LIBRO SECONDOGLI UNTORI.
A molti era entrata nell’animo la persuasione che la peste fosse seminata e diffusa per frode dei principi congiurati, affine d’invadere la città e il territorio di Milano con buon esito, dopo che invano l’aveano tentato altrimenti. Devastate così, e rese dappertutto squallide le campagne per mancanza d’agricoltori, nè più essendovi chi impugnasse le armi, avrebbe chiunque potuto occupare il nostro paese inerme e deserto. Re potenti, e ministri loro, si accusavano autori di sì disperato consiglio, e il publico, nell’impeto della sua disperazione ingiuriava altresì coloro che forse commiseravano altamente i nostri guai. Nè faccia meraviglia se in tal guisa agivano i cittadini, incriminando lontani ed estranei, poichè nutrendo eguali sospetti, si diffamavano a vicenda gli uni gli altri.
La quale agitazione degli animi, non meno fatale della strage della peste, dobbiamo attribuirla agli imperscrutabili decreti della Provvidenza. E tanto crebbe la cosa, sia per calamità e miseria, sia per superbia e pazzia, che ogni giorno si punivano gli Untori in città , mentre al tempo stesso nel Lazzaretto, simile ad una pubblica sepoltura, i sospetti e gli indizj del loro delitto sussistevano e in una svanivano.
Mirabile a dirsi! si trovarono nel Lazzaretto alcuni con indosso cassettine, ampolle e tutti gli altri utensili del delitto. Confessarono, e non ricredutisi sotto il cruccio della tortura, vennero tradotti al patibolo. Ma ivi nelle mani del carnefice, che già avea loro posto al collo il laccio, protestarono d’essere innocenti, gridando al popolo che morivano volontieri per altri misfatti da loro commessi, ma che giammai avevano praticata l’arte di ungere, ignari di qualunque veneficio e incantesimo. Tale era l’infamia degli uomini, ovvero la malvagità ed il livore del demonio. Per tal modo sempre più si confondevano gli indizj, e gli animi dei giudici rimanevano perplessi.
Il primo e fondatissimo sospetto degli unguenti sparsi dall’umana malizia per creare od alimentare la peste, nacque allorchè fu visto in tutta la lunghezza della città le pareti delle case a destra ed a sinistra contaminate qua e là di grandi macchie. Ciò accadde il 22 aprile allo spuntare del giorno, che era sereno, cosicchè ognuno vedea chiaramente co’ proprj occhi tali macchie. Alcuni che uscivano pei loro affari sull’albeggiare le videro; poi altri che eccitarono i passanti ad esaminarle, finchè cresciuta la curiosità v’accorse il popolo in folla. Erano codeste macchie sparse e sgocciolanti in diverse guise, come se alcuno avesse imbevuta una spugna di marcia, appiccicandola alle pareti. Anche le porte delle case e gli usci qua e là scorgevansibruttate da quell’aspersione. Funesto delitto di recente commesso quasi per insultare il popolo, e che io pure andai a vedere. Inorridirono i circostanti, ma, giusta il consueto, presto le ebbero dimenticate; se non che crescendo il male e le stragi quotidiane, tornarono loro più vivamente al pensiero le vedute macchie. Ogni dì si andava narrando essersi trovati oggetti unti e bisunti, ed avere in un subito contratta la peste coloro che li toccarono. Diffusa tale credenza, si ritenne che venissero unte altresì le persone, cosicchè nel gran numero dei morti pochi si credeva non fossero stati in tal guisa infetti; sia perchè unti all’insaputa loro, sia pel contatto avuto con altre persone già contaminate con quel veleno, sia finalmente per aver tocco legni, muri, o checchè altro serve ad uso giornaliero. In breve la pubblica credenza s’accrebbe a tale, che non solo i ferri, i legni, e simili oggetti, ma le contrade medesime della città e l’aere si temevano infettati dagli untori. E siccome correva quella stagione dell’anno in cui il frumento ammucchiasi, secondo l’usanza, sulle aie e nei campi, il timore persuase fosse appestato anch’esso. La pubblica voce aggiungeva avervi parte gli incantesimi, e che i demonii erano congiunti cogli uomini per desolare Milano e il suo territorio[72].
Non ignoro che a taluni sembreranno esagerate le cose che narrai e quelle che mi rimangono a dire; ed io suppongo altresì favoloso quanto a que’ giorni venne divulgato e creduto tra simili vaneggiamenti degli uomini o esempii di calamità . Fu adunque in Milano comune la credenza, non isventata come assurda nemmeno dagli uomini di senno,tenere i demonii sicure stanze in essa città , nelle quali avevano stabilito l’emporio delle loro arti per dispensare gliunguenti. Molti osavano indicare il quartiere dove erano situate quelle case, nominandone perfino i proprietarii. Finalmente citavasi a nome, e s’indicava a dito un tale che faceva il seguente racconto.
Essendo un giorno fermato a caso sulla piazza del Duomo, vide venire un cocchio tirato da sei cavalli bianchi, nel quale, scortato da numeroso seguito, sedeva un uomo con aspetto da principe, ma con fronte infocata, occhio fiammeggiante, irti capegli, labbro minaccioso, e con una fisonomia che mai egli non aveva veduta l’eguale. Mentr’ei stava guardando a bocca aperta lo strano personaggio, il cocchiere, tirate le briglie a sè, arrestò la carrozza, e gli disse di salire e andar con loro. Avendo annuito per cortesia, lo condussero alquanto in giro per la città , finchè giunti dinanzi la porta di una certa casa, scese e v’entrò insieme coi forastieri.
Quella casa, continuava il narratore, gli parve somigliantissima a colui che l’aveva fatto montare in carrozza, e i cui ordini osservò che là venivano da tutti ubbiditi. La descrizionedella medesima, si può dire eguale a quella che fa Omero, immaginando nella Odissea l’antro di Circe. Orrori congiunti a maestà , un non so che di ameno e di terribile: qua fulgori e luce, là tenebre e notte artificiale; dove larve sedute in giro quasi a consesso, dove vasti deserti, sale, boschi, giardini, e dall’orlo di nereggianti scogli acque cadenti con gran fracasso nel sottoposto bacino. Altri portenti meravigliosi aggiungeva il nostro narratore, i quali, esaminati sul serio, divengono insulsi e ridicoli. Da ultimo conchiudeva che in quella casa gli furono mostrati immensi tesori, e scrigni pieni di denaro, colla promessa che ne avrebbe la sua parte, e di più quanto mai potesse desiderare, purchè, giurando in nome del principe, coadiuvasse a quanto si doveva fare. Ove gli offerti patti accettasse, desse il segnale del consenso, alzando il dito, facendo un giro sulla persona e piegando il ginocchio a terra. Il che avendo egli ricusato di fare, repentinamente si trovò trasportato sulla piazza del Duomo dov’era salito in cocchio.
In simil guisa impastoiava colui la sua favola, che molti ritennero desunta da un fatto riferito nell’antica storia. Credettero i Milanesi, credettero gli esteri, ed i libraj di Germania trassero partito da quella fola per guadagnar denaro, alle spalle della curiosità pubblica, vendendo una stampa rappresentante il supposto mirabile avvenimento.
Ho veduto io stesso frammenti di un disegno in carta eseguito in Germania, sul quale scorgesi il demonio sopra un alto cocchio, e con sotto un’iscrizione in lingua tedesca, in cui è detto qualmente l’apparizione di lui illudesse i Milanesi. Ho veduto altresì lettere scritte dall’arcivescovo di Magonza al cardinale nostro, richiedendo lo informasse sulla veracità dei maravigliosi avvenimenti che la fama divulgava accaduti tra il suo popolo. Gli venne rescritto che nessun cocchio infernale, spettro nessuno erasi veduto inMilano. Così le estranee genti non davano piena credenza a tali fole, perchè vivendo da noi lontani, poco interesse vi prendevano, fra noi invece il malore crescente ogni dì sotto gli occhi, e nell’ime viscere, rendeva vieppiù credibili tutti i racconti quanto più erano truci e stravaganti.
Dappoichè adunque il timore che gettasi prontamente ad ogni stolta credenza ebbe persuaso avere le frodi e le malvagità degli uomini, compagni all’opera i demonj, ed esistere in Milano un’officina per ispargere il contagio, nacque quella noncuranza che suole venir compagna della disperazione. I primarj cittadini, incapaci di trovar rimedj e purgare la città , vedute le tante stragi della peste, andavano tra loro commentando con sottigliezze le dicerie del volgo ignorante, e indagavano da qual principe o re straniero avesse potuto chiamare l’inferno in ajuto, e far ministri i demonj della sua malevolenza contro noi. Codesta era la insana investigazione, nè ritengo che mai riuscissero a scoprire l’autore del misfatto, stantechè non ne esisteva per avventura alcuno. Mentre la tabe, i cadaveri a mucchj e i moribondi qua e là giacenti facevano inorridire, ed i morti commisti ai vivi tramutavano questa città in un solo sepolcro ed in un rogo, la pubblica calamità diveniva vieppiù orrenda per gli odj intestini, l’esacerbazione degli animi e il mostruoso sospetto che taluni, corrotti e compri dai demonj, a prezzo d’oro attendessero a disseminare la pestilenza. I congiunti medesimi e gli amici si schivavano; nè paventavasi solo il vicino e l’ospite come pericoloso, ma i genitori, il figlio, il fratello, il marito e la moglie, cui ne uniscono i vincoli dell’affetto. Orribile e vergognoso a dirsi! la mensa, il talamo geniale, e checchè altro v’ha di santo per diritto di natura e delle genti, incuteva terrore, come se ivi appunto s’appiattasse e si effondesse il morbo. Trepidanti e con pièsospeso giravano i cittadini le strade, sopraffatti dalla tema de’ pestiferi unguenti[73].
Io non credo cadere nell’assurdo introducendo in questo tragico racconto anche i rei degli unguenti e dei maleficj, affinchè, siccome tra i ferri innanzi ai giudici o tra i tormenti offrirono uno spettacolo tetro e in un curioso, così sieno in oggi spettacolo ai leggitori, ed essi, e le risposte loro, e ciò che fecero, o vennero convinti d’aver eseguito[74]. Un certo Piazza[75], capo di tutti gli untori, fumesso in carcere: alcune donne, chiamate ad esame, dissero averlo veduto dalle loro finestre imbrattare con unguentii muri. E sì bene concordarono nelle risposte, descrivendo la fisonomia e gli abiti del Piazza, che, riconosciuto dai magistrati, fu tradotto in carcere. Era egliuno degli ufficiali incaricati di girare giornalmente per le case, e notare in un elenco i nomi dei malati: gli era stato destinato il quartiere della città detto di Porta Ticinese. Arguivasi che incominciando dallo sbocco della Vedra de’ Cittadini avesse unto tutte le vicine case, gli angoli, i vicoli, le contrade, le chiese ed i palazzi dei nobili[76]. Il capitano di Giustizia, per ordine del Senato, lo fece tradurre in carcere il sabato 22 giugno. Era il Piazza un furfantaccio d’alta statura, scarmo, di barba rossigna, capelli castagni, portava calzoni e stivaletti stracciati, ed un corpetto di panno nero; un cappello a falde cascanti gli copriva la testa e la faccia.
Interrogato, dopo i consueti preliminari solenni del foro, se avesse udito dire che si erano trovate in Porta Ticinese molte pareti stropicciate d’unguento, negò, dichiarando essere al tutto inscio di ciò. Si misero i giudici a redarguirlo ed a convincerlo, giacchè, sendo ormai la cosa nota e divulgata in tutta la città , non era verosimile che egli, incaricato di visitare le case in Porta Ticinese, nulla ne sapesse, e fosse l’unico che ignorava una faccenda sì conosciuta e sì pericolosa per tutti.
Le interrogazioni e le risposte si smarrirono in ambiguità , perocchè il malizioso co’ suoi sutterfugi lottava per sottrarsi al sapere ed alla prudenza de’ giudici.
Posto sull’eculeo, e sospeso alla corda, fu tormentato più del consueto con tutte le carneficine della tortura per le sue contraddizioni, dalle quali emerse il delitto, che egli persisteva a negare. Pure, anche in mezzo ai tormenti, negava con risposte sempre intralciate, le quali davano campo a maggiori sospetti, laonde fu più volte sottoposto alla prova.
Il quarto giorno, insistendo egli pur sempre sulla negativa, i giudici, dopo avergli indarno fatte squassare le membra, lo fecero per stanchezza, anzichè per clemenza, calare. Allentate le corde che gli annodavano le braccia, stava per essere sciolto, e, senza rimettere a luogo le ossa slogate[77], ricondotto nella sua prigione, allorquando, contro l’aspettativa d’ognuno: — Un barbiere, gridò, mi diede gli unguenti![78]
I giudici, raccolta avidamente questa spontanea confessione, che sembrava palesare l’origine del delitto e della pubblica salvezza ad un tempo, cominciarono ad esaminarlo con gran diligenza sui particolari. Nè finirono prima d’aver indagato chi fosse il barbiere, in qual giorno e luogo, ed a che patti avesse il medesimo somministrato l’unguento. Diceva il Piazza avergli il barbiere insieme coll’unguento dato un ampollino con certa acqua, la quale, bevendola,possedeva la virtù d’impedire, per occulta forza, che uno confessasse. E gridava non poter egli in conseguenza palesare cosa alcuna finchè i giudici lo tenevano sospeso alla corda: e quando veniva calato a basso, e rientrava in sè, ricuperando il senno, offuscato da quel beveraggio, non solo abborriva di confessare il delitto, ma gli usciva anche di memoria chi fosse il reo.
Ciò detto, spiegava il modo tenuto per ungere, quanto denaro gli esibì il barbiere se avesse lavorato con zelo e fedeltà ; però fino allora era rimasto colla speranza, non avendo ancora toccato denaro. Il barbiere, accusato dal Piazza come autore e complice degli unti, aveva nome Giacomo Mora[79], abitava alla Vedra dei Cittadini, ed aveva casa e bottega, laddove oggidì sulle ruine di essa casa sorge la Colonna Infame, monumento del commesso delitto, siccome si legge nell’appostavi iscrizione.
Il giudice, udito che ebbe quanto il Piazza affermava con giuramento, recossi colla sua squadriglia all’officina del delitto, credendo cogliere sul fatto il nemico della pubblica salute. Entrati, trovarono il Mora occupato ad un fornello con ampolle: anche il cammino ardeva, perch’egli distillava acque in diverse maniere; piena la casa d’utensili per accendere il fuoco e di caldaje. Gli scrivani, i birri, lostesso giudice, susurrando tra loro, profferirono che quella era l’officina degli unguenti.
Il barbiere, a tutta prima imperterrito, disse che quelle acque erano medicinali e spiegò per qual uso le componesse o le mescolasse. Indicava specialmente un rimedio contro i contagi, chiedendo scusa d’averlo composto senza licenza della pubblica autorità , mosso dal desiderio di salvare dal generale flagello almeno i congiunti e gli amici, ai quali era sua intenzione dare esso medicamento[80]. Le sue parole furono udite in mezzo al fremito eccitato dai sospetti e dall’ira.
Gli uffiziali si misero a perscrutare la casa, e postala in un momento tutta sossopra, ricominciarono più adagio a frugare, finchè ordinatamente ebbero presa nota dei vasi, degli orciuoli, barattoli, trepiedi, caldaje, e di quant’altri utensili, atti a nuocere, rinvenivano in quell’infelice abitazione. Più d’ogni altro irritò gli animi una cosa forse per sè innocua, e scoperta a caso, comechè sudicia, e che dava maggior adito a sospettare di quello che cercavasi.
Trovarono due caldaje di rame piene di liscio marcio e vecchio, aventi sul fondo un sedimento sporco, tenace come vischio, color di cenere, e che puzzava come gli umaniescrementi. Ispezionato e analizzato codesto sedimento dai medici, i quali per abitudine non hanno a schifo siffatte immondezze, non rimase dubbio che tale materia servisse a preparare veleni[81]. Furono trascinati in prigione il barbiere, la moglie, i figli, i parenti di lui, i garzoni di bottega, e coloro che venivano ad impararvi il mestiere. L’infelice ed imprudente padre, accusato di sì infame delitto, persisteva, in mezzo ai tormenti, a negare, giusta la usanza dei malfattori. Allorchè il tormento vinceva, egli implorava alcun sollievo, dando lusinga che scoprirebbe il vero, e alcuna cosa andava dicendo che aveva del verosimile; ma tosto si ritrattava, accusando la violenza degli spasimi che suo malgrado gli avevano strappata la parola dal labbro. Ritormentavasi più aspramente, ed egli di nuovo, per aver tregua, rispondeva a beneplacito de’ giudici, poi subito si contraddiva.
Si fece venire il Piazza, accusatore e complice suo; messi al confronto, altercarono fra loro i due rei, ma con notabile differenza. Il Piazza volgevasi con parole familiari ed amare al Mora; e questi negava d’averlo mai conosciuto neppure: s’ingiuriavano l’un l’altro. Il Piazza rimproveravaal barbiere l’infame delitto, le stolte sue speranze, e il fine cui si trovavano ridotti; l’altro gridava, invocando la vendetta di Dio contro la calunnia e le insidie che qualunque malevolo può tendere ad un innocente. Sottoposto di nuovo alla tortura, il Mora continuò nell’alterno confessare e ricredersi, fintantochè, smarrito d’animo, quasi gloriandosi del misfatto, palesò fedelmente l’origine delle unzioni, l’arte adoperata, il progetto di distruggere la città , quanto aveva apparecchiato nei singoli barattoli, e quai luoghi fossero di già contaminati ed unti.
Mentre ferveva il processo del Mora, e facevansi indagini, si scoprirono altri indizj e novelli untori, gente da bettola e da lupanare, e tutti usciti da quell’officina, nomi degni di forca e di rogo: un Migliavacca, un Baruello, un Bertone[82]. Mandata per essi la sbirraglia, furono tradotti dinanzi ai giudici, e con poca fatica confessarono il delitto, come s’erano trovati e che avessero operato in quella iniqua congrega. Sorse una voce che fece abbrividire i giudici stessi d’orrore, senza che osassero parlare, come accade lorquando gli uomini neppur ardiscono palesare i proprj mali. L’untore Baruello, fra le sue deposizioni, disse che eravi un gran capo all’ombra, e sotto il patrocinio del quale ascondevansi tutti gli untori, senza temere danno o pericolo di sorte.
Questa confessione fu tenuta per indizio di un male maggiore, ed insistendo i giudici per conoscere chi fosse codesto gran capo sì potente, riuscirono a fargli dichiarare essere Giovanni Gaetano Padilla[83], colui che aveva somministrato il denaro, promettendo un politico cambiamento, quindi onori e titoli, qualora rovesciato il vigente Governo di Milano e dello Stato, egli ne diventasse il supremo signore. Riferirono senz’indugio i magistrati tutto ciò al governatore prima di continuare le investigazioni: frattanto occultavasi la cosa sotto rigoroso silenzio. Per ordine del governatore venne replicato l’esame, ed i furfanti, ora interrogati con dolcezza, ora sottoposti a tormenti d’ogni sorte, esponevano, incominciando dall’origine, quanto segue. Avere avuto frequenti colloquj col Padilla; molte cose aver discusse e pattuite insieme, e essere corsi avanti indietro messaggi tra loro, finchè da ultimo si trovarono di notte oscura sulla piazza del castello, ed ivi, nella spianata dove fa i suoi esercizj la cavalleria, scelto un luogo per eseguire l’incantesimo, e confermare con riti infernali i patti dianzi fra loro convenuti, asserivano aver evocati i demonj a prendere parte nei veneficj, giurando ai medesimi con empie cerimonie di ungere. In quell’incantesimo apparì un Pantalone, con indosso una toga, colle brache, ed in testa una perrucchetta; il Padilla che si copriva la faccia con un tabarruccio, ed un prete, il quale, tenendo in mano una bacchetta, descriveva linee e circoli[84]. Queste ed altre coseche soggiunsero, cadono nell’assurdo e nel ridicolo. Il Padilla, incarcerato, confutò gli accusatori suoi, i luoghi,l’epoca, provando all’evidenza essere egli a que’ giorni assente da Milano, e non avere conosciuti nè mai veduti costoro. Gli untori furono nonostante puniti con sì acerbi supplizj, che la città ne avrebbe inorridito, ove la gravezza del misfatto non avesse fatta parer lieve qualsiasi pena[85].
Molti innocenti, che la fisonomia, l’abito sdruscito, o il soffermarsi qua e là rendeva sospetti, furono accerchiati dal popolo con grida e con tale tempesta di sassi e dicolpi, che anelavano d’arrivare al carcere, come in porto di salvamento. I campagnuoli e gli agricoltori, gente nelle calamità crudelissima, irritati dai proprj mali e dalla scarsezza delle biade, se scorgevano alcun viandante camminarea rilento lungo le strade maestre, o lasso riposarsi sul terreno, unendosi a frotte, lo circuivano, e, ben legato, lo traducevano a Milano. Ogni giorno capitavano turbe di contadini con siffatti prigionieri in catene[86].
Io stesso fui testimonio della disgrazia toccata ad un vecchio, che oltrepassava gli ottant’anni, e che all’aspetto ed al vestire appariva di agiata condizione. Entrò il medesimo nella chiesa di Sant’Antonio, dei Padri Teatini, i quali sono modello a Milano di sapere e di virtù, seguendo le orme dell’Abate istitutore del loro Ordine. Recitate che ebbe in ginocchio le sue preci, sentendosi stanco, e volendo riposare alquanto, spazzò col mantello la polvere da una panca per sedervisi. Alcune donne, lì vicine, al vedere un tal atto, gridarono che il vecchio ungeva le panche, e quanti erano in chiesa vociferando, fecero coro.
Correva in quel giorno, non mi ricordo che festa, ed il concorso del popolo era numeroso quanto permetteva il tristo tempo del contagio e lo squallore della città . Udite appena le grida essere un untore, tutti gli astanti si precipitarono addosso a lui. I più vicini, afferrato l’infelice vecchio, gli strappano i capegli, lo pestano a pugni ed a calci, e lo trascinano, già semivivo, per le gambe. Un solo pensiero trattenne que’ furibondi dal ferirlo di coltello nella testa o nel ventre; volevano tradurlo in prigione per serbarlo alla tortura dinanzi i giudici.
Io lo vidi trascinare, nè seppi altro che ne avvenisse, ma ritengo sia morto in breve, tanto era malconcio. Coloro che, sdegnati per quell’atroce caso, indagarono chi fosse il vecchio, raccontarono che era persona rispettabile ed onesta.
Il dì seguente fui spettatore d’un caso consimile, ma meno luttuoso, perchè la stolta plebe non inferocì contro un concittadino, ma contro Francesi. Certi giovani di quella nazione eransi associati per visitare l’Italia, e investigarne gli antichi monumenti. Seppesi dappoi essere i medesimi istrutti nelle arti che valgono a guadagnarsi il vitto lontano da casa, quale letterato, quale pittore e meccanico,in guisa che potevano essere utili a Milano se vi fossero capitati in tempi diversi.
Essi destarono sospetti nel popolo, perchè contemplando i bassirilievi della facciata del Duomo, non paghi di saziare la vista, gli andavano con diletto toccando colle mani. Un passaggero si fermò a guardarli, poscia un secondo; s’aggiunsero altri, e in un momento si fe’ calca, e tutti a bocca aperta e con occhi spalancati affissavano i pretesi malfattori. A poco a poco la folla circondò gl’incauti stranieri, e li vide tasteggiare quanto a loro sguardi sembrava pregevole in que’ marmi.
Questo bastò per giudicarli colpevoli; il popolo non seppe più a lungo frenarsi, e tanto più inferocì contr’essi, che dal vestire, dalle zazzere, dal fardello che portavano in spalla, e dalle grida con cui cercavano sottrarsi alle busse, furono riconosciuti per francesi. La prigione li salvò dal furor popolare; interrogati da’ magistrati, e conosciuti innocenti, vennero posti in libertà .
Ho narrati questi due casi per mostrare la leggerezza e la crudeltà della sospettosa plebe in quei giorni. E li scelsi a preferenza, non già come i più atroci tra quanti accadevano giornalmente, ma perchè d’entrambi fui spettatore io stesso: piansi il destino di quegli innocenti, e più ancora la follia cui abbandonavasi la nostra plebe durante il contagio.
Oltre codesti casi lagrimevoli, per tutti coloro che hanno senso d’umanità , altri pure ne accaddero faceti e quasi ridicoli a segno, che in mezzo a tanto pubblico lutto costrinsero a involontario riso chi ne fu spettatore o li udì raccontare. Ed ora, cessata la calamità , giovi il ricordarli a sollievo de’ leggitori, servendo, per così dire, di piacevoli fermate nel mesto campo che percorriamo.
Infuriando, come dissi, la pestilenza e gli atroci sospettidelle unzioni in Milano, il nostro Cardinale Arcivescovo volle sottrarre al pericolo due chierici suoi famigliari, de’ quali molto servivasi, e sì fedeli e industri, che difficilmente avrebbe potuto supplire se il contagio glieli rapiva. Mandolli perciò a Senago, villa discosta sette miglia da Milano, dove poco prima aveva comperata la rocca e gli orti ameni che la circondano. L’umano e dotto Arcivescovo, mentre viveva parcamente e fra gli stenti col restante della famiglia in mezzo alle morti quotidiane e le afflizioni di quei giorni, ordinò che venissero cautamente trattati i due chierici che dovevano in essa villa occuparsi d’alcuni lavori letterarj.
La peste non era fin allora penetrata in Senago, che anche in seguito rimase illeso[87], quindi i terrazzani lo custodivano vigilantissimi, e per la propria salvezza ed anche per l’ambizione di preservare fino all’ultimo sè stessi incolumi nel generale incendio; ricinto di cancelli il villaggio, non vi lasciavano penetrare alcuno.
Sorge la casa del Borromeo sopra una collinetta che domina Senago; i chierici nel dì stabilito, girando intorno al paese, giunsero in cima, senza che i guardiani li vedessero, seppure non dissimularono d’averli scorti. Il giorno seguente non uscirono, aggirandosi per le vuote e silenziose sale, pieni ancora l’animo dello sbalordimentoe del terrore recato seco da Milano. Trascorso però alcun tempo, s’inanimarono a metter piede nell’atrio, poi nell’orto: contemplavano i fiori, gli alberi, il frutteto, e allettati dall’amenità del luogo, valicarono la siepe, e salirono il colle vicino. Ivi sedettero al rezzo degli alberi, ed avendo seco loro il breviario, per non isprecare il tempo nell’ozio, si misero a salmeggiare alternativamente l’ufficio divino di quel giorno.
Il luogo ameno e solitario andava loro a genio, per cui recitato che ebbero alacremente l’uffizio, tratte di tasca le loro lezioni, si diedero a ripassarle, lieti d’adempire in quel giorno, senza noja, i doveri ecclesiastici e i letterarj. E tanto più volentieri s’ajutavano a vicenda negli studj, che non eravi maestro cui ricorrere durante il pericolo del contagio.
Quattro fanciulli che trovavansi sopra la collina a custodia del gregge, si divertivano a giuocare alle palle: uno di essi, scorgendo sdrajati all’ombra i due giovani in negre vesti, i quali parlavano ad alta voce e gesticolavano con in mano scartafacci, li additò ai compagni, e tutti estatici, affissarono que’ sconosciuti. D’improvviso decisero essere due di coloro che dalla casa del demonio in Milano (già erasi sparsa nel contado la favola) mandavansi nelle campagne a spargere gli unti. Non si avvilirono per questo i contadinelli, due corsero ad avvisare i terrazzani di Senago, affinchè accorressero armati, e due restarono a guardia per vedere se quei malefici fantasmi si dileguavano nell’aria. Intanto i due supposti untori a tutt’altro pensando che all’imminente pericolo, discorrevano tranquilli di poesia al rezzo degli alberi, alloraquando, alzati gli occhi a caso, videro il vicino bosco pieno di contadini armati di archibugi e di ronche. Era corsa l’intera popolazione di Senago, e molti giungevano altresì dai circostanti villaggi, cui erasidato l’avviso per affrontare i ministri dei demonj, schiamazzando essere venuto il momento di vendicarsi di quei mostri infernali. Già avevano circondati i due chierici, ed i più lontani altro non aspettavano per scaricare gli archibugi che un cenno di coloro, i quali, essendosi di più avvicinati, volevano guardare in faccia que’ neri uomini, e interrogarli d’onde venissero, e con quali intenzioni. I chierici, alzatisi senza profferir parola, meravigliavano di quella turba d’armati; per loro ventura sopraggiunse un contadino di Senago al servizio del Cardinale come custode della casa, il quale, essendo stato esonerato d’ogni altra incumbenza per servire i due giovani, appena avuto sentore del tumulto, corse anelante con uno spiede da caccia, e visto di che trattavasi, arse di rabbia e di vergogna, e insieme ridendo dell’equivoco, disse loro di seguitarlo.
Per tal modo sfuggirono ad una morte sicura gli innocenti giovani, che non già di veleni e di unzioni, ma dei proprj doveri e di letteratura si occupavano.
Ricorderò un altro fatto che nel tragico e lugubre aspetto di Milano pur mosse al riso. E fu caso tanto più ridicolo, in quanto non trattavasi di chierici oscuri, ma d’uomo conosciutissimo e stimato. Il rispetto dovuto al medesimo e la dignità storica esigono ch’io ne taccia il nome; però egli era tale che riuniva quanti pregi danno diritto all’altruistima ed alla gloria: uno di quegli uomini che nel corso dei secoli di rado fioriscono nelle città .
Dotto nelle lettere sacre e profane, filosofo, teologo, oratore, poeta, commoveva e calmava a voglia sua gli animi quando parlava al popolo; e, dote rara in un sacro oratore, era sì esperto nel maneggio degli affari, che pochi politici l’avrebbero superato. Conosceva i segreti e le intenzioni dei principi, e quanto ciascuno di essi poteva meditare ed eseguire; famigliare e ministro d’un potentato, che gli ignoranti dell’età nostra tennero per astutissimo, corse gravi pericoli alla corte del medesimo, ma da ultimo ne uscì salvo. Di nobile schiatta, d’aspetto dignitoso, riuniva la pietà e la religione a modi affabili e lepidi, doti che ben di rado trovansi congiunte. Tenevasi come un oracolo in Milano, ed ogni giorno molti andavano da lui per consigli. Poco prima che scoppiasse il contagio, volle peregrinare a Roma per la brama, dicevasi, di rivedere quella metropoli e baciare devoto le glebe innaffiate dal sangue dei Martiri, ed i luoghi nobilitati dalle vestigia de’ Santi. Siccome però alla pietà egli univa, come dicemmo, le cure civili, taluni affermavano avere intrapreso il viaggio per qualche affare.
I curiosi sfaccendati, sempre proclivi al misterioso, susurravano essersi recato a Roma per trattare di una guerra importante che andavasi macchinando in segreto, per far conquista di regni e provincie. Altri interpretavano più semplicemente la cosa, affermando che il Papa, mosso dalla celebrità ovunque divulgata dell’ingegno ed erudizione di lui, avevalo, per conferire seco, chiamato a Roma. Ivi giunto dalla Toscana, venne ricevuto con grandi onori nella Corte pontificia, e tutti gli altri uffiziali, giusta il consueto delle corti, lo festeggiarono, vedendolo così accetto al Pontefice.
La nostra patria, quantunque di certo non bisognosa delle lodi d’estranei, pure rallegravasi che un suo cittadinovenisse in tal guisa onorato. E noi udivamo con piacere narrare che il Papa gli aveva fatti alcuni regalucci, e l’invitava a pranzo in Vaticano, o a villeggiare con lui sugli ameni colli cari alle muse; che uno ed anche più cardinali erano stati lo stesso giorno a fargli visita per salutarlo e parlar seco. Cotanto in Roma, ammiratrice solamente delle cose proprie, era piaciuto quest’uomo per l’ingegno, i modi e que’ pregi che rendono benevisi gli inferiori ai personaggi oppressi dalla loro medesima grandezza. Divulgavansi per Milano notizie anche più liete, non essere improbabile ch’egli divenisse cardinale in quella città dove gli uomini ponno repentinamente salire in alto. E vieppiù ci rallegravamo in udire che il nostro concittadino con elevatezza di sentimenti aveva sprezzato d’usare le solite arti con cui ivi spianasi la via agli eminenti gradi.
Così un solo uomo peregrinante lontano dava argomento a discorsi in mezzo a tante miserie e tante stragi, per cui l’afflitta Milano paventava l’estrema ruina. I nostri, quantunque afflitti, pure si divertivano con quelle dicerie, e non essendo proibita ancora la venuta a’ forastieri, questi vi recavano notizie d’esteri paesi, e in pari tempo diffondevano in altre contrade i discorsi giornalieri e le favole credute nella città nostra.
Quand’ecco all’improvviso spargersi una stolida e atroce diceria infamante quest’uomo: da sicuri indizj risultare che egli era il capo degli untori. Trovossi il nome d’un nuovo delitto, ma che in quel tempo ammettevasi come le altre colpe comuni, e per tale veniva punito. Scorsi sette od otto giorni, si sparse nuovamente nel pubblico la voce, che egli, rinchiuso in profondo carcere, veniva custodito dai soldati: che il Papa aveva ordinato si recassero a lui ogni sera le chiavi della prigione, di nessuno fidandosi, ch’eransi suggellate le porte, cambiati e raddoppiati i guardiani. Aggiungevasicome si sperasse ottenere dal reo indizj di cose portentose, e tutte codeste notizie si affermavano con tale uniformità , che gli stessi congiunti ed amici più autorevoli dell’assente non ardivano aprir bocca e rispondere agli accusatori.
Attivissimi a spargere siffatta calunnia erano i nobili e le persone addette alle più cospicue famiglie. Arrossivano d’essere lontani parenti di lui, negando aver avuti comuni gli antenati, e ricusavano, spergiurando, quei legami di cui per l’addietro andavan superbi, falsando perfino le genealogie, tanto premeva loro di vantare una benchè lontanissima parentela con uomo sì pieno di meriti e sì rinomato. Nè tralasciarono nei discorsi e nei crocchi di spargere calunnie, come s’usa a danno degli infelici colpiti da qualche sventura o da un disonore di famiglia. Vennero a duello, e fu detto che taluni sostennero fino cogli schiaffi la verità dei loro racconti.
Infrattanto acquistava più fede la notizia che il reo, in catene e con una scorta di cavalleria, per togliere ogni adito di fuga, veniva tradotto, dietro un ordine del Papa, a Milano, non già per sottoporlo ad una procedura, essendo manifesto il delitto; ma perchè salisse al patibolo, ove le straziate sue membra servirebbono di spettacolo alla città , ch’egli voleva coi veneficj distruggere. Sparse la plebe simili dicerie, e le credettero anche i nobili minori[88], e con tale convincimento, che s’indicavano le fermate del viaggio, ed il giorno dell’arrivo. Si precisava l’ora della notte in cui il prigioniero, levato dal carcere e messo in carrozza, era uscito da Roma; quando per la via Emilia valicò i gioghi dell’Appennino, giunse a Bologna, sostò aModena, fu aspettato a Parma; ed altre particolarità del viaggio, come se venisse tradotto fra l’armi quel re dei Vandali che poco prima aveva tumultuato[89]. Fissavano il giorno in cui giungerebbe a Milano, e il genere di supplizio cui era dannato, spacciando il tutto con tale asseveranza, che se fosse stato vero, non avrebbe ottenuta più ferma credenza.
Allora i parenti di lui non si lasciarono più vedere in pubblico, ed i suoi nemici, che poc’anzi imbaldanzivano per l’accadutagli disgrazia, compiangevano con finta pietà il caso d’un sì onorando cittadino, rattristandosi, come se fosse loro propria, dell’onta che i delitti ed il supplizio d’un solo uomo recherebbero alla patria e ad una stimabilissima famiglia. Ma non esisteva ombra di colpa o di vergogna, perocchè mentre quel cittadino assente era fatto ludibrio tra noi, godeva il favore del Papa e di tutta la romana Corte, che sel teneva carissimo. Reduce in seguito a Milano, vi fu più stimato e ben voluto di prima, per avere, come dicevasi, ricusati tutti gli onori e le ricchezze offerte. Tali ridicole scene accadevano quasi ogni giorno in mezzo alla strage, all’incendio, e, per dir giusto, alle esequie di Milano. Ed io credetti farne cenno come nelle tragedie, fra le lagrime introduconsi talvolta cori e danze.
Ora mi si fa innanzi un argomento incerto e difficile a svolgere; se oltre questi innocui untori, uomini dabbene, che nulla macchinarono di male, e corsero nonostante pericolo di vita, vi siano stati altresì veri untori, mostri di natura, infamia del genere umano e nemici alla vita comune,siccome con troppo ingiurioso sospetto si andava affermando. E non solo è argomento arduo perchè dubbioso in sè stesso; ma altresì perchè non mi è conceduta la libertà sì necessaria allo storico di emettere e sviluppare la propria opinione sopra ciascun fatto. Ov’io volessi dire che non vi furono untori, e che indarno si attribuiscono alle frodi ed alle arti degli uomini i decreti della Provvidenza ed i celesti gastighi, molti griderebbero tosto empia la mia storia, e me irreligioso e sprezzatore delle leggi.
L’opposta opinione è ora invalsa negli animi: la plebe credula, com’è suo stile, ed i superbi nobili essi pure, seguendo la corrente, sono tenaci in dar fede a questo vago rumore, come se avessero a difendere la religione e la patria. Ingrata ed inutile fatica sarebbe per me il combattere siffatta credenza, laonde esporrò soltanto le altrui opinioni e i detti senza affermare o negare, e senza propendere nè per gli oppugnatori, nè pei sostenitori delle unzioni[90].
Esposi nel precedente libro qual fosse il carattere ed il sapere di Lodovico Settala, e di che fama godesse, narrando il pericolo da lui corso con stolidi plebei, i quali per nulla volendo credere alla peste, schiamazzavano essere egli medesimo che ne spargeva il nome tra il volgo. Alessandro Tadino, alunno ed amicissimo di codesto filosofo, cui era eguale, o almeno somigliante per indole, cuore, nobiltà di stirpe, studj, in una parola, per tutto, l’età eccettuata, ebbe anch’egli a soffrire le ingiurie della plebe, e trovò scampo ricoverandosi in una casa; il corso pericolo accrebbe la riputazione d’entrambi.
Il Tadino, nel fiore della virilità , quasi di già principe de’ medici egli stesso, compagno assiduo negli studj ed emulatore del venerando ed illustre Settala, cui stava di continuo a fianco, lo pareggiò, per così dire, dappoichè fu morto[91]. Entrambi, per quanto concedevano gli affari ela vita operosa, specialmente in quel tempo di peste, molto filosofavano insieme circa l’origine del morbo e l’avvelenamento di cui i Milanesi credevano essere vittima.
Morto il Settala, il superstite Tadino continuò ad esaminare tali fatti, giovandosi e delle proprie osservazioni e dei colloqui già tenuti coll’amico; ed espose la sua opinione diffusamente e con sottigliezza. Avendo io avuto sott’occhio alcuno de’ suoi scritti, ed udendo egli che già stava per uscire in luce questo mio libro, mi comunicò gentilmente le proprie opinioni e dispute, prestandomi i suoi commentarj[92]. Dai medesimi riferirò fedelmente le principali sentenze di codesto medico e filosofo chiarissimo circa la peste manufatta, e codesta diabolica fattura degli unti. Ma non pertanto rimarrà ancora per noi indecisa la cosa; in quantochè le unzioni, siccome d’origine diabolica e tenebrosa, ingeneravano mille dubbiezze negli animi.
Il Tadino, giusta lo stile dei filosofi, incominciava la sua disputa con argomenti cavati dagli astri, essendo egli non meno abile nello studiare le regioni celesti, di quel chefosse nella medicina, che vien detta una delle tre scienze nate, e in uno adulte. Scriveva egli avere preceduto agli unguenti una cometa, apparizione che si ritenne sempre presagio di grandi novità e sciagure. Tale cometa, d’aspetto più spaventevole ancora dell’usato, comparve nel cielo il mese di giugno, tempo in cui è opinione aver maggiormente lavorato l’officina degli unguenti[93]. Brillava a settentrione, e molti la videro; ed uomini esperti e presaghi delle future cose, dietro giornaliere osservazioni del cielo, vaticinarono da essa cometa quanto avvenne dappoi. Un’altra cometa apparì nel 1628 nel cardine destro per la congiunzione di Saturno, portento che fra tutti i celesti è ritenuto il più minaccioso e sanguinario.
Queste ed altre conseguenze deduce Tadino per mezzo di quella scienza sublime che ascende tra le celesti sfere, vi soggiorna, ne scruta gli arcani, e ardisce perfino trarre gli astri sempiterni, a partecipar colla vita e i casi dei mortali, ed imparenta il firmamento col genere umano. E forse egli ne è capace[94]; ma io, privo di siffatto coraggioo potenza, e chino a terra, sto pago di narrare alcune cose comuni e terrestri al par di me, citate anche dallo stesso a proposito degli unguenti. A confermare la credenza nei quali, furono non tanto un argomento quanto una specie d’oracolo le lettere che il re nostro scrisse al governatore Spinola del seguente tenore.
Eransi scoperte in Madrid quattro persone[95], le quali avevano recato seco unguenti per spargere la peste nella reggia. Fuggirono, ma ignorandosi per dove fossero rivolte, avvertiva il governatore stesse sull’avviso affinchè Milano e il ducato, cui egli presiedeva, non rimanessero vittime di quella scelleraggine.
Queste lettere, essendo firmate di propria mano del re, furono di gran peso sugli animi de’ cittadini, già proclivi a credere ogni più nefando delitto. Spedite dal governatore al Tribunale di Sanità , comunicate ai grandi, divulgate per Milano, suscitarono in tutti sì fieri sdegni, indignazione, sospetti, che ormai fu creduto lecito il dubitare di chicchessia.
Codesto avviso del monarca si tenne dunque per prova certissima degli unti ben più della cometa, cui attribuiva tanta influenza il citato filosofo. Subito dopo ricevute le lettere regie, occorse il caso d’un forastiere, che sulle prime accrebbe la fede del temuto e misterioso delitto delle unzioni, spargendo nuovi terrori; ma dappoi ridotto a nulla, come parecchi altri fatti, mescolò vieppiù, per una speciedi fatalità , il vero coll’ambiguo in codesta faccenda, aggiungendo tenebre a tenebre, perocchè succedettero altre cose, le quali confermarono quant’era dubbioso.
Nell’albergo dei Tre Re, in cui sono usi prendere alloggio i forestieri oltremarini e oltremontani, e stanziano per solito i viaggiatori francesi e tedeschi, capitò un giorno un Girolamo Bonincontro, giovane sui ventiquattro anni, di bell’aspetto, e che dall’abito elegante, dalla bionda e lunga capigliatura e dalla florida carnagione appariva francese. L’albergatore notificò il suo arrivo al magistrato, descrivendo il bagaglio, e riferì i discorsi tenuti dal giovane a mensa, ed ogni sua parola che i servi dell’albergo avevangli riferito a puntino.
Spacciavasi egli, fra le altre cose, esperto in medicina, portatore di farmachi ignoti, ed in ispecie di certe cassettine con entro un balsamo mirabile contro la peste, tutti i quali rimedj era disposto a far conoscere al Tribunale di Sanità , qualora lo mandassero a curare gli appestati nel Lazzaretto. Si vantava che la città di Palermo, desolata, nell’anno 1624, dalla pestilenza, erasi salvata dall’estremo eccidio soltanto pe’ suoi rimedj; e in prova esibiva diplomi e privilegi, dal vicerè di Sicilia a lui dati in premio del segnalato servigio, e conchiudeva, instando, di presentarsi alla Sanità perchè gli schiudesse il Lazzaretto[96].
Il presidente Arconato, ciò saputo, memore delle lettere reali, e riflettendo essere costui un francese, e parlar di medicamenti cotanto a que’ giorni sospetti e invisi, tanto più che cercava entrar nel Lazzaretto, come luogo opportuno a’ maleficj delle unzioni, ordinò che il forastiere venisse imprigionato, sequestrando i vasi, i fardelli e quanto seco aveva.
Fattone l’esame, si rinvennero oggetti che sembravano proprj di un famigerato untore, molte ampolle e barattoli ripieni di polveri, di liquori, d’unguenti, ciascuno col suo cartellino, chiusi e suggellati con molta diligenza. Egli affermava che erano tutti specifici innocui preparati per varie malattie.
Il medesimo Tadino, intervenuto per sicurezza come conservatore della Sanità , all’apertura della valigia ed all’esame che fu fatto nel Lazzaretto, li giudicò per tali. Il forastiero, esaminato, rispondeva in modo soddisfacente ai giudici; se non che confessò d’essere apostata d’un ordine religioso e che aveva abbandonata Ginevra, lupanare d’eresia, desideroso di viaggiare alquanto e recarsi a piedi in Roma ad implorare dal Papa perdono de’ suoi traviamenti. Il giovane venne rilasciato[97], ed apparve sì chiara l’innocenzadi lui, che cessarono i sospetti anche sugli altri forastieri.
Però i vaghi sospetti e la credenza delle unzioni crebbero nel pubblico per questo caso e per altri molti che il Tadino, chiamato a darne giudizio, non solo per la sua esperienza medica, ma per l’esimia prudenza, registrò siccome argomenti irrefragabili, e nei quali non poteva alcuno muover dubbio. Constava che alcuni rei del misfatto, sottoposti alla tortura, furono strozzati dal demonio, che le medesime case, untate una notte, lo furono in seguito ripetutamente, ed il nuovo unto sovrimposto alle prime macchie in guisa che apparivano segni d’arte diabolica.
Dodici vagabondi, arrestati e posti in ferri, confessarono e sostennero, anche fra i tormenti, esservi un tale che ogni giorno li menava all’osteria, e dopo che avevano ben mangiato e bevuto, li spediva ciascuno alla sua volta, ovvero in cerca della materia per fabbricare gli unguenti, rospi, scorpioni ed altri schifosi animali, e marcia di bubboni[98].
E perchè non si dubitasse di simili iniquità , di cui era capo il demonio, gli Inquisitori del Sant’Uffizio, nel lutto e nella disperazione della città , notificarono al presidente Arconato qualmente fosse stabilito al demonio un termine, oltre il quale l’inferno non avrebbe più alcun potere sulla vita del popolo milanese. Le quali parole dell’Inquisitor generale può dirsi aver troncata la questione degli unguenti coll’autorità apostolica che non può ingannarsi, nè venire ingannata.
Queste prove intorno le unzioni adduce il Tadino, medico, filosofo, conservatore della Sanità , ed altre più efficaci a conferma. Non è cosa nuova, e accaduta soltanto nella città nostra, il creare, per arte umana, la peste, che altre volte ritenevasi morbo naturale, prodotto dalla corruzione dell’aria o da interno guasto dei corpi, diffuso e contrattoper mezzo dell’alito e del contatto. Anche a Palermo, in Sicilia, quattr’anni circa prima della nostra peste, apparve il furore dei demonj frammisto alla stoltezza e frode de’ mortali; certi scellerati cospirarono in orribile accordo coll’eterno e implacabile nemico del genere umano, per avvelenare i precordi degli altri uomini, e toglier loro il bene dell’alito e della luce, per la quale noi, per favore divino, respiriamo e viviamo.
In quell’antica, nobile ed opulenta metropoli perirono, nello spazio di sei mesi, cento trentacinque mila persone, vittime della furibonda scelleraggine d’uomini iniqui al pari dei demonj. E vi furono Monatti che, salariati allo scoppiare di quel contagio con sei zecchini il giorno[99], temendo, allorquando la furia del male andò scemando, di perdere il vistoso guadagno, si rivolsero per ajuto agli spiriti infernali, forse col mezzo delle streghe, e ottenuto che l’ebbero, manipolarono, con infame miscuglio, veleni, ne’ quali racchiudevasi una forza per sè mortifera e insieme il nodo del veneficio.
Anche fra noi accaddero eguali e non ambigui portenti nell’antecedente peste, che afflisse Milano nel 1576; maggiore d’ogni altra ove quest’ultima non ne avesse scemata la fama. Uno degli untori, scoperto e convinto del delitto, mentre veniva appeso alle forche, confessò, palesando altresìl’antidoto del venefico unguento; il qual antidoto, sperimentata che se ne ebbe l’efficacia, divenne celebre sotto il nome d’Unguento dell’Impiccato[100]. A questi esempj conosciuti e recenti, s’aggiunse l’autorità d’antiche memorie; che più volte furono punite donne venefiche per manufatta peste. E trovasi ricordo di untori, i quali, per mezzo di sapone, d’aghi e d’altri oggetti d’uso giornaliero, sparsero il contagio in grandi città , sulle flotte, in intere provincie e regni; nè le pene cui vennero condannati valsero ad impedire in altri malvagi lo stesso delitto.
Finchè uomini esisteranno sulla terra, accaderà mai sempredi scoprire di tempo in tempo nuovi delitti e punirli; ma dopo la pena riproduconsi, e compressi risorgono nuovamente, tale essendo il giro delle colpe come d’ogni altra umana vicenda. Da ciò si arguisce che se in altri tempi e luoghi, ed anche in Milano, audaci mortali provocarono la natura e l’inferno colle arti loro, formando, per così dire, una terza potenza distruggitrice, altrettanto poteva accadere a’ giorni nostri.
Tali cose discute con lungo esame il Tadino, notando persone, luoghi, epoche, testimonj. Afferma aver veduto co’ proprj occhi nella contrada di San Raffaele un furfante a cavallo, che di soppiatto e destramente, allungando la mano, gettava una polvere venefica addosso ai passaggeri[101]. Essendosi messo a gridare per avvertire gli astanti, colui, dato di sprone al cavallo, fuggì.
Ho conosciuta, egli prosegue, un’onesta famiglia, ch’io frequentava come medico ed amico, la quale perì tutta quanta per la polvere venefica e contagiosa. Due giovani nubili[102], recatesi alla chiesa de’ Padri Serviti, attinsero col dito l’acqua benedetta nella pila, e si toccarono la fronte, il petto, le spalle, facendosi il segno di croce. Esse viderodei pulviscoli ed un sedimento sabbioso, che rimase loro attaccato sulle dita e sulle vesti. Tosto s’annebbiarono gli occhi, e furono prese da vertigini e dolore acuto di testa: portate a casa, dopo quarant’ore morirono fra gli spasimi, senz’indizio veruno di peste. La madre e tutti i servi morirono anch’essi di quel male inesplicabile.
Il senatore Caccia divenne rinomato in Milano non tanto pel suo grado, ma per l’ultimo suo caso, il quale per la novità del delitto rese a tutti notissimo il nome di lui. Un certo Ferletta[103], suo servo, ovvero uno di que’ clienti che frequentano le case de’ senatori ed ambiscono accompagnarli allorchè escono di casa, si presentò una mattina tutto ossequioso e sorridente, e porse al Caccia un fiore, lodandone per avventura la specie o la fragranza. Il buon Senatore per gentilezza l’appressò alle nari, e tocco all’istante nelle parti vitali, morì in brev’ora[104].
A Volpedo, nel Tortonese, si scoprirono sette malfattori: confessarono d’aver fabbricati gli unti, e mentre subivano il supplizio della ruota, si vide, sopra la macina d’un mulino vicino, una macchia di quel pestifero veleno[105]. Se ne fece l’esperimento, stropicciando quell’unto con mollica di pane, che fu data in briciole ad alcune galline; in una mezz’ora caddero morte, e sparate, si trovaronole interiora nerissime. Un moscone, che forse erasi posato sopra quella macchia, volò sull’orecchio d’un cocchiere, il quale in quattro giorni morì senza dolore o sintomi d’altro male, accusando soltanto ch’era stato morsicato da quell’insetto. I riferiti casi di persone e animali sono indizj che la peste non era solo naturale, ma vi concorreva altresì l’arte degli uomini, i quali manipolavano le più velenose sostanze della natura, fatali alla vita. Se non che le unzioni erano fattura più diabolica che umana, come apparisce dal fatto che racconterò[106].
Antonio Croce e Giovan Battista Saracco, abitanti in Porta Ticinese, nella contrada di Cittadella, si presentarono al Tribunale di Sanità , e deposero con giuramento quanto segue:
«Che ivi loro vicino si ritrovava un legnamaro infermo suo amico, al quale di notte v’andorno alcune persone in camera senza sentire aprire l’uscio; e li fu commandato dovesse di subito levare e andare al bastione, che colà avrebbe ritrovato una persona di molta autorità , la quale gli avrebbe dato da ungere le case in quel suo contorno, e dipoi gli promettesse andar seco che lo avrebbero risanato. Fratanto pigliasse a buon conto 25 scudi, li quali per quello fu rifferito, furno riposti sopra una tavola, e benchè l’infermo ricusasse più volte il fare questa funzione, prima perchè non poteva per la sua infermità , e non voleva pericolare la sua vita; e poi perchè non vedeva persona alcuna, se non sentirse movere il letto e levarli la coperta e li lenzuoli;il meschino, non sapendo più che dire, atterrito di tanto accidente, si risolse dimandare che persone erano, e da chi mandate. Uno di loro rispose nominarse Ottavio Sasso, il quale mai s’è ritrovato, per certo essere stato il demonio. Finalmente non volendo promettere di fare questa loro volontà , ritornarono pregare con lasciarli altri denari, sentendo l’infermo il moto sopra la tavola. E dopo molto contrasto gli fu detto, che si vestisse: sarebbero poco dopo tornati per andar seco, e dopo partiti, si ritrovò una voce di uno lupo che mugghiava sotto la lettiera, e tre gattoni sopra il letto, che sino al far del giorno vi dimorarono. Dopo tutti sparvero, restando il meschino mezzo morto, e riavuto alquanto domandò ajuto, e v’andarono i sopra menzionati suoi amici vicini, a’ quali raccontò subito tutto il successo seguito quella notte; il quale fu riferito subito al Presidente allora della Sanità ».
Per questo fatto e per altri, il Tribunale di Sanità ed il Tadino, conservatore di essa, avevano piena fede nelle unzioni.
Ormai il sospetto e il terrore de’ mortiferi unguenti, se non era dileguato dall’animo in tutti i cittadini, in molti almeno andava di giorno in giorno scemando; quand’ecco il 25 luglio repentinamente e contro la comune aspettazione, correre il popolo d’ogni parte all’arme, innondare lestrade e scoppiare incendj in diversi luoghi. Dubitarono i magnati, ed il volgo tenne per sicuro, che il subbuglio fosse suscitato per spargere dappertutto gli unti. Verso l’ora undecima di quel giorno[107], pochi Decurioni trovavansi in Palazzo, consultando intorno i provvedimenti, che ogni dì diventavano più necessarj. Giunse fino al loro orecchio il romore, per cui, balzando in piedi costernati, s’affacciarono ai balconi: alcuni più animosi scesero le scale. Non udivasi che un solo grido: «All’armi! i nemici sono in città !» I pianti delle donne ed un confuso schiamazzÃo rintronava l’udito, mettendo in agitazione gli animi, perchè nessuno ne conosceva la causa. Alfine serpeggiò, fra la tumultuante moltitudine, la voce che i Francesi si trovavano presso le mura, e quivi appiattati, avevano introdotti emissarj per dar fuoco a Milano.
Alcune persone mandate dal Palazzo a scoprire che fosse, riferirono aver viste le fiamme. Bruciavano infatti alcune beccherie a Porta Tosa: al Carrobbio ed al Cordusio ardevano cataste di legna, ammucchiate da taluni della plebe, i quali suscitarono il tumulto per aver occasione di rubare e depredare. Ivi accorreva d’ogni parte la folla, non già per ispegnere il fuoco e portar soccorso con acqua ai vicini, come s’usa, ma per godere lo spettacolo, spinta dalla solita curiosità . In un momento tutti i cittadini rimasti fino a quel giorno illesi dal contagio, si stivarono intorno ai roghi, e quasi ne avessero l’ordine, con impeto accorrevano, non per agire, ma per essere spettatori di que’ straordinarj incendj.
I magnati, ignari ancora del vero, e ritenendo i fuochi accesi dai Francesi già penetrati in Milano, diedero armi a quanti avevano d’intorno, e, armatisi essi pure, corsero alle porte, mettendosi ivi a difesa colle caterve di popolo che li aveva seguiti. Colà rimasero non solo quella notte, ma i dì e le notti seguenti, come se i nemici potessero entrare a porte chiuse, o già dentro le mura dovessero sbuccare all’improvviso fuori dalla terra. Il tumulto però non era che una congiura di pochi ladri.
Del resto, il popolo, correndo qua e là , raccogliendosi a gruppi, ora cianciando, ora rimanendo estatico a guardare, diede nuovo fomite al contagio. Il quale, siccome trasse a morte parecchj senza che i consueti segnali di peste apparissero, fu creduto per sicuro che i Francesi e i loro partigiani avessero unto in quel trambusto. Opinione anche questa che in seguito si riconobbe insussistente[108].
La peste, rinnovata in esso tumulto repentino, dopo ch’ebbe per qualche tempo fatta strage del popolo, s’attaccò agli animali: i buoi e l’altro bestiame che serve ai bisogni dell’agricoltura, stramazzavano di colpo durante il lavoro, ovvero nelle stalle e ne’ pecorili morivano come colpiti da un dardo. Tre anni durò la mortalità nelle campagne[109], ed al danno presente univasi il timore perl’avvenire, che non avesse termine l’ira divina ora contro la vita degli uomini, ora contro gli animali e le messi che servono agli alimenti.
Fu riferito in que’ giorni al Tribunale da certi Padri religiosi gravissimi, i quali non avevano motivo di mentire e non v’erano usi, qualmente nei loro campi e nelle ville, dove si ritiravano per ricrear gli animi stanchi degli studj, si fossero trovate palle e gomitoli, tutti ravvolti, agglomerati, intrecciati di filo unto e sgocciolante veleno. I contadini e alcuni religiosi malcauti, che li raccolsero e maneggiarono, caddero estinti al momento. Così pure morirono repentinamente altri, che raccogliendo le spiche ne’ corbelli, s’imbrattarono le dita dell’unto, di cui erano contaminate.
Mentre questi casi ed altri, sì tragici che burleschi, accadevano ogni giorno in città e nelle campagne, la peste infuriava ostinata e senza tregua nel Lazzaretto. Regolatore ed arbitro d’ogni cosa in esso recinto, fu tal uomo degno d’essere ricordato negli annali milanesi, anche se io narrassi non già il contagio e le stragi, ma i fasti e le glorie della patria nostra.
Il padre Felice Casati di Milano, del sacro Ordine dei Cappuccini, attissimo a quell’ufficio, parve fosse stato disposto dalla Provvidenza celeste per soccorrere la patria in quell’estrema ruina. Di corpo indomito alle fatiche, nel fiore della virilità , d’animo grande, placido, mansueto, all’opportunità rigoroso; sprezzatore della vita e delle terrestri cose, cui aveva rinunziato fin da quando, abbandonate le delizie del secolo, vestì l’abito de’ cappuccini ed entrò in quell’austera religione.
Era perito negli studj che sollevano al cielo l’umana mente e del pari nelle scienze indagatrici dei segreti della natura. V’univa l’eloquenza, sublime dote che a nulla giovava tra le miserie e le morti, ma utilissima in quanto, lasciata in disparte la vanità e la pompa oratoria, rimaneva quel solido e grave ragionare con cui l’oratore cristiano eccita gli animi ai proprj doveri, e li sa all’uopo raffrenare.
I Decurioni, chiamato il padre Felice, lo pregarono che per la santità sua e dell’ordine, assumesse l’arduo governo del Lazzaretto. Ei, parlato che ebbe modestamente di sè e con ornate parole dell’importanza e gravezza di tale ufficio, prese tempo a deliberare, risoluto ad aprirsi col cardinale arcivescovo. Ove il sommo e religioso Federico annuisse, egli, interpretandone il cenno come volere di Dio, entrerebbe tosto nel Lazzaretto; in caso diverso il padre Felice non si credeva destinato a quell’incarico dal cielo. Ma accadde un non so che di faceto e di elegante[110]in quel lutto generale, nella visita che il cappuccino fece all’arcivescovo.
Questi, udito il padre Felice, rimase alquanto sospeso,e disse alcune cose che parevano esprimere la titubanza dell’animo suo, per cui il cappuccino, piegato il ginocchio a terra, già già si accommiatava. Quand’ecco Federico, con ilare volto «È dunque vero, disse, o padre, che senza difficoltà entrerete tosto nel Lazzaretto!» e gettando le braccia al collo al padre Felice, lo baciò e ribaciò[111], dimostrando, colla familiarità e tenerezza sua, quanto fosse lieto d’aver trovato un uomo che, spregiando ambizione e vita ad un tempo, era pronto a lasciare la sua carica di guardiano, e gire incontro a tremendi pericoli. Ripieno d’ammirazione per tanto sacrificio, nulla ommise per accrescergli poteri ed onori, e confermando il pubblico decreto coll’autorità propria, lo elesse capo supremo del Lazzaretto.
Ricevuto il mandato, entrò fra gli appestati in quel recinto il padre Felice, quale vittima volontaria del contagio, di cui morir non doveva[112]. E ciò accrebbe la venerazioneper esso, imperocchè l’uomo che salvò a tante migliaja d’infelici la vita, ebbe egli pure bisogno de’ soccorsi che prestava altrui; e dopo averne seppelliti mille e mille, bramando invano la morte, quasi periva per lo strazio che fece del proprio corpo siccome narrarono. Era spettacolo bello, e in uno miserando, che mostrava la miseria e le angustie di que’ giorni, vedere il padre, esercitare il comando nel Lazzaretto, con indosso il cilicio, quasi paludamento di guerra. Vigilantissimo, quasi sempre digiuno, mal reggendosi per istanchezza, spargendo lagrime e sudori, egli s’aggirava pei portici, le capanne, le vie del Lazzaretto, di giorno imponendo coll’autorità del nome e del cappuccio, la notte armato di una lunga asta. Qua raffrenava in segreto misfatti, là distribuiva pubblicamente premj e gastighi, dove recava vesti e farmachi, dove porgendo orecchio alle confessioni dei moribondi gli confortava a lasciare il mondo colle speranze d’una vita migliore. Erano queste le giornaliere fatiche del padre, senza riposo mai; sovente cure ed affanni più gravi lo angosciavano.
Aveva egli sotto di sè ne’ portici e le capanne cinquantamila appestati all’incirca, cui la città forniva gli alimenti,ma soverchiando la moltitudine de’ malati, non bastarono le cure, i denari o l’ordine stabilito per la distribuzione, talchè molti pativano fame e sete in mezzo all’abbondanza di cibi e di vino.
Laonde più volte fu grande l’angustia, non sapendosi in qual modo rimediare, finchè si riconobbe per esperienza che Iddio vi provvedeva. Ed i regolatori del Lazzaretto vi si avvezzarono, in guisa che mancando gli alimenti necessarj a tante migliaja di persone, nell’ultime strettezze aspettavano fiduciosi i soccorsi della provvidenza.
Narrava il padre Felice, e narra anche oggidì, che più volte, quando mancato del tutto il denaro ed esaurite le provviste di pane e vino, temevasi nel Lazzaretto la fame, estremo de’ mali, sopraggiungevano all’improvviso i viveri in abbondanza, senza che si conoscessero i nomi dei benefattori. E venne largito oro ed argento in tal copia, che il detto Padre ebbe stupito ad ammirare i sacchi ammucchiati a sè dinanzi. Le persone ricche ed i più opulenti cittadini, o per divina ispirazione, o perchè, deposto ormai ogni pensiero delle terresti cose, nè stimando più utile il denaro a qualsiasi uso, s’infervoravano a placare lo sdegno di Dio, mandavano il vile metallo affinchè si recitassero preghiere. Ma non era ancora giunto il termine della calamità , imperocchè, non appena provveduto ad un bisogno, un altro ne sopravveniva più grave ed istantaneo, cui era impossibile riparare. Casi luttuosissimi e repentini, mentre distribuivansi le vivande a sollievo degli infermi, turbarono l’alacrità del donare e distolsero gli animi dei caritatevoli da future elargizioni. I deliquj e le morti di coloro cui sporgevasi il cibo, la spuma grondante di bocca, i veleni rinvenuti nelle cinture, le confessioni fatte nella stessa morte, ed altri manifesti indizj, appalesarono come quei miserabili fossero untori essi pure, ed insieme rimanessero unti.
Un subitaneo portento celeste e fatale, se mirabilmente non vi si rimediava, allagò di nottetempo, con ruina impreveduta, le capanne innalzate nel recinto del Lazzaretto.
La notte del 23 luglio cadde un acquazzone così dirotto, che i vecchi non si ricordavano averne veduto uno simile, talchè uomini e donne credettero precipitasse il cielo medesimo. Smosse e rovesciate le capanne e le tettoje, sotto le quali giaceva la turba infelice, travi, paglia, letti nuotavano travolti dall’acqua in mezzo al prato.
Padri e madri, ansiosi non della propria, ma della salvezza dei figli, ne corrono in traccia, e con difficoltà li rinvengono fra le tenebre in mezzo agli urli, ai vagiti, al generale schiamazzo. I gridi di disperazione, di dolore, i clamori non rompevano il silenzio di quell’orrida notte, chè il fracasso del cielo romoreggiante non lasciava udire verun altro suono. E se fin dal principio non apparissero in questa storia congiunti i prodigi celesti colle stragi de’ mortali, chiunque terrebbe per incredibile come un solo uomo abbia potuto tener fronte a simile violenza; e in quel tremendo diluviare notturno salvare da morte i naufraganti bambini, e loro restituire la quasi spenta vitalità .
Al primo scoppiare della procella, il padre Felice, prevedendo che l’acqua irromperebbe dovunque, che gli infermi correvano grandissimo pericolo, e che i soccorsi riuscirebbero inutili ove non fossero istantanei, accorse, seco traendo un drappello d’uomini, ne’ quali ripor soleva maggior fiducia nelle più difficili circostanze. Sprezzando l’acqua, e più rapido di essa, si precipitò colla sua scorta tra gli appestati, che s’annegavano, e i crollanti tugurj[113]. A guisache il pescatore trae dalla rete i pesciolini, porgendoli ai compagni, che tosto li chiudono nel corbello, così il padre Felice districava i bambini e li trasmetteva ai satelliti, che a tutto potere lo ajutavano a salvarli, recandoli di mano in mano dal prato nel portico, e da questo nelle stanze. La procella s’acquetò finalmente dopo alcuni giorni, in cui piovve sì a rovescio, che fu detto non essere mai caduto simile acquazzone[114].
Tra il diluviare, che non cessava giorno nè notte, e l’impeto del turbinoso vento, rovesciante ogni riparo nelLazzaretto, gli agonizzanti appestati, quasi infraciditi dall’acqua, esalavano l’anima. Io non ardirò discutere se la mancanza di soccorsi fosse imputabile all’incuria dei magistrati municipali, ovvero effetto dell’imprevista intemperie; perocchè se da un lato l’esempio di quanto fecero i nostri maggiori nell’antecedente contagio suggeriva d’innalzare tugurj, tavolati e ripari in più gran numero, dall’altro fu sì grande lo spavento e la violenza dei morbo, che, stupefacendo gli animi, impedì le necessarie previdenze.