CAPITOLO XXVI.

CAPITOLO XXVI.Frattanto Jacob Arom era tornato a sedersi al desco a cui mangiavano Andrea e Marcaccio, Pelone s'era posto ancor egli poco lontano come un uditore disinteressato, e il discorso di prima aveva ripreso il suo cammino.— Tu dunque, diceva Marcaccio, continui sempre nella pazza idea di poter trovare del lavoro che basti alla tua famiglia? Bel gusto quello di frustarsi la pelle per avere un pane stentato; ma via passi ancora, se ciò fosse possibile. Ma il lavoro è cosa troppo incerta; oggi v'è e domani non v'è più: e poi quando si è entrati una volta in quella strada in cui ci troviamo noi, cioè quando uno si è fatto cacciare di qua e di là per buona o cattiva ragione, non importa, e' non ne trova più di lavoro, o non lo trova per lungo tempo. Hai già provato a cercarne?— Sì.... Anche stamattina mia moglie ne ha domandato all'officina Benda.— E si rispose?— Un corno.— Vedi!— Ah! il signor Benda non doveva far così: proruppe con ira Andrea vieppiù sempre eccitato dalla crescente ebbrezza. Egli mi ha conosciuto buon operaio, esso doveva credere ch'io sarei tornato quel di prima, egli avrebbe dovuto aver compassione di me.— Compassione!... Forse che quella gente sa che cosa sia aver compassione pel povero operaio? I padroni sono tutti birboni che sfruttano i lavoranti, che levan loro la pelle, e quando torna li gettano nella miseria a crepare, mentre essi coi sudori di questi sciocchi si sono arricchiti.... Sì, sciocchi, perchè siamo noi che rimanendo straccioni li facciamo andar loro in carrozza. Ma pel signor Benda e pei pari suoi, verrà fors'anco il giorno di farla pagare: e tu potrai avere eziandio questo gusto.... Il vero è che tutti i ricchi si sono fatti tali col sudore e col sangue del povero; il vero è che tutto ciò che possedono essi di troppo lo hanno rubato a noi che manchiamo del necessario; il vero è che noi prendendone a loro non facciamo che ricuperare una menoma parte di quello che ci viene.— È giusto, è giusto: appoggiavaMacobaro.— Oh! i ricchi, io li odio tutti: esclamava con feroce esplosione Marcaccio. Sono tutti birboni. Tutti quelli che stanno al di sopra di noi vorrei vederli gettati nel fango al di sotto ancora dei nostri piedi....— Avete ragione: diceva il vecchio ebreo, i cui occhi lucevano d'una fiamma d'odio pari a quella che accresceva il bagliore dell'ebbrezza nello sguardo sanguinario di Marcaccio.Ma il prudente Pelone credette opportuno di mettere un po' d'acqua su quelle fiamme.— Ssst! Diss'egli. Queste cose non si devono blaterare.... e sopratutto così forte! Se qualcheduno vi udisse!...— Eh! qui non vi è nessuno di troppo, mi pare.Andrea protestò a sua volta.— Non è vero che tutti i ricchi sieno birboni... Il marchese di Baldissero e la sua nipote sono fior di persone caritatevoli. Ella stessa, la marchesina, è venuta questa mane da noi a recarci soccorsi... Ed anco la famiglia Benda... non dico di lui, del principale... Egli è sempre stato un galantuomo, non lo nego, ma a non volermi più ammettere nei suoi laboratorii me ne ha fatto una grossa... lui, ve l'abbandono, via... ciò non toglie che sua moglie e sua figlia sieno brave persone con tanto di cuore... Insomma fra gli uni e gli altri, me quest'oggi hanno rifornito di denaro così bene che potrò pagare l'affitto e vivere un po' di tempo. Intanto il lavoro verrà...— Illusioni, illusioni! esclamò Marcaccio. Il lavoro ti ho già detto che non lo troverai; finito quel poco di denaro sarai alla disperazione come prima, e credi tu che vi saranno sempre i generosi che te ne vogliano dare dell'altro per la tua bella cera?— Gli è ben meglio procurarcelo da noi con una piccola opera: disseMacobarocon voce tanto bassa che pareva un susurro: l'opera, per esempio, di fare un paio di chiavi sull'impronta della cera.Andrea guardò il vecchio con occhi stralunati.— E questa impronta? Diss'egli quasi involontariamente, quasi non sapendo che cosa dicesse.— Ah! non avreste da procurarvela voi nemmanco: soggiunse vivamente il ferravecchi. Vi sarebbe fornita da altri.Andrea appoggiò i due gomiti sulla tavola e sostenne colle mani la faccia. Sentiva la testa girargli sempre più.— E le chiavi ch'io farei aprirebbero i forzieri di Nariccia? Domandò egli.— Questo voi non avreste manco da saperlo: disse Jacob.Ma il compagno d'Andrea con brusca uscita:— Ebben sì, proruppe, a che nascondergli la verità? Si tratta di aprire i forzieri di quello scellerato.Si curvò sulla tavola ed abbassò la voce. Le teste di quei tre uomini chine al di sopra delle vivande consumate si toccavano quasi.— E' son pieni riboccanti di oro! Pensa Andrea!... I marenghini a sacchi!!... Tutta quella roba nostra; tutta poterla afferrare colle nostre mani!... Mai più miseria, mai più freddo, mai più fame!... Si prende tutto e si scappa...— Si scappa: ripetè Andrea con voce bassa ugualmente: e la famiglia?— Si scappa anche con lei.Il marito di Paolina pose la testa nelle mani e stette un poco tenendovela così stretta con forza: il suo buon genio la vinse ancora in quella lotta della tentazione.— No, no: proruppe egli tentennando violentemente la testa. Non sarò io mai che farò una cosa simile.Un lampo d'ira vivissima passò negli occhi di Marcaccio.— Uh! l'imbecille: gridò egli serrando il pugno.Ma Jacob gli pose pianamente una mano sul braccio a contenerlo:— Udite una parola: diss'egli alzandosi.Marcaccio s'alzò egli pure e tenne dietro al ferravecchi nel mazzo della stanza.— Conviene ch'io vada dalmedichinoche m'aspetta: disseMacobaro; ma voi ponete in pratica questo consiglio; bisogna spogliare fin dell'ultimo soldo che ha questo babbeo. Quando sarà di nuovo all'asciutto darà più facilmente retta alle vostre parole... E per sciugargli in un momento le tasche non avete bisogno che d'unapintadi più e di un mazzo di carte.— Avete ragione: rispose Marcaccio. Andate là che fra un'ora io l'ho pelato di tutto.Macobarosgusciò nel camerino, Marcaccio tornò alla tavola a cui seduto Andrea continuava a tenersi stretta colle mani la testa.— Ebbene, disse Marcaccio ad Andrea sedutogli presso di nuovo, a che cosa pensi?— Penso che se potessi diventar ricco onestamente, sì che lo farei volentieri.— Sei un ragazzo. Quando si è ricchi che sì che ci fa il modo con cui si è diventato tale!... E poi che cos'è la ricchezza guadagnata onestamente? Sai tu dirmelo?— Per Dio! È la ricchezza che si acquista col proprio lavoro.— Baje! Nariccia facendo lo strozzino ha pur lavorato; chi può dire quella di lui una ricchezza onesta? Lavora anche colui che avventura la vita e la libertà per iscassinare una porta e giunger là dove c'è quel denaro che egli non può procurarsi, che a lui non danno ereditate fortune. E il giuoco? È esso un lavoro? No, eppure se uno guadagna un quaterno al lotto o si fa ricco mercè vincite alle carte, non ci si ha da ridire.Prese nelle sue tasche una manciata di monete e la pose sulla tavola.— To': qui in mezzo a noi due io metto un mucchio di questirotondiniche dànno a chi li possiede ogni ben di Dio: tu ne metti altrettanto: e diciamo fra noi che prenderà il mucchio intiero quello che sarà favorito dalla fortuna delle carte. Tu vinci; intaschi tutto, raddoppii il tuo denaro, e se alcuno viene a dirti che quel denaro non è tuo onestamente, tu gli dài il togliti di lì con un manrovescio che gli fa veder le stelle; ed hai tutte le ragioni del mondo.Andrea guardava con occhio che cominciava ad essere cupido le monete che il suo compagno aveva poste sul desco e che si compiaceva di maneggiare e di far suonare.— Il giuoco: diceva egli frattanto con voce ed aspetto sempre più da ebbro. Ah! il giuoco è un traditore anche lui. Vi lusinga, v'invita, vi adesca... e poi ad un tratto, patatrach, vi atterra colle tasche asciutte.— Eh via! Tu lo calunnii. Uno dei giuocatori bisogna pur sempre che guadagni... Perchè non avresti ad esser tu quel desso?— Io no. Conviene essere fortunati; ed io non ho fortuna di sorta. Ho la disgrazia che mi perseguita, come se fossi figliuolo della versiera.— Codeste sono bambinate, son pregiudizi che bisogna lasciare alle femminelle. Un uomo come sei tu, corpo del diavolo non dovrebbe manco dirle tali cose... Dà retta. Giusto per passare un po' di tempo... E dove si avrebbe da andare? Nevica, fa freddo, e battere il selciato delle strade è un misero divertimento...— Dovrei andare a casa: mormorò sommessamente il disgraziato.— A casa? Rimbeccò il birbo compagno. Se non ne sei venuto via che adesso! Vuoi piantarti colà, sempre cucito alle sottane di tua moglie? Qui stiamo al caldo e senza seccature. Ci facciamo portare ancora unapintada mastro Pelone... — Ehi? Avete udito compare? Un'altrapintadi questo.— Subito: disse Pelone alzandosi e movendo colla sua solita andatura verso il banco, dove erano schierate parecchie bottiglie della misura domandata.— E ci date anche le carte: soggiunse Marcaccio.— Va bene: rispose l'oste.— No, no: disse Andrea, ma con una riluttanza debole e rimessa: non voglio giuocare.— Lascia un po'. Giuocheremo una cosa da nulla, tanto per passare il tempo... Tu oggi mi hai tutta l'aria di essere in vena di guadagno.— Io? Non lo sono mai.— Ebben vediamo.L'oste, aiutato dal garzone, sbarazzò la tavola dei resti della loro colazione, stese su di essa uno sporco tappeto e depose al capo del desco verso la parete il fiasco, in mezzo un mazzo di carte unte e bisunte come il tappeto.Cominciarono a giuocare di poco, e le carte non per l'opera della fortuna, ma per l'abilità di Marcaccio furono favorevolissime ad Andrea. Lapintaintanto veniva consumandosi, e l'ebbrezza, aumentando nel marito di Paolina, ne riscaldava vieppiù la suscitata passione del giuoco. Si accrebbero le poste, e Marcaccio, simulando il rabbioso ed il disperato, aveva già perso cotanto che s'era proprio raddoppiato il peculio del suo avversario. Ma ad un punto, ecco che la fortuna comincia a girare. Qualche piccola perdita s'avvicenda ai successi di Andrea: le perdite spesseggiano e le vincite diminuiscono; poi queste cessano del tutto. La vicenda è perfettamente scambiata. Marcaccio guadagna ogni giuocata e Andrea le perde tutte; tanto bene che dopo due ore egli si trova senza nemmeno più un quattrino nelle tasche.A questo punto, quando con una fiera bestemmia egli inveiva contro Marcaccio che l'aveva ridotto a tale, entrò opportuno Graffigna che aveva visto la moglie e i figli d'Andrea cacciati nella strada alla neve che cadeva, al gelo che assiderava.Graffigna non conosceva di persona il marito di Paolina, come non n'era conosciuto; ma dietro le informazioni di Marcaccio, avendo egli commesso a quest'ultimo che quella stessa mattina cercasse di vincere le ripugnanze del fabbro ferraio, non dubitò punto che il compagno di Marcaccio non fosse l'uomo in quistione. Andò egli a sedere al tavolino più prossimo a quello occupato dai due giuocatori, e contentatosi di fare un saluto indifferente al compagno di Andrea, disse all'oste:— Compare Pelone, portatemi unquartinodi buona barbèra, che mi rimetta un po' lo stomaco. Ho assistito adess'adesso venendo qui ad un fatto che mi ha stretto il cuore e rovesciata l'anima.— Che fatto? Domandò Marcaccio.Graffigna raccontò semplicemente ciò che aveva visto nella casa di Nariccia.Andrea sorse di scatto, tremante tutte le membra, gli occhi che schizzavan fuoco.— Nella casa di Nariccia! Esclamò egli con un ruggito. Una donna malata! Quattro bambini!... E non sapete voi il loro nome?...— Non so bene: rispose tutto pacato Graffigna. Ho sentito dire che il padre di quei poveretti era un fabbro ferraio, un certo Andrea....Questi urlò una tremenda maledizione.— Mia moglie!... I miei figli!...Il colpo fu tanto forte che cadde sulla panca quasi esanime. Marcaccio gli fu intorno con un bicchiere di vino per riconfortarlo.— Lasciami, lasciami: disse il povero ebbro allontanando da sè il bicchiere. Oh! lo scellerato; oh! l'infame. I miei figli, la mia donna malata, egli ha avuto cuore.... Ma l'ucciderò quell'uomo, sì l'ucciderò quel mostro, con queste mani....— No, no, non dir codesto: susurrava Marcaccio con falsa pietà.— Sì, sì, urlava più forte il disgraziato. Voglio vendicarmi. Oh credi tu che non mi abbia da vendicare?— Sì, certo; e voglio anzi aiutarti nell'impresa.Graffigna venne a ficcare in mezzo il suo muso appuntato da faina.— Questo è un amico, innanzi a cui possiamo discorrere: soggiunse Marcaccio per rassicurare Andrea, il quale nella passione dell'animo in cui era, non pensava nemmanco a diffidar di nessuno. — Or bene, ti dico che ci abbiamo un modo assai più acconcio di vendicarti di quel birbante che ti assassina la famiglia.— Che modo?— Entrargli in casa e portargli via tutti i suoi tesori.Andrea parve riflettere un momento; si passò due o tre volte la destra sulla fronte, poi proruppe con impeto:— Ebben sì... Sono il vostro uomo... Voi avete le impronte di cera delle serrature?— Le abbiamo: disse sollecito e piano Graffigna colla sua voce sottile.— Avete un luogo dov'io potrei lavorare?— Un luogo segretissimo; rispose ancora Graffigna, dove v'introdurremo cogli occhi bendati.— Io vi farò le chiavi... E le adopreremo?— Fra pochi giorni.— Va bene... Ei l'ha voluto!... Ora lasciatemi correre da mia moglie e dai figli miei.— Un generoso signore che io conosco — disse Graffigna — ha fatto ricoverar la donna all'ospedale e i bambini all'asilo.... Marcaccio, tu accompagna il nostro buon Andrea, e quando avrà visto moglie e figli, conducilo ove tu sai per la bottega diBaciccia. Io sarò là ad aspettarvi.Andrea, penetrato nell'ospedale, trovò la moglie in preda al delirio, la quale perciò non potè riconoscerlo; trovò i bambini sbalorditi, spaurati, piangenti. Quando raggiunse Marcaccio, che lo attendeva fuor della porta dell'asilo, la fisionomia di Andrea era più cupa che mai; la fiera risoluzione nell'animo suo era irrevocabile.Quella stessa sera lacoccapossedeva un addetto di più ed aveva in suo potere le chiavi che aprivano la porta d'ingresso e gli usci interni del quartiere di Nariccia.Fine della 2ª Parte

Frattanto Jacob Arom era tornato a sedersi al desco a cui mangiavano Andrea e Marcaccio, Pelone s'era posto ancor egli poco lontano come un uditore disinteressato, e il discorso di prima aveva ripreso il suo cammino.

— Tu dunque, diceva Marcaccio, continui sempre nella pazza idea di poter trovare del lavoro che basti alla tua famiglia? Bel gusto quello di frustarsi la pelle per avere un pane stentato; ma via passi ancora, se ciò fosse possibile. Ma il lavoro è cosa troppo incerta; oggi v'è e domani non v'è più: e poi quando si è entrati una volta in quella strada in cui ci troviamo noi, cioè quando uno si è fatto cacciare di qua e di là per buona o cattiva ragione, non importa, e' non ne trova più di lavoro, o non lo trova per lungo tempo. Hai già provato a cercarne?

— Sì.... Anche stamattina mia moglie ne ha domandato all'officina Benda.

— E si rispose?

— Un corno.

— Vedi!

— Ah! il signor Benda non doveva far così: proruppe con ira Andrea vieppiù sempre eccitato dalla crescente ebbrezza. Egli mi ha conosciuto buon operaio, esso doveva credere ch'io sarei tornato quel di prima, egli avrebbe dovuto aver compassione di me.

— Compassione!... Forse che quella gente sa che cosa sia aver compassione pel povero operaio? I padroni sono tutti birboni che sfruttano i lavoranti, che levan loro la pelle, e quando torna li gettano nella miseria a crepare, mentre essi coi sudori di questi sciocchi si sono arricchiti.... Sì, sciocchi, perchè siamo noi che rimanendo straccioni li facciamo andar loro in carrozza. Ma pel signor Benda e pei pari suoi, verrà fors'anco il giorno di farla pagare: e tu potrai avere eziandio questo gusto.... Il vero è che tutti i ricchi si sono fatti tali col sudore e col sangue del povero; il vero è che tutto ciò che possedono essi di troppo lo hanno rubato a noi che manchiamo del necessario; il vero è che noi prendendone a loro non facciamo che ricuperare una menoma parte di quello che ci viene.

— È giusto, è giusto: appoggiavaMacobaro.

— Oh! i ricchi, io li odio tutti: esclamava con feroce esplosione Marcaccio. Sono tutti birboni. Tutti quelli che stanno al di sopra di noi vorrei vederli gettati nel fango al di sotto ancora dei nostri piedi....

— Avete ragione: diceva il vecchio ebreo, i cui occhi lucevano d'una fiamma d'odio pari a quella che accresceva il bagliore dell'ebbrezza nello sguardo sanguinario di Marcaccio.

Ma il prudente Pelone credette opportuno di mettere un po' d'acqua su quelle fiamme.

— Ssst! Diss'egli. Queste cose non si devono blaterare.... e sopratutto così forte! Se qualcheduno vi udisse!...

— Eh! qui non vi è nessuno di troppo, mi pare.

Andrea protestò a sua volta.

— Non è vero che tutti i ricchi sieno birboni... Il marchese di Baldissero e la sua nipote sono fior di persone caritatevoli. Ella stessa, la marchesina, è venuta questa mane da noi a recarci soccorsi... Ed anco la famiglia Benda... non dico di lui, del principale... Egli è sempre stato un galantuomo, non lo nego, ma a non volermi più ammettere nei suoi laboratorii me ne ha fatto una grossa... lui, ve l'abbandono, via... ciò non toglie che sua moglie e sua figlia sieno brave persone con tanto di cuore... Insomma fra gli uni e gli altri, me quest'oggi hanno rifornito di denaro così bene che potrò pagare l'affitto e vivere un po' di tempo. Intanto il lavoro verrà...

— Illusioni, illusioni! esclamò Marcaccio. Il lavoro ti ho già detto che non lo troverai; finito quel poco di denaro sarai alla disperazione come prima, e credi tu che vi saranno sempre i generosi che te ne vogliano dare dell'altro per la tua bella cera?

— Gli è ben meglio procurarcelo da noi con una piccola opera: disseMacobarocon voce tanto bassa che pareva un susurro: l'opera, per esempio, di fare un paio di chiavi sull'impronta della cera.

Andrea guardò il vecchio con occhi stralunati.

— E questa impronta? Diss'egli quasi involontariamente, quasi non sapendo che cosa dicesse.

— Ah! non avreste da procurarvela voi nemmanco: soggiunse vivamente il ferravecchi. Vi sarebbe fornita da altri.

Andrea appoggiò i due gomiti sulla tavola e sostenne colle mani la faccia. Sentiva la testa girargli sempre più.

— E le chiavi ch'io farei aprirebbero i forzieri di Nariccia? Domandò egli.

— Questo voi non avreste manco da saperlo: disse Jacob.

Ma il compagno d'Andrea con brusca uscita:

— Ebben sì, proruppe, a che nascondergli la verità? Si tratta di aprire i forzieri di quello scellerato.

Si curvò sulla tavola ed abbassò la voce. Le teste di quei tre uomini chine al di sopra delle vivande consumate si toccavano quasi.

— E' son pieni riboccanti di oro! Pensa Andrea!... I marenghini a sacchi!!... Tutta quella roba nostra; tutta poterla afferrare colle nostre mani!... Mai più miseria, mai più freddo, mai più fame!... Si prende tutto e si scappa...

— Si scappa: ripetè Andrea con voce bassa ugualmente: e la famiglia?

— Si scappa anche con lei.

Il marito di Paolina pose la testa nelle mani e stette un poco tenendovela così stretta con forza: il suo buon genio la vinse ancora in quella lotta della tentazione.

— No, no: proruppe egli tentennando violentemente la testa. Non sarò io mai che farò una cosa simile.

Un lampo d'ira vivissima passò negli occhi di Marcaccio.

— Uh! l'imbecille: gridò egli serrando il pugno.

Ma Jacob gli pose pianamente una mano sul braccio a contenerlo:

— Udite una parola: diss'egli alzandosi.

Marcaccio s'alzò egli pure e tenne dietro al ferravecchi nel mazzo della stanza.

— Conviene ch'io vada dalmedichinoche m'aspetta: disseMacobaro; ma voi ponete in pratica questo consiglio; bisogna spogliare fin dell'ultimo soldo che ha questo babbeo. Quando sarà di nuovo all'asciutto darà più facilmente retta alle vostre parole... E per sciugargli in un momento le tasche non avete bisogno che d'unapintadi più e di un mazzo di carte.

— Avete ragione: rispose Marcaccio. Andate là che fra un'ora io l'ho pelato di tutto.

Macobarosgusciò nel camerino, Marcaccio tornò alla tavola a cui seduto Andrea continuava a tenersi stretta colle mani la testa.

— Ebbene, disse Marcaccio ad Andrea sedutogli presso di nuovo, a che cosa pensi?

— Penso che se potessi diventar ricco onestamente, sì che lo farei volentieri.

— Sei un ragazzo. Quando si è ricchi che sì che ci fa il modo con cui si è diventato tale!... E poi che cos'è la ricchezza guadagnata onestamente? Sai tu dirmelo?

— Per Dio! È la ricchezza che si acquista col proprio lavoro.

— Baje! Nariccia facendo lo strozzino ha pur lavorato; chi può dire quella di lui una ricchezza onesta? Lavora anche colui che avventura la vita e la libertà per iscassinare una porta e giunger là dove c'è quel denaro che egli non può procurarsi, che a lui non danno ereditate fortune. E il giuoco? È esso un lavoro? No, eppure se uno guadagna un quaterno al lotto o si fa ricco mercè vincite alle carte, non ci si ha da ridire.

Prese nelle sue tasche una manciata di monete e la pose sulla tavola.

— To': qui in mezzo a noi due io metto un mucchio di questirotondiniche dànno a chi li possiede ogni ben di Dio: tu ne metti altrettanto: e diciamo fra noi che prenderà il mucchio intiero quello che sarà favorito dalla fortuna delle carte. Tu vinci; intaschi tutto, raddoppii il tuo denaro, e se alcuno viene a dirti che quel denaro non è tuo onestamente, tu gli dài il togliti di lì con un manrovescio che gli fa veder le stelle; ed hai tutte le ragioni del mondo.

Andrea guardava con occhio che cominciava ad essere cupido le monete che il suo compagno aveva poste sul desco e che si compiaceva di maneggiare e di far suonare.

— Il giuoco: diceva egli frattanto con voce ed aspetto sempre più da ebbro. Ah! il giuoco è un traditore anche lui. Vi lusinga, v'invita, vi adesca... e poi ad un tratto, patatrach, vi atterra colle tasche asciutte.

— Eh via! Tu lo calunnii. Uno dei giuocatori bisogna pur sempre che guadagni... Perchè non avresti ad esser tu quel desso?

— Io no. Conviene essere fortunati; ed io non ho fortuna di sorta. Ho la disgrazia che mi perseguita, come se fossi figliuolo della versiera.

— Codeste sono bambinate, son pregiudizi che bisogna lasciare alle femminelle. Un uomo come sei tu, corpo del diavolo non dovrebbe manco dirle tali cose... Dà retta. Giusto per passare un po' di tempo... E dove si avrebbe da andare? Nevica, fa freddo, e battere il selciato delle strade è un misero divertimento...

— Dovrei andare a casa: mormorò sommessamente il disgraziato.

— A casa? Rimbeccò il birbo compagno. Se non ne sei venuto via che adesso! Vuoi piantarti colà, sempre cucito alle sottane di tua moglie? Qui stiamo al caldo e senza seccature. Ci facciamo portare ancora unapintada mastro Pelone... — Ehi? Avete udito compare? Un'altrapintadi questo.

— Subito: disse Pelone alzandosi e movendo colla sua solita andatura verso il banco, dove erano schierate parecchie bottiglie della misura domandata.

— E ci date anche le carte: soggiunse Marcaccio.

— Va bene: rispose l'oste.

— No, no: disse Andrea, ma con una riluttanza debole e rimessa: non voglio giuocare.

— Lascia un po'. Giuocheremo una cosa da nulla, tanto per passare il tempo... Tu oggi mi hai tutta l'aria di essere in vena di guadagno.

— Io? Non lo sono mai.

— Ebben vediamo.

L'oste, aiutato dal garzone, sbarazzò la tavola dei resti della loro colazione, stese su di essa uno sporco tappeto e depose al capo del desco verso la parete il fiasco, in mezzo un mazzo di carte unte e bisunte come il tappeto.

Cominciarono a giuocare di poco, e le carte non per l'opera della fortuna, ma per l'abilità di Marcaccio furono favorevolissime ad Andrea. Lapintaintanto veniva consumandosi, e l'ebbrezza, aumentando nel marito di Paolina, ne riscaldava vieppiù la suscitata passione del giuoco. Si accrebbero le poste, e Marcaccio, simulando il rabbioso ed il disperato, aveva già perso cotanto che s'era proprio raddoppiato il peculio del suo avversario. Ma ad un punto, ecco che la fortuna comincia a girare. Qualche piccola perdita s'avvicenda ai successi di Andrea: le perdite spesseggiano e le vincite diminuiscono; poi queste cessano del tutto. La vicenda è perfettamente scambiata. Marcaccio guadagna ogni giuocata e Andrea le perde tutte; tanto bene che dopo due ore egli si trova senza nemmeno più un quattrino nelle tasche.

A questo punto, quando con una fiera bestemmia egli inveiva contro Marcaccio che l'aveva ridotto a tale, entrò opportuno Graffigna che aveva visto la moglie e i figli d'Andrea cacciati nella strada alla neve che cadeva, al gelo che assiderava.

Graffigna non conosceva di persona il marito di Paolina, come non n'era conosciuto; ma dietro le informazioni di Marcaccio, avendo egli commesso a quest'ultimo che quella stessa mattina cercasse di vincere le ripugnanze del fabbro ferraio, non dubitò punto che il compagno di Marcaccio non fosse l'uomo in quistione. Andò egli a sedere al tavolino più prossimo a quello occupato dai due giuocatori, e contentatosi di fare un saluto indifferente al compagno di Andrea, disse all'oste:

— Compare Pelone, portatemi unquartinodi buona barbèra, che mi rimetta un po' lo stomaco. Ho assistito adess'adesso venendo qui ad un fatto che mi ha stretto il cuore e rovesciata l'anima.

— Che fatto? Domandò Marcaccio.

Graffigna raccontò semplicemente ciò che aveva visto nella casa di Nariccia.

Andrea sorse di scatto, tremante tutte le membra, gli occhi che schizzavan fuoco.

— Nella casa di Nariccia! Esclamò egli con un ruggito. Una donna malata! Quattro bambini!... E non sapete voi il loro nome?...

— Non so bene: rispose tutto pacato Graffigna. Ho sentito dire che il padre di quei poveretti era un fabbro ferraio, un certo Andrea....

Questi urlò una tremenda maledizione.

— Mia moglie!... I miei figli!...

Il colpo fu tanto forte che cadde sulla panca quasi esanime. Marcaccio gli fu intorno con un bicchiere di vino per riconfortarlo.

— Lasciami, lasciami: disse il povero ebbro allontanando da sè il bicchiere. Oh! lo scellerato; oh! l'infame. I miei figli, la mia donna malata, egli ha avuto cuore.... Ma l'ucciderò quell'uomo, sì l'ucciderò quel mostro, con queste mani....

— No, no, non dir codesto: susurrava Marcaccio con falsa pietà.

— Sì, sì, urlava più forte il disgraziato. Voglio vendicarmi. Oh credi tu che non mi abbia da vendicare?

— Sì, certo; e voglio anzi aiutarti nell'impresa.

Graffigna venne a ficcare in mezzo il suo muso appuntato da faina.

— Questo è un amico, innanzi a cui possiamo discorrere: soggiunse Marcaccio per rassicurare Andrea, il quale nella passione dell'animo in cui era, non pensava nemmanco a diffidar di nessuno. — Or bene, ti dico che ci abbiamo un modo assai più acconcio di vendicarti di quel birbante che ti assassina la famiglia.

— Che modo?

— Entrargli in casa e portargli via tutti i suoi tesori.

Andrea parve riflettere un momento; si passò due o tre volte la destra sulla fronte, poi proruppe con impeto:

— Ebben sì... Sono il vostro uomo... Voi avete le impronte di cera delle serrature?

— Le abbiamo: disse sollecito e piano Graffigna colla sua voce sottile.

— Avete un luogo dov'io potrei lavorare?

— Un luogo segretissimo; rispose ancora Graffigna, dove v'introdurremo cogli occhi bendati.

— Io vi farò le chiavi... E le adopreremo?

— Fra pochi giorni.

— Va bene... Ei l'ha voluto!... Ora lasciatemi correre da mia moglie e dai figli miei.

— Un generoso signore che io conosco — disse Graffigna — ha fatto ricoverar la donna all'ospedale e i bambini all'asilo.... Marcaccio, tu accompagna il nostro buon Andrea, e quando avrà visto moglie e figli, conducilo ove tu sai per la bottega diBaciccia. Io sarò là ad aspettarvi.

Andrea, penetrato nell'ospedale, trovò la moglie in preda al delirio, la quale perciò non potè riconoscerlo; trovò i bambini sbalorditi, spaurati, piangenti. Quando raggiunse Marcaccio, che lo attendeva fuor della porta dell'asilo, la fisionomia di Andrea era più cupa che mai; la fiera risoluzione nell'animo suo era irrevocabile.

Quella stessa sera lacoccapossedeva un addetto di più ed aveva in suo potere le chiavi che aprivano la porta d'ingresso e gli usci interni del quartiere di Nariccia.

Fine della 2ª Parte

NOTE:1.VediI Derelitti, capitolo VII.2.Vedi la prima parte, capitolo IX.3.Di questo ferravecchi ebreo, del quale alcuni dei miei lettori meno giovani ricorderanno forse la figura originale e la tragica fine, il vero nome eraJacob Aron; ma il popolo torinese, per somiglianza di suono, usava scherzevolmente chiamarloMacobaro, che nel dialetto piemontese significa quell'insetto coleottero lungicorne che manda odor di rosa.Nen-da-vend(niente da vendere) è il grido usato dai ferravecchi ebrei; e il popolo ne ha fatto il nome di que' mestieranti.4.Nella descrizione di codesti luoghi non sarò molto preciso per evitare che si attribuisca a questa od a quella casa il teatro delle scene che sto per narrare: — vere pur troppo in gran parte.5.Credo superfluo notare che l'epoca di questo racconto è antecedente alla così detta emancipazione degli ebrei, allora quando l'ingiusto rigore delle disposizioni legislative s'univa coi rancori popolari e coi pregiudizi religiosi a fare agli israeliti una esistenza quasi in balìa dell'arbitrio amministrativo e della prepotenza dei privati. Dopo il 1818 nel nostro Piemonte, fatte giuste a tal riguardo le leggi, scomparvero del tutto anche le ingiustizie e i pregiudizi del volgo.6.Abbiam visto che questa era stata causa, onde Tofi interrompesse l'interrogatorio di Maurilio.7.Le avventure di Romualdo ho narrate nelNovelliere Contemporaneo.8.Quest'episodio è affatto storico. Buona parte dei miei lettori lo ricorderà tuttavia.9.Bellissimo è a leggersi in proposito il libro di MicheletLa Strega.10.Ciò disse il Leibnitz.11.Dante,Purg., c. XVI.12.È credenza oramai volgare che il corpo umano si rinnovelli affatto nel periodo di sette anni; ma recenti lavori di accurati fisiologisti hanno considerevolmente accorciato questo periodo. Secondo Moleschott, ed altri, il corpo rinnova la maggior parte della sua sostanza in uno spazio di tempo da 20 a 30 giorni.

1.VediI Derelitti, capitolo VII.

1.VediI Derelitti, capitolo VII.

2.Vedi la prima parte, capitolo IX.

2.Vedi la prima parte, capitolo IX.

3.Di questo ferravecchi ebreo, del quale alcuni dei miei lettori meno giovani ricorderanno forse la figura originale e la tragica fine, il vero nome eraJacob Aron; ma il popolo torinese, per somiglianza di suono, usava scherzevolmente chiamarloMacobaro, che nel dialetto piemontese significa quell'insetto coleottero lungicorne che manda odor di rosa.Nen-da-vend(niente da vendere) è il grido usato dai ferravecchi ebrei; e il popolo ne ha fatto il nome di que' mestieranti.

3.Di questo ferravecchi ebreo, del quale alcuni dei miei lettori meno giovani ricorderanno forse la figura originale e la tragica fine, il vero nome eraJacob Aron; ma il popolo torinese, per somiglianza di suono, usava scherzevolmente chiamarloMacobaro, che nel dialetto piemontese significa quell'insetto coleottero lungicorne che manda odor di rosa.Nen-da-vend(niente da vendere) è il grido usato dai ferravecchi ebrei; e il popolo ne ha fatto il nome di que' mestieranti.

4.Nella descrizione di codesti luoghi non sarò molto preciso per evitare che si attribuisca a questa od a quella casa il teatro delle scene che sto per narrare: — vere pur troppo in gran parte.

4.Nella descrizione di codesti luoghi non sarò molto preciso per evitare che si attribuisca a questa od a quella casa il teatro delle scene che sto per narrare: — vere pur troppo in gran parte.

5.Credo superfluo notare che l'epoca di questo racconto è antecedente alla così detta emancipazione degli ebrei, allora quando l'ingiusto rigore delle disposizioni legislative s'univa coi rancori popolari e coi pregiudizi religiosi a fare agli israeliti una esistenza quasi in balìa dell'arbitrio amministrativo e della prepotenza dei privati. Dopo il 1818 nel nostro Piemonte, fatte giuste a tal riguardo le leggi, scomparvero del tutto anche le ingiustizie e i pregiudizi del volgo.

5.Credo superfluo notare che l'epoca di questo racconto è antecedente alla così detta emancipazione degli ebrei, allora quando l'ingiusto rigore delle disposizioni legislative s'univa coi rancori popolari e coi pregiudizi religiosi a fare agli israeliti una esistenza quasi in balìa dell'arbitrio amministrativo e della prepotenza dei privati. Dopo il 1818 nel nostro Piemonte, fatte giuste a tal riguardo le leggi, scomparvero del tutto anche le ingiustizie e i pregiudizi del volgo.

6.Abbiam visto che questa era stata causa, onde Tofi interrompesse l'interrogatorio di Maurilio.

6.Abbiam visto che questa era stata causa, onde Tofi interrompesse l'interrogatorio di Maurilio.

7.Le avventure di Romualdo ho narrate nelNovelliere Contemporaneo.

7.Le avventure di Romualdo ho narrate nelNovelliere Contemporaneo.

8.Quest'episodio è affatto storico. Buona parte dei miei lettori lo ricorderà tuttavia.

8.Quest'episodio è affatto storico. Buona parte dei miei lettori lo ricorderà tuttavia.

9.Bellissimo è a leggersi in proposito il libro di MicheletLa Strega.

9.Bellissimo è a leggersi in proposito il libro di MicheletLa Strega.

10.Ciò disse il Leibnitz.

10.Ciò disse il Leibnitz.

11.Dante,Purg., c. XVI.

11.Dante,Purg., c. XVI.

12.È credenza oramai volgare che il corpo umano si rinnovelli affatto nel periodo di sette anni; ma recenti lavori di accurati fisiologisti hanno considerevolmente accorciato questo periodo. Secondo Moleschott, ed altri, il corpo rinnova la maggior parte della sua sostanza in uno spazio di tempo da 20 a 30 giorni.

12.È credenza oramai volgare che il corpo umano si rinnovelli affatto nel periodo di sette anni; ma recenti lavori di accurati fisiologisti hanno considerevolmente accorciato questo periodo. Secondo Moleschott, ed altri, il corpo rinnova la maggior parte della sua sostanza in uno spazio di tempo da 20 a 30 giorni.

Nota del TrascrittoreOrtografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (oblio/oblìo, San Luca/San-Luca e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (oblio/oblìo, San Luca/San-Luca e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.


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