CAPITOLO XIV.

CAPITOLO XIV.Mario Tiburzio, introdotto, come abbiamo visto, nello stanzino sotterraneo cogli occhi fasciati, aveva udito il susurrio di parole sommessamente scambiate, poi il rumore di passi che s'allontanavano equello d'un uscio che si richiudeva, quindi una voce giovanile e risoluta, la voce di Luigi Quercia, dirgli:— Levatevi la benda.Egli così aveva fatto, e s'era trovato in quella cameretta dove ilmedichinolo aveva già introdotto altre volte colle medesime precauzioni egli stesso. Il luogo era illuminato da una lampada posta sopra la scrivania a cui sedeva Gian-Luigi. Mario sedette sopra una seggiola posta vicino alla scrivania medesima cui Quercia gli additò con cenno da gentiluomo che riceve nel suo salotto; ed appoggiato il braccio alla tavola chinò il corpo innanzi verso il suo compagno, fissando i suoi occhi in quelli di lui. Per un osservatore era degno di nota l'esaminare quelle due teste giovanili con espressione risoluta, audace, ardente, in cui appariva la forza di due robusti voleri, l'intensità di due accese passioni, il concentramento in un'opera delle migliori doti che all'animo ed all'ingegno dell'uomo accordar possa la natura. Ma le passioni che dominavano questi due uomini com'erano diverse e l'una dall'altra distante! In Mario Tiburzio era quella nobilissima dell'amore della patria, in Luigi Quercia era una smodata ambizione di vanità personale, era una sregolata smania di possedere tutti i piaceri terreni. Quella si era messa e si metteva in urto contro le leggi della tirannia, ma esercitando le più nobili virtù del cuore, il sacrificio di sè, il coraggio disinteressato, l'amore dei nostri simili; la scellerata passione del capo supremo dellacoccalo faceva infrangere ogni legge di giustizia sociale e di umanità per cercare soddisfazione ad empi istinti con iniqui fatti. Questa differenza fondamentale si manifestava spiccatamente allora appunto che, sovreccitate da qualche circostanza, quelle passioni stampavano sulla fisionomia dei due giovani la loro impronta. La nobile figura di Mario s'illuminava, direi quasi, d'una luce superiore, ed impossibile vederla senza rimanerne ammirati: la bellezza di Gian-Luigi invece, per quanta essa fosse, si deturpava in quei momenti per una trista, feroce espressione, di cui carattere principale era quella ruga che veniva a solcargli la pallida fronte.Or dunque stettero un poco guardandosi i due giovani senz'altro, come studiando ciascuno fra sè a cui toccasse parlar primo; poscia Quercia trasse di tasca il suo elegante astuccio di sigari, ed apertolo ne offerse a Tiburzio; questi prese un avana e lo fece accendersi sopra il tubo di vetro della lampada; ilmedichinoscelse colla solita cura un sigaro per sè, richiuse e ripose in tasca l'astuccio ed accese a sua volta il sigaro alla lampada. Per alcuni istanti ancora e l'uno e l'altro parvero occupati unicamente di fumare con voluttà i loro sigari eccellenti che profumavano l'aere dell'odore finissimo del più squisito tabacco del mondo: poscia Mario si decise a parlare esso per il primo.— La vostra chiamata, signor Quercia, diss'egli, venne per me questa mattina più opportuna che mai. Io stava appunto cercando il modo di avere sollecitamente un colloquio con voi, perchè ho gravi novelle ad apprendervi, gravi comunicazioni da farvi e gravissime cose onde richiedervi. E tutto ciò colla massima premura. Pel vostro biglietto ho arguito che voi pure aveste cose d'assai rilievo da dirmi.Gian-Luigi accennò col capo che così era veramente.— A voi il decidere, continuava Mario, se volete parlare od ascoltar primo.Ilmedichinoabbassò con atto di elegante cortesia la sua destra aristocratica verso il suo interlocutore, e disse con avvenevole grazia:— Parlate voi, vi prego.Mario appoggiò alla scrivania tutti e due i gomiti e posando il mento sopra le sue mani insieme intrecciate, cominciò con tutta semplicità:— Abbiamo deciso ieri sera di dar fuoco alla mina. Questa mattina medesima, per mezzi sicurissimi, sono partiti i cenni agli altri centri d'insurrezione. Ad un giorno posto la striscia di polvere s'incendierà producendo dappertutto lo scoppio.— Se le polveri non si troveranno qua o colà e fors'anco in ogni dove bagnate: disse sorridendo Gian-Luigi.— No: proruppe con forza Mario Tiburzio. Siamo sicuri de' nostri congiurati.— Ah! non bisogna mai essere sicuri degli uomini, se non si è saputo destarne l'interesse. Tutti codestoro su cui contate, hanno eglino interesse preciso e sufficiente per affrontare le forche in nome dell'Italia?Tiburzio rispose alla spartana:— Tutti amano la patria, e tutti hanno giurato.Luigi s'inchinò, ma il suo sorriso diventò ironico.— E voi siete sicuro?— Sicurissimo.— Sta bene. E volete da me?— Che voi manteniate la vostra parola, che voi facciate ciò che mi fu detto e che voi stesso mi confermaste di poter fare, che ci procuriate il concorso della plebe.— Un istante! Esclamò Quercia. La mia parola non è impegnata che subordinatamente...— Le condizioni che avete poste furono da me accettate, e saranno tutte lealmente eseguite.— Chi me ne assicura?Mario arrossì.— La mia parola: diss'egli con vivacità.— E se voi morite?Tiburzio tacque un istante, riflettendo.— Avete ragione: diss'egli poi. Redigete voi stesso uno scritto in cui sieno contenute tutte le disposizioni onde convenimmo, che riguardano voi personalmente e la classe che rappresentate; sottoquesto scritto, con solenne promessa di effettuarne fedelmente il contenuto, ci firmeremo io e tutti i capi del movimento insurrezionale.Ilmedichinotornò ad inchinarsi per mostrare che quello spediente lo soddisfaceva abbastanza: poi arrovesciatosi sulla spalliera mandò al vôlto lentamente una boccata di fumo bianchiccio dell'avana, compiacendosi a guardarne le spire.— Insomma, riprese egli dopo un istante, voi state per giuocare la vostra testa, e volete che anch'io... e quelli che da me dipendono ci accordiamo il divertimento di questo giuoco. Sia pure; ma almanco abbiamo il diritto di conoscere le probabilità della partita e sapere le carte che si tiene in mano. Voi mi direte come debba aver luogo il moto, con quali elementi di successo, qual parte ci avete assegnata, e tutte insomma le più segrete risoluzioni che avete prese.Mario esitò un momento.— Ah mio caro signore: soggiunse vivamente Luigi: o la più compiuta fiducia o niente di fatto.— Vi dirò tutto: disse ad un tratto Tiburzio.Gian-Luigi si chinò con interesse verso di lui.— Fra una settimana è la fine del carnevale: così parlò allora l'emigrato romano. Tutta la gente pensa a darsi sollazzo, e pare impossibile benanco a ciascheduno che vi sieno chi nutrano gravi propositi e vogliano tentare gravissimi fatti; la stessa Polizia, se deve acuire il suo sguardo sui ladroncelli, crede in quest'occasione poter rimettere della sua vigilanza intorno agli umori politici. Inoltre l'accorrere di forestieri nella città rende più facile il nascondere e legittimar l'arrivo di nostri aderenti indettati....— Insomma: interruppe ilmedichinoche pareva impaziente di venirne alla conclusione; avete fissato per gli ultimi giorni del carnevale lo scoppio della rivolta.— Precisamente.— Questo quanto al tempo; e il modo?— Eccolo. In ogni città ogni capo della società segreta avvisa i sottocapi a tenersi pronti e ad eseguire le avute istruzioni al momento determinato. Queste istruzioni, diverse in ogni città ed adattate alle particolari circostanze di ciascheduna, sono combinate dal supremo Consiglio dei congiurati in ogni località. I sottocapi trasmettono gli ordini e quanto è indispensabile solamente di queste istruzioni a quaranta uomini ciascuno, che altrettanti ne tengono sotto di sè. Codesto forma in ogni città principale un nucleo forte, risoluto, compatto da seicento a mille uomini a seconda: e quanto possano un migliaio di coraggiosi in un assalto inopinato voi certo non lo disconoscete.Quercia chinò leggermente la testa.— Intorno a questo nucleo inoltre, continuava Mario, non può mancare di radunarsi tutta quella vivace e generosa parte della gioventù italiana che è insofferente dell'attuale ignominiosa servitù....— E tutti coloro che amano pescar nel torbido: soggiunse Gian-Luigi.— Non basta. Anche fra coloro che vestono l'assisa del soldato in Piemonte, in Toscana, in Napoli, vi hanno petti in cui batte un cuore d'Italiano. Contiamo parecchi fra i militari di vario grado nel numero dei nostri congiurati; ne contiamo eziandio nelle file degli Italiani che servono l'Austria. Per codestoro avverrà che parecchie compagnie ed anco battaglioni non combatteranno con molto vigore contro gl'insorti, e non pochi fors'anco passeranno dalla parte di questi. Di più non credo affatto vana illusione la lusinga che i moschetti di soldati italiani non vogliano rivolgersi senza esitanza contro chi alzerà il grido della libertà e dell'indipendenza dallo straniero.Quercia scosse il capo.— Se siete forti abbastanza da vincere, diss'egli, avverrà così; ma se i Principi hanno essi le probabilità di schiacciarvi, i moschetti dei soldati italiani vi fucileranno con tutta tranquillità e precisione.— Ma noi vinceremo: proruppe colla forza d'una vera convinzione il congiurato. Il potere dei Principi italiani posa sopra fondamento più labile che l'arena, poichè ha di sotto il meritato odio dei popoli.....— E l'Austria?— L'Austria sarà occupata dalla contemporanea insurrezione delle proprie provincie, e non potrà accorrere in difesa dei tirannelli nazionali..... Pogniam pure che essa riesca poscia a domare colle truppe delle altre parti dell'impero la rivolta italiana; ma ciò intanto non avverrà prima che la nostra rivoluzione sia vincitrice, e quando l'Austria crederà poter camminare sulla nuova Italia costituitasi, la troverà riunita dal pericolo comune, forte del suo recente trionfo, e della nuova libertà, infiammata dal desiderio d'emanciparsi per sempre dalla tutela straniera. La rivoluzione interna si cambierà in guerra nazionale; e quanto irresistibil forza abbiano i popoli che combattono tal guerra, ve lo dica la storia di Francia della fine del secolo scorso.— Sia pure: disse accondiscendendo ilmedichino; ma per far tutto ciò occorrono delle armi...— Le avremo; ne abbiamo già un buon dato. Varie casse sono penetrate nell'Italia media ed inferiore; parecchie eziandio in Piemonte; molte più sono in Isvizzera preparate e saranno introdotte questa settimana con mezzi sicurissimi. Quante ne vorremo poi, ce le procureranno gli arsenali stessi dei Governi che combattiamo...— Sì! Bisognerà prenderli questi arsenali...— E li prenderemo. Il popolo parigino ha ben preso la Bastiglia!...— Qui, per la nostra Torino, qual è il piano di battaglia?— La rivoluzione comincierà domenica sera, e sarò io che dal palco scenico del Teatro Regio, a metà dello spettacolo ne darò il segnale.Luigi Quercia si appoggiò ancor esso con tutte due le braccia alla scrivania ed appressò maggiormente il suo capo a quello di Mario.— Oh come? Domandò egli con molto interesse.E Tiburzio continuando colla medesima semplicità con cui avrebbe parlato delle cose le più indifferenti del mondo:— Lungo il giorno molti congiurati verranno in città ad accrescer le file; la sera saranno raccolti alle varie porte in armi per precipitarsi e sorprendere tutti i corpi di guardia, appena scocchino le ore nove, che è il momento fissato; due schiere più numerose assaliranno le due caserme e facilmente se ne impadroniranno, poichè quella sera saranno deserte di soldati, ai quali per la ragione che è l'ultima domenica di carnovale sarà concessa licenza fino alle ore dieci.— È giusto.— E nelle caserme piglieremo subito buon numero d'armi e alquanto di munizioni da guerra. Nello stesso momento una schiera di più risoluti invaderà in quella medesima guisa l'arsenale, dove non abbiamo da temer resistenza. Quando gli artiglieri verranno per rientrare, troveranno le porte chiuse e i nostri in sulla difesa. I cannoni non potranno così tuonare contro gl'insorti.— E la cittadella?— Ancor essa si tenterà di sorprendere in ugual modo; ma quand'anche non ci si riesca, la cittadella potrà far poco a nostro danno, perchè la maggior parte dei soldati sarà in giro per la città, e sarà agevol cosa lo averli prigioni, od almeno lo impedir loro di raccogliersi dietro i bastioni della rocca. Mi pare che in un istante noi abbiamo da essere padroni della città; siccome le stesse probabilità ci sono per le altre sommosse che in pari tempo scoppieranno nelle località principali, così puossi avere fondata speranza che in quella sera la rivoluzione trionfi per tutta Italia. Ma bisogna pensare anche al domani, bisogna pensare anche al caso di qualche insuccesso parziale.... — Se l'insuccesso è generale, allora noi rechiamo la nostra testa in mano al boia, e non ce n'è più da discorrere. — La tirannia, se le si lascia il capo, tenterà la sua rivincita, e siccome ha tanti mezzi in suo potere, potrà riuscire alla guerra civile, indebolirà, se non altro, colla lotta interna la nazione in faccia dell'Austria quando questa possa intervenire; occorre quindi togliere a quest'idra della tirannia le sue molteplici teste. Voi avete già capito quali sieno queste teste: sono i regnanti d'Italia: re, granduchi, duchi, principi e principini. La parte più importante del nostro disegno, quella in cui abbiamo posta la maggior cura e pogniamo la maggiore speranza di buon esito, consiste nell'impadronirsi quella sera medesima, non che delle persone dei singoli regnanti, ma di tutte le loro famiglie.— Cospetto! Esclamò Gian-Luigi. Questo sarebbe daddovero un bel colpo!— Per la famiglia regnante di Torino, sono poco meno che sicuro della riuscita. Vi dissi che io stesso dal palco scenico del teatro Regio avrei dato il segnale della rivoluzione....— Comincio a capire: interruppe vivamente Gian-Luigi, abbassando la voce quasi avesse paura che in quella solitudine sotterranea altro orecchio pur tuttavia potesse intendere le sue parole. Il Re con tutta la sua famiglia, quella sera assisterà allo spettacolo in pompa solenne nel gran palco della Corona.Mario Tiburzio fece gravemente un segno affermativo col capo. Tacquero un istante tutti e due, guardandosi fiso, come per leggersi entro l'animo a vicenda; poi l'emigrato romano disse lentamente, e con voce più sommessa ancor egli:— Quando suoneranno le nove io mi avanzerò allaribalta, e in faccia al Re, ai Principi ed a tutta la Corte, griderò alto, snudando la mia spada da teatro:Viva l'Italia! Abbasso l'Austria e i Principi suoi vassalli!Il fondo della platea e l'atrio delle scale saranno occupati dai nostri; a questo mio grido irromperanno nella loggia reale, superando le Guardie di Palazzo e le Guardie del Corpo; tutta Casa Savoia sarà nostra prigioniera.— E?... Domandò Luigi.— E i successivi avvenimenti, soggiunse Mario, decideranno della sua sorte.Successe un nuovo silenzio; cui ruppe dopo alcuni minuti ilmedichino.— In complesso la cosa non è mal combinata; e in tutto codesto quale la mia parte?— Far concorrere la plebe al movimento; persuaderla che le mutazioni politiche da noi tentate andranno in util suo, staccarla dalla devozione alla monarchia per consecrarla alla devozione alla patria.— Va benissimo. E le mutazioni di Governo, quando eseguite lealmente le condizioni da me poste, andranno in effetto a vantaggio del povero proletario.... Io posso aiutarvi più forse che non crediate. Quella sera medesima dello scoppio della rivoluzione, a sviare la Polizia, a disperderne le forze, io sono in grado di far prorompere in varie parti della città moti popolari che abbiano puramente sembianza... dirò così... economica. La miseria è grande in questa stagione, e io posso slanciare su per le strade delle turbe che tumultuino ad un grido ancora più efficace che quello della patria e della libertà, al grido diAbbiamo fame e vogliamo del pane. Le due insurrezioni si daranno la mano sulla rovina della monarchia. Ma il nerbo d'ogni guerra è il denaro. Ne avete voi del denaro?— Quanto occorre per le meditate imprese.— E per noi? Datemi un milione ed io metto in campo trentamila insorti.— Questo non possiamo assolutamente.— Se non darcelo prima, almeno assicurarcelo pel poi. La rivoluzione vincitrice avrà in suo possesso le casse pubbliche; ne vogliamo la nostra parte.— Ah! Disse Mario Tiburzio con subita freddezza, quasi con sospetto, tirandosi indietro sulla seggiola.— Voi esitate?— Quei denari dovranno essere sacrosanti perchè destinati alle necessità della patria.— E la patria non la salverete senza saper usare di quei denari ammodo. Gli uomini ond'io dispongo non si fanno sgozzare per una parola — chiamatela pure un'idea; e senza di me — ve lo dico chiaro e tondo — voi non riuscirete in nulla.Tacque un istante, e poi abbassandosi di nuovo verso il suo interlocutore, soggiunse vibratamente:— Questa mattina — e gli è per avvisarvene ch'io vi ho mandato a chiamare — questa mattina furono arrestati Francesco Benda e Giovanni Selva.Mario Tiburzio fece un soprassalto e mandò una esclamazione.— Furano arrestati, continuava Gian-Luigi; e nella casa di Benda ebbe lungo una perquisizione, la quale son persuaso si sarà fatta del pari nell'alloggio di Selva.— Nè presso l'uno, nè presso dell'altro possono aver trovato cosa che riveli in alcun modo il complotto.— Ma questo arresto non può egli essere indizio che si ha sentore del medesimo e che se ne vanno ricercando le fila?Mario Tiburzio, per quanto fosse padrone di sè medesimo, impallidì.— Impossibile! Esclamò egli. Converrebbe che alcuno dei più fidati capi dell'impresa ci avesse traditi.Tacque un istante, e poi domandò a Quercia lentamente, guardandolo fiso:— Ma voi, come sapete che que' due giovani furono arrestati e come ch'essi sieno della congiura?Quercia sorrise.— Vi ho detto che tengo ancor io la mia Polizia segreta, e potrei farmi onore della medesima che mi avesse informato; ma preferisco dirvi la verità qual essa è.Raccontò le scene a cui aveva assistito quella mattina, come avesse arguito che quei giovani dovessero aver parte nell'impresa ch'egli sapeva iniziata da Mario, e fosse stato chiaro di ciò dalla risposta che Giovanni Selva aveva data alla interrogazione da lui mossagliene in fretta nel momento della irruzione degli operai nella sala della famiglia Benda.Gli avvenuti arresti, soggiunse, potevan essere o l'effetto di dubbi senza fondamento soltanto, ed allora non avevano altro danno che di togliere all'opera due complici, od erano cagionati da qualche positiva conoscenza della congiura, ed allora era gravissimo il caso: nell'una e nell'altra supposizione egli domandava a Mario che cosa avrebbe determinato di fare.Tiburzio tornò ad appoggiare i gomiti alla scrivania, riaccostando il suo al volto delmedichino.— Prima di tutto ho bisogno di sapere esattamente da quali ragioni sieno stati determinati questi arresti.Fece una pausa, come attendendo dall'interlocutore risposta. Gian-Luigi non si mosse.— Se la congiura non è conosciuta, l'arresto di Selva e di Benda sarà pur sempre un danno grave, perchè essi sono due de' più risoluti capi e che abbiano una parte principale nell'impresa. Converrebbe adunque tentar di tutto per liberarneli.Nuova pausa di Tiburzio; nuovo silenzio di Quercia che parve tutto preso dall'attenzione con cui fumava l'ultimo pezzo del suo sigaro.— Se poi la congiura è davvero scoperta in tal caso...Mario s'interruppe e fece un cenno di eroica rassegnazione che voleva significare: «Allora ci tocca morire ed io son pronto.»Quercia disse allora:— Quando una congiura è scoperta non rimangono che due partiti: o precipitarne lo scoppio, quando ella sia matura, od aggiornarlo indefinitamente, sciogliersi i congiurati e fare scomparire ogni traccia del complotto.— Il primo da noi non si può, e il secondo troppo ci rincresce farlo senza un'assoluta necessità che lo comandi. Piuttosto, anche colla certezza di soccombere, si lotti....— Pazzie! Interruppe Luigi crollando le spalle. Qui non si tratta d'esser martiri, si tratta di riuscire. Orsù date retta, e non sciupiamo tempo e parole. Io, quest'io che guardate con tanto d'occhi, vi saprò dire che cosa sa o non sa la Polizia; se non si tratta che di sospetti in aria, io vi farò aver liberi i due arrestati, al momento della pugna io getterò nella strada una turba terribile per impeto e per furore che non solo paralizzerà ma distrurrà la forza pubblica. Ma oltre i patti già da voi consentiti occorre ancora una cosa: che voi sin d'ora assicuriate l'impunità a qualche eccesso di saccheggio che si commetta nella foga della riotta, che del pubblico tesoro, mi lasciate subito prendere quanto mi occorrerà per assoldare e contenere questi che saranno i nostri pretoriani della rivolta.Mario Tiburzio per la prima volta travide in qual baratro quel pericoloso alleato voleva trascinarlo.— Ma noi, esclamò egli, non vogliamo di questi pretoriani, noi non vogliamo eccessi....Gian-Luigi si levò con impeto, sfavillante lo sguardo di potente ironia.— Voi non volete? Voi non volete? Ma che concettovi siete dunque fatto dell'opera vostra e delle condizioni sociali, da credere possibile una rivoluzione all'acqua di rosa, che finisca in canzoni e serenate? Chi vuole il fine deve volere i mezzi, e credete voi possibile arrovesciare il mondo senza che venga al di sopra ciò che sta di sotto, senza che si levino in bollore gli strati inferiori del mondo sociale, e con questo bollore salga alla cima del fiotto la schiuma? Il vostro, signori patrioti, è un liberalismo all'antica, sullo stampo greco o romano, che vede nella massa da una parte una casta di cittadini a cui concedere i diritti politici e rispettatissimo il diritto di proprietà, e dall'altra parte una turba di iloti e di schiavi a cui lasciare in retaggio la miseria e il freno crudele delle leggi penali. Se voi poteste trionfare da soli, passi: al dispotismo della monarchia oligarchica sostituireste addosso al proletario quello d'una borghesia mercantile, industriale ed avara; e il proletario non cambierebbe che di stromento della sua schiavitù economica e civile; ma, il vostro liberalismo più potente di frasi rettoriche che di braccia e di coraggio, ha bisogno del proletariato, ed avendo compreso questa verità è venuto a cercarne l'alleanza. Io, che rappresento la plebe, sono pronto a stringere quest'alleanza; ma voglio per Dio che a questa povera plebe, sia concessa alfine la libertà....Mario sorse in piedi ancor egli, e interruppe parlando eziandio di forza:— Sì la libertà, ma non la libertà del delitto. Sì la plebe la vogliamo emancipata anche noi, emancipata dalla miseria e dall'ignoranza, che è la peggiore delle miserie, ma non emancipata dal freno delle leggi del giusto e dell'onesto, che sono la salvaguardia d'ogni società. Voi, dottor Quercia, confondete colla plebe quella vil feccia che pur troppo esce in maggior numero dalle più povere classi sociali per arrabattarsi nel fango dell'infamia e della colpa. Con questa non transigiamo, non facciamo alleanza: essa non ha che la nostra compassione talvolta, sovente il nostro disprezzo.Gian-Luigi impallidì e si morse le labbra, ma tacque.Tiburzio continuava:— Una rivoluzione che saccheggi si disonora; se noi trionferemo, sarà nostra cura far appendere alle forche qualunque che faccia onta al nostro successo con un latrocinio.La fronte delmedichinosi corrugò un istante, e i suoi occhi lampeggiarono molto minacciosi; ma fu un lampo daddovero; innanzi alla serena, fiera, nobile guardatura di Mario, egli riprese tantosto l'amenità della sua fisionomia da elegante frequentatore di aristocratici salotti.— Il gran punto, caro mio, sta adunque nel trionfare. Del resto voi non mi avete capito, e non voglio che ci guastiamo per un malinteso. Siamo più d'accordo di quel che vi paia, e quando gli avvenimenti avranno volto a seconda dei nostri desiderii, vi accorgerete voi stesso che l'assolutezza del vostro puritanismo dovrà transigere colle necessità del momento. Per assicurare la vostra rivoluzione medesima sarete obbligato a compensare del perduto lavoro infinito numero di plebei che il movimento avrà gettati sulla strada.... Gli è di questi che intendevo parlare.— Ed a costoro provvederemo.... Agli onesti.— Eh! Disse Gian-Luigi levando le spalle. Ne avranno ancora maggior bisogno e saranno più pericolosi gli altri... Ma il tempo passa....Trasse dal taschino del panciotto un prezioso oriuolo d'oro.— È oramai da un'ora che noi stiamo qui discorrendo, e ci siamo detto tutto quanto pel momento occorre. Separiamoci. Appena avrò appreso alcun che ve lo comunicherò tosto; così voi a me se alcun nuovo fatto intravviene. E frattanto disporremo tutto, ciascuno da parte sua, per la domenica ventura. Ora abbiale la compiacenza di lasciarvi rimettere la fascia sugli occhi.Glie la pose egli stesso, poi aprì la porta dello stanzino. Il mariuolo che gli faceva da domestico era là che aspettava come una sentinella. Ilmedichinogli disse all'orecchio:— Conduci fuori costui per la taverna di Pelone. SeMacobaroè ancora costì mandamelo qui subito.Mentre Mario cogli occhi bendati era condotto via dal tristo che serviva da domestico a Gian-Luigi, questi gli tenne dietro collo sguardo, finchè spari del tutto nella tenebra della galleria che conduceva alla taverna.— Un nobile carattere, sì: diceva egli fra sè: un'anima generosissima in cui albergano i più elevati sentimenti; ma conosce egli, codestui, gli uomini ed il mondo? Ma con tanta riguardosa coscienza, a che si riesce?Crollò le spalle e fece il suo sogghigno più ironico e più scettico.— Stolti! Soggiunse il capo dellacocca. Stolti che vengono da noi, che chiamano il nostro aiuto e credono, a battaglia vinta, misurarci la parte della torta. Ma per Iddio! se vinceremo, i padroni saremo noi... sarò io!!Si drizzò della persona e gettò nello spazio quello sguardo di dominazione che Maurilio al villaggio gli aveva già visto gettare sulla lontana città, quando s'apprestava a venire in essa per conquistarsi la supremazia sociale.Stette alquanto così, in quell'attitudine fiera e superba: poi si riscosse e volse gli occhi fiammanti verso la galleria per cui era partilo Mario Tiburzio; un passo trascinante vi si fece sentire e nella penombra delCafarnaoapparve il profilo asciutto e la persona curva di Jacob Arom, il vecchio rigattiere ebreo.Era il ritratto dell'avarizia e della viltà, colle sembianzed'una sordida miseria. In forme e panni maschili, l'accompagnatura della schifosa figura dellaGattona. Il naso adunco in quel volto osseo e magro, a zigomi sporgenti ed occhi incassati, ricordava il becco d'un uccello da rapina; la bocca sdentata rientrava nelle mascelle incavando ai due lati della faccia un avvallamento pieno di rughe; piccolo, a spalle strette, a petto incurvato, a membra gracili, Jacob camminava a corti passi, senza far rumore, guardando in terra dove sembrava sempre cercar qualche cosa, respirando in modo particolare, quasi affannoso, tra il sospiro ed il gemito. Parlando aveva la voce debole e rauca e quell'accento tra gutturale e nasale che è carattere del popolo israelita, esagerato nella feccia di quella povera razza dispersa. Sopra una spalla portava accavallati due o tre abiti logori; in mano un ombrello di stoffa di cotone.Appena lo vide, Quercia gli gridò col tono d'un padrone non benigno ad un cane in disgrazia:— Avanzati un po' qua, vecchio scellerato, apri le orecchie, e sta pronto a dir sì, senza tanti discorsi, chè tu sai come a me non piacciano gl'indugi delle parole inutili, e ti avviso inoltre che al presente ho molta fretta.Jacob tirò giù il suo cappello frusto, unto e bisunto, tutto bozze ed ammaccature, e scoprì un capo arruffato con foltissimi capelli corti, ricciuti, che parevano, per forma e per colore, la lana delle pecore in montagna, quando la piova da lungo tempo non è più venuta a lavarla.— Eccomi agli ordini suoi: diss'egli con tono tutto raumiliato, avanzandosi proprio coll'andatura del can barbone che teme le botte. Mi comandi, e se la è cosa ch'io possa fare, si accerti....Ilmedichinolo interruppe bruscamente:— Mi bisognano fra due giorni cinquanta mila lire in denaro sonante, e tu me le hai da dare....— Dio d'Abramo! Esclamò Jacob alzando le mani alla vôlta con espressione quasi di spavento, e lasciando per la soverchia sovrappresa cadere in terra il suo cappello frusto. E come vuole che io possa procurarle una somma sì enorme?— Pigliandola dove ce l'hai; nelle tue casse, nei tuoi nascondigli in cantina, vecchio avaro.— Per l'anima di Melchisedech! Ancor Ella crede le fole che i piacevoloni si divertono a spacciare sul mio conto? Che io nuoto nell'oro, ed ho tutti i tesori del re Salomone nelle mie cantine. Ma Lei che è un uomo superiore, come può dar retta a simili cantafère? La vede bene che vita miserabile è quella ch'io meno....Luigi nuovamente lo interruppe con quel suo accento a cui pochi erano tanto arditi da ribatter parola:— Ti dico che ho bisogno di quella somma, e che la voglio. Risparmia adunque tutte le tue ciancie con cui suoli sgozzare altrui nel tuo mestiere da usuraio, degno emulo di quello scellerato Nariccia. Come tu abbia da fare per procurarmi quel valsente io non lo voglio nemmanco sapere, ma ciò che voglio si è che fra due giorni al più tardi esso trovisi in mio potere. Tu mi conosci qual sono; e regolati in conseguenza.Il ferravecchio raccolse da terra il suo cappello e per un poco parve tutto intento a lisciarlo e rilevarne la ammaccature. Pareva rannicchiatosi di corpo da essere diventato più piccolo; aveva saputo accrescere l'umiltà, la miserevolezza, la debiltà di quel suo aspetto che era sempre debolissimo, miserrimo ed umilissimo.— Come mai, diss'egli di poi con timidezza, può esservi bisogno di un tanto capitale? Le casse dellacoccadovrebbero essere ripiene; ogni giorno le si vengono rifornendo con qualche nuovo versamento: l'altro dì ancora le ventimila lire di Bancone....Quercia crollò le spalle con atto disdegnoso.— Peuh! Esclamò. Una secchia d'acqua nel letto d'un fiume. Le spese sono molte; abbiamo un esercito di miserabili a cui, poca o assai, ci vuole la sua parte; dei valori non monetati tu e Pelone, birbanti tuttedue, ce ne rubacchiate la buona metà del prezzo....Jacob Arem protestò con un'esclamazione a cui ilmedichinonon diede retta.— E poi, continuava egli, la impresa per cui li domando questi denari è tale che assorbe al di là dei mezzi pecuniari che può avere accumulati la nostra associazione....Gian-Luigi s'interruppe con un sorriso pieno di superbia.— Ma che sto io rendendoti tutti questi conti? Ti dico che ne ho bisogno e basta; ti dico che li voglio, e tu non uscirai di qua senza avermi fatta la promessa solenne di darmi que' denari, per la tua legge e pei tuoi profeti. Hai capito?Il giudeo guardò intorno con aria profondamente sgomentata. Quercia gli si accostò vieppiù ed appoggiandosi con una mano alla tavola soggiunse a bassa voce, chinando la sua alta persona verso il miseruzzo vecchio:— Qui siamo affatto soli. (E in realtà Graffigna erasi partito durante il colloquio tra ilmedichinoe Mario: e il domestico era andato a guidar fuori quest'ultimo, e poi ad eseguire le altre incombenze dategli da Quercia). Siamo affatto soli, quasi nelle viscere della terra, e nessuno fra i viventi può udire o veder quello che qui succede....I lineamenti del vecchio Jacob si alterarono in modo eccessivo: si ritrasse vivamente dal suo interlocutore e disse con voce balzellante pel tremito:— In nome dell'Eterno! Avrebbe Ella il coraggio di far violenza ad un povero vecchio?Ilmedichinoruppe in una risata.— Di che hai paura? Che io voglia far male a quel tuo vecchio carcame? Se l'oro che possiedi,tu lo portassi come sangue nelle vene, potrei metterti sotto allo strettoio per fartelo sudar fuori. Rassicurati e riavvicinati. Credi tu ch'io sia tale da non averti saputo leggere nell'anima? Io ho penetrato dentro quel vecchio tuo cranio e ci ho visto l'idea fissa che lo domina, io ho sentito le passioni scellerate che fanno battere quel tuo vecchio cuore inaridito.Jacob sollevò sul viso di Quercia il suo sguardo umile e peritoso, e disse con voce più debole che mai:— Che passioni? Per la pietra di Oreb!....— Vuoi che le le dica? Tu ami assai tua figlia....— La mia Ester! Esclamò l'ebreo facendo scintillare alcun poco i suoi occhi, fissi ancora sul volto di Gian-Luigi. Oh sì! È il fiore sbocciato sul vecchio tronco percosso dal fulmine, è il sorriso della primavera che rallegra il mio inverno, è la mite luce del mio vespro.— Ma più di tua figlia, continuò ilmedichinointerrompendo, assai più di tua figlia, ami il tuo denaro...e quello altrui.Arom chinò il capo, abbassò gli occhi, e biascicò con voce più gutturale del solito:— Sono un pover uomo che ha tanto appena che basti per campar la vita....— Ma più forte dell'amor che hai per tua figlia, più forte ancora dell'amore che hai pel denaro, sta nel tuo cuore un odio feroce, accanito, profondo, che si è fatto tua natura, che ti guida in ogni atto, che presiede ad ogni tuo proposito: l'odio contro i cristiani, l'odio contro quelli che dominano, che trionfano, che brillano....— Oh! che cosa dic'Ella mai? Esclamò l'ebreo, tenendo sempre più bassi gli occhi e la faccia. Io pensare ad odiare ciò a cui devo sommissione e rispetto! Un verme come sono io si lascia schiacciare ma non ha la temerità d'aver nemmanco l'ombra d'un rancore contro il piede potente che lo preme.— Il verme dove potesse scavare una fossa sotto al gigante il cui piè lo calpesta, per farnelo rovinare da tutta la sua altezza, lo farebbe molto volentieri. Tu hai visto che altri, con o senza coscienza dell'opera loro, si adoperavano a scavar sotterraneamente questa fossa, e ti sei giunto a loro ed hai posto al travaglio la mano. Tu al minuto sgozzi coll'usura i cristiani che ti capitano sotto le unghie, collettivamente, all'ingrosso, ti adoperi a spingere le passioni e le miserie che arruolano allacoccatanti soldati, alla rovina di quello stato sociale che fa alla tua razza una così trista condizione, che dà alla tua persona una parte così umile, così soggetta e così precaria.L'israelita sollevò un istante le sue palpebre floscie e rugose onde copriva i suoi occhi tenuti fino allora volti alla terra, e lanciò verso il suo interlocutore uno sguardo che era una fiamma viva; ma richinate tosto le pupille si tacque nè si mosse altrimenti come se le parole delmedichinonon producessero in lui effetto di sorta.Gian-Luigi continuava:— Ti ho conosciuto per quello che eri fin dalla prima volta che ti vidi. Io ti venni innanzi allora tratto per forza dalla mano del bisogno....— Sì; disse allora Jacob facendo sgusciare di nuovo uno sguardo sulla faccia delmedichinoe parlando più umilmente colla sua voce più nasale che mai. Ella non aveva ancora imparato ad avere una rivalsa sicura nelle carte da giuoco.Quercia fece un moto di contrarietà come quegli a cui si ricorda cosa che non gli talenta udire accennata.— Non aveva tuttavia, seguitava l'ebreo, alcuna attinenza colla nostra associazione; ma possedeva le tante buone qualità che la fanno ora capo così degno, così operoso e così intelligente dellacocca, risuscitata a nuova, più vasta e più fruttuosa esistenza, e chiamata, appunto per l'iniziativa di Lei a maggiori destini. Ed io mi rallegro e mi inorgoglisco nel mio nulla d'essere stato cagione di sì prezioso acquisto, di sì meritata esaltazione di vostra signoria.— Come io nel tuo, tu eziandio mi hai letto nell'animo. Hai capito che quell'associazione di malfattori..... di ribelli alla legge sociale..... così estesa e bene ordinata, poteva essere uno stromento efficace, un'arma potentissima per abbattere il presente, per vendicare il passato, quando la dirigessero una mano robusta, una ferrea volontà, una intelligenza solerte, ardimentosa e feconda. Siffatte qualità le hai presentite in me; le passioni che dovevano farmi voglioso dell'opera le hai indovinate nella mia giovinezza irrequieta. In quel primo colloquio il tuo sguardo non restò chinato alla terra, come sempre di poi, come anco al presente; ma per gli occhi mi si affondò nell'animo, a scrutare di me, come dice la tua Bibbia, il cuore e le reni. Si era nello stanzone terreno della tua dimora: un antro oscuro come il covo d'una belva; e in un angolo della stanza raggiava la precoce bellezza di tua figlia, ancora quasi bambina....Jacob Arom aveva levato non che gli occhi, ma la testa e la persona, e guardava con inusata sicurezza e sorrideva con famigliarità compiacente. Alle ultime parole di Gian-Luigi osò interrompere quasi rimbrottando:— Ah! lasciamo stare mia figlia, la prego.Gian-Luigi che parve non badare per nulla a quella interruzione, continuava:— Tu mi prendesti per la mano — la tua destra fredda come un pezzo di ghiaccio e adunca come l'artiglio d'un falco da preda, s'intrecciò colla mia, quasi a stringere un tacito patto solenne. Tu mi sorridesti colla tua bocca sdentata, tu mi facesti balenare dinanzi il cupo splendore della sciagurata sovranità che ora possiedo, tu, senza dirmene apertamente,mi lasciasti travedere lo scopo immenso della nostra opera tenebrosa, che sfugge alla intelligenza ristretta dei nostri consoci, lieti di poco danaro guadagnato col delitto.... Mi rammento eziandio il momento in cui tu sapesti il felice successo della prima di quelle audacissime imprese da me immaginate e condotte che scoppiano come fulmini a ciel sereno nella calma di questa città a spaventare i cittadini colla loro terribilità misteriosa. Tu mi stringesti il braccio con mani che tremavano e mi dicesti susurrando all'orecchio: «Bravo! Bene! Oh! io aveva conosciuto l'uomo che era in Lei. Avanti, avanti! Faccia a que' scellerati d'onest'uomini il maggior male che si possa....»L'ebreo stava tuttavia col suo corpo dritto e la faccia levata: lo sguardo che non s'era ancora abbassato secondo suo costume scintillava stranamente sotto la fronte proeminente.— Essi a noi ne fanno tanto del male! Diss'egli colle labbra strette e la voce soffocata nella gola. Se io mi rallegro del danno cagionato a quella gente, chi può darmi torto? È una tirannica persecuzione di secoli che si aggrava sulla dispersa stirpe d'Israele. I padri di codestoro ci abbruciavano vivi; in questa età più mite, ma non più giusta nè onesta, ci si misura la vita col disprezzo e colla prepotenza. Dall'illustre cavaliere che ci tratta collo scudiscio al biricchino di piazza che ci trae dietro al nostro passaggio le immondezze del suolo pubblico, è una gara a chi più ci oltraggi e ci danneggi. Ognuno di noi, fin da bambino, è la mira delle arroganze di tutti. Non v'è debole e meschino fra i cristiani che in faccia ad un israelita non abbia sempre la ragione del più forte. Noi cresciamo in mezzo ad un ambiente di odio comune, isolati e maledetti come i leprosi al bando di ogni vantaggio sociale; a cui non si concede aver possessi, nè cariche, nè onori, neanco una patria, appena se la famiglia. L'altro dì, il nobile conte di San-Luca, col suo carrozzino rovesciava a terra e faceva rompere il capo ad un povero vecchio precisamente innanzi al caffè Fiorio. La folla si raccoglieva pietosa intorno al caduto; ma visto appena chi fosse costui la indignazione contro il giovine conte sfumava. Era un mio compagno di mestiere e di religione. — «Ah! non è che un ebreo:» si esclamò con indifferenza, ed appena fu se alcuno volle porger la mano ad alzare quel miserabile. Il conte seguitò imperturbato il suo cammino, e non ebbe nemmanco un rimprovero. Ogni giorno, ogni ora vede alcun sopruso fatto ad alcuno di noi. Quante volte non ne fui vittima io stesso! Un figliuolo di famiglia nobile, viene a farsi imprestare da me del danaro, quel sacrosanto danaro che io mi guadagno con sì penoso ed incessante lavoro; poscia trova più comodo non pagarmi i pattuiti frutti; il padre titolato e potente ne dice un motto al Comandante della Polizia: il commissario Tofi mi manda a chiamare e mi impone di contentarmi di prendere indietro il mio povero capitale, perdendoci tutti gl'interessi di vedermi imprigionato come usuraio. Non è questo un latrocinio? Ultimamente, sotto il nome di un cristiano che la faceva da miouomo di paglia, prendo una considerevole impresa nelle forniture militari, dalla quale impresa avrei potuto avere assai buoni guadagni. La cosa mi era stata aggiudicata, era mia, e sotto un Governo onesto in una società costituita secondo i dettami di giustizia, nissuna autorità avrebbe avuto potere più di levarmela; ma qui e dai cristiani quale rispetto si ha egli pel giusto? Il conte Barranchi aveva da favorire un suo protetto non arrivato a tempo per concorrere all'appalto, si scopre che il vero accollatario dell'impresa è un ebreo: che bel pretesto! Il solito commissario Tofi mi fa venire innanzi a sè: ordine di S. E. di abbandonare l'impresa o di assaggiare del pan muffato della prigione colla bietta di concussionario. Bisogna curvare il capo e tacere.... E si vuole che questa iniqua società, la quale ci fa una così bella sorte si ami, se ne desideri il prosperare e se ne rispettino le leggi?[5]Il vecchio ebreo non aveva mai parlato cotanto, nè con tanto calore. Quell'anima chiusa continuamente, alle parole di Gian-Luigi s'era aperta un istante ed aveva lasciato sfuggire uno sprazzo di quel segreto livore che vi sobbolliva costretto per entro.— Tu hai ragione: disse a sua volta ilmedichino. Ed io pure odio questa società e questo mondo che non mi volle fare quel luogo ch'io sento di meritarmi; e di odiarli ci ho a mille doppi più ragione di te. Te opprime l'assetto sociale; ma fra noi qual può esservi paragone? Te la sorte medesima ha condannato. Sei nato in una razza maledetta, e la natura ti ha fatto debole, ti ha impresso lo stampo degli umili per imbrancarti nella schiera dei sottomessi. Ma io?.... Io mi sento della razza dei leoni; e perchè una colpa o una sventura de' miei genitori mi ha gettato in mezzo agli uomini senza nome e senza ricchezze, ho da vedermi chiuso ogni accesso agli onori ed ai diletti del mondo? No, no per Dio! Io ho nelle vene il sangue degli Erostrati. Il mondo non mi vuol far luogo ed io mi apro la strada coll'incendio e colle rovine. Erostrato si contentò di ardere un tempio per conquistare una dubbia fama: io metterò sossopra tutto un paese, tutta una epoca per conquistare autorità, ricchezzae gloria imperitura, sia pur anco spaventosa ed orribile.Jacob era tornato in tutta la umiltà del suo contegno ordinario.— È vero, diss'egli più rimessamente che mai. Io sono un povero ebreo che non è nulla e non potrebbe esser mai nulla; ma Lei!.... Oh da bravo! Vinca ed abbatta questo tirannico assurdo sociale che s'impone colla legge, colla Polizia, colla carcere e colla forca. Tutti i deboli la applaudiranno. Avrà per sè tutti gli oppressi e tutte le vittime, che sono il maggior numero.— Or bene, dà retta a quel che ti dico, Jacob, così ripigliava a parlare Gian-Luigi. Io sono alla vigilia d'ottenere il mio intento. Fra pochi dì — forse — avrà principio e conclusione in lotta tremenda la vendetta dei miserabili; lo straccione, il disprezzato, chi ha fame piglierà la sua rivincita sui fortunati, sugli onorati, sui graduati del mondo. Sarà una frana che si precipiterà irresistibile a tutto schiacciare e sconvolgere. Ma perchè questa massa lentamente preparata e raccolta si stacchi e rovini occorre una forza potente d'impulso. Questa forza è il denaro. Mi bisogna una vistosa somma, per comporre la quale ho fatto calcolo sopra ogni qualunque mezzo che sia all'arrivo della mia mano. Tutti quelli onde può disporre lacocca, e parecchi altri che gli è inutile il dire: fra questi tu ci entri per quelle cinquanta mila che ti ho domandato.L'ebreo si pose a far girare tra le mani il suo cappello frusto.— La ringrazio molto del contrassegno di fiducia: diss'egli con ironia appena se velata; ma per la grandezza dell'Eterno! cinquanta mila lire non sono mica una bazzecola, e per averle e snocciolarle fuori ci vuol altro che buona volontà... Io di certo do al suo progetto — che voglio creder vero, serio e reale — tutta la mia simpatia.Ilmedichinolo interruppe con violenza:— Insolente! Avresti l'audacia di non credere alle mie parole?— Non ho quest'audacia. Dico appunto che ci credo per l'affatto. Se non si trattasse di Lei si potrebbe aver bensì il sospetto che ciò fosse un pretesto affine di raccogliere nella propria mano un considerevole capitale con cui partirsene quatto quatto per andarselo a godere in santa pace lontano, abbandonando per sempre una vita piena di agitazione ed un'impresa piena di rischi.Ilmedichinoarrossì per l'ira che gli fece lampeggiare tremendamente lo sguardo e corrugare la fronte.— Miserabile! Esclamò egli. Tu mi credi capace?...— No, no: si affrettò a gridare l'ebreo, tirandosi in là di alcuni passi. Ella non farebbe mai una cosa simile... E poi lacoccaha le braccia lunghe e raggiungerebbe un traditore anche in capo al mondo. Le muraglie dell'elegante casino di vossignoria qui presso, se potessero parlare, le conterebbero una storia che può essere d'ammonimento a chicchessia.— È inutile che me la contino, disse Gian-Luigi tornato in una calma disdegnosa; poichè la so. Il capo di allora dellacoccafuggì coi fondi della società, ed alfine di mettersi al riparo da ogni vendetta denunziò alla Polizia i principali autori di parecchi delitti, che erano gl'individui da cui egli soltanto poteva temere la sua punizione. Furono presi tutti, e lacoccaper allora rimase dispersa. Due salirono sul patibolo, gli altri furono condannati alla galera in vita. Il traditore pareva dover essere sicuro, e talmente si credette tale che commise l'imprudenza di venire dopo molti e molti anni ad abitare, sotto altro nome è vero, quella medesima casetta che come capo dellacoccaaveva avuto in suo possesso. Chi pareva ancora ricordarsi di lui? Viveva solo, chiuso in casa, senza relazioni nessuna col mondo. Or bene, una sera ci vide aprirsi l'usciolo nascosto che metteva nel passaggio segreto, il quale allora non comunicava punto colle botteghe che tengono attualmente Baciccia e Pelone, ma si fermava al pozzo cieco del cortile; ed ecco entrargli in casa Marullo, che era fuggito dalla galera a cui era condannato per la vita. Due giorni dopo il vecchio scellerato fu trovato morto.— Sì, questa è la storia testuale. Marullo fu quegli che di poi riordinò lacocca, la quale ora è in così florida condizione sotto la savia direzione di Vossignoria.— Ma lasciamo questi discorsi: disse Gian-Luigi e torniamo a quelle cinquanta mila lire che tu mi devi dare ad ogni modo. Tu hai fatto troppi guadagni sullacocca, perchè ora che questa ha bisogno del tuo concorso, tu vi ti rifiuti.— Un concorso di cinquanta mila lire!....— Che te ne renderanno centomila.— Oh oh! Esclamò Jacob sollevando la testa. Come mai?— Non è un dono che ti domando, è un imprestito. Quando avremo vinto te ne rimborserai da te stesso nella divisione della torta.— E se non vinciamo?— Ti compenseremo sui guadagni delle future operazioni dellacocca.L'ebreo scosse la testa.— Se avviene uno scoppio simile e il Governo ci schiaccia, lacoccaè bella e spacciata per un pezzo... Senta, signor Quercia: ci sarebbe forse un mezzo di aggiustar tutto... Ella è troppo ragionevole per voler rovinare un povero padre di famiglia esponendolo al rischio di perdere così da un momento all'altro una somma di tanto riguardo...— Sentiamo questo mezzo: interruppe ruvidamente ilmedichino.— Mi faccia unpagheròa mio ordine per cinquantadue mila lire...— Subito: disse Gian-Luigi.— Ma, soggiunse Jacob col tono d'un pezzente che domanda l'elemosina, vorrei colla sua un'altra firma.Quercia si riscosse.— Qual firma? Domandò egli aggrottando le sopracciglia.E l'ebreo con voce più umile e sottomessa che mai:— Quella della contessa di Staffarda...Non aggiunse più sillaba, impaurito dallo sguardo e dall'espressione del volto di Gian-Luigi.Questi però si tacque per un poco; incrociò le braccia al petto e parve meditare profondamente.— L'avrai: diss'egli dopo alcuni minuti.Un quarto d'ora più tardi, Jacob, uscito dalla bettola di Pelone, rientrava a casa sua; e Gian-Luigi, venuto fuori per la casina del viale, s'affrettava verso il palazzo Langosco. Seguitiamo per ora il vecchio israelita nel suo quartiere entro la parte più sporca del lurido ghetto, e colà conosceremo la bella Ester, di cui il biglietto scritto a Gian-Luigi già ci apprese la colpa e la sventura.

Mario Tiburzio, introdotto, come abbiamo visto, nello stanzino sotterraneo cogli occhi fasciati, aveva udito il susurrio di parole sommessamente scambiate, poi il rumore di passi che s'allontanavano equello d'un uscio che si richiudeva, quindi una voce giovanile e risoluta, la voce di Luigi Quercia, dirgli:

— Levatevi la benda.

Egli così aveva fatto, e s'era trovato in quella cameretta dove ilmedichinolo aveva già introdotto altre volte colle medesime precauzioni egli stesso. Il luogo era illuminato da una lampada posta sopra la scrivania a cui sedeva Gian-Luigi. Mario sedette sopra una seggiola posta vicino alla scrivania medesima cui Quercia gli additò con cenno da gentiluomo che riceve nel suo salotto; ed appoggiato il braccio alla tavola chinò il corpo innanzi verso il suo compagno, fissando i suoi occhi in quelli di lui. Per un osservatore era degno di nota l'esaminare quelle due teste giovanili con espressione risoluta, audace, ardente, in cui appariva la forza di due robusti voleri, l'intensità di due accese passioni, il concentramento in un'opera delle migliori doti che all'animo ed all'ingegno dell'uomo accordar possa la natura. Ma le passioni che dominavano questi due uomini com'erano diverse e l'una dall'altra distante! In Mario Tiburzio era quella nobilissima dell'amore della patria, in Luigi Quercia era una smodata ambizione di vanità personale, era una sregolata smania di possedere tutti i piaceri terreni. Quella si era messa e si metteva in urto contro le leggi della tirannia, ma esercitando le più nobili virtù del cuore, il sacrificio di sè, il coraggio disinteressato, l'amore dei nostri simili; la scellerata passione del capo supremo dellacoccalo faceva infrangere ogni legge di giustizia sociale e di umanità per cercare soddisfazione ad empi istinti con iniqui fatti. Questa differenza fondamentale si manifestava spiccatamente allora appunto che, sovreccitate da qualche circostanza, quelle passioni stampavano sulla fisionomia dei due giovani la loro impronta. La nobile figura di Mario s'illuminava, direi quasi, d'una luce superiore, ed impossibile vederla senza rimanerne ammirati: la bellezza di Gian-Luigi invece, per quanta essa fosse, si deturpava in quei momenti per una trista, feroce espressione, di cui carattere principale era quella ruga che veniva a solcargli la pallida fronte.

Or dunque stettero un poco guardandosi i due giovani senz'altro, come studiando ciascuno fra sè a cui toccasse parlar primo; poscia Quercia trasse di tasca il suo elegante astuccio di sigari, ed apertolo ne offerse a Tiburzio; questi prese un avana e lo fece accendersi sopra il tubo di vetro della lampada; ilmedichinoscelse colla solita cura un sigaro per sè, richiuse e ripose in tasca l'astuccio ed accese a sua volta il sigaro alla lampada. Per alcuni istanti ancora e l'uno e l'altro parvero occupati unicamente di fumare con voluttà i loro sigari eccellenti che profumavano l'aere dell'odore finissimo del più squisito tabacco del mondo: poscia Mario si decise a parlare esso per il primo.

— La vostra chiamata, signor Quercia, diss'egli, venne per me questa mattina più opportuna che mai. Io stava appunto cercando il modo di avere sollecitamente un colloquio con voi, perchè ho gravi novelle ad apprendervi, gravi comunicazioni da farvi e gravissime cose onde richiedervi. E tutto ciò colla massima premura. Pel vostro biglietto ho arguito che voi pure aveste cose d'assai rilievo da dirmi.

Gian-Luigi accennò col capo che così era veramente.

— A voi il decidere, continuava Mario, se volete parlare od ascoltar primo.

Ilmedichinoabbassò con atto di elegante cortesia la sua destra aristocratica verso il suo interlocutore, e disse con avvenevole grazia:

— Parlate voi, vi prego.

Mario appoggiò alla scrivania tutti e due i gomiti e posando il mento sopra le sue mani insieme intrecciate, cominciò con tutta semplicità:

— Abbiamo deciso ieri sera di dar fuoco alla mina. Questa mattina medesima, per mezzi sicurissimi, sono partiti i cenni agli altri centri d'insurrezione. Ad un giorno posto la striscia di polvere s'incendierà producendo dappertutto lo scoppio.

— Se le polveri non si troveranno qua o colà e fors'anco in ogni dove bagnate: disse sorridendo Gian-Luigi.

— No: proruppe con forza Mario Tiburzio. Siamo sicuri de' nostri congiurati.

— Ah! non bisogna mai essere sicuri degli uomini, se non si è saputo destarne l'interesse. Tutti codestoro su cui contate, hanno eglino interesse preciso e sufficiente per affrontare le forche in nome dell'Italia?

Tiburzio rispose alla spartana:

— Tutti amano la patria, e tutti hanno giurato.

Luigi s'inchinò, ma il suo sorriso diventò ironico.

— E voi siete sicuro?

— Sicurissimo.

— Sta bene. E volete da me?

— Che voi manteniate la vostra parola, che voi facciate ciò che mi fu detto e che voi stesso mi confermaste di poter fare, che ci procuriate il concorso della plebe.

— Un istante! Esclamò Quercia. La mia parola non è impegnata che subordinatamente...

— Le condizioni che avete poste furono da me accettate, e saranno tutte lealmente eseguite.

— Chi me ne assicura?

Mario arrossì.

— La mia parola: diss'egli con vivacità.

— E se voi morite?

Tiburzio tacque un istante, riflettendo.

— Avete ragione: diss'egli poi. Redigete voi stesso uno scritto in cui sieno contenute tutte le disposizioni onde convenimmo, che riguardano voi personalmente e la classe che rappresentate; sottoquesto scritto, con solenne promessa di effettuarne fedelmente il contenuto, ci firmeremo io e tutti i capi del movimento insurrezionale.

Ilmedichinotornò ad inchinarsi per mostrare che quello spediente lo soddisfaceva abbastanza: poi arrovesciatosi sulla spalliera mandò al vôlto lentamente una boccata di fumo bianchiccio dell'avana, compiacendosi a guardarne le spire.

— Insomma, riprese egli dopo un istante, voi state per giuocare la vostra testa, e volete che anch'io... e quelli che da me dipendono ci accordiamo il divertimento di questo giuoco. Sia pure; ma almanco abbiamo il diritto di conoscere le probabilità della partita e sapere le carte che si tiene in mano. Voi mi direte come debba aver luogo il moto, con quali elementi di successo, qual parte ci avete assegnata, e tutte insomma le più segrete risoluzioni che avete prese.

Mario esitò un momento.

— Ah mio caro signore: soggiunse vivamente Luigi: o la più compiuta fiducia o niente di fatto.

— Vi dirò tutto: disse ad un tratto Tiburzio.

Gian-Luigi si chinò con interesse verso di lui.

— Fra una settimana è la fine del carnevale: così parlò allora l'emigrato romano. Tutta la gente pensa a darsi sollazzo, e pare impossibile benanco a ciascheduno che vi sieno chi nutrano gravi propositi e vogliano tentare gravissimi fatti; la stessa Polizia, se deve acuire il suo sguardo sui ladroncelli, crede in quest'occasione poter rimettere della sua vigilanza intorno agli umori politici. Inoltre l'accorrere di forestieri nella città rende più facile il nascondere e legittimar l'arrivo di nostri aderenti indettati....

— Insomma: interruppe ilmedichinoche pareva impaziente di venirne alla conclusione; avete fissato per gli ultimi giorni del carnevale lo scoppio della rivolta.

— Precisamente.

— Questo quanto al tempo; e il modo?

— Eccolo. In ogni città ogni capo della società segreta avvisa i sottocapi a tenersi pronti e ad eseguire le avute istruzioni al momento determinato. Queste istruzioni, diverse in ogni città ed adattate alle particolari circostanze di ciascheduna, sono combinate dal supremo Consiglio dei congiurati in ogni località. I sottocapi trasmettono gli ordini e quanto è indispensabile solamente di queste istruzioni a quaranta uomini ciascuno, che altrettanti ne tengono sotto di sè. Codesto forma in ogni città principale un nucleo forte, risoluto, compatto da seicento a mille uomini a seconda: e quanto possano un migliaio di coraggiosi in un assalto inopinato voi certo non lo disconoscete.

Quercia chinò leggermente la testa.

— Intorno a questo nucleo inoltre, continuava Mario, non può mancare di radunarsi tutta quella vivace e generosa parte della gioventù italiana che è insofferente dell'attuale ignominiosa servitù....

— E tutti coloro che amano pescar nel torbido: soggiunse Gian-Luigi.

— Non basta. Anche fra coloro che vestono l'assisa del soldato in Piemonte, in Toscana, in Napoli, vi hanno petti in cui batte un cuore d'Italiano. Contiamo parecchi fra i militari di vario grado nel numero dei nostri congiurati; ne contiamo eziandio nelle file degli Italiani che servono l'Austria. Per codestoro avverrà che parecchie compagnie ed anco battaglioni non combatteranno con molto vigore contro gl'insorti, e non pochi fors'anco passeranno dalla parte di questi. Di più non credo affatto vana illusione la lusinga che i moschetti di soldati italiani non vogliano rivolgersi senza esitanza contro chi alzerà il grido della libertà e dell'indipendenza dallo straniero.

Quercia scosse il capo.

— Se siete forti abbastanza da vincere, diss'egli, avverrà così; ma se i Principi hanno essi le probabilità di schiacciarvi, i moschetti dei soldati italiani vi fucileranno con tutta tranquillità e precisione.

— Ma noi vinceremo: proruppe colla forza d'una vera convinzione il congiurato. Il potere dei Principi italiani posa sopra fondamento più labile che l'arena, poichè ha di sotto il meritato odio dei popoli.....

— E l'Austria?

— L'Austria sarà occupata dalla contemporanea insurrezione delle proprie provincie, e non potrà accorrere in difesa dei tirannelli nazionali..... Pogniam pure che essa riesca poscia a domare colle truppe delle altre parti dell'impero la rivolta italiana; ma ciò intanto non avverrà prima che la nostra rivoluzione sia vincitrice, e quando l'Austria crederà poter camminare sulla nuova Italia costituitasi, la troverà riunita dal pericolo comune, forte del suo recente trionfo, e della nuova libertà, infiammata dal desiderio d'emanciparsi per sempre dalla tutela straniera. La rivoluzione interna si cambierà in guerra nazionale; e quanto irresistibil forza abbiano i popoli che combattono tal guerra, ve lo dica la storia di Francia della fine del secolo scorso.

— Sia pure: disse accondiscendendo ilmedichino; ma per far tutto ciò occorrono delle armi...

— Le avremo; ne abbiamo già un buon dato. Varie casse sono penetrate nell'Italia media ed inferiore; parecchie eziandio in Piemonte; molte più sono in Isvizzera preparate e saranno introdotte questa settimana con mezzi sicurissimi. Quante ne vorremo poi, ce le procureranno gli arsenali stessi dei Governi che combattiamo...

— Sì! Bisognerà prenderli questi arsenali...

— E li prenderemo. Il popolo parigino ha ben preso la Bastiglia!...

— Qui, per la nostra Torino, qual è il piano di battaglia?

— La rivoluzione comincierà domenica sera, e sarò io che dal palco scenico del Teatro Regio, a metà dello spettacolo ne darò il segnale.

Luigi Quercia si appoggiò ancor esso con tutte due le braccia alla scrivania ed appressò maggiormente il suo capo a quello di Mario.

— Oh come? Domandò egli con molto interesse.

E Tiburzio continuando colla medesima semplicità con cui avrebbe parlato delle cose le più indifferenti del mondo:

— Lungo il giorno molti congiurati verranno in città ad accrescer le file; la sera saranno raccolti alle varie porte in armi per precipitarsi e sorprendere tutti i corpi di guardia, appena scocchino le ore nove, che è il momento fissato; due schiere più numerose assaliranno le due caserme e facilmente se ne impadroniranno, poichè quella sera saranno deserte di soldati, ai quali per la ragione che è l'ultima domenica di carnovale sarà concessa licenza fino alle ore dieci.

— È giusto.

— E nelle caserme piglieremo subito buon numero d'armi e alquanto di munizioni da guerra. Nello stesso momento una schiera di più risoluti invaderà in quella medesima guisa l'arsenale, dove non abbiamo da temer resistenza. Quando gli artiglieri verranno per rientrare, troveranno le porte chiuse e i nostri in sulla difesa. I cannoni non potranno così tuonare contro gl'insorti.

— E la cittadella?

— Ancor essa si tenterà di sorprendere in ugual modo; ma quand'anche non ci si riesca, la cittadella potrà far poco a nostro danno, perchè la maggior parte dei soldati sarà in giro per la città, e sarà agevol cosa lo averli prigioni, od almeno lo impedir loro di raccogliersi dietro i bastioni della rocca. Mi pare che in un istante noi abbiamo da essere padroni della città; siccome le stesse probabilità ci sono per le altre sommosse che in pari tempo scoppieranno nelle località principali, così puossi avere fondata speranza che in quella sera la rivoluzione trionfi per tutta Italia. Ma bisogna pensare anche al domani, bisogna pensare anche al caso di qualche insuccesso parziale.... — Se l'insuccesso è generale, allora noi rechiamo la nostra testa in mano al boia, e non ce n'è più da discorrere. — La tirannia, se le si lascia il capo, tenterà la sua rivincita, e siccome ha tanti mezzi in suo potere, potrà riuscire alla guerra civile, indebolirà, se non altro, colla lotta interna la nazione in faccia dell'Austria quando questa possa intervenire; occorre quindi togliere a quest'idra della tirannia le sue molteplici teste. Voi avete già capito quali sieno queste teste: sono i regnanti d'Italia: re, granduchi, duchi, principi e principini. La parte più importante del nostro disegno, quella in cui abbiamo posta la maggior cura e pogniamo la maggiore speranza di buon esito, consiste nell'impadronirsi quella sera medesima, non che delle persone dei singoli regnanti, ma di tutte le loro famiglie.

— Cospetto! Esclamò Gian-Luigi. Questo sarebbe daddovero un bel colpo!

— Per la famiglia regnante di Torino, sono poco meno che sicuro della riuscita. Vi dissi che io stesso dal palco scenico del teatro Regio avrei dato il segnale della rivoluzione....

— Comincio a capire: interruppe vivamente Gian-Luigi, abbassando la voce quasi avesse paura che in quella solitudine sotterranea altro orecchio pur tuttavia potesse intendere le sue parole. Il Re con tutta la sua famiglia, quella sera assisterà allo spettacolo in pompa solenne nel gran palco della Corona.

Mario Tiburzio fece gravemente un segno affermativo col capo. Tacquero un istante tutti e due, guardandosi fiso, come per leggersi entro l'animo a vicenda; poi l'emigrato romano disse lentamente, e con voce più sommessa ancor egli:

— Quando suoneranno le nove io mi avanzerò allaribalta, e in faccia al Re, ai Principi ed a tutta la Corte, griderò alto, snudando la mia spada da teatro:Viva l'Italia! Abbasso l'Austria e i Principi suoi vassalli!Il fondo della platea e l'atrio delle scale saranno occupati dai nostri; a questo mio grido irromperanno nella loggia reale, superando le Guardie di Palazzo e le Guardie del Corpo; tutta Casa Savoia sarà nostra prigioniera.

— E?... Domandò Luigi.

— E i successivi avvenimenti, soggiunse Mario, decideranno della sua sorte.

Successe un nuovo silenzio; cui ruppe dopo alcuni minuti ilmedichino.

— In complesso la cosa non è mal combinata; e in tutto codesto quale la mia parte?

— Far concorrere la plebe al movimento; persuaderla che le mutazioni politiche da noi tentate andranno in util suo, staccarla dalla devozione alla monarchia per consecrarla alla devozione alla patria.

— Va benissimo. E le mutazioni di Governo, quando eseguite lealmente le condizioni da me poste, andranno in effetto a vantaggio del povero proletario.... Io posso aiutarvi più forse che non crediate. Quella sera medesima dello scoppio della rivoluzione, a sviare la Polizia, a disperderne le forze, io sono in grado di far prorompere in varie parti della città moti popolari che abbiano puramente sembianza... dirò così... economica. La miseria è grande in questa stagione, e io posso slanciare su per le strade delle turbe che tumultuino ad un grido ancora più efficace che quello della patria e della libertà, al grido diAbbiamo fame e vogliamo del pane. Le due insurrezioni si daranno la mano sulla rovina della monarchia. Ma il nerbo d'ogni guerra è il denaro. Ne avete voi del denaro?

— Quanto occorre per le meditate imprese.

— E per noi? Datemi un milione ed io metto in campo trentamila insorti.

— Questo non possiamo assolutamente.

— Se non darcelo prima, almeno assicurarcelo pel poi. La rivoluzione vincitrice avrà in suo possesso le casse pubbliche; ne vogliamo la nostra parte.

— Ah! Disse Mario Tiburzio con subita freddezza, quasi con sospetto, tirandosi indietro sulla seggiola.

— Voi esitate?

— Quei denari dovranno essere sacrosanti perchè destinati alle necessità della patria.

— E la patria non la salverete senza saper usare di quei denari ammodo. Gli uomini ond'io dispongo non si fanno sgozzare per una parola — chiamatela pure un'idea; e senza di me — ve lo dico chiaro e tondo — voi non riuscirete in nulla.

Tacque un istante, e poi abbassandosi di nuovo verso il suo interlocutore, soggiunse vibratamente:

— Questa mattina — e gli è per avvisarvene ch'io vi ho mandato a chiamare — questa mattina furono arrestati Francesco Benda e Giovanni Selva.

Mario Tiburzio fece un soprassalto e mandò una esclamazione.

— Furano arrestati, continuava Gian-Luigi; e nella casa di Benda ebbe lungo una perquisizione, la quale son persuaso si sarà fatta del pari nell'alloggio di Selva.

— Nè presso l'uno, nè presso dell'altro possono aver trovato cosa che riveli in alcun modo il complotto.

— Ma questo arresto non può egli essere indizio che si ha sentore del medesimo e che se ne vanno ricercando le fila?

Mario Tiburzio, per quanto fosse padrone di sè medesimo, impallidì.

— Impossibile! Esclamò egli. Converrebbe che alcuno dei più fidati capi dell'impresa ci avesse traditi.

Tacque un istante, e poi domandò a Quercia lentamente, guardandolo fiso:

— Ma voi, come sapete che que' due giovani furono arrestati e come ch'essi sieno della congiura?

Quercia sorrise.

— Vi ho detto che tengo ancor io la mia Polizia segreta, e potrei farmi onore della medesima che mi avesse informato; ma preferisco dirvi la verità qual essa è.

Raccontò le scene a cui aveva assistito quella mattina, come avesse arguito che quei giovani dovessero aver parte nell'impresa ch'egli sapeva iniziata da Mario, e fosse stato chiaro di ciò dalla risposta che Giovanni Selva aveva data alla interrogazione da lui mossagliene in fretta nel momento della irruzione degli operai nella sala della famiglia Benda.

Gli avvenuti arresti, soggiunse, potevan essere o l'effetto di dubbi senza fondamento soltanto, ed allora non avevano altro danno che di togliere all'opera due complici, od erano cagionati da qualche positiva conoscenza della congiura, ed allora era gravissimo il caso: nell'una e nell'altra supposizione egli domandava a Mario che cosa avrebbe determinato di fare.

Tiburzio tornò ad appoggiare i gomiti alla scrivania, riaccostando il suo al volto delmedichino.

— Prima di tutto ho bisogno di sapere esattamente da quali ragioni sieno stati determinati questi arresti.

Fece una pausa, come attendendo dall'interlocutore risposta. Gian-Luigi non si mosse.

— Se la congiura non è conosciuta, l'arresto di Selva e di Benda sarà pur sempre un danno grave, perchè essi sono due de' più risoluti capi e che abbiano una parte principale nell'impresa. Converrebbe adunque tentar di tutto per liberarneli.

Nuova pausa di Tiburzio; nuovo silenzio di Quercia che parve tutto preso dall'attenzione con cui fumava l'ultimo pezzo del suo sigaro.

— Se poi la congiura è davvero scoperta in tal caso...

Mario s'interruppe e fece un cenno di eroica rassegnazione che voleva significare: «Allora ci tocca morire ed io son pronto.»

Quercia disse allora:

— Quando una congiura è scoperta non rimangono che due partiti: o precipitarne lo scoppio, quando ella sia matura, od aggiornarlo indefinitamente, sciogliersi i congiurati e fare scomparire ogni traccia del complotto.

— Il primo da noi non si può, e il secondo troppo ci rincresce farlo senza un'assoluta necessità che lo comandi. Piuttosto, anche colla certezza di soccombere, si lotti....

— Pazzie! Interruppe Luigi crollando le spalle. Qui non si tratta d'esser martiri, si tratta di riuscire. Orsù date retta, e non sciupiamo tempo e parole. Io, quest'io che guardate con tanto d'occhi, vi saprò dire che cosa sa o non sa la Polizia; se non si tratta che di sospetti in aria, io vi farò aver liberi i due arrestati, al momento della pugna io getterò nella strada una turba terribile per impeto e per furore che non solo paralizzerà ma distrurrà la forza pubblica. Ma oltre i patti già da voi consentiti occorre ancora una cosa: che voi sin d'ora assicuriate l'impunità a qualche eccesso di saccheggio che si commetta nella foga della riotta, che del pubblico tesoro, mi lasciate subito prendere quanto mi occorrerà per assoldare e contenere questi che saranno i nostri pretoriani della rivolta.

Mario Tiburzio per la prima volta travide in qual baratro quel pericoloso alleato voleva trascinarlo.

— Ma noi, esclamò egli, non vogliamo di questi pretoriani, noi non vogliamo eccessi....

Gian-Luigi si levò con impeto, sfavillante lo sguardo di potente ironia.

— Voi non volete? Voi non volete? Ma che concettovi siete dunque fatto dell'opera vostra e delle condizioni sociali, da credere possibile una rivoluzione all'acqua di rosa, che finisca in canzoni e serenate? Chi vuole il fine deve volere i mezzi, e credete voi possibile arrovesciare il mondo senza che venga al di sopra ciò che sta di sotto, senza che si levino in bollore gli strati inferiori del mondo sociale, e con questo bollore salga alla cima del fiotto la schiuma? Il vostro, signori patrioti, è un liberalismo all'antica, sullo stampo greco o romano, che vede nella massa da una parte una casta di cittadini a cui concedere i diritti politici e rispettatissimo il diritto di proprietà, e dall'altra parte una turba di iloti e di schiavi a cui lasciare in retaggio la miseria e il freno crudele delle leggi penali. Se voi poteste trionfare da soli, passi: al dispotismo della monarchia oligarchica sostituireste addosso al proletario quello d'una borghesia mercantile, industriale ed avara; e il proletario non cambierebbe che di stromento della sua schiavitù economica e civile; ma, il vostro liberalismo più potente di frasi rettoriche che di braccia e di coraggio, ha bisogno del proletariato, ed avendo compreso questa verità è venuto a cercarne l'alleanza. Io, che rappresento la plebe, sono pronto a stringere quest'alleanza; ma voglio per Dio che a questa povera plebe, sia concessa alfine la libertà....

Mario sorse in piedi ancor egli, e interruppe parlando eziandio di forza:

— Sì la libertà, ma non la libertà del delitto. Sì la plebe la vogliamo emancipata anche noi, emancipata dalla miseria e dall'ignoranza, che è la peggiore delle miserie, ma non emancipata dal freno delle leggi del giusto e dell'onesto, che sono la salvaguardia d'ogni società. Voi, dottor Quercia, confondete colla plebe quella vil feccia che pur troppo esce in maggior numero dalle più povere classi sociali per arrabattarsi nel fango dell'infamia e della colpa. Con questa non transigiamo, non facciamo alleanza: essa non ha che la nostra compassione talvolta, sovente il nostro disprezzo.

Gian-Luigi impallidì e si morse le labbra, ma tacque.

Tiburzio continuava:

— Una rivoluzione che saccheggi si disonora; se noi trionferemo, sarà nostra cura far appendere alle forche qualunque che faccia onta al nostro successo con un latrocinio.

La fronte delmedichinosi corrugò un istante, e i suoi occhi lampeggiarono molto minacciosi; ma fu un lampo daddovero; innanzi alla serena, fiera, nobile guardatura di Mario, egli riprese tantosto l'amenità della sua fisionomia da elegante frequentatore di aristocratici salotti.

— Il gran punto, caro mio, sta adunque nel trionfare. Del resto voi non mi avete capito, e non voglio che ci guastiamo per un malinteso. Siamo più d'accordo di quel che vi paia, e quando gli avvenimenti avranno volto a seconda dei nostri desiderii, vi accorgerete voi stesso che l'assolutezza del vostro puritanismo dovrà transigere colle necessità del momento. Per assicurare la vostra rivoluzione medesima sarete obbligato a compensare del perduto lavoro infinito numero di plebei che il movimento avrà gettati sulla strada.... Gli è di questi che intendevo parlare.

— Ed a costoro provvederemo.... Agli onesti.

— Eh! Disse Gian-Luigi levando le spalle. Ne avranno ancora maggior bisogno e saranno più pericolosi gli altri... Ma il tempo passa....

Trasse dal taschino del panciotto un prezioso oriuolo d'oro.

— È oramai da un'ora che noi stiamo qui discorrendo, e ci siamo detto tutto quanto pel momento occorre. Separiamoci. Appena avrò appreso alcun che ve lo comunicherò tosto; così voi a me se alcun nuovo fatto intravviene. E frattanto disporremo tutto, ciascuno da parte sua, per la domenica ventura. Ora abbiale la compiacenza di lasciarvi rimettere la fascia sugli occhi.

Glie la pose egli stesso, poi aprì la porta dello stanzino. Il mariuolo che gli faceva da domestico era là che aspettava come una sentinella. Ilmedichinogli disse all'orecchio:

— Conduci fuori costui per la taverna di Pelone. SeMacobaroè ancora costì mandamelo qui subito.

Mentre Mario cogli occhi bendati era condotto via dal tristo che serviva da domestico a Gian-Luigi, questi gli tenne dietro collo sguardo, finchè spari del tutto nella tenebra della galleria che conduceva alla taverna.

— Un nobile carattere, sì: diceva egli fra sè: un'anima generosissima in cui albergano i più elevati sentimenti; ma conosce egli, codestui, gli uomini ed il mondo? Ma con tanta riguardosa coscienza, a che si riesce?

Crollò le spalle e fece il suo sogghigno più ironico e più scettico.

— Stolti! Soggiunse il capo dellacocca. Stolti che vengono da noi, che chiamano il nostro aiuto e credono, a battaglia vinta, misurarci la parte della torta. Ma per Iddio! se vinceremo, i padroni saremo noi... sarò io!!

Si drizzò della persona e gettò nello spazio quello sguardo di dominazione che Maurilio al villaggio gli aveva già visto gettare sulla lontana città, quando s'apprestava a venire in essa per conquistarsi la supremazia sociale.

Stette alquanto così, in quell'attitudine fiera e superba: poi si riscosse e volse gli occhi fiammanti verso la galleria per cui era partilo Mario Tiburzio; un passo trascinante vi si fece sentire e nella penombra delCafarnaoapparve il profilo asciutto e la persona curva di Jacob Arom, il vecchio rigattiere ebreo.

Era il ritratto dell'avarizia e della viltà, colle sembianzed'una sordida miseria. In forme e panni maschili, l'accompagnatura della schifosa figura dellaGattona. Il naso adunco in quel volto osseo e magro, a zigomi sporgenti ed occhi incassati, ricordava il becco d'un uccello da rapina; la bocca sdentata rientrava nelle mascelle incavando ai due lati della faccia un avvallamento pieno di rughe; piccolo, a spalle strette, a petto incurvato, a membra gracili, Jacob camminava a corti passi, senza far rumore, guardando in terra dove sembrava sempre cercar qualche cosa, respirando in modo particolare, quasi affannoso, tra il sospiro ed il gemito. Parlando aveva la voce debole e rauca e quell'accento tra gutturale e nasale che è carattere del popolo israelita, esagerato nella feccia di quella povera razza dispersa. Sopra una spalla portava accavallati due o tre abiti logori; in mano un ombrello di stoffa di cotone.

Appena lo vide, Quercia gli gridò col tono d'un padrone non benigno ad un cane in disgrazia:

— Avanzati un po' qua, vecchio scellerato, apri le orecchie, e sta pronto a dir sì, senza tanti discorsi, chè tu sai come a me non piacciano gl'indugi delle parole inutili, e ti avviso inoltre che al presente ho molta fretta.

Jacob tirò giù il suo cappello frusto, unto e bisunto, tutto bozze ed ammaccature, e scoprì un capo arruffato con foltissimi capelli corti, ricciuti, che parevano, per forma e per colore, la lana delle pecore in montagna, quando la piova da lungo tempo non è più venuta a lavarla.

— Eccomi agli ordini suoi: diss'egli con tono tutto raumiliato, avanzandosi proprio coll'andatura del can barbone che teme le botte. Mi comandi, e se la è cosa ch'io possa fare, si accerti....

Ilmedichinolo interruppe bruscamente:

— Mi bisognano fra due giorni cinquanta mila lire in denaro sonante, e tu me le hai da dare....

— Dio d'Abramo! Esclamò Jacob alzando le mani alla vôlta con espressione quasi di spavento, e lasciando per la soverchia sovrappresa cadere in terra il suo cappello frusto. E come vuole che io possa procurarle una somma sì enorme?

— Pigliandola dove ce l'hai; nelle tue casse, nei tuoi nascondigli in cantina, vecchio avaro.

— Per l'anima di Melchisedech! Ancor Ella crede le fole che i piacevoloni si divertono a spacciare sul mio conto? Che io nuoto nell'oro, ed ho tutti i tesori del re Salomone nelle mie cantine. Ma Lei che è un uomo superiore, come può dar retta a simili cantafère? La vede bene che vita miserabile è quella ch'io meno....

Luigi nuovamente lo interruppe con quel suo accento a cui pochi erano tanto arditi da ribatter parola:

— Ti dico che ho bisogno di quella somma, e che la voglio. Risparmia adunque tutte le tue ciancie con cui suoli sgozzare altrui nel tuo mestiere da usuraio, degno emulo di quello scellerato Nariccia. Come tu abbia da fare per procurarmi quel valsente io non lo voglio nemmanco sapere, ma ciò che voglio si è che fra due giorni al più tardi esso trovisi in mio potere. Tu mi conosci qual sono; e regolati in conseguenza.

Il ferravecchio raccolse da terra il suo cappello e per un poco parve tutto intento a lisciarlo e rilevarne la ammaccature. Pareva rannicchiatosi di corpo da essere diventato più piccolo; aveva saputo accrescere l'umiltà, la miserevolezza, la debiltà di quel suo aspetto che era sempre debolissimo, miserrimo ed umilissimo.

— Come mai, diss'egli di poi con timidezza, può esservi bisogno di un tanto capitale? Le casse dellacoccadovrebbero essere ripiene; ogni giorno le si vengono rifornendo con qualche nuovo versamento: l'altro dì ancora le ventimila lire di Bancone....

Quercia crollò le spalle con atto disdegnoso.

— Peuh! Esclamò. Una secchia d'acqua nel letto d'un fiume. Le spese sono molte; abbiamo un esercito di miserabili a cui, poca o assai, ci vuole la sua parte; dei valori non monetati tu e Pelone, birbanti tuttedue, ce ne rubacchiate la buona metà del prezzo....

Jacob Arem protestò con un'esclamazione a cui ilmedichinonon diede retta.

— E poi, continuava egli, la impresa per cui li domando questi denari è tale che assorbe al di là dei mezzi pecuniari che può avere accumulati la nostra associazione....

Gian-Luigi s'interruppe con un sorriso pieno di superbia.

— Ma che sto io rendendoti tutti questi conti? Ti dico che ne ho bisogno e basta; ti dico che li voglio, e tu non uscirai di qua senza avermi fatta la promessa solenne di darmi que' denari, per la tua legge e pei tuoi profeti. Hai capito?

Il giudeo guardò intorno con aria profondamente sgomentata. Quercia gli si accostò vieppiù ed appoggiandosi con una mano alla tavola soggiunse a bassa voce, chinando la sua alta persona verso il miseruzzo vecchio:

— Qui siamo affatto soli. (E in realtà Graffigna erasi partito durante il colloquio tra ilmedichinoe Mario: e il domestico era andato a guidar fuori quest'ultimo, e poi ad eseguire le altre incombenze dategli da Quercia). Siamo affatto soli, quasi nelle viscere della terra, e nessuno fra i viventi può udire o veder quello che qui succede....

I lineamenti del vecchio Jacob si alterarono in modo eccessivo: si ritrasse vivamente dal suo interlocutore e disse con voce balzellante pel tremito:

— In nome dell'Eterno! Avrebbe Ella il coraggio di far violenza ad un povero vecchio?

Ilmedichinoruppe in una risata.

— Di che hai paura? Che io voglia far male a quel tuo vecchio carcame? Se l'oro che possiedi,tu lo portassi come sangue nelle vene, potrei metterti sotto allo strettoio per fartelo sudar fuori. Rassicurati e riavvicinati. Credi tu ch'io sia tale da non averti saputo leggere nell'anima? Io ho penetrato dentro quel vecchio tuo cranio e ci ho visto l'idea fissa che lo domina, io ho sentito le passioni scellerate che fanno battere quel tuo vecchio cuore inaridito.

Jacob sollevò sul viso di Quercia il suo sguardo umile e peritoso, e disse con voce più debole che mai:

— Che passioni? Per la pietra di Oreb!....

— Vuoi che le le dica? Tu ami assai tua figlia....

— La mia Ester! Esclamò l'ebreo facendo scintillare alcun poco i suoi occhi, fissi ancora sul volto di Gian-Luigi. Oh sì! È il fiore sbocciato sul vecchio tronco percosso dal fulmine, è il sorriso della primavera che rallegra il mio inverno, è la mite luce del mio vespro.

— Ma più di tua figlia, continuò ilmedichinointerrompendo, assai più di tua figlia, ami il tuo denaro...e quello altrui.

Arom chinò il capo, abbassò gli occhi, e biascicò con voce più gutturale del solito:

— Sono un pover uomo che ha tanto appena che basti per campar la vita....

— Ma più forte dell'amor che hai per tua figlia, più forte ancora dell'amore che hai pel denaro, sta nel tuo cuore un odio feroce, accanito, profondo, che si è fatto tua natura, che ti guida in ogni atto, che presiede ad ogni tuo proposito: l'odio contro i cristiani, l'odio contro quelli che dominano, che trionfano, che brillano....

— Oh! che cosa dic'Ella mai? Esclamò l'ebreo, tenendo sempre più bassi gli occhi e la faccia. Io pensare ad odiare ciò a cui devo sommissione e rispetto! Un verme come sono io si lascia schiacciare ma non ha la temerità d'aver nemmanco l'ombra d'un rancore contro il piede potente che lo preme.

— Il verme dove potesse scavare una fossa sotto al gigante il cui piè lo calpesta, per farnelo rovinare da tutta la sua altezza, lo farebbe molto volentieri. Tu hai visto che altri, con o senza coscienza dell'opera loro, si adoperavano a scavar sotterraneamente questa fossa, e ti sei giunto a loro ed hai posto al travaglio la mano. Tu al minuto sgozzi coll'usura i cristiani che ti capitano sotto le unghie, collettivamente, all'ingrosso, ti adoperi a spingere le passioni e le miserie che arruolano allacoccatanti soldati, alla rovina di quello stato sociale che fa alla tua razza una così trista condizione, che dà alla tua persona una parte così umile, così soggetta e così precaria.

L'israelita sollevò un istante le sue palpebre floscie e rugose onde copriva i suoi occhi tenuti fino allora volti alla terra, e lanciò verso il suo interlocutore uno sguardo che era una fiamma viva; ma richinate tosto le pupille si tacque nè si mosse altrimenti come se le parole delmedichinonon producessero in lui effetto di sorta.

Gian-Luigi continuava:

— Ti ho conosciuto per quello che eri fin dalla prima volta che ti vidi. Io ti venni innanzi allora tratto per forza dalla mano del bisogno....

— Sì; disse allora Jacob facendo sgusciare di nuovo uno sguardo sulla faccia delmedichinoe parlando più umilmente colla sua voce più nasale che mai. Ella non aveva ancora imparato ad avere una rivalsa sicura nelle carte da giuoco.

Quercia fece un moto di contrarietà come quegli a cui si ricorda cosa che non gli talenta udire accennata.

— Non aveva tuttavia, seguitava l'ebreo, alcuna attinenza colla nostra associazione; ma possedeva le tante buone qualità che la fanno ora capo così degno, così operoso e così intelligente dellacocca, risuscitata a nuova, più vasta e più fruttuosa esistenza, e chiamata, appunto per l'iniziativa di Lei a maggiori destini. Ed io mi rallegro e mi inorgoglisco nel mio nulla d'essere stato cagione di sì prezioso acquisto, di sì meritata esaltazione di vostra signoria.

— Come io nel tuo, tu eziandio mi hai letto nell'animo. Hai capito che quell'associazione di malfattori..... di ribelli alla legge sociale..... così estesa e bene ordinata, poteva essere uno stromento efficace, un'arma potentissima per abbattere il presente, per vendicare il passato, quando la dirigessero una mano robusta, una ferrea volontà, una intelligenza solerte, ardimentosa e feconda. Siffatte qualità le hai presentite in me; le passioni che dovevano farmi voglioso dell'opera le hai indovinate nella mia giovinezza irrequieta. In quel primo colloquio il tuo sguardo non restò chinato alla terra, come sempre di poi, come anco al presente; ma per gli occhi mi si affondò nell'animo, a scrutare di me, come dice la tua Bibbia, il cuore e le reni. Si era nello stanzone terreno della tua dimora: un antro oscuro come il covo d'una belva; e in un angolo della stanza raggiava la precoce bellezza di tua figlia, ancora quasi bambina....

Jacob Arom aveva levato non che gli occhi, ma la testa e la persona, e guardava con inusata sicurezza e sorrideva con famigliarità compiacente. Alle ultime parole di Gian-Luigi osò interrompere quasi rimbrottando:

— Ah! lasciamo stare mia figlia, la prego.

Gian-Luigi che parve non badare per nulla a quella interruzione, continuava:

— Tu mi prendesti per la mano — la tua destra fredda come un pezzo di ghiaccio e adunca come l'artiglio d'un falco da preda, s'intrecciò colla mia, quasi a stringere un tacito patto solenne. Tu mi sorridesti colla tua bocca sdentata, tu mi facesti balenare dinanzi il cupo splendore della sciagurata sovranità che ora possiedo, tu, senza dirmene apertamente,mi lasciasti travedere lo scopo immenso della nostra opera tenebrosa, che sfugge alla intelligenza ristretta dei nostri consoci, lieti di poco danaro guadagnato col delitto.... Mi rammento eziandio il momento in cui tu sapesti il felice successo della prima di quelle audacissime imprese da me immaginate e condotte che scoppiano come fulmini a ciel sereno nella calma di questa città a spaventare i cittadini colla loro terribilità misteriosa. Tu mi stringesti il braccio con mani che tremavano e mi dicesti susurrando all'orecchio: «Bravo! Bene! Oh! io aveva conosciuto l'uomo che era in Lei. Avanti, avanti! Faccia a que' scellerati d'onest'uomini il maggior male che si possa....»

L'ebreo stava tuttavia col suo corpo dritto e la faccia levata: lo sguardo che non s'era ancora abbassato secondo suo costume scintillava stranamente sotto la fronte proeminente.

— Essi a noi ne fanno tanto del male! Diss'egli colle labbra strette e la voce soffocata nella gola. Se io mi rallegro del danno cagionato a quella gente, chi può darmi torto? È una tirannica persecuzione di secoli che si aggrava sulla dispersa stirpe d'Israele. I padri di codestoro ci abbruciavano vivi; in questa età più mite, ma non più giusta nè onesta, ci si misura la vita col disprezzo e colla prepotenza. Dall'illustre cavaliere che ci tratta collo scudiscio al biricchino di piazza che ci trae dietro al nostro passaggio le immondezze del suolo pubblico, è una gara a chi più ci oltraggi e ci danneggi. Ognuno di noi, fin da bambino, è la mira delle arroganze di tutti. Non v'è debole e meschino fra i cristiani che in faccia ad un israelita non abbia sempre la ragione del più forte. Noi cresciamo in mezzo ad un ambiente di odio comune, isolati e maledetti come i leprosi al bando di ogni vantaggio sociale; a cui non si concede aver possessi, nè cariche, nè onori, neanco una patria, appena se la famiglia. L'altro dì, il nobile conte di San-Luca, col suo carrozzino rovesciava a terra e faceva rompere il capo ad un povero vecchio precisamente innanzi al caffè Fiorio. La folla si raccoglieva pietosa intorno al caduto; ma visto appena chi fosse costui la indignazione contro il giovine conte sfumava. Era un mio compagno di mestiere e di religione. — «Ah! non è che un ebreo:» si esclamò con indifferenza, ed appena fu se alcuno volle porger la mano ad alzare quel miserabile. Il conte seguitò imperturbato il suo cammino, e non ebbe nemmanco un rimprovero. Ogni giorno, ogni ora vede alcun sopruso fatto ad alcuno di noi. Quante volte non ne fui vittima io stesso! Un figliuolo di famiglia nobile, viene a farsi imprestare da me del danaro, quel sacrosanto danaro che io mi guadagno con sì penoso ed incessante lavoro; poscia trova più comodo non pagarmi i pattuiti frutti; il padre titolato e potente ne dice un motto al Comandante della Polizia: il commissario Tofi mi manda a chiamare e mi impone di contentarmi di prendere indietro il mio povero capitale, perdendoci tutti gl'interessi di vedermi imprigionato come usuraio. Non è questo un latrocinio? Ultimamente, sotto il nome di un cristiano che la faceva da miouomo di paglia, prendo una considerevole impresa nelle forniture militari, dalla quale impresa avrei potuto avere assai buoni guadagni. La cosa mi era stata aggiudicata, era mia, e sotto un Governo onesto in una società costituita secondo i dettami di giustizia, nissuna autorità avrebbe avuto potere più di levarmela; ma qui e dai cristiani quale rispetto si ha egli pel giusto? Il conte Barranchi aveva da favorire un suo protetto non arrivato a tempo per concorrere all'appalto, si scopre che il vero accollatario dell'impresa è un ebreo: che bel pretesto! Il solito commissario Tofi mi fa venire innanzi a sè: ordine di S. E. di abbandonare l'impresa o di assaggiare del pan muffato della prigione colla bietta di concussionario. Bisogna curvare il capo e tacere.... E si vuole che questa iniqua società, la quale ci fa una così bella sorte si ami, se ne desideri il prosperare e se ne rispettino le leggi?[5]

Il vecchio ebreo non aveva mai parlato cotanto, nè con tanto calore. Quell'anima chiusa continuamente, alle parole di Gian-Luigi s'era aperta un istante ed aveva lasciato sfuggire uno sprazzo di quel segreto livore che vi sobbolliva costretto per entro.

— Tu hai ragione: disse a sua volta ilmedichino. Ed io pure odio questa società e questo mondo che non mi volle fare quel luogo ch'io sento di meritarmi; e di odiarli ci ho a mille doppi più ragione di te. Te opprime l'assetto sociale; ma fra noi qual può esservi paragone? Te la sorte medesima ha condannato. Sei nato in una razza maledetta, e la natura ti ha fatto debole, ti ha impresso lo stampo degli umili per imbrancarti nella schiera dei sottomessi. Ma io?.... Io mi sento della razza dei leoni; e perchè una colpa o una sventura de' miei genitori mi ha gettato in mezzo agli uomini senza nome e senza ricchezze, ho da vedermi chiuso ogni accesso agli onori ed ai diletti del mondo? No, no per Dio! Io ho nelle vene il sangue degli Erostrati. Il mondo non mi vuol far luogo ed io mi apro la strada coll'incendio e colle rovine. Erostrato si contentò di ardere un tempio per conquistare una dubbia fama: io metterò sossopra tutto un paese, tutta una epoca per conquistare autorità, ricchezzae gloria imperitura, sia pur anco spaventosa ed orribile.

Jacob era tornato in tutta la umiltà del suo contegno ordinario.

— È vero, diss'egli più rimessamente che mai. Io sono un povero ebreo che non è nulla e non potrebbe esser mai nulla; ma Lei!.... Oh da bravo! Vinca ed abbatta questo tirannico assurdo sociale che s'impone colla legge, colla Polizia, colla carcere e colla forca. Tutti i deboli la applaudiranno. Avrà per sè tutti gli oppressi e tutte le vittime, che sono il maggior numero.

— Or bene, dà retta a quel che ti dico, Jacob, così ripigliava a parlare Gian-Luigi. Io sono alla vigilia d'ottenere il mio intento. Fra pochi dì — forse — avrà principio e conclusione in lotta tremenda la vendetta dei miserabili; lo straccione, il disprezzato, chi ha fame piglierà la sua rivincita sui fortunati, sugli onorati, sui graduati del mondo. Sarà una frana che si precipiterà irresistibile a tutto schiacciare e sconvolgere. Ma perchè questa massa lentamente preparata e raccolta si stacchi e rovini occorre una forza potente d'impulso. Questa forza è il denaro. Mi bisogna una vistosa somma, per comporre la quale ho fatto calcolo sopra ogni qualunque mezzo che sia all'arrivo della mia mano. Tutti quelli onde può disporre lacocca, e parecchi altri che gli è inutile il dire: fra questi tu ci entri per quelle cinquanta mila che ti ho domandato.

L'ebreo si pose a far girare tra le mani il suo cappello frusto.

— La ringrazio molto del contrassegno di fiducia: diss'egli con ironia appena se velata; ma per la grandezza dell'Eterno! cinquanta mila lire non sono mica una bazzecola, e per averle e snocciolarle fuori ci vuol altro che buona volontà... Io di certo do al suo progetto — che voglio creder vero, serio e reale — tutta la mia simpatia.

Ilmedichinolo interruppe con violenza:

— Insolente! Avresti l'audacia di non credere alle mie parole?

— Non ho quest'audacia. Dico appunto che ci credo per l'affatto. Se non si trattasse di Lei si potrebbe aver bensì il sospetto che ciò fosse un pretesto affine di raccogliere nella propria mano un considerevole capitale con cui partirsene quatto quatto per andarselo a godere in santa pace lontano, abbandonando per sempre una vita piena di agitazione ed un'impresa piena di rischi.

Ilmedichinoarrossì per l'ira che gli fece lampeggiare tremendamente lo sguardo e corrugare la fronte.

— Miserabile! Esclamò egli. Tu mi credi capace?...

— No, no: si affrettò a gridare l'ebreo, tirandosi in là di alcuni passi. Ella non farebbe mai una cosa simile... E poi lacoccaha le braccia lunghe e raggiungerebbe un traditore anche in capo al mondo. Le muraglie dell'elegante casino di vossignoria qui presso, se potessero parlare, le conterebbero una storia che può essere d'ammonimento a chicchessia.

— È inutile che me la contino, disse Gian-Luigi tornato in una calma disdegnosa; poichè la so. Il capo di allora dellacoccafuggì coi fondi della società, ed alfine di mettersi al riparo da ogni vendetta denunziò alla Polizia i principali autori di parecchi delitti, che erano gl'individui da cui egli soltanto poteva temere la sua punizione. Furono presi tutti, e lacoccaper allora rimase dispersa. Due salirono sul patibolo, gli altri furono condannati alla galera in vita. Il traditore pareva dover essere sicuro, e talmente si credette tale che commise l'imprudenza di venire dopo molti e molti anni ad abitare, sotto altro nome è vero, quella medesima casetta che come capo dellacoccaaveva avuto in suo possesso. Chi pareva ancora ricordarsi di lui? Viveva solo, chiuso in casa, senza relazioni nessuna col mondo. Or bene, una sera ci vide aprirsi l'usciolo nascosto che metteva nel passaggio segreto, il quale allora non comunicava punto colle botteghe che tengono attualmente Baciccia e Pelone, ma si fermava al pozzo cieco del cortile; ed ecco entrargli in casa Marullo, che era fuggito dalla galera a cui era condannato per la vita. Due giorni dopo il vecchio scellerato fu trovato morto.

— Sì, questa è la storia testuale. Marullo fu quegli che di poi riordinò lacocca, la quale ora è in così florida condizione sotto la savia direzione di Vossignoria.

— Ma lasciamo questi discorsi: disse Gian-Luigi e torniamo a quelle cinquanta mila lire che tu mi devi dare ad ogni modo. Tu hai fatto troppi guadagni sullacocca, perchè ora che questa ha bisogno del tuo concorso, tu vi ti rifiuti.

— Un concorso di cinquanta mila lire!....

— Che te ne renderanno centomila.

— Oh oh! Esclamò Jacob sollevando la testa. Come mai?

— Non è un dono che ti domando, è un imprestito. Quando avremo vinto te ne rimborserai da te stesso nella divisione della torta.

— E se non vinciamo?

— Ti compenseremo sui guadagni delle future operazioni dellacocca.

L'ebreo scosse la testa.

— Se avviene uno scoppio simile e il Governo ci schiaccia, lacoccaè bella e spacciata per un pezzo... Senta, signor Quercia: ci sarebbe forse un mezzo di aggiustar tutto... Ella è troppo ragionevole per voler rovinare un povero padre di famiglia esponendolo al rischio di perdere così da un momento all'altro una somma di tanto riguardo...

— Sentiamo questo mezzo: interruppe ruvidamente ilmedichino.

— Mi faccia unpagheròa mio ordine per cinquantadue mila lire...

— Subito: disse Gian-Luigi.

— Ma, soggiunse Jacob col tono d'un pezzente che domanda l'elemosina, vorrei colla sua un'altra firma.

Quercia si riscosse.

— Qual firma? Domandò egli aggrottando le sopracciglia.

E l'ebreo con voce più umile e sottomessa che mai:

— Quella della contessa di Staffarda...

Non aggiunse più sillaba, impaurito dallo sguardo e dall'espressione del volto di Gian-Luigi.

Questi però si tacque per un poco; incrociò le braccia al petto e parve meditare profondamente.

— L'avrai: diss'egli dopo alcuni minuti.

Un quarto d'ora più tardi, Jacob, uscito dalla bettola di Pelone, rientrava a casa sua; e Gian-Luigi, venuto fuori per la casina del viale, s'affrettava verso il palazzo Langosco. Seguitiamo per ora il vecchio israelita nel suo quartiere entro la parte più sporca del lurido ghetto, e colà conosceremo la bella Ester, di cui il biglietto scritto a Gian-Luigi già ci apprese la colpa e la sventura.


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