ATTO V.

PARDO. O moglie cara, o quanto ho pianto il mio peccato di averti mandato a chiamar da casa tua per condurti in Polonia, preponendo la mia comoditá al tuo discomodo.

CONSTANZA. Posso dir che, tenendovi cosí abbracciato, tengo la cosa piú desiderata che abbia al mondo.

PARDO. Ed io l'anima mia; ché, rimasto senza te, rimasi un cadavero. Oh quanto mi sei or cara viva, poiché tanto t'ho pianta morta? ché, avendo mandato il mio figlio in Turchia col riscatto, mi riferí ch'eravate morta. Piaccia a Dio s'allonghi tanto la vita mia, che faccia a te quella servitú che per mia cagione hai fatta a quei cani.

CONSTANZA. Bastami che m'amiate per l'avvenire, quanto m'amavate prima, o che m'amiate a par di quello, che v'amo io: che mi fará subito dismenticare de' disaggi della passata servitude.

PARDO. Moglie, mi sento venire meno per l'allegrezza.

CONSTANZA. Ed io non posso tener le lacrime.

PARDO. Vo' che abbiate un'altra allegrezza, che veggiate Cleria vostra figlia.

CONSTANZA. O Dio, che sommamente desio vederla.

PARDO. Attilio, va' su e fa' calar la tua sorella.

ATTILIO. Vado.

PARDO. Come sète venuta cosí sola.

CONSTANZA. Lungo tempo bisogna, consorte mio, a narrar sí lunga istoria della servitú sofferta fra quei cani, de' lunghissimi travagli del viaggio, che non son stati minori.

PARDO. Ecco la tua figlia Cleria. Oh come, nel vedersi l'un l'altra, son tramortite ambedue! Oh, quanto è l'amor grande tra la madre e i figli! O Dio, che sará questo? o Cleria, o Cleria, o Constanza mia, risvegliatevi!

CLERIA. O cara madre, o madre!

CONSTANZA. O figlia, o figlia!

PARDO. Mira, figlio, che affezione, che non puon saziarsi d'abbracciarsi e di stringersi. Mira che lacrime mescolate di dolore e di dolcezza. Orsú, non piú abbracciare e piangere; e non conturbate col pianto cosí desiderato contento.

ATTILIO. Padre, mira che non ponno parlare.

CONSTANZA. Ed è pur vero, o figlia, che da poi sí lungo tempo ti riveggia?

CLERIA. O madre, come insperatamente vi veggio!

Costanza. Mentre eri tu, figlia, meco, la servitú mi era leggiera e assai dolci i travagli, e per te mi smenticava di quella fortuna; ma, dopo che da me fosti separata, me si raddoppiaro gli affanni e ogni piacere m'era dispiacevole e noioso.

CLERIA. Imaginatevi, cara madre, che non conoscendo al mondo altra che voi, e poi essendomi tolta, che disperazione era la mia.

CONSTANZA. Figlia cara, come ti trovo in casa di tuo padre?

CLERIA. Separata da voi, fui comprata da un sangiacco, e avanzando io in etá, s'invaghí di me quel cane; la moglie ne divenne gelosa, e, quando ei si partí per affari del Gran Signore, mi consegnò ad un servo, che mi vendesse. Cosí capitando mio fratello in Constantinopoli, mi riscattò da quello e mi condusse qui a casa seco.

CONSTANZA. Sia lode a Dio del tutto.

PARDO. Troppo sarete lunghe, se volete qui raguagliarvi delle passate fortune. Entrate, moglie, a riposarvi; che non mancherá tempo a questo. Attilio, aiuta tua madre; io, tua sorella.

ATTILIO. Cosí faremo.

TRINCA. Padrona, non siamo stati defraudati della speranza nostra, perché avete oprato piú di quel che ne prometteste: veramente l'amor della madre avanza tutti gli altri. Che lacrime ardenti ho visto sparger da gli occhi vostri! che affettuosi abbracciamenti! che vivi motivi di materni affetti! Sto per inchinarmi e baciarvi i piedi, per tanto obligo che v'ho per rispetto del mio padrone, e del mio; che, scoprendosi l'inganno, era spacciato il fatto mio.

ATTILIO. Il fingere è stato tanto naturale, che confesso l'arte aver superato la natura. E chi sarebbe stato che, veggendovi, non avesse giurato che quella fusse la tua vera Cleria? e voi la sua madre? O cara madre sovra tutte le madri, lasciate che vi baci le mani: e quando mai potrò ricompensarvi cotanta affezione?

CONSTANZA. Figlio, non bisogna che m'abbiate obligo alcuno per ciò, perch'io non ho finto cosa alcuna. La giovane, che innanzi condotta mi avete, è la vera Cleria tua sorella, ché insiememente fummo rapite da' turchi.

ATTILIO. Ohimè, che dici?

CONSTANZA. Quel che la conscienza mi sforza a dire.

ATTILIO. Cleria è mia sorella?

CONSTANZA. Cosí tua sorella, come io tua madre: conceputi d'un istesso seme, portati nove mesi e partoriti dal medesimo ventre mio.

ATTILIO. O crudeli effetti di fortuna, o essempi di somma infelicitá, o infelice versaglio di compassione! e qual penitenza emenderá il mio fallo? Dunque, sarò marito e fratello di mia sorella, padre de miei nipoti e zio de miei figliuoli? sarò genero vostro e di mio padre?

CONSTANZA. Figlio, l'ignoranza fa men colpevole l'errore del tuo non fallo. Guardati per l'avvenire non abusar la conversazione e l'amor di tua sorella, amala di puro e sincero amore: se la tocchi, toccala come sorella; se l'abbracci, abbracciala come sorella, ché, abbracciandola altrimenti, abbracciaresti la tua infamia e vitupèro.

ATTILIO. O madre, come può esser questo? che ricordandomi de quei primi fiori colti della sua bellezza, de' passati piaceri che ho gustati nella sua conversazione, delle godute bellezze e de' posseduti tesori delle sue grazie, che non cerchi spenger quelli ardenti e infocati effetti di amore nel godimento della sua persona?

CONSTANZA. Avézzati a poco a poco a non mirarla, perché dalla vista dell'amata persona cresce la fiamma nell'intime midolle; avézzati a non parlarle, perché le parole son via alla concupiscenza: fuggi, quanto puoi, di trovarti da solo a solo con ella, accioché l'occasione non susciti l'uso, e ti conduca a qualche reo e biasmevol fine; allontánati da lei per qualche tempo, perché la lontananza degli occhi genera la lontananza dal cuore, e con generosa pazienza sopporta lo sforzo della tua inclinazione.

ATTILIO. Ahi, che non per cangiar loco si cangia il core; e se il luogo disunisce, amore unisce i cuori. E queste cose son facili a persuadere, ma impossibili ad essequirsi.

CONSTANZA. Lascia pensieri cosí sensuali e desidèri cosí brutti, e lasciatevi governare dal freno della ragione.

ATTILIO. Pazzo è chi stima ch'uno innamorato possa reggersi da freno di ragione, perché l'animo è in tutto offuscato dall'amorose passioni.

CONSTANZA. Trovatevi un'altra sposa od innamorata piú bella.

ATTILIO. Amor non vuol cambio. O Cleria, in un medesimo tempo ti racquisto e ti perdo. Ritenerti non lece, ricusarti non posso: racquisto una sorella, perdo una sposa; e tu medesimamente acquisti un fratello, ma perdi un amante. O gran mutazione de' nostri desidèri! O padre, non puoi dolerti piú di me, che t'abbia ingannato e non dettoti il vero: mi desti danari per riscattar la sorella e la madre, ecco v'ho riscattata la sorella e condottala a casa tua: e hai avuto da me quanto hai desiderato. Né io posso dolermi se non di me stesso, perché solo ho ingannato me stesso.

CONSTANZA. Figlio, del male almen n'è uscito un tal bene.

ATTILIO. Ahi, che tanto movimento di sangue, che mi occupò il core nella prima vista, stimava che fosse dalla tua bellezza; ma era dalla forza del sangue, perché eravamo nati di un medesimo sangue; e io sciocco non me ne accorgeva. O madre, quanto m'è cara la tua venuta, tanto m'è acerba: questo giorno me ti dá e me ti toglie: nel giorno, che hai conosciuto tuo figlio, lo perderai: questo è il primo giorno che mi vedi, e l'ultimo che mi vedrai, che è forza che mi parta dalla casa, dalla vita e dal mondo tutto.

CONSTANZA. Chi ti vieta, o figlio, che non vivi e stia in casa tua?

ATTILIO. O che crudel ricordo, ch'io viva! vuoi che resti vivo, per vedermi vivere d'un perpetuo morire? a chi non può scampar in modo alcuno, gli è assai men grave il morire. La morte è un dolce porto de' miseri, a niuno è chiuso, raccoglie tutti; e vuoi che resti in casa mia? La casa mia m'era cara per colei che ci abitava meco; ma, poiché con quella non lece piú, torrò da me stesso un perpetuo essiglio per non tornarci piú mai. Mi sarebbe la casa un vivo inferno, un perpetuo incendio ardente. O Idio, che insopportabil dolore è quel ch'io sento, o qual miseria è che pareggi la mia? o che gran meraviglia è ch'io viva! O Cleria, io ti perdo, senza ch'altri me ti toglia; e sendo in casa mia, onde niuno mi caccia, è forza che ti lasci e abbandoni. Per esser tu troppo congionta meco, è forza che da te mi disgiunga. O leggi, o costumi umani a me contrari! S'armano contro me le leggi e i costumi de gli uomini. O madre, che amara novella m'hai tu data! o quanto piú grata mi saresti, se conceputo non m'avessi o generato in questa vita, overo uccisomi nella cuna. Che obligo debbo averti della vita, che m'hai data, se con una amara nuova mi togli la vita e l'anima insiememente? Goditi, madre, la tua figliuola nuovamente acquistata, e lascia che il tuo figlio vada tapinando per il mondo, senza suspetto che tratti piú mai con la sorella.

CONSTANZA. O che disgrazia è la mia! pensava dar allegrezza alla mia casa, e sono stata istrumento e ministra di crudel ufficio. Mi pensava che scampata dalla servitú di genti barbare e ricovratami nella mia casa, avesse vissuto il restante della mia vita, felicissima. Ma sarebbe stato per me meglio, che fusse restata in man de' turchi, povera vecchia e disgraziata, e non fosse qui venuta spettatrice d'una miserabil tragedia. Ahi, che non è cosa stabile o felice sotto le stelle! Figlio, era mia intenzione darvi piacere e non disgusto.

TRINCA. Padrona, andate su e non fate penar vostro marito in aspettarvi. Ecco il compagno dell'allegrezze e de gli affanni vostri.

EROTICO. Attilio mio, che rammarichi son i tuoi? Qual sí grave accidente ti tien l'animo cosí occupato, che t'ha trafigurato il sembiante? Voi tacete? forse non è cosí grave il dolor vostro?

ATTILIO. Tal, che men grave non può trovarsi. La fortuna opra cose impossibili, ma possibili per farmi misero.

EROTICO. Deh, narratemi la cagione.

ATTILIO. Deh, lasciami accompagnato dalla mia miseria, che viva in quella, poiché cosí comanda la mia disgrazia; e non vogliate saperla.

EROTICO. Ditela, ché non è mal senza rimedio.

ATTILIO. Solo al mio male non può trovarsi rimedio. O voi, che con medicine cercate fuggir la morte, venete a scambiarla con la mia vita; ché, quanto piú chiamo la morte per rimedio de' miei mali, ella da me piú s'allontana. Che sia maladetta l'ora che nacqui, maladetto chi mi pose nella cuna, e maladetto chi mi diede il latte che bevei!

EROTICO. Siate, o amico, conforme a voi stesso nella passata vita: che animo debole è il vostro? ingannato piú tosto dal dolore che dalla ragione? Che? s'è scoverto forse, che avete ingannato vostro padre e l'avete tolto i danari?

ATTILIO. Anzi s'è confirmato che non è stato ingannato, e son stati spesi i danari in quello che proprio desiderava.

EROTICO. Forse la vostra Cleria v'è stata tolta da casa, e avete carestia della sua vista?

ATTILIO. Sta in casa, né se ne partirá piú mai, e morrò per la troppa copia.

EROTICO. V'è stato forse interdetto il poter trattare e il ragionar con lei?

ATTILIO. Anzi, piú trattar e conversar con lei senza sospetto; e sarò un nuovo Tantalo, star affamato in mezo i frutti che li pendono intorno, e assetato in mezo l'acqua.

EROTICO. S'è forse scoverto che non sia vostra sorella?

ATTILIO. Anzi, perché s'è scoverta mia sorella.

EROTICO. Di che dunque vi dolete, s'è creduto quello che con tanta diligenza avete finto?

ATTILIO. L'esser scoverta mia sorella ha rotto tutti i miei e vostri disegni.

EROTICO. Parlate troppo confuso, distinguete, troppo gran cose dite in brevi parole.

ATTILIO. Il mio male è di sí perversa sorte, che l'animo s'inorridisce di spavento e la lingua non basta manifestarlo.

EROTICO. Dillomi tu, Trinca.

TRINCA. È gionta Costanza sua madre poco fa da Turchia, e ha detto cheCleria è sua vera sorella carnale.

EROTICO. Cleria sua sorella? o mostruoso accidente, o caso inaudito!

ATTILIO. O amor iniquo, e qual peccato commisi io mai, che avessi ad innamorarmi di mia sorella? O Cleria, che mai t'avessi vista, o avendoti vista non mi fossi piaciuta tanto, né ti avessi amata con sí fervido amore! Oimè, che son fuor di cervello: non so chi sia stato, chi sia, né chi debba essere. Son dispettoso, colerico e disperato: dubito che non s'apra la terra e m'inghiottisca, né so come mi sostegna. Son odioso agli uomini e a Dio, né so se viva al mondo uomo di me piú disgraziato.

EROTICO. Il vostro miserabilissimo caso è degno di compassione e mi ha commosso l'animo; e il buon amico deve esser officioso in dar consiglio e aiuto al suo amico nella cattiva fortuna, e nol facendo ne ha da render conti alle leggi dell'amicizia. Ma io confesso che non so né che aiuto né che consiglio possa darvi. Ma che pensate di fare?

ATTILIO. Morire per far meco morire la morte mia: ogni cosa mi dispiace, eccetto la morte: però piangerò tanto, sospirerò tanto, finché essalerò lo spirito per la bocca e stillerò per gli occhi l'avanzo della mia vita.

EROTICO. Deprimete tanto caldo e tanta furia di amore.

ATTILIO. Amor quanto piú si cerca deprimere, piú si rinforza.

EROTICO. Il tempo alleggiará il dolore.

ATTILIO. Ahi, che il tempo non scancellará dal cor mio sí bella imagine, che con tanta fermezza ci fu impressa, né scancellará la memoria delle gioie passate. E che son altro quei ricordi che seminari inesausti di dolori?

EROTICO. Mirando altre bellezze di donne, ti smenticherai delle sue.

ATTILIO. Ed in qual troverò io quell'aria celeste che si vede in quel suo volto divino? in qual quelle suavi parole che parean uscire da la bocca de gli oracoli? dove quelli atti pieni di maestá? dove i tesori della sua bellezza?

EROTICO. La pacienza fa il tutto.

ATTILIO. O che debol rimedio è la pacienza!

EROTICO. Fate della necessitá volontá, e passarete bene. Ma a voi, che vi detta il pensiero?

ATTILIO. Molte cose mi vanno per la fantasia, ma una sola riuscibile: partirmi e andar disperso per il mondo.

EROTICO. Dove anderete?

ATTILIO. Dove non è via, dove non sono genti, al sole, alla neve, alle tempeste.

EROTICO. Chi vi fará compagnia?

ATTILIO. Sdegni, confusioni, spaventi, dolori, gemiti, suspiri e disperati pensieri.

EROTICO. Che commoditá portarete per i disaggi de' camini?

ATTILIO. Angoscie, amaritudini, la morte istessa.

EROTICO. Di che viverete?

ATTILIO. Della propria morte.

EROTICO. Deh, caro amico, non lasciarti cosí trasportar dal dolore! E quel legame d'amicizia, che insieme ne stringe, mi astringe che non ti lasci partire.

ATTILIO. A dio, caro amico. Quando ti ricorderai del mio pietoso caso, vengati pietá di me; non ho mancato dalla mia parte a far che Sulpizia fusse la tua. Trinca, resta felice, e Dio ti facci servir piú fortunato padrone di me: mi dispiace non poterti dar condegno premio de' tuoi fideli serviggi, ché mai nacque piú degno servo di te sotto le stelle: abbi compassion di me, che non posso sodisfarti, che, se gli oblighi restassero nell'anima dopo la morte, ti resterei obligato in eterno.

EROTICO. Dimmi, caro fratello, come Cleria saprá il principio della tua partita, non sará il fin della sua vita? che sai che deliberazione ará ella fatta, e desia fartene consapevole? Onde, se non bastano i miei prieghi, per quel nome di Cleria, che ti fu sí caro un tempo, che vi fermiate per questa notte sola in casa mia. Consigliamoci fra noi, che dobbiam fare. Non è gran tempo questo che vi domando. Inviamo Trinca, intanto, in casa vostra, e sappiamo che dica o faccia Cleria, perché io ti vo' far compagnia.

ATTILIO. Quel nome di Cleria, che fu prima lo spirito della mia vita, or è morte della mia vita; però, se m'amate, non me la nominate piú. Amor prima ci giunse, or crudel fortuna ci disgiunge; né ho altra speranza, che sol morte ne congionga. Io vo' andarmene solo; ché come il mio dolore è solo e senza pari, cosí solo e senza compagno vo' andar tapinando; e non m'uccidete piú con l'aver pietá di me. Ahi, che mi voglio partire, e non posso, ché tutti i spiriti miei son occupati da un mortale dolore! Trinca, or che vai in sua casa, dille che il suo fratello va a morire, che pianga la mia morte, che non mi potrá avvenir cosa piú cara, che veder le mie essequie onorate dalle sue lacrime.

TRINCA. (Erotico caro, or che sta cosí addolorato, forsennato e inesorabile, tiriamolo in casa vostra, ché gli innamorati si assordano a' consigli che li son dati; ch'io andrò in casa fra tanto).

EROTICO. Attilio fratello, perdonami, si t'uso violenza in strascinarti in casa mia.

ATTILIO. Oimè, chi mi tira? dove sono? deh, perché, amico, non m'aiuti?

PARDO. (E pur mi capita innanzi questo ghiottonaccio).

GULONE. (Ecco questo vecchio di Caronte, spavento di cimiteri: non posso fuggirlo). Signor Pardo, Idio vi dia il buon giorno.

PARDO. E a te dia Dio il malanno e la mala pasqua.

GULONE. Par che siate adirato meco.

PARDO. Toglimiti dinanzi, che mi vien voglia farti cader da bocca cotesti tuoi denti.

GULONE. Poca offesa t'han fatto sempre i denti miei.

PARDO. Me l'ha fatta la tua lingua.

GULONE. La mia lingua v'ha sempre lodato.

PARDO. Le lodi ch'escono dalla lingua di un par tuo, son vergogne degli uomini da bene.

GULONE. La mia lingua mai offese alcuno.

PARDO. Hai la lingua doppia come quella delle serpi, che punge e avvelena; però sparisci via, assassin, furfante.

GULONE. Avete potestá dirmi quel che volete, perché vi son schiavo. Morrei piú tosto che restar di non mangiar teco, e ci mangiarò oggi a vostro dispetto.

PARDO. T'ho detto che sei un furfante.

GULONE. Ed io vi dico che sète uomo da bene. Avemo detto una bugia per uno.

PARDO. Fa' che tu non accosti piú alla tavola mia.

GULONE. Che diavolo stimi, che se non ho la tavola con mesal bianco, ornato di frondi e di fiori, e di salvietti fatti a torrioni, che non sappia mangiare? buon vino e buona carne fa l'effetto.

PARDO. Non te n'è mancato in casa mia.

GULONE. Sí, carne di asino, di quelli che portano le pietre per le fabriche, tutti pieni di cancheri e di guidaleschi: e se pur qualche pollo, senza testa, senza piedi e senza ali, e senza fegadelli e ventricelli, che te ne servivi per l'insalate, ti veniva tronco a tavola, che parea che fosse stato alla rotta di Ravenna. Bisognan pollastroni e galli d'India intieri intieri, ogni cosa a tavola alla tedesca, i catini pieni, e ogni un piglia quel che vuole.

PARDO. Creanza de pari tuoi! dopo aver diluviato e tracannato a tuo modo, vai dicendo il contrario.

GULONE. Minestre fredde e vin caldo, che bisognava tormi da tavola piú morto di fame, che quando ci venni.

PARDO. Mi dispiace l'onor che ti ho fatto; ma tu non pratticherai piú meco.

GULONE. Ed a che mi può servir la tua vecchiezza? a darmi consiglio?Io non ho bisogno di consiglio, né fo mai cosa con consiglio.

PARDO. Se non vai via, chiamerò alcun di casa, che ti spezzi l'ossa.

GULONE. Chiama Mazzafrusto o Sgraffagnino che mi prendano.

PARDO. Vo' entrarmene in casa, per tormi questa bestia dinanzi.

GULONE. A tuo dispetto, or vo ad un banchetto in casa d'un amico.

SULPIZIA. (Ecco il turbator della mia pace; e pur ardisce alzar gli occhi su le mie fenestre!).

EROTICO. (Se l'imaginazione non mi rappresenta il falso, mi par che un chiaro splendore del mio sole venghi a ferirmi gli occhi: ella è pur dessa. Vo' salutarla). Io vi saluterei, signora, se non facessi il contrario, perché ogni salute e ben ch'io spero, non può venirmi altronde, se non da lei. Ma faccivi Idio cosí lieta e contenta, come v'ha fatto la piú bella e graziosa dell'universo.

SULPIZIA. Rendati Idio cosí infelice e disgraziato, come tu hai me reso infelice e disgraziata.

EROTICO. Oimè, che è quel che sento? sète voi dessa, over io son un altro? e che parole son quelle che odo?

SULPIZIA. Quelle che mi detta il dolore, partorite da giusto sdegno, e quelle di che la tua infedeltá me ne dá cagione.

EROTICO. E da quella bocca di perle e di oro posson uscir parole tanto odiose? Di grazia, se lo fate da scherzo, non le dite da vero. E che altro è dirmi questo, che scannarmi con le man vostre?

SULPIZIA. Toglitime dinanzi, brutto cane.

EROTICO. O anima mia, se da te mi scacci, a chi devo ricorrer io? dove mi scacci, se le tue bellezze mi tengono legato con troppo saldi legami, e la luce de tuoi begli occhi m'è sí cara, che come nuova farfalla corro ad accendermi e morire in sí bel foco?

SULPIZIA. Le tante cortesie, ricevute da me, non meritavano tal guiderdone.

EROTICO. Ho conosciuto veramente tanta gran cortesia non meritarla; ma la vostra gentilezza me ne ha fatto degno.

SULPIZIA. Queste paroline melate usi tu per ingannar le povere semplicelle, per giongere a quel termine che desiate, e poi lasciarle. Ingannevoli volpi, che non desiate di noi se non la pelle. Sei forse ritornato per farmi alcuna nuova offesa?

EROTICO. E che offesa vi feci mai, o mia generosa signora? E se pur vi sentite offesa da me, fate che lo sappia, che la confessarò e mi sottoporrò ad ogni penitenza; e da quella sarete forzata confessare che non vi ho offeso.

SULPIZIA. Dimmi, traditore, ch'offesa ti feci io mai, se non l'averti amato piú del dovere? quanto tempo son stata nemica di me stessa per amar te? ché ti diedi l'imperio d'ogni mia volontá e comprai il tuo amore a costo dell'onor mio. All'ultimo, per guiderdone, spenta la vergogna, la giustizia e l'onestá, tradesti l'amore, la sposa e la fede; e mi lasci beffeggiata, schernita e rifiutata.

EROTICO. Io schernir voi? e quando fu altro desiderio in me, che di servirvi e onorarvi e spender la vita per l'onor vostro? se non come voi meritevole, almeno come le deboli forze mie. Ed è possibile—o amarissimo nodrimento della mia vita!—che da miei suspiri, e dalle lacrime ardenti che spargono gli occhi miei, non sia scaldato quell'agghiacciato gelo del vostro cuore, e non vi faccino piena fede della mia innocenza? E le tante esperienze fatte dell'amor mio non v'hanno giá fatta chiara quanto io v'ami? Qual iniquo destino ha turbata la serenitá de' nostri cuori, quella suavitá, quella dolcezza di due anime congionte insieme, come son state sí gran tempo le nostre? dove è quella fede che fu sí sincera fra noi?

SULPIZIA. Toltoti sia quel cuore fallace e disleale da quel petto, nido dove non si covano mai se non inganni e tradimenti; e quella lingua traditrice e bugiarda, la qual usi se non per ingannar coloro che si fidano in quelle tue parole. E come io sperava fede da un cuore, ove non ce ne fu mai?

EROTICO. Io non posso altro rispondervi che, come signora e reina che mi sète, v'è lecito fare e dirmi ogni ingiuria che volete. Ma non son questi i frutti, che sperava dalla vostra gentilezza e dalla nobiltá dell'animo suo, che per ragion di mondo e per giustizia sète obligata di rendermi.

SULPIZIA. Or che lo sdegno m'ha tolto quel velo dagli occhi, che cieca mi rendeva, e conosciuti i tuoi tradimenti, ti vo' fare ammazzare, e poi ammazzarmi io ancora; e mi consolarò nella mia morte con la tua morte. Ti publicarò per quello assassin che sei, che ancor dopo la morte resti l'infamia tua; farò che non goderai di questo tuo nuovo amore, ché, scoverte le tue furfantarie, ti abbi il mondo per quel che sei. Spu, spu!

EROTICO. Ahi, che la tigre non è cosí fiera, e non è fera tanto efferata come la donna bella; e una bella si dee fuggir come una fera. Voi volete farmi ammazzare? fermatevi, signora, e vi priego, se pur v'è rimasta qualche reliquia viva del primo amore, che vi degnate di esser spettatrice di questo ultimo segno, che posso darvi dell'infinito amor che v'ho portato e che vi porto, perché dinanzi a gli occhi vostri, come a mio idolo terreno, vo' trafiggermi con questa spada, e consegrarmi vittima vostra. Misero me, che sdegno è questo? che donna sdegnata è peggio che tigre. Dubito che alcuno non l'abbi dato qualche falsa informazione di me, e me le abbi figurato per disleale e discortese. O forse che le donne sono volubili: e come la luna fa una volta il mese, elle si voltano cinquanta volte il giorno; o forse quando la luna è scema di lume, a lor le si scema il cervello. Sono come fanciulli, che vogliono e non vogliono, e non san star in un proposito, o sono mobili come il vento—e chi s'impregna di vento, partorisce aria;—o perché sono vogliose e desiderano sempre cose nuove; o forse è lor costume peculiare di dar sempre dispiaceri e tormenti a coloro da' quali si conoscono essere amate e riverite. Né si contentano della signoria de nostri corpi, se non sono tiranne dell'anima ancora; e vogliono che commettiamo idolatria in amar loro, come si fussero dèe. E quando il diavolo per lor mezo fece peccar l'uomo, ci lasciò quella maladetta diabolica ambizione d'esser adorate come lui; né lasciano di tormentarci mai, se non vedono che sono adorate. O maladetti piaceri, che si gustano in amore; ché, se pur alcun se ne gusta, vien sempre mescolato con la paura di aver a finir fra poco tempo; anzi, quanto piú ti vedi amar fuor di misura, piú dá certo presaggio d'aver piú tosto a finire. E la fortuna, per esser femina, è sempre instabile e inconstante. Sperava questa sera sposarla: ecco la nostra favola ha mutato faccia. Ella è cosí meco sdegnata, che non sia per rappacificarsi piú giamai. Almen incontrasse la balia, ché m'informasse da lei, che ingiuria è quella che dice aver da me ricevuta. Ma eccola che vien.—Balia, tu sia la ben trovata.

BALIA. Io non vo' dirti il mal trovato. Ma mi meraviglio come non ti vergogni di comparirmi dinanzi.

EROTICO. A me questo?

BALIA. A te questo.

EROTICO. E dici da vero?

BALIA. E ti par che in un tale accidente non si parli da vero?

EROTICO. Tutte due se sono accordate contro me. Ed è possibile che non possa conoscere donde proceda questo sdegno? che non apro la bocca per dimandare, che mi saltano adosso infuriate, che non mi lasciano dir le mie ragioni?

BALIA. Pensava che i piaceri, che ti fussero stati fatti, ti avessero posto in obligo da non sciortene giamai; ma tutto è stato fatto al vento, malvaggio, ingrataccio, che tu sei.

EROTICO. È possibile che le donne abbino a pigliar tutte le cose per la punta, né vogliono ascoltar cosa, se non quelle che si confanno alla natura loro?

BALIA. Cosa da gentiluomo! dopo cavate le voglie, van le povere donne per le lingue del volgo e per le bocche degli uominacci, e raccontate per essempio d'infelici.

EROTICO. Ascoltami due parole, per amor de Dio.

BALIA. Non bisognan piú belle parole né lacrime, instrumenti da ingannar le povere donnecciuole. L'amore è converso in odio, e il piangere accresce lo sdegno.

EROTICO. Ed è possibile che non vogli lasciar l'ira per un poco e ascoltar le mie ragioni?

BALIA. M'incolerisco di sorte, che se mai mi dispiacque d'esser donna, mi dispiace ora; ché si fussi uomo come te, ti caverei quelle intestine dal corpo. Ma, se non me ti togli dinanzi, cosí donna come sono, ti caverò cotesti occhi con i diti, e ti strapparò il naso dalla faccia con i denti; e me ne insanguinarei insino all'unghie, cane ingrato e disconoscente.

EROTICO. O che tu sei fuora di te o che ti sogni? che diavol t'ho fatto io, che non puoi temprar la lingua dall'ingiurie e narrarmi il fatto come passi?

BALIA. Non posso piú patire l'importunitá e la mala creanza di costui.

EROTICO. Meglio sará entrarmene ad Attilio e tormi dinanzi l'occasione di qualche nuovo errore.

BALIA. Veggio Orgio, e m'ha vista ragionar con Erotico, disgraziata me!

ORGIO. A dio, buona donna.

BALIA. Sí, che son buona donna, e se nol credi, te ne giurerò!

ORGIO. Ti ho colta sul fatto, non puoi piú negarlo. Giá m'hai chiarito di quanto ne stava suspetto.

BALIA. Che gran cosa che m'abbiate visto parlar con un giovane?

ORGIO. Che parlavi di cose di stato, di astrologia o di filosofia?

BALIA. Non si può dunque parlar d'altre cose?

ORGIO. Le baliaccie, che han figliane da marito, parlando con i giovani, non puon dar buon odor di loro. Né fu mai figlia puttana, che la madre o la balia non le sia stata ruffiana.

BALIA. Non vi potete doler di me, padron mio.

ORGIO. Se tu m'avesti stimato padrone, e non una bestia, non mi aresti trattato nel modo che m'hai trattato.

BALIA. Di che vi dolete di me?

ORGIO. Chi ha portate e riportate l'ambasciate fra quel giovane eSulpizia? o ridotti i loro amori nel termine dove or sono?

BALIA. Volete dunque dir che vostra nipote sia una puttana, e io una ruffiana?

ORGIO. Sotto sí onorata maestra non potea imparar altre opre di quelle ch'ave imparate.

BALIA. Questo guadagno dopo la servitú di trent'anni in casa vostra?

ORGIO. Questo guadagno io con te, dopo averti amata e onorata trent'anni in casa mia, che al fin avesti a svergognarmi la nipote?

BALIA. Mai la casa vostra è stata cosí onorata e riverita, come mentre ci son stata io.

ORGIO. Mi doglio ritrovarmi qui nella strada publica, che non vorrei far i vicini consapevoli de fatti miei, ché per risposta ti vorrei far cader questi pochi denti che ti sono restati in bocca, e trarti quei pochi capelli che ti ha lasciati il mal francese; ma faremo i nostri conti in casa, quando manco ci pensarai.

BALIA. In casa vostra non entrerò piú mai, poiché in tal stima ci son tenuta.

ORGIO. Tu ci entrerai per tuo dispetto, se non di buona voglia.

BALIA. Io per forza?

ORGIO. Tu sí, e ti strascinerò per li capelli.

BALIA. Oimè, oimè, vicini, aiuto, aiuto!

ORGIO. Ci bisognano uomini e non asini, a governar queste bestie.

BALIA sola.

BALIA. A questo modo, eh? come l'infame e le cattive? Per ogni minimo disdegnuccio, subito sbalza di casa, e delle buon'opre di tanti anni non ce ne ricordiamo; né basta il caricarci di male parole, ma di bastonate ancora. Le bastonate dunque sono il prezzo della servitú di trent'anni? E come le vecchie sien cagion de tutti i mali: «Caccia la vecchia, uccidi la vecchia, impicca la vecchia e squarta la vecchia». Ma appiccata e squartata sia da dovero, s'io non me ne vendico: se non posso vendicarmene con le mani, me ne vendicarò come posso: ne farò tal vendetta, che non ti vanterai di avermi fatto ingiuria. Me ne andrò alla casa di Pardo; e li manifesterò un fatto, che li farò sborsar molte migliaia di scudi; e so che cavandosegli quei scudi di mano, li fará peggio che se li cavasse il fegato, il polmone e il core. Forse che gli rincresce, all'assassino, del mal fatto? o viene a darmi qualche buona parola per sodisfazione e acchetarmi? Mira in che stima mi tiene! Ma perché piú perdo tempo in lamentarmi, e non batto la porta di Pardo?Toc.

PARDO. Che buona nuova, balia mia?

BALIA. Vengo con buona intenzione di farvi bene.

PARDO. Ed io vi ricevo con miglior volontá.

BALIA. Vi priego per l'antica amicizia che è stata fra noi, per la vicinanza e per l'etá vostra veneranda, che piacciavi darmi udienza per poco tempo.

PARDO. Balia mia, ho gran piacere che me si porga occasione d'impiegarmi ne' tuoi comandi, per aver tanto tempo conversato fra noi domesticamente, come buoni vicini.

BALIA. Vengo a scoprirvi alcuni secreti di Orgio, che v'importano, poiché egli per i suoi mali trattamenti non mi dá cagione che gli abbia a nascondere.

PARDO. Mala cosa è porsi fra dua che son stati gran tempo amici; che, raffreddatosi quell'impeto della colera, si riconciliano insieme e restano poi nemici i mezani.

BALIA. Non ci è luogo di riconciliazione piú, né che speri mai piú entrar in casa sua, poiché egli mi ha dato delle bastonate cosí sconciamente.

PARDO. Se ben v'ha trattato male per ira, giá non ne morrai per questo.

BALIA. Orgio, dopo la servitú di trent'anni, mi paga con prezzo di tanta ingratitudine.

PARDO. Ma che sète per dirmi?

BALIA. Sappiate che Cleria, che vi fu rapita da turchi, e vi costò tanti dinari a riscattarla, non è vostra figlia, ma è Sulpizia, figlia di Filogono; e quella Sulpizia, che è in casa nostra, è Cleria vostra figliuola.

PARDO. Come dite voi questo? e come lo sapete?

BALIA. Lo dico, che niuno lo può saper meglio di me, ed è cosí. Quando voi generaste la vostra Cleria, la deste alla moglie di Filogono, che la lattasse, perché egli era allor poverello ed era vostro vicino: ella si lattò la sua Sulpizia, che ora è in casa vostra, e a me diede a lattare la vostra Cleria, sotto nome di Sulpizia.

PARDO. E perché tanto assassinamento?

BALIA. Perché voi eravate in quel tempo, come ora sète, oltra modo ricchissimo, ed egli poverissimo: ché, dando a voi la sua figliuola, l'avreste maritata nobilissimamente, e la vostra figliuola, essendo egli poverissimo, l'arebbe umilmente collocata, con speranza che, dopo la vostra morte, si fussero scoverti a lei per veri padre e madre, e ch'ella fusse costretta poi darli onorevol vitto, e da sua pari. Eccovi la cagione.

PARDO. E può cader in cuor di uomo un cosí nefando pensiero?

BALIA. Ma la morte privò l'uno e l'altra di tanta speranza, e Idio ne ha fatto la vendetta per voi, ch'essendo eglino venuti poi in miglior fortuna, arebbono voluto manifestarvi l'inganno e riaver indietro la loro figliuola; ma vi fu rapita da turchi: e allora piansero amaramente il peccato e il gastigo di Dio, e se ne moriro ambiduoi di disperazione e di doglia. Ma Filogono lasciò la robba ad Orgio suo fratello, con condizione che, riavendosi la loro Sulpizia, cioè la da voi stimata Cleria, se li consignassero diecimila ducati di dote, e, non ricuperandosi, si dessero alla vera vostra Cleria, cioè la stimata loro Sulpizia, duemila ducati per lo suo casamento, e il restante ereditasse Orgio suo fratello. Or, scoprendosi che la vostra Cleria è figlia vera di Filogono, sará forzato questo furfante darle diecimila ducati di dote: e cosí io li vengo a far questo danno e le mie vendette.

PARDO. Ma che certezza arò io, che la vostra Sulpizia sia la mia veraCleria?

BALIA. Sulpizia vostra è di pel rosso, come voi sète; gli occhi azurri, come i vostri; e il volto simile al vostro: e, se ben vi ricordate, ha una macchia rossa nel braccio sinistro, come goccia di vin rosso.

PARDO. O Dio, veramente mi ricordo di quella macchia rossa, e parmi or di vederla; e nella vostra Cleria mai piú ve l'ho vista. Ma io non conseguisca mai desiderio in mia vita, se, sempre che ho vista Sulpizia, non mi sentiva un certo movimento di sangue per la persona, tra carne e pelle, e non potea imaginarmene la cagione. La natura veramente facea l'ufficio suo, e per una certa occulta affezione l'ho sempre richiesta ad Orgio per darla per moglie ad Attilio, e ancor senza dote. O Dio, in che peccato era io per incorrere! Ma ben fece Orgio, che non lo volea mai consentire. E da che Attilio mi ha condotta la vostra Sulpizia in casa, non mi ha avuto mai grazia, né l'ho mirata mai di buon occhio. O vecchio per tanti anni deluso! Ma sai tu chi ha fatto il testamento di Filogono?

BALIA. È quel notaio che sta appresso la casa vostra.

PARDO. Lo conosco benissimo. Voi potrete trattenervi in casa mia, finché vi torni commodo, se non volete tornar nella vostra: e trattarete con Costanza mia moglie, che oggi è gionta da Turchia, e ragionate de' signali, finché vada al notaio e veda il testamento di Filogono; ché ritrovandosi vero quanto dici, come so che è ben vero, ne arai tal mancia, che ne restarai sodisfatta.

BALIA. Non ricerco altrimente mancia di ciò: mi gravava la conscienza sopra questo, e mi vendico di quel scostumato vecchiaccio che mi ha cosí bestialmente mal concia.

ORGIO solo.

ORGIO. Veramente l'ira è una mala consigliera, e trasporta l'uomo a cose, che poi non se ne può piú ritirare, perché l'animo alterato è cagion di molti moti disordinati. La rabbia troppo acuta, che mi mosse cosí subito, fe' che mi ricordasse piú tosto dell'error suo che del debito mio; perché d'una cosa, che ne potea far passaggio, ha fatto che non abbia avuto rispetto alla servitú di trent'anni, onde io medesimo son stato ministro del mio male. Ho visto la balia ragionar lunghissimamente con Pardo, e son certo che l'ará rivelato della figlia quanto è stato occulto fin ora, perché non ci era altri vivo che lo sapessi. Dogliomi del mio fratello, che d'una cosa, che volea ch'ad altri fusse occulta, non dovea farne consapevole una fantescaccia: ché le cose, che si devono tener occulte, non deve l'uomo fidarle a persona: ché, se l'uom istesso non può tener secrete le cose sue, come si spera ch'altri le voglia tener secrete? Si guardò di me, che l'era fratello, e si fidò della balia; ché non lo seppi mai, se non quando fece testamento. E ho per certo che questa cicalona ce l'ará raccontato, perché ho visto ancora Pardo avviarsi per quella strada, dove abita il notaio, per veder il testamento. O veritá, quanto sei difficile a nascondere, o quanto facile a discoprire, che non può l'uomo tanto giú sepelirti, quanto piú tu assumi di sopra! Giá par che di ora in ora me lo veggia di sopra, con gridi, con minaccie e con ingiurie, che gli restituisca la figliuola sua e che mi tolga la mia: e il peggio sará, che bisogna che sborsi diecimila ducati per la sua dote. Conosco aver errato; ché non dovea cosí rigorosamente castigar la balia, e dovea considerar ch'era vecchia, che i vecchi per se stessi sono colerici e ritrosi. Ma ogni uomo, che spunta di lá, mi par che sia Pardo e che dica:—Dammi la mia Cleria e togliti la tua Sulpizia. Ma eccolo che viene, e alla volta mia. Idio mi aiuti.

PARDO. Fermatevi, Orgio, che ho da parlarvi. …

ORGIO. (Questa ragionata non sará buona per me: che li torni la figlia).

PARDO. … So che siamo vecchi e arrivamo agli ottanta, e abbiamo a star assai meno al mondo, che non siamo stati: anzi abbiamo il piede in staffa per partirci per l'altro mondo, dove non ci è ritorno. …

ORGIO. (Il prologo della predica). Questo è il peggio.

PARDO. … E morti che siamo, abbiamo a render stretto conto delle nostre azioni a Dio, e molto piú delle restituzioni delle robbe, né si rimette il peccato se non se restituisce il rubbato. …

ORGIO. (Quando dovemo riscuotere, siamo predicatori; quando dovemo pagare, siamo diavoli).

PARDO. … Or che siam vivi, possiam rimediare a quello che non possiamo, essendo morti. E tristi coloro che lasciano gli eredi, che restituiscano; che, come la robba ha fatto carne e sangue con l'uomo, non si restituisce piú mai. …

ORGIO. Di grazia, venghiamo al fatto: ché giá è passata quaraesima, e mi volete far ascoltar la predica.

PARDO. Vostro fratello, di benedetta memoria…

ORGIO. (Di maladetta!).

PARDO. … mi scambiò la figlia, tenendosi la mia propria, e mi diè la sua per la mia. …

ORGIO. Ascoltate.

PARDO. Ascoltate, di grazia, voi, e non m'interrompete, accioché non cominciate a negar la veritá, e poi, negata, la vogliate defendere fin alla morte; e vengamo a liti, contrasti e questioni. Non accade nasconder quel che è palese: ho visto il testamento; e quel che lascia a sua figlia, quando si palesi il fatto, è quanto vi dico.

ORGIO. Io so ben che…

PARDO. … Dio ce 'l perdoni! che essendomi tolta da turchi, ho mandato mio figliuolo sin in Constantinopoli a riscattarla; e mi costa piú di cinquecento ducati, senza l'altre spese e travagli. Però toglietevi la vostra Sulpizia e restituitime la mia Cleria.

ORGIO. … ancor ch'io potessi con qualche convenevole scusa difendermi da questa calunnia, io non so farlo; ma confesso liberamente che mio fratello ebbe torto.

PARDO. Di grazia, non entriamo in rettoriche; né bisogna mi doniate quello che non mi potete vendere. Vo' la mia figlia.

ORGIO. Di grazia, non vi alterate e non alzate cosí la voce. Toglietevi la vostra figlia, ma non l'onor mio; ché, restituendovi poi la figlia, voi non potete restituirmi l'onore. Toglietevela quando volete, ché non vi si niega.

PARDO. Sia ringraziata la bontá divina, che prima scoverto si sia che sposati insieme; e che abbiamo spedito un negozio senza farci sentir dal mondo: e resteremo amici, come siamo stati sempre. Andiamo a casa mia o nella vostra, a far il cambio.

ORGIO. Eccomi pronto a quanto volete.

PARDO. Venete a casa mia, che mangiaremo insieme, e poi ragionaremo de fatti nostri.

ORGIO. Non posso, ho che fare, ci vengo con l'animo.

PARDO. Vo' che ci vengáti in persona; e per la porta di dietro mandaremo a chiamar Sulpizia vostra, ch'io spasimo di vederla: e vi prego, concedetemi questa grazia.

ORGIO. Faccisi quanto comandate.

EROTICO. (Mira fortuna! m'è forza di confortar costui, e ho bisogno di esser confortato io). Fermatevi, ché voglio esser partecipe delle vostre fatiche e compagno nelle vostre sciagure; ché le nostre fortune poiché hanno una conformitá fra loro, andiamo insieme.

ATTILIO. Avendo per compagno un amico cosí caro come voi sète, la mia sciagura diverrebbe fortuna: però vo' andarmene solo e disperato.

EROTICO. Il disperarsi è un tradir se stesso, e, tradendo voi, tradite me insieme con voi: però consultiamoci un poco.

ATTILIO. L'anima mia è in tanta confusione, che non ci è luogo alcuno per consolazione.

EROTICO. Ascoltate una parola.

ATTILIO. Non ho tempo.

EROTICO. Vi spedirò subito.

ATTILIO. Son contento; ma fate presto.

EROTICO. A cosí maladetto, insolito e sregolato accidente, andandoci con buon ordine, è temperamento di effetto.

ATTILIO. Orsú, hai finito?

EROTICO. Non mi accurtate il tempo che mi avete dato.

ATTILIO. Voi lo prolungate piú di quello che v'ho promesso. Ho tanto in odio il mondo, questo sol, questa luce, che vorrei esser mille passi sotterra per non vedergli.

EROTICO. Andiamo, come volete; ma non sarebbe bene aspettar Trinca, per saper qualche cosa di Cleria? che fa, che dice, che spera?

ATTILIO. Fa quello istesso che fo io; e mi affligono piú i suoi che i miei dolori, però schiverò di udirlo.

EROTICO. Ed io vo ancor disperato, non potendomi imaginar la cagione, come Sulpizia sia cosí meco adirata.

ATTILIO. O casa, io mi parto per non averti a veder piú mai. Tu pur fosti ricetto un tempo di ogni mia gioia e consolazione: prego Idio, che resti cosí contenta colei che alberga in te, quanto io mi parto mal contento e disconsolato.

EROTICO. Attilio, tu m'hai mostro le lacrime; e stimo che non siano uomini al mondo piú disperati di noi. Ma veggio uscir Trinca da casa vostra molto allegro: aspettiamo, fin che ne sappiamo la cagione.

TRINCA. (O Dio, e dove troverò Attilio, il mio padrone, e Erotico, per dargli cosí buona nuova?).

EROTICO. Cerca di noi, e ci vuol dar una buona nuova.

ATTILIO. Niuna buona nuova può esser per me, se non che Cleria fusse mia moglie; ma ciò non potendo essere, dunque non è buona per me.

TRINCA. (Dove andrò, in casa di Erotico over in piazza? ma stimo che sien partiti per disperati).

EROTICO. Trinca, volgeti a noi.

TRINCA. Io non posso piú celar l'allegrezza, e bisogno che sfoghi.V'apporto una grande allegrezza.

ATTILIO. Ne ho perduto ogni speranza.

EROTICO. Si dee piú tosto perder la vita che la speranza.

TRINCA. Consolatelo, signor Erotico.

EROTICO. Non può consolare il compagno, chi non può consolar se stesso.

ATTILIO. L'allegrezza, che tu dici, è come quell'olio che si pone alla lucerna, quando sta per spengersi.

TRINCA. Per secreta volontá di chi può il tutto, quel caso disturbator delle nostre felicitá or s'è rivolto in accommodar le nostre difficoltá; e possiam dir che siate morti e ravvivati in un punto.

EROTICO. Trinca, ancor che la tua allegrezza vera non l'estimi, pur godo nell'imaginazione delle tue parole.

TRINCA. Vi prometto far ambiduoi contenti.

EROTICO. Troppo prometti.

ATTILIO. La fortuna traditora pur mi lusinga con nuove speranze, e pur le credo. Costui mi dice che mi renderá contento, e son certo che è impossibile, e pur mi piace d'intenderlo.

TRINCA. Stammi allegro, padrone, ché è trovata la tua vera sorella.

ATTILIO. E questo è il mio dolore. Ma sempre che sento nominar sorella, sento un orror scuotersi per tutta la persona.

TRINCA. E cosí arai la tua moglie desiderata.

ATTILIO. Cose contrarie: è trovata la sorella e arai la moglie desiata. Cosí, Trinca, ti beffi del tuo padrone?

TRINCA. Avete il torto a dirlo. Voi arete la vostra Sulpizia edErotico la sua Cleria.

ATTILIO. Or ti beffi di l'uno e di l'altro.

TRINCA. Io dico il vero all'uno e all'altro. Sappiate che per un mirabile accidente, per un benevolo incontro di fortuna, è successa cosa tutta contraria a quella che minacciava la presente confusione.

ATTILIO. Dammi un succinto raguaglio del fatto.

TRINCA. Orgio, avendo visto la balia ragionar con Erotico, la batté sconciamente.

EROTICO. Oimè, che dici? questa è una mala nuova per me.

TRINCA. Da questo disordine è nata la vostra allegrezza: ché la balia se ne venne a Pardo, e l'ha manifestato che, quando partorí Costanza e diede a lattar Cleria alla moglie di Filogono, scambiò le bambine, e ritornò la sua Sulpizia a Costanza e si tenne la vera Cleria. A signali Costanza ha trovato vero quanto ha detto. Pardo andò ad Orgio, e minacciandolo l'ha scoverto il tutto. In questo Costanza con tanti bei modi s'è oprata con Pardo suo marito, che ottenne Sulpizia, figlia di Filogono, cioè la vostra Cleria, per vostra moglie con diecimila ducati di dote, che li lasciò il padre, ritrovandosi: dicendogli non deversi far resistenza a quello, che con tanti meravigliosi avvenimenti avea disposto l'alta bontá di Dio, ma lasciarsi guidar da lei.

ATTILIO. Oimè, che io mi sento incapace di tanta allegrezza, dubito che non mi suffochi l'animo. Ahi, che non potendola caper il mio petto, se ne versa fuori la miglior parte.

TRINCA. Cosí dal flusso e riflusso del mar della vostra fortuna, fra suavi scherzi e vari errori, sète stato ributtato al porto di salute.

ATTILIO. O madre, o cara madre, o tre volte madre, perché tre volte m'hai donato l'essere! O cieli troppo potenti, troppo influenti! o stupori, o meraviglie grandi, che da moglie mi diventi sorella e da sorella moglie! Ma Cleria che facea?

TRINCA. Piangeva la poverella amarissimamente; e, non potendo esser vostra moglie, purché fusse amata da voi, si contentava non solo d'esservi sorella, ma umilissima schiava.

ATTILIO. Dunque Sulpizia è la nostra Cleria sorella? Erotico caro, poiché nelle angustie mi sète stato caro compagno, vo' che ancora mi siate nelle prospere: non potendo con alcun premio meritar la vostra affezione, vi prometto Cleria per moglie, poiché per bellezza, per etade e per altre nobilissime parti, l'uno è ben degno dell'altra.

EROTICO. Voi sempre foste la mettá dell'anima mia; or tutta è vostra, e non ci resta piú alcun'altra parte del mio: e son tutto in anima e in corpo vostro. Perché dandomi Sulpizia, mi duoni la vita; e posso dir da oggi innanzi ch'io son vivo per voi, e però vivo per voi.

TRINCA. Non bisogna che voi ce la promettiate, perché è sua: che, scovertasi vostra sorella, la balia s'oprò tanto con Costanza e con Pardo, che fusse data a voi; e io ricordando al padrone l'appuntamento di oggi, si son convenuti insieme che sia vostra moglie.

EROTICO. O Dio, che nuova!

ATTILIO. Ed altro che di calze e di giubbone.

EROTICO. E perché mi dái contentezza di tanta importanza, te si prepara nuovo guiderdone, che partecipi delle nostre consolazioni.

TRINCA. Or sei contento?

ATTILIO. E consolato ancora. I miei sensi sono tanto occupati dalla improvisa dolcezza, che non posso gustar piacere dell'allegrezza; e se non muoio or di dolcezza, non morrò piú mai. Che fa mia madre?

TRINCA. Sta con un piacer grandissimo, ch'essendo stata disturbatrice delle vostre gioie, or è stata aiutrice delle vostre consolazioni; e mi dá ordine, perché son aggionte nozze a nozze, che s'aggiungano feste a feste, conviti a conviti, e balli a balli.

ATTILIO. Or da un amor cosí strano, mostruoso e fuor del naturale, cosí malagevole da sperarsene bene, n'è riuscito cosí onorato matrimonio. E se ben Idio permette alcuna volta cose che dispiacciono, lo fa per trarne poi un grandissimo bene, come è accaduto a noi.

EROTICO. Se vi partevate disperato, or non areste avuto questo contento.

ATTILIO. M'hai fatto bene, non volendo.

TRINCA. Questa volta abbiamo avuto piú ventura che senno. Giá s'è inviato a chiamar Sulpizia per la porta del giardino, e vi stanno aspettando con gran disio di sposarse; e me hanno inviato fuori a chiamarvi col prete da vero, e non col falso parrocchiano.

EROTICO. Entriamo, non facciamo aspettarci.

ATTILIO. Andiam, fratel mio.

TRINCA. Spettatori, costoro non usciranno piú fuori; ché, come seranno appresso le loro spose, non li distaccarebbono dalle lor falde tutti gli argani del mondo, ché tira piú un pelo del manto delle donne, che diece paia di buoi. Partetevi; e se non è stata di tanta aspettazione come desiavate, almeno favorite l'animo col solito applauso.


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