impossibilità di venire inosservato dal suo campo, lontano novanta miglia, a Milano, come l’avevano accusato il Mora e gli altri.

Quanto all’accusa di essere capo degli untori, egli la ribattè vittoriosamente, confrontando ad una ad una le deposizioni del Mora e del Piazza ne fe’ risultare le incongruenze, le assurdità, le false date, e dimostròle loro confessioni non attendibili,poiche oltre all’essere tante volte spergiuri (il qual vizio non si può purgare colla tortura se non una volta sola) inverisimili, falsi, vili, et infami si scoprono, e nei particolari esami loro tanto varj che non si può far certo giudizio sopra quale delle loro deposizioni debbasi fondare il fisco. E per le quali contrarietà tanto manifeste che risultauano e risultano dal detto processo era pur necessario, essendo l’accusato in prigione far qualche confronto tra il sudetto, il Mora e gli altri perche di tanto delitto si potesse finalmente cauar la verità. Inoltre queste confessioni estorte a furia di tormenti non fanno prova contro li nominati, perche vedendosi questi scellerati persi et condannati, si movono a nominare persone grandi, sperando saluarsi mediante il studio o privilegio delli nominati, o almeno portar in longo l’esecutione della loro condanna.

E tolse ogni ombra di dubbio con una scrittura che troncava di netto la questione. I difensori del Padilla avevano introdotto fra i testimonj un capitano Gorini, il quale raccontò, che trovandosi in prigione, mentre il Piazza era in confortatorio, l’aveva udito altercarecon doi padri capucini; Ed io mi leuai dal letto così in camisa, et andai all’uschio et dando orrecchio al detto contrasto quale durò circa mezzora sentei che detto Commissario strepitaua et diceva che moriua al torto per essere stato assassinato sotto promessa et che perciò si voleuano far perder l’anima. Insomma li padri capucini partirono senz’hauerlo potuto disporre a confessarsi nè a far atto di contrizione. In quanto a me m’accorgei che lui haueva speranza che si douesse retrattare la sua causa e agiutarlo. Partiti che furono i capucini io mi misi li calzoni et gippone et andai dal detto commissario, pensando far atto di carità col persuaderlo a disporsi a ben morire in grazia di Dio come in effetto posso dire che mi riuscii. Poiche li padri non toccarono il ponto che toccai io; qual fu che l’accertai di non hauer mai visto ne sentito dire che il Senato retrattasse cause simili dopo seguita la condanna. Anzi li dissi che se hauesse trouato altrimenti mi accontentauo di morir per lui.

Il Piazza, rassegnatosi, gli domandò come potesse sgravarsi la coscienza di aver indebitamente aggravati innocenti, ed il Gorini gli suggerì di rivolgersi per consiglio al cappuccino che l’assisteva. Avuti questi dati, riuscirono a trovare l’anzidetta scrittura che era nelle mani di un prete Francesco Gallarati Varese, coadjutore nel 1630 a San Vito in Pasquirolo, e conteneva le proteste del Mora e del Piazza, dettate al Padre Giacinto cappuccino loro confessore la notte prima di andare al supplizio.

«In nomine Jesu il 31 luglio 1630.

«Io Giacomo Mora, Barbiero, mi protesto, che essendo condannato a morte, e perchè io non voglio, et protesto di non partirmi da questo mondo con carico della mia coscienza, e perciò con la presente scrittura, e protesta, mi dechiaro, et dico sopra la mi coscienza che tutti quelli li quali sono stati nel processo incolpati da me per causa degl’onti pestilentiali, li ho incolpati al torto, et questo in quanto a me, et questo lo protesto avanti li Padri Capucini, et altri assistenti alla cura dell’anima mia».

Et a basso pur nell’istesso foglio si legge un’altra scrittura, cioè:

«In nomine Jesu il 1 agosto 1630.

«Io Guglielmo Piazza Commissario mi protesto, etc.» e ripete le parole medesime del Mora.

Rimaneva a sventarsi la deposizione del Baruello, il quale, per avere l’impunità e sfuggire ad una morte infameha hauto tanto ardire da comporre il discorso tanto inverosimile et falso; e in sei ore divenne così letterato che seppe distinguere le voci hebraiche et latine se bene era persona lontana da tali scienze, e solo virtuoso nelle infamie. Inventando cerchi, proferendo nomi diabolici et adducendo concorsi del comune inimico, et il pantalone muto ma piacevole.

Gabriele Millione, curato di Sant’Eusebio, depose che essendo egli lontano parente del reo, aveva ufficiato per ottenere l’impunità quando fu condannato a morte. Raccomandatosi al fiscale Bottinoni, questi gli disse che il Senato aveva firmata la sentenza, ma peròa sua persuasione egli s’accontentava di procurargli da S. E. l’impunità, et salvarlo dalla morte et da qualsivoglia altra pena da un esiglio perpetuo in poi dallo stato di Milano. Il fiscale fece avere il permesso di parlare col reo al curato Millione, chelo trovò nella camera della corda che diceva l’uffizio, ed al vederlo esclamò. Oh monsignore portate forsi cattiva nova? ed io li risposi pur troppo la porto, et così li dissi come il Senato l’haueva sentenziato a morte. Soggiunse però che gli otterrebbe una lettera d’impunità ove si risolvesse a dir il vero circa gli unti. E il Baruello:faranno poi di me come hanno fatto del commissario?alludendo al Piazza cui erasi lusingato coll’impunità. Nondimeno tanto è prepotente l’amore della vita! immaginò subito una filastrocca tale che ben sapeva andrebbe a genio al Senato, e disse che lo avevano un giorno condotto a casa del Mora il qualeleuata unatappezzeria l’introdusse in una gran sala(nella casipola del Barbiere!)dove vide dieci o dodici persone assentate sopra le cadreghe fra quali vi era il signor D. Giovanni Gaetano Padilla.

Il curato Millione per quanto gli fosse caro salvar il parente, non potè a meno di farli osservare che ciò era assurdo: allora il meschino rispose:tornate domani che fratanto vi penserò. Ma l’indomani disse ingenuamenteche in verità non sapeua che dire.

Pure, risoluto ad afferrare ad ogni costo quell’unico mezzo di salvezza, immaginò la mattina seguente il suo romanzo. Se non che, caduto pochi giorni dopo il Baruello malato di peste (pag. 76), disse, per isgravio di coscienza, al carcerato Giacomo Palazzi, datogli per assisterlo:Fattemi piacere di dire al signor Podestà che tutti quelli che ho incolpati, li ho incolpati al torto, et non è vero ch’io abbia chiapato denari dal signor Castellano, perchè ne anche mai ho praticato con lui. Indi a due ore che fu sul far del giorno se ne morse.

Simili proteste fatte nelle ore estreme, quando lo spavento della morte vicina e inevitabile, forza anche l’uomo più scellerato a palesare intera la verità, provarono la piena innocenza dell’accusato.

Il Padilla partecipava all’erronea opinione dei tempi intorno ai patti conchiusi col demonio, quindi egli afferma che il Migliavacca ed il Baruello eranostregoni o dati al diavolo, e come tali essere verosimile che si siano mossi a far morire le persone con li onti maleficiati per sola et pura istigatione del diavolo, quale si sforza come ognuno sa a proccurare simili morti improvise alli uomini, perche non s’abbino tempo, ne commodità di confessarsi et ricevere li santissimi sacramenti, ma vadano dannati, et non già per istigatione o persuasione d’alcun uomo vivente.E per viemeglio provare che il Migliavacca era uno stregone, racconta che trovandosi egli in prigione immaginò insieme con altri ditrouar forma di liberarsi dalle carceri. Et egli preparò un incanto per scrittura con cerchi, et caratteri diabolici scritto, e fatto a mano con la preda lapis; e poi con penna et inchiostro trascritto per fare che il Giudice delle loro cause, Notaro, Guardiani, et altri non trouassero mai reposso ne di berre, ne di dormire finche non hauessero liberato lui et altri dalle carceri, et che non liberandoli fossero morti fra poco tempo.

Chi dava fede a simili assurdità, era difficile non credesse agli unguenti pestiferi. E in vero risulta dal Processo che il Padilla opinava essere i medesimi adoperati in Milano. Nondimeno, benchè partecipasse a tale erronea ma comune credenza, addusse, per scolparsi, testimonianze che la dimostravano assurda. Voglio dire alcune deposizioni di medici che riferirò testualmente, perchè onorano il nostro paese, mostrandoche nel generale delirio v’erano uomini che non lasciavansi illudere. Che se tacquero finchè cessato il tremendo contagio si calmarono gli animi, fu perchè avrebbero esposta inutilmente la vita senza lusinga che si desse loro retta, chè il fanatismo non ascolta ragione.

Il medico Appiano fu uno de’ più distinti e benemeriti, come vedremo nel Libro IV.

Deposizione del medico G. B. Appiano della parrocchia di S. Stefano in Broglio.

«Non solamente io ho visto la peste, ma provatala dal primo principio et medicatola sino all’ultimo fine, sì nel Lazzaretto come per tutta la città et tuttavia io l’ho sempre vista uniforme sì nelli mali che apportaua come nella maniera che ammazzaua et nella prestezza del tempo. E questo per infiniti casi veduti in quei principj nel Lazzaretto dove tutti gli appestati o vivi o morti erano condotti, non essendovi in quei tempi pur sospetto alcuno non che parola d’onti, tuttavia con accidenti terribili, e repentinamente morivano molti delli appestati.... Che se forse ne’ mesi caldi di luglio e agosto morivano più persone più presto et con accidenti più terribili, cagione della quantità dei morti n’era l’essere disperso per il contagio o commercio il male per tutta la città. Delli accidenti o morti più terribili n’era cagione il caldo, il quale quanto è maggiore tanto più fa malignare gli umori... perciò non mi meraviglio de detti accidenti. E dopo ancora li detti mesi caldi, et passato il sospetto dell’onto sono morti molti con gl’istessi accidenti, con li quali morivano quando degli onti si parlava».

E conchiude: «Onde, siccome ho detto da principio, mi pare che sempre dal principiar di detto male sino al fine sii sempre stato et uniforme a sè stesso et conforme a quello che viene descritto da buoni autori; et che siano occorsi casi simili a quelli che erano riputati d’onti sì avanti il sospetto degli onti come doppo, io ne posso fare certa e vera testimonianza per aver prima et più d’ogni altro medicato detto male sì nel Lazzaretto come per tutta la città».

Deposizione del fisico collegiato Branda Borri di Santa Maria alla Porta.

«Io ho medicato quasi tutto il tempo della peste, visitando moltissimi ammalati et ho notato in tutto quel tempo li segni di quel male,tanto in una persona quanto in un’altra, ch’io non seppi mai trovare, e accertare segni o accidenti o sintomi da noi detti, i quali mi potessero distintamente con le loro indicationi indurre a far conseguenza che più questo o quell’ammalato morisse di peste nata solamente da contagio, ovvero che procedesse dall’onto. E ciò l’ho potuto molto accuratamente notare et osservare, stando che essendo io già dalla peste infetto non visitauo altro che appestati ai quali io toccauo il polso, et vedeuo distintamente le urine, toccandoli ancora il male (bubboni) sì nelle persone ordinarie quanto ne’ grandi, et anche nelle clausure delle monache. In niuno de’ quali luoghi non ho mai potuto accertare et dire quest’è ammalato per esser onto, o per essergli in altra maniera il morbo contagioso comunicato... L’opinione del volgo ha sempre giudicato e tenuto piuttosto tutto il male procedere dall’onto, la qual opinione è sempre stata lontana dal mio sentimento. Poichè ancor ch’io non neghi che vi sii potuto essere stato l’onto col quale si potesse comunicare l’infettione, nulladimeno io tengo per fermo che moltissimi morissero di contagio ordinario, benchè da loro fosse stimato venir dall’onto.

Deposizione del chirurgo Antonio Gambaloita a San Paolo in Compito.

Appoggiandosi al fatto che a taluni veniva prima la febbre, poi «sopraggiungevano bubboni, antraci et carboni», ed in altri accadeva il contrario, affermava essere il primo caso sintomo salutare, funesto il secondo giusta Ippocrate. «Questa fu la causa, dice, che presso di me (cioè in cuor suo) non credeuo che gli onti (se pure ve n’erano) auessero fatti progressi alcuni... E concludo che doppo cessato il sospetto degli onti la peste faceua l’istesso effetto, ed haueua gli stessi accidenti come nel tempo che si parlaua degli onti».

E seguono altre testimonianze di medici affermanti essere morto egual numero di persone anche dopo che non si parlò d’unti.

E il Padilla? era impossibile con tanto cumulo di prove che non uscisse innocente, ed uscì, dopo due e più anni di prigionia. Ma che il Senato lo dichiarasse tale con sentenza, ovvero gli aprisse il carcere, mettendo, come dicevasi, in tacere le cose, è quanto ignorasi, perocchè l’esemplare dell’intero Processo da me veduto finisce tronco. Per ora non mi riesce di sciogliere questo dubbio, malgrado lunghe e ripetute ricerche.

Nel 1630 quasi tutta l’Europa era involta in queste tenebre superstiziose.Verri.Della Tortura, pag. 212.

Nel 1630 quasi tutta l’Europa era involta in queste tenebre superstiziose.

Verri.Della Tortura, pag. 212.

Dunque codesta triste e dolorosa storia delle unzioni si risolve in una patente ingiustizia imputabile soltanto alla crudeltà ed ignoranza dei Senatori? Prima di venire a siffatta conclusione, che sparge di tanta infamia la memoria loro, permettete che aggiunga alcuni riflessi.

Che dall’aprile all’ottobre 1630 siansi trovate più volte unte le pareti in varj luoghi di Milano, sembra indubitato, giacchè lo affermano e tutti gli autori contemporanei testimonj oculari, e le gride con tale unanimità, che il negarlo sarebbe un andar contro al criterio storico. Ma d’onde e perchè queste unzioni? Ecco il mistero. Dissero taluni che fu una burla di chi voleva ridere a spese della pubblica credulità, e ciò potrebbe accordarsi ove si fosse unto una o due volte, ma considerando la generale credenza nei veneficj di simili unzioni, il furore popolare e la morte sicura per legge cui affrontavasi, non è credibile che vi fossero ripetutamente uomini tanto disennati da mettere a repentaglio la vita per cavarsi il capriccio d’una semplice burla. Dunque? Io non sarei alieno dal credere che alcuni del volgo, e specialmente monatti ed altri addetti al servizio sanitario, persuasi come lo erano tutti a quell’epoca che vi fosse la peste manufatta, cioè unguenti e veleni atti a spargerla, combinassero chi sa quale miscuglio di schifosi ingredienti, imbrattandone le muraglie. E ciò allo scopo di vieppiù propagare il contagio che offriva loro insoliti e spropositati guadagni, e intera libertà di darsi in preda a gozzoviglie e sfoghi brutali.

È storico che questa vile genìa di furfanti s’adoperava per spargere la peste; i seguenti passi del Tadino, per non eccedere in soverchie citazioni, lo provano senza contrasto.

Gli monatti ed apparitori vedendosi la grande libertà et vtile del guadagno per li furti che faceuano, a bella posta lasciauano la notte per malitia cascare dalli carra delle robbe infette, et per la ingordigia della robba, la meschina gente alla mattina gli portauano alle loro case per tempo; d’indi à puoco s’infettauano, per lo che cresceua l’vtile à questa canaglia de monatti et apparitori, atteso che da loro in poi nissuno ardiua entrare nelle case de gli infetti, sì che haueuano buona occasione di rubbare.(Pag. 102.)

Dependeua ancora in buona parte questo danno(dell’aria infettata)dalla malitia dei monatti, li quali mirando il suo fine dell’interesse, acciò durasse longo tempo la loro fiera del guadagno; essendo bene pagati, oltre li furti che di continuo faceuano, lasciando alla notte cascare dalli carri di questa sorte di robbe infette, per le contrate, per li cantoni, li quali non conducendosi al Lazaretto destinato a questo effetto, per l’ingordigia veneuano rubbate dalli passagieri, per causa delle quali restauano molte persone tocche della peste in breue spatio di tempo, oltre che molti strazzi, et simile sorte di robbe putrefatte restauano sopra il corso Marino, et iui conueniua abbruggiarli per la loro pigritia et malitia di non condurgli al luogo destinato, et causauano fetori etpericoli grandissimi di nuouo contagio dell’aria. Fu ancora prouisto che sotto pena della forca, li monatti tenessero nette le contrate, ec.(Pag. 127.)

Se tanto interesse avevano costoro a diffondere il contagio, non si potrebbe inferirne che ricorressero altresì alle unzioni qual mezzo infallibile, secondo la credenza generale, a riuscire nel scellerato loro progetto? Del resto è una mera congettura storica che sottopongo al vostro giudizio, o lettori.

Molto fu scritto sul Processo del Mora, del Piazza e degli altri untori, e compiangendo questi infelici, periti fra i barbari supplizj, si gridò altamente contro l’ignoranza, la mala fede e la crudeltà dei giudici che li condannarono.

Io non voglio mettere in dubbio l’innocenza de’ primi, nè giustificare compiutamente l’operato de’ secondi, ma ritengo per intima persuasione, derivata da paziente e minuto esame di questo fatto storico, che, incolpando i senatori, non siasi fatto abbastanza ragione all’epoca in cui essi vivevano.

Pietro Verri, educato alle dottrine filosofiche, nemico de’ vecchi pregiudizj e abusi, che s’adoperò con zelo indefesso per isradicarli a vantaggio della sua Milano, tanto a lui cara, fu il primo a disseppellire l’obbliato Processo degli Untori. Che egli, amicissimo di Beccaria, lo coadjuvasse nel santo ufficio di far abolire la tortura che il secolo illuminato e i raddolciti costumi ormai tollerare non potevano, è naturale. Quindi nelleOsservazioni sulla Tortura, abbandonandosi agli impulsi del cuore, con quel suo stile vibrato e immaginoso, sviscerò, se permettete la frase, il Processo degli Untori, fulminandone i giudici, per dimostrare vittoriosamente l’assurdità e la scelleratezza della tortura, quale mezzo per iscoprire i delitti.

Ma noi, che nessuno scopo muove fuorchè la scoperta del vero, badiamo a non confondere la commiserazione col freddo ed imparziale esame voluto dalla critica storica.

La credenza negli untori era, come abbiamo veduto, generale dagli infimi del popolo, ai sommi magistrati, ai medici, al clero, data appena qualche rarissima eccezione. Di più tenevasi per certo che vi fosse un Gran Capo, il quale, con ogni sorta di mezzi, non escluso l’ajuto del demonio, dirigesse tutta la macchinazione a danno della pubblica salute. Gli animi erano trepidanti per quel misterioso pericolo, contro cui non sapevasi immaginare difesa; e accresceva tale febbrile inquietudine la esaltazione di mente che sempre domina nelle grandi calamità, mantenuta dal pensiero continuo della morte, che fa obbliare agli uomini le solite cure, e rallenta tutti i vincoli sociali. In questo statodi cose vengono accusati il Piazza e Giacomo Mora, il quale impacciavasi anche di flebotomìa e un poco di medicina, come solevano i barbieri d’allora, e come fanno anche oggidì in molti paesi d’Europa. Nella visita fatta in casa sua si rinvengono impiastri, olj, unguenti in buon numero (Processo, pag.50 e seg.) fra i quali alcuni preservativi contro la peste. Arrestate altre persone di dubbia fama, trovansi anche presso di loro unguenti che si prestavano a vicenda per guarire dalla lue venerea ond’erano sporchi. I giudici credono avere scoperto il filo della congiura, e li sottopongono alla prova della tortura, che a quei tempi nessuno per sogno credeva ingiusta e barbara. Gli infelici, senza badare alle terribili conseguenze delle loro confessioni, per sottrarsi allo strazio presente, come è istinto nell’uomo, dissero quanto loro suggeriva il dolore, inventando fatti, esagerando azioni per sè indifferenti; quindi confermarono sempre più la opinione preconcepita dai giudici. E siccome questi instavano perchè nominassero il capo, si denunziò il Padilla figlio del comandante del castello. Forse era desso l’unica persona d’importanza da loro conosciuta, e tale da rendere credibile l’accusa, fors’anche fu per vendetta di servigj mal ricompensati dallo spagnuolo. Il quale, affetto egli pure da lue venerea, come pare indichi il Processo (vedi specialmente pag. 329), aveva forse avuto relazione con alcuno degli accusati per rimedj, o peggio.

Allora i giudici credettero aver rinvenuto gli untori ed il loro capo, e con maggior fervore continuarono il processo, che a molti infelici sgraziatamente costò la vita. Ma chi erano questi giudici che li condannarono a morire tra le più orribili carnificine? Uomini distinti per nobiltà, per sapere, per impieghi, che, durante la carestia e la peste, si adoperarono con zelo non comune a vantaggio della patria, uomini, che, nel generale scompiglio, rimasero fermi ai loro posti, ingegnandosi con ogni mezzo di alleviare i danni del contagio, di cui parecchi, come il Monti, presidente della Sanità, morirono vittima.

Ora librate in eque lancie le circostanze tutte che ho esposte, la condanna degli untori è ella da rimproverarsi all’animo perverso ed alla ignoranza dei giudici, o sì veramente alla triste e quasi inevitabile conseguenza della superstizione de’ tempi? A voi, lettori, lo spassionato giudizio!

Romita una colonna sorge.PARINI.

La casa del barbiere G. Giacomo Mora, come il Senato ordinava nella sentenza, venne distrutta sino dalle fondamenta,et per memoria delli futuri secoli piantata una colonna in mezzo con inscritionedettaColonna Infameed a parte con epitaffio inserto nel muro del tenore seguente.(Tadino.)

QUI DOV’È QUESTA PIAZZASORGEVA UN TEMPO LA BARBIERIADI GIAN GIACOMO MORAIL QUALE CONGIURATO CON GUGLIELMO PIAZZAPUBBLICO COMMISSARIO DI SANITÀ E CON ALTRIMENTRE LA PESTE INFIERIVA PIÙ ATROCESPARSI QUA E LÀ MORTIFERI UNGUENTIMOLTI TRASSE A CRUDA MORTEQUESTI DUE ADUNQUE GIUDICATINEMICI DELLA PATRIAIL SENATO COMANDÒCHE SOVRA ALTO CARROMARTORIATI PRIMA CON ROVENTE TANAGLIAE TRONCA LA MANO DESTRASI FRANGESSERO COLLA RUOTAE ALLA RUOTA INTRECCIATIDOPO SEI ORE SCANNATIPOSCIA ABBRUCIATIE PERCHÈ NULLA RESTI D’UOMINI COSÌ SCELLERATICONFISCATI GLI AVERISI GETTASSERO LE CENERI NEL FIUMEA MEMORIA PERPETUA DI TALE REATOQUESTA CASA OFFICINA DEL DELITTOIL SENATO MEDESIMO ORDINÒ SPIANAREE GIAMMAI RIALZARSI IN FUTUROED ERIGERE UNA COLONNACHE SI APPELLI INFAMELUNGI ADUNQUE LUNGI DA QUIBUONI CITTADINICHE VOI L’INFELICE INFAME SUOLONON CONTAMINIIL PRIMO D’AGOSTO MDCXXX.

Marc’Antonio Monti, pubblico Presidente della Sanità.G. Battista Trotto, Presidente dell’amplissimo Senato.G. Battista Visconti, Capitano di Giustizia.

Questa Colonna, di granito con basamento di ceppo, ed una palla in cima, sorgeva sull’angolo sinistro della via detta la Vedra dei Cittadini entrando dal corso di San Lorenzo, precisamente rimpettoall’attuale farmacia Poratti. Monumento sciagurato d’errori più dei tempi che degli avi nostri, la Colonna Infame durò in piedi 148 anni, e fu sempre guardata con ribrezzo ed esecrazione. Il canonico di San Nazzaro Carlo Torre, il quale nel 1676 stampò il suoRitratto di Milano, che per stranezze di concetti, giuochi di parole ed ampollosità di stile è un vero tipo del pessimo gusto dei seicentisti, nellaperegrinationecui guida per Milano il suo lettore, arrivato alla Vedra de’ Cittadini, esclama:

«Venneui mai all’orrecchio più enorme sceleratezza? fu ragione cancellare dal libro dei viuenti chi desideraua estinti gli stessi viuenti: spiantare le mura dell’abitazione di colui che voleua dipopolata di cittadini la sua natiua città, e che con untioni rendeua più sdruccioloso il sentiere della morte. Credetemi che il nominato Mora hebbe coscienza da Moro, e se è nero chi è moro, egli fu un crudo moderno Nerone, che non con fuoco, ma con oglij haueua in pensiere d’apportare l’ultimo esterminio alla sua Patria, benchè gli oglij vengono adoprati per accrescere le mancanti forze negli indeboliti induidui». (Pag. 129.)

Il Lattuada, uno dei pochi scrittori tanto ragionevoli da mettere almeno in dubbio il fatto degli Untori, nella suaDescrizione di Milano, tomo III, pag. 330-338, 1736, si esprime nel modo seguente:

«Sopra la vasta strada che guida verso il centro della città si trova a mano manca una colonna piantata sopra piccola piazza che conduce entro un’altra contrada detta De’ Cittadini, perchè ivi abitava una nobile famiglia di questo nome, chiamasi Colonna Infame, ec.»

E narrato l’avvenimento colle parole del Tadino, conchiude: «Presso cui sia la fede, se tali unguenti fossero fatti per arte diabolica, et atti a dare la morte, non volendo noi farci mallevadori di tale asserzione».

Ma il giudizioso dubitare del buon Lattuada fu un’eccezione quasi senz’esempio, poichè ci è grave il dirlo, i più stimati ed eruditi uomini dello scorso secolo prestavano intera fede alle unzioni. Ed era sì profondamente radicata codesta credenza, che non solo il volgo, ma i primi magistrati e letterati chiarissimi l’avevano quasi per articolo di fede.

Nel 1713, vale a dire quasi un secolo dopo, essendovi sospetti di contagio dal lato del Piemonte, il presidente della Sanità di Milano scriveva al commissario d’un villaggio sul Lago Maggiore, raccomandando somma attività e vigilanza, perocchè era giunto a notizia del magistrato che girassero da quelle parti Untori per diffondere la peste. Ho veduto la lettera io stesso in una raccolta di documenti patrii.

Quell’Argellati, che i benemeriti cavalieri milanesi, fondatori dellaSocietà Palatina, chiamarono da Bologna a Milano per dirigere la splendida edizione degliScrittori delle Cose Italiane, immaginata dal Muratori, quell’Argellati che sì bene rimeritò l’ospitalità avuta tra noi, stampando nel 1745 la sua laboriosa e tanto utileBiblioteca degli ScrittoriMilanesi, parlando in essa del Monti, presidente della Sanità durante la peste, chiamaOnorevole Menzioneche il suo nome figuri nell’iscrizione della Colonna Infame tra i giudici degli Untori. Il sapientissimo Muratori, che ad una sterminata erudizione univa pietà sincera e carattere mansueto, credeva egli pure al delitto degli Untori: «Ne esiste tuttavia, dice nelGoverno della Peste, cap. 10, la funesta memoria nella Colonna Infame posta ove era la casa di quegli inumani carnefici».

E in epoca ancora più vicina, l’Orazio Lombardo, che con sì frizzante ironia e ingegno sì svegliato insorse a flagellare gli effeminati costumi del suo tempo, e tanti vecchi pregiudizi fulminò coll’ira del verso potente; egli, uomo di alti sensi e di libera mente, che dalla sua cattedra d’eloquenza educava la novella generazione alle idee del giusto e del bello, partecipò all’erronea credenza sulle unzioni.

Il traduttore in dialetto milanese dellaGerusalemmedel Tasso, Domenico Balestrieri, in una nota alla stanza 70 del canto VIII ci conservò un frammentod’un Sermone Chiabreresco e del più fino gusto, Orazione che l’abate Parini, degnissimo R. Professore d’Eloquenza, ha recitato in un’accademia pubblica. Si figura in esso d’incamminarsi al Tempio di San Lorenzo, vivamente esprimendosi in questa guisa.

. . . . . . . . . . . . . . . . .Quando tra vili case in mezzo a pocheRovine i’ vidi ignobil piazza aprirsi.Quivi romita una colonna sorgeInfra l’erbe infeconde, e i sassi, e ’l lezzo,Ov’uom mai non penètra, perocch’indiGenio propizio all’Insubre CittadeOgnun rimove, alto gridando: lungi,O buoni cittadin’, lungi, che il suoloMiserabile infame non v’infetti.Al pie’ della colonna una sfacciataDonna sedea, che della base al destroBraccio facea puntello: e croci, e rote,E remi, e fruste, e ceppi erano il seggioSu cui posava il rilassato fianco.Ignuda affatto, se non che dal colloPendeale un laccio, e scritti al petto avevaObbrobriosi, e in capo strane mitre,Terribile ornamento. Ergeva in altoLa fronte petulante; e quivi sopraAvea stampate con rovente ferroParole che dicean: Io son l’Infamia.Io che, virtù seguendo, odio costei,Anzi gloria immortal co’ versi cerco,A tal vista fuggia; quando la Donna,Amaramente sorridendo, disse:. . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . .Quando tra vili case in mezzo a pocheRovine i’ vidi ignobil piazza aprirsi.Quivi romita una colonna sorgeInfra l’erbe infeconde, e i sassi, e ’l lezzo,Ov’uom mai non penètra, perocch’indiGenio propizio all’Insubre CittadeOgnun rimove, alto gridando: lungi,O buoni cittadin’, lungi, che il suoloMiserabile infame non v’infetti.Al pie’ della colonna una sfacciataDonna sedea, che della base al destroBraccio facea puntello: e croci, e rote,E remi, e fruste, e ceppi erano il seggioSu cui posava il rilassato fianco.Ignuda affatto, se non che dal colloPendeale un laccio, e scritti al petto avevaObbrobriosi, e in capo strane mitre,Terribile ornamento. Ergeva in altoLa fronte petulante; e quivi sopraAvea stampate con rovente ferroParole che dicean: Io son l’Infamia.Io che, virtù seguendo, odio costei,Anzi gloria immortal co’ versi cerco,A tal vista fuggia; quando la Donna,Amaramente sorridendo, disse:. . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . .

Quando tra vili case in mezzo a poche

Rovine i’ vidi ignobil piazza aprirsi.

Quivi romita una colonna sorge

Infra l’erbe infeconde, e i sassi, e ’l lezzo,

Ov’uom mai non penètra, perocch’indi

Genio propizio all’Insubre Cittade

Ognun rimove, alto gridando: lungi,

O buoni cittadin’, lungi, che il suolo

Miserabile infame non v’infetti.

Al pie’ della colonna una sfacciata

Donna sedea, che della base al destro

Braccio facea puntello: e croci, e rote,

E remi, e fruste, e ceppi erano il seggio

Su cui posava il rilassato fianco.

Ignuda affatto, se non che dal collo

Pendeale un laccio, e scritti al petto aveva

Obbrobriosi, e in capo strane mitre,

Terribile ornamento. Ergeva in alto

La fronte petulante; e quivi sopra

Avea stampate con rovente ferro

Parole che dicean: Io son l’Infamia.

Io che, virtù seguendo, odio costei,

Anzi gloria immortal co’ versi cerco,

A tal vista fuggia; quando la Donna,

Amaramente sorridendo, disse:

. . . . . . . . . . . . . . . . . .

Cioè espone poeticamente quanto contiensi nella mentovata iscrizione, soggiungendo:

Così dicea la Donna... E il vil dispregioE mille turpi Genj intorno a leiLa gian beffando intanto, ed inframezzoIl pollice alle due vicine ditaAd ambe mani le faceano scorno.

Così dicea la Donna... E il vil dispregioE mille turpi Genj intorno a leiLa gian beffando intanto, ed inframezzoIl pollice alle due vicine ditaAd ambe mani le faceano scorno.

Così dicea la Donna... E il vil dispregio

E mille turpi Genj intorno a lei

La gian beffando intanto, ed inframezzo

Il pollice alle due vicine dita

Ad ambe mani le faceano scorno.

Ma ormai la Lombardia risorgeva dal letargo e dall’abbrutimento cui l’aveva ridotta il dominio spagnuolo, mercè il savio e umano regime di Maria Teresa; e alcuni cittadini, zelanti del patrio decoro, avvedutisi come quella ricordanza di atrocità e stoltezze dei tempi disonorasse Milano, idearono di fare in modo che la Colonna Infame venisse levata, perchè colla medesima cadesse in totale obblio quanto riferivasi agli untori. Pietro Verri ed i suoi amici del Caffè, i più chiari e attivi letterati dell’epoca, erano impegnatissimi in tale divisamento; ma la difficoltà stava nel trovar modo di eseguirlo.

Frattanto il Balestrieri aveva mandata una copia della suaGerusalemme Liberata, tradotta in dialetto milanese, al barone di Sperges, ministro plenipotenziario per gli affari d’Italia in Vienna. E questi nella risposta si dolse col poeta che avesse citata nel suo libro la Colonna Infame, monumento di disonore pel Senato di Milano. Tale disapprovazione che si sparse fra gli eruditi della città nostra, fe’ risorgere più vivo il desiderio di annullare quella infausta memoria. Balestrieri, trovandosi a un pranzo del conte di Firmian, gli comunicò la lettera, e l’illuminato ministro, di concerto con S. A. l’arciduca Ferdinando, e gli altri membri componenti il governo della Lombardia, appigliossi al seguente partito per riuscire nell’intento colla minor pubblicità possibile.

Giusta un’antica legge, i monumenti d’infamia non si dovevano ristaurare qualora per vetustà minacciassero di cadere. Ora la Colonna Infame era, almeno in apparenza, minacciante ruina; il basamento, sia che non l’avessero sprofondato abbastanza quando fu costruito, sia pel naturale abbassarsi del terreno coll’andare del tempo, trovavasi quasi allo scoperto, ed il ceppo, corroso dall’umidità, sfracellavasi. La Colonna poi non era più ben ferma sul piedestallo, perchè, in occasione di concorso per feste od altro, i ragazzi, come sogliono, si arrampicavano tenendosi abbracciati al tronco di essa.

Traendo adunque partito da ciò, il Governo fece in modo che l’anziano della parrocchia facesse sottoscrivere dagli abitanti le case attigue una petizione, in cui imploravano l’atterramento della Colonna, stante il cattivo stato cui era ridotta. Il Governo mandò la petizione al Senato, il quale ricusò, e, se è vero quanto allora si diceva, per ben tre volte, di farvi ragione, non volendo disapprovare con un atto pubblico la sentenza che un secolo e mezzo prima aveva emanata l’antico Senato. Allora il Governo, fermo nel suo proposito, mise mano all’opera; nell’agosto 1778 gli abitanti della Vedra dei Cittadini sentirono più volte di notte tempo battere con forti colpi la base. La notte del 24 e 25 atterrossi la Colonna, che nel cadere si spezzò; la palla che la sormontava, staccatasi, rotolò giù pel vicolo dei Vetraschi. Finalmente l’ultima notte dell’agosto suddetto fu compiuta la demolizione, e perchè nessuno fosse testimonio, si lavorò sul far del giorno, ora di generale quiete, e per maggior precauzione furono poste guardie agli sbocchi delle vicine contrade, vietando l’avvicinarsi a chiunque a caso di là passasse.

Trovo accennato in una vecchia Guida di Milano, che il giorno vegnente, cioè il 1.º settembre 1778, fu fatta una visita giudiziaria sul luogo; ma di questa non mi riuscì rinvenire l’atto ufficiale.

Distrutta la Colonna Infame, i cui frammenti vennero gettati nella cantina dell’antica casuccia del Mora, rimaneva ancora la lapide coll’iscrizione, ma essendo divenuta quasi illeggibile per vetustà, non fu tolta. Il che, a dir vero, era un controsenso alquanto ridicolo, dacchè l’iscrizione ricordava, al pari della Colonna, il processo degli Untori che tanto bramavasi di far cadere in dimenticanza. Nel 1801 sparirono affatto le rimaste vestigia, avendo quel luogo mutato totalmente d’aspetto.

Un Franzino, mercante di vino, comperò l’utile dominio del piazzale appartenente per livello alla famiglia Loria, indi Manzi, e v’innalzò un fabbricato, aprendovi botteghe. L’anno medesimo fu atterrato l’arco, o loggia abitabile, che riuniva i due lati della contrada. La Vedra de’ Cittadini ed il luogo in tal guisa abbellito, non conservò più traccia dell’antica destinazione d’infamia. La lapide nel 1803 fu data all’avvocato Borghi, che pretendesi la collocasse nel proprio giardino.

Queste minute particolarità, non senza interesse per gli amatori delle cose patrie, raccolsi con lunghe indagini e da una cronichetta manoscritta del famoso chimico Porati, testimonio dell’atterramento, e da molte altre private Memorie.

FRANCESCO CUSANI.

FINE DEL LIBRO SECONDO.


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