—Ha ragione, di non amarmi più, ha ragione: egli soltanto ha ragione, egli che ha amato!
Ma da queste nascoste battaglie dello spirito che Clara combatteva, con tutto l'impulso di una natura appassionata, sebbene fugace; da questa umiliazione in cui la sua anima era caduta, tanto che parea si prostrasse innanzi a Giovanni Serra; da questo indicibile rimpianto dell'amore, acutissimo in una donna che aveva amato l'amore sovra tutte le cose umane e a cui l'età non calmava l'anima; da questo tormentoso rimorso che si sollevava da tutti gli istinti di giustizia e di equità offesi, sorse dentro Clara una impetuosa volontà di correggere e di vincere il destino. Ella pensò, questo: che era suo dovere morale amare Giovanni Serra, di un amore profondo e devoto che fosse l'estremo della sua vita, e in cui ella prodigasse tutte le ultime e supreme dolcezze del suo cuore; che non solo era suo dovere, ma che era questo il suo desiderio sentimentale più forte, più immediato, più irresistibile; che non solo era un desiderio irresistibile, ma che era, questo amore, la più cara speranza del suo cuore che voleva lavarsi, che voleva purificarsi e diventar nuovo e candido come il cuore del Salmista; che non solo era la sua più cara speranza, ma che era la salvazione della sua dignità di donna, l'assoluzione dei suoi errori trascorsi, la vecchiaia percorsa senza più sentire rimorsi, aspettando serenamente la morte. Sorto dalle ire soffocate e dai profondi disprezzi di sè stessa, questo pensiero di amore l'avea in un baleno soggiogata e tutta l'anima ebbe il calore del metallo in fusione. Nessuna voce interna l'avvertì di non mettersi a questo periglioso passo, nelle sue condizioni, alla sua età, con un uomo come Giovanni Serra: e se talvolta, un nero presentimento la colpì, a traverso le esaltazioni del suo entusiasmo, se il negro presentimento le susurrò che ella si avviava a un errore anche più fatale e anche più irrimediabile degli altri, ella ebbe il cenno disperato di coloro che sono ebbri di sacrificio.
Giovanni non l'amava più: è vero. Che importava? Il suo cuore di donna che ella aveva sentito morto, duro come una pietra, per tanti anni, dentro il suo petto, ardeva di un sentimento dove tutto era elemento di ardore, il rimorso, il rimpianto, la pietà, la tenerezza, il bisogno di devozione, il bisogno di darsi, il bisogno di abbandonarsi. Che importava che Giovanni Serra non l'amasse più? Ella voleva amarlo così profondamente, così piamente, con tanto completo abbandono di ogni amor proprio e di ogni orgoglio, con tanto perfetto oblio di ogni vanità e di ogni altro istinto mediocre umano, che tutto il dolore passato sarebbe pagato da questa immensa abnegazione amorosa. Ella voleva espiare il suo passato, soffrendo come egli aveva sofferto, dando il suo cuore a un essere che non poteva più amarla; voleva espiare di non avere amato, amando senza speranza, solitaria anima che recitava un monologo appassionato e doloroso. In fondo, come per tutti i grandi penitenti, la sua espiazione sarebbe stata anche il pascolo della sua anima. Oramai, la sua esistenza di donna era deserta. Aveva trentaquattro anni: e nell'abbandono in cui era caduta, si sentiva assai più vecchia, incapace di tentare un'altra volta l'ignoto dell'amore. Era stata molto amata, due o tre volte: ma fatalmente, questi amori si erano dileguati, come se mai fossero esistiti: e due volte ella aveva dato il suo cuore, e due volte era stata abbandonata. Esistenza finita, dunque, giacchè le illusioni non risorgono mai dalla loro tomba: e le stanchezze morali sono più forti di quelle fisiche. Che restava a Clara, se non questa ultima speranza di potersi dare a un sentimento vivido e duraturo, a null'altro simile, senza fallacie e senza disfatte? La sua espiazione, quella di voler amare Giovanni Serra, era anche la sua salvazione, giacchè ella sapeva di non poter vivere senza l'amore, un amore qualunque, ma un amore, un amore! Meglio, meglio, se ciò non era un'avventura in un cuore sconosciuto, innanzi a un'anima misteriosa, un'avventura di incerto risultato, ma portante con sè, forse, una disperazione e un'onta novella: meglio, se era l'amare una creatura nota, stimata, ammirata per le sue nobilissime virtù, una creatura senza amore, è vero, ma che aveva saputo amare, ma che si sarebbe lasciata amare, dolcemente, teneramente. L'espiazione sarebbe stata la vita della sua anima ed ella vi si sarebbe buttata con ebbrezza, giacchè quello che più temeva, per sè e intorno a sè, non era il dolore, ma era l'aridità, non era la tortura, ma era il silenzio, non era la passione infelice, ma era l'indifferenza. Un mese prima, ella era immersa nel marasma più profondo, moralmente così misera che non osava neppur dire a nessuno la sua miseria: ella si vedeva già finita, senz'amore, senza amicizia, coi soli legami frivoli mondani, ritenuta per una donna senza cuore—giacchè questa, fatalmente, era la sua reputazione—e gemente intanto nel desiderio dell'amore. Ora, ora, da quel pomeriggio in casa di Anna, ella aveva dato una sublime ragione alla sua esistenza.
Dai grandi occhi spiranti uno strano turbamento, dai subitanei pallori che le coprivano il volto, quando egli appariva, dalle mani che si facevano fredde nelle sue, da certi più prolungati silenzii che regnavano fra loro, dall'imbarazzo crudele di certi momenti, dai sussulti che ella non sapeva reprimere, a certi atti, a certe parole, Giovanni intravide che accadeva qualche grave fatto nell'anima di Clara. Una o due volte, la interrogò:
—Che avete?
—Nulla—ella diceva, chinando gli occhi, mordendosi lievemente il labbro, come quando non pronunziava la parola che voleva pronunciare.
Egli credette che Clara gli nascondesse un fatto dispiacevole, forse una lettera dell'uomo che l'aveva abbandonata, o il suo ritorno, forse. Diventò più freddo, più riservato. Mancò a un appuntamento. Ella lo rimproverò assai, quando lo rivide.
—Io vi disturbo, Clara—diss'egli, malinconicamente.
—Che vi fa pensare ciò?—gli chiese ella, precipitosamente.
—Sono stato sempre così superfluo, nella vostra vita. È sempre l'ultimo venuto, che mi ha scacciato. Almeno, confessatemi la verità.
—Non ho nulla da confessarvi, Giovanni.
—Ma voi siete agitata, molto, da qualche tempo.
—Sì, è vero.
—E non volete dirmi perchè?
—No, non ve lo voglio dire.
—Non me lo merito?
—È inutile.
—Non vi posso metter rimedio?
—No—ed ella voltò la testa in là.
—Nè consolazione?
—Consolazione? Forse.
—Ditemi come e lo farò.
—Non qui, Giovanni.
—Dove, dunque?
—Nella mia casa—ella rispose, tendendo a sè stessa, e a lui, inconsciamente, il più terribile tranello.
—Sapete che non ci verrò mai—egli, disse, sgomento, sentendo il pericolo.
—Ebbene, io non vi narrerò le mie pene, Giovanni—diss'ella, tetramente.
—Scrivetemi….
—No.
—Parlate qui, altrove….
—Nella via, in teatro? No, no.
—Io non posso venirci, lo sapete, in casa vostra—egli mormorò, già più debole, già affascinato.
—Perchè?
—Non mi obbligate a dirlo.
—Ditelo.
—È la casa dove avete amatoun altro.
—Che ve ne importa, se non mi amate più?—ella disse, levando le spalle, amaramente.
—Ah io soffro sempre, Clara, anche non amando!
—Quante volte, lo ripetete, che non amate, Giovanni! è troppo—e il suo tono fu così lamentoso che egli s'intenerì.
—Verrò…. forse…. una sera….
Ella sorrise, nel fondo dell'anima.
Tre volte Giovanni Serra mancò alla sua promessa. Le diceva: verrò domani sera, alle nove. Clara lo aspettava in preda a una emozione nervosa, a cui la sua fantasia dava un carattere passionale. Ella dal pomeriggio dava ordine che nessun altro venisse introdotto e ripeteva le sue raccomandazioni, alla cameriera, con insistenza: quando l'ora si appressava, per frenare la sua torbida impazienza, ella si metteva a riordinare delle carte, prendeva un libro, forzandosi a intendere ciò che leggeva. Giovanni non veniva. Le fresche rose che ella aveva messe nei vaselli nitidi, rientrando a casa, parea che declinassero e languissero, quasi per morte; il fuoco si covriva di cenere, nel caminetto; ed ella, discesa dalle esaltazioni sentimentali, cadeva in uno snervamento profondo. Alla fine di queste serate d'inutile attesa, la parte più sincera di lei pensava che era meglio, lasciar finire, senza finirla, questa singolare avventura, che le cose morte non si vivificano e che anche per lei, Clara, così innamorata dell'amore, era troppo tardi per tentare un ultimo fatto del cuore. Ma l'istinto della vanità muliebre, mediocre istinto, ma che non isbaglia mai, tanto è finemente esercitato, le diceva che quegli appuntamenti mancati erano tante vittorie negative, è vero, ma vittorie, sul cuore di Giovanni: che chi non va, ha paura di andare; e chi ha paura di andare, ha sempre il cuore debole e facile a essere trascinato, in un impeto dell'altrui energia. Così, ella, nelle immense prostrazioni di una vivacissima speranza delusa, trovava novelle forze per ritentare l'anima di Giovanni. Egli balbettava, inventava delle scuse magre, per colorire la sua assenza: ma ella lo vedeva molto confuso. Dietro il pretesto di un impegno dimenticato, di un ostacolo improvviso, il freddo istinto della vanità intravedeva il combattimento del cuore di Giovanni; ed ella se ne compiaceva, dimenticando il suo nobile divisamento di amare Giovanni, senza domandargli il ricambio. Alla terza sera, ella lo aspettò dietro i cristalli del balcone; più nervosa, più triste, più esaltata che mai, ella finì per aprire il balcone, malgrado il freddo della serata. Ebbene, all'ora indicata, ella lo vide giungere frettolosamente, a capo basso, fermarsi due minuti sotto il portone, ed uscire di nuovo, lentamente allontanandosi. Non aveva avuto la forza di salire. Era un gran freddo nell'aria, quella sera: ma ella rientrò con le guancie brucianti. E l'indomani non gli fece nessun rimprovero. Sentiva che Giovanni aveva subìto una tortura segreta.
Egli venne, al quarto appuntamento, quando ella non lo aspettava più, alle dieci e mezzo, invece che alle nove. Il suo orecchio fine udì il suono timido e debole del campanello, udì la voce bassa con cui egli domandava di lei, in anticamera, e il passo cheto con cui egli si avanzava, a traverso l'appartamento. Clara soffocava per il battito del suo cuore: e l'accoglienza che gli voleva fare, disinvolta e serena, come a un amico che venisse sempre, e le parole che gli voleva dire, tutto sparve, ed egli la trovò in mezzo alla stanza, aspettandolo con troppo palese ansietà e porgendogli una mano glaciale e tremante. Sedettero ambedue non accanto, ma dirimpetto: taciturni, imbarazzati. Clara non osava aprir bocca; intendeva che la sua voce l'avrebbe tradita. Egli guardava, come trasognato, i galloni rossi e azzurri che adornavano il vestito di lana bianca di Clara.
—Mi volevate:—eccomi—egli disse, con un sospiro, chinando gli occhi.
—Grazie—mormorò ella, semplicemente.
—Chiederete voi che io faccia qualche altro sacrifizio, al vostro fascino?
—Tanto vi è costato, questo?—Clara interrogò, ansiosamente, piegandosi verso lui.
Egli si arretrò, quasi temendo la vicinanza di quel volto. Disse:
—Mi è costato moltissimo.
—Ma perchè?—e aveva un tono così ingenuo, chiedendo ciò, ella!
—Proprio, non lo capite?
—No.
—Questa casa mi è odiosa.
E un riflesso di tetraggine gli si diffuse sul volto. Clara si guardò intorno.
—Non capisco—disse.—Siamo soli….
—Siamo soli?
—Dubitate di ciò?—ed ebbe, sulle belle labbra un riso forzato.
—Io credo che vi sia possibile fare tutto—egli soggiunse, guardandola con quel misterioso terrore, come quando gli parea veder sorgere un mostro nella donna.
—Tutto, che?
—Non mi domandate troppe cose, Clara: io sono molto turbato. Parlate voi, piuttosto.
—Sì—ella annuì, cercando di vincere, prima di tutto, sè stessa.—Lo vedete, siamo soli. Nessuno può venire e nessuno ha diritto di entrare. Qui vi è la vostra amica, che vi aspetta da tanto tempo, che è così felice di passare un'ora, con voi, in una stanza chiusa….
Egli guardò le porte, con una lieve ombra di diffidenza e di paura negli occhi.
—Anche a voi, fanno terrore le porte socchiuse?—ella soggiunse, infantilmente. E si levò, andò a chiudere le due porte, fra le tende.
—Voi temete di vedere entrare qualcuno, sempre, è vero, Clara?
—Sì, da bimba, l'ho sempre temuto. Se qualcuno saliva alle mie spalle, nelle scale, se qualcuno mi seguiva, in un appartamento, se una porta restava aperta, con un vano oscuro, io era assalita da uno sgomento folle, e, sentite, adesso—soggiunse, dandogli la mano—solo a parlarne, io tremo tutta….
Egli trattenne quella mano fra le sue, ma mollemente.
—Sono sempre così sola!—ella soggiunse, e gli occhi le si velarono di lacrime, mentre il volto, le si tramutava.
Giovanni guardò quello scoloramento e quei begli occhi velati: impallidì leggermente.
—Non sempre siete stata sola—mormorò, con un'intonazione ironica, ma non aspra.
—Oh!—e Clara fece un gesto largo, per dire che tutto era finito.
—Lo avete già dimenticato, Clara?
—Intieramente—ella rispose, con un cenno tagliente.
—Dimenticate presto, mi pare.
—Sì, tutto quello che non merita di esser ricordato.
—Ma che meritò di essere amato, però.
—Oh chi non ha errato, nelle cose del cuore? Chi ha mai preso la via giusta, amando?
—Nessuno, avete ragione—diss'egli, malinconicamente.
—Io ho sbagliato sempre, io—e il bel volto ebbe un fremito di dolore.
—Sempre?
—Sempre. Mi hanno amata poco: o male: o niente. Sarà una bella burla, alla fine della mia vita per me, che porto la reputazione di avere ispirato delle passioni folli, l'accorgermi che nessuno mi ha amata, mai.
E un doloroso, amarissimo ghigno le contrasse il viso. Clara era immensamente sincera, in quel momento. Aveva tenuto solo all'amore, nella vita e, probabilmente, non lo aveva, nè visto nè provato mai.
—Quanto siete ingiusta, Clara!
—Con chi?
—Con me.
—Ah già, è vero, voi pretendete di avermi adorata—-ella soggiunse eccitata, ma schiettissima, sempre.—Chi ne sa nulla! È una leggenda: tante leggende sono false.
—Perchè dite questo? Perchè volete negare il passato?
—Bella istoria, il passato! Ognuno se ne inventa uno, a propria convenienza, quando il passato è passato. Chi conosce la verità? Voi intanto, no: e io, neppure. Forse non mi avete amata mai; e tutta la leggenda non è che una cosa buffa—e rise clamorosamente, offendendolo anche col suo riso.
—Clara, io non sarei qui, se non vi avessi amata—egli disse seriamente.
—Vale a dire?
—Che ci vuole una grande tenerezza, per dimenticare quello che mi avete fatto: e una grande tenerezza non viene che da un grande amore.
—Bella rovina, illuminata a chiaro di luna—ella disse, non ridendo, tetramente.
—Ognuno dà quello che può—Giovanni rispose, con una tristezza semplice.
Clara tacque. Scherzava con un tagliacarte giapponese e se ne pungeva le dita. A un tratto, si rivolse tutta mutata:
—Perdonatemi, Giovanni: ho avuto un accesso di cattiveria.
—Tanto, per non cambiare—ed egli ebbe un pallido sorriso.
—Sono cose che restano, a filoni, nell'anima. Ma l'anima è così cangiata!
—Così?—e la tenerezza velava l'incredulità.
—Tutta quanta. Non ve ne siete accorto? Vi sono sembrata la stessa, in questo tempo, la stessa di dieci anni, ditelo, in coscienza?
—No, non mi siete sembrata la stessa. Ma non vedo la causa del vostro cangiamento e non so lo scopo.
—Al solito, voi mi supponete qualche infernale progetto? No, Giovanni, disilludetevi. Nulla vi è di più complicato in me—e sorrise, con una mesta semplicità.
—Nulla?
—Nulla: a che? Per sedurre chi? Voi siete inseducibile.
—Vi piacerebbe sedurmi?
—Sì, moltissimo—ella esclamò, impetuosamente, con la verità sulle labbra e nel cuore.
Giovanni fu scosso, da questo colpo diretto.
—La cosa è già fatta—egli disse, piano, cercando una via obliqua, per ischermirsi.
—La seduzione passata, Giovanni, non conta—soggiunse subito, la terribile e infelice donna, riportandolo al duello.—Era una pessima seduzione, fatta da una donna perfida e fallace, una seduzione fondata sull'inganno, che partiva dalla malvagità e arrivava alla perversità. Non quella, non quella! Mi sarebbe piaciuto sedurvi, mi piacerebbe sedurvi, con una seduzione nobile e alta, quella della schietta anima femminile, che si dà in tutta la sua naturale bontà, con una seduzione fondata sull'amore, profondo, umile, segreto e pure sgorgante da ogni atto e da ogni parola!
Si era avvicinata a lui, chinata verso lui, parlandogli: e gli parlava con una voce tremante, roca, come egli non aveva mai inteso uscire da quelle labbra. Egli ebbe un atto di smarrimento:
—Tacete, Clara, tacete!
—No, amico mio, non mi fate tacere, non vi ho mai detto nulla, in questo tempo, e ora muoio, se non vi dico tutto….
—Io non posso udirvi….—e cercava sciogliere le sue mani da quelle di lei che le tenevano, nell'affanno dell'emozione, strettissime.
—Sì, sì, potete udirmi, giacchè io nulla debbo dirvi che vi turbi, che vi offenda! Giacchè io non voglio niente da voi, Giovanni, niente! Voi mi avete amata, è vero, nel passato e io sono sacrilega, quando lo nego, ma anche il sacrilegio è una forma della passione, anche il calpestare è una voluttà dell'amore! E ora voi non mi amate più e avete ragione; io sono stata crudele, io sono stata infame, con voi, vengono dei momenti in cui mi faccio orrore, ve lo giuro….
Mentre parlava ella, così, singhiozzava e il suo petto si sollevava, nel singulto. Qualche rara lagrima le usciva dagli occhi e Clara l'asciugava rapidamente, col fazzoletto. Giovanni l'ascoltava, la guardava, stupefatto, incapace di difendersi più, e incapace di sottrarsi al pericolo estremo in cui si trovava.
—Ma, sentite, Giovanni, sentite con pazienza, poichè queste cose mi soffocano, sino a morirne, e le debbo dire, giacchè sono le ultime parole di passione che mi usciranno dalla bocca, in questa vita. Sì, sì, le ultime, poichè io ho trovato in questa mia anima, così maltrattata, così ingiustamente maltrattata da chi non doveva mai farlo, ho trovato una sublime speranza, Giovanni, quella di poter essere un'altra donna, quella di poter amare con un infinito entusiasmo e una infinita devozione, quella di poter essere in una estrema tenerezza, una donna leale, pia, umile, vivente solo per voler bene, così, come una povera creatura ammalata e convalescente si innamora della vita, di nuovo!
—Illusione, illusione—balbettò lui, tentando reagire contro quella esaltazione sentimentale, che gli si comunicava, fatalmente.—Voi non potrete mai far questo, Clara!
—Io posso fare tutto quello che voglio, io lo farò—ella rispose energicamente, altieramente.—Ah ho ben visto, io, in questo tempo, nella mia anima, io vi ho letto come in un libro aperto, io so tutto, io so che una sola cosa può farmi rivivere ed è un affetto schietto e saldo, senza altri interessi morali che l'affetto istesso, senza altro desiderio che dare uno slancio di purezza a quest'anima, senz'altro ideale che la redenzione di uno spirito malato e corrotto.
—Non vi riescirà, non vi riescirà—egli esclamò, in preda a tale un'agitazione e a una confusione, che gli pareva di non aver parlato lui, ma un altro.
—Se questo non mi riesce, io sono perduta, Giovanni—ella soggiunse, cupamente,
—Ma perchè, perduta?
—Perduta, perduta! Questo è l'ultimo anello che mi lega alla vita: se si spezza, cessa la ragione della mia esistenza. Ebbene, io non posso perdermi, Giovanni, io non posso morire, io sono vecchia, perchè ho vissuto troppo, è vero, ma non ho che trentaquattro anni, e sono troppo pochi per rinunziare, per morire! Io non voglio rinunziare, io mi abbranco a questa speranza, essa mi deve aiutare a vivere, io voglio amare così, se no, sono perduta e niuno, niuno può desiderare la perdita e la morte di una creatura come me!
—Ma chi, chi volete amare?—gridò lui, levandosi, volendo fuggire, ma non trovandone la forza.
—Voi—esclamò ella, guardandolo con gli occhi sfolgoranti, con le labbra schiuse che mostravano i bianchi denti minuti, che egli aveva adorato.
—Me? me? E perchè?
—Perchè voi solo ne siete degno—diss'ella, aprendo le braccia, chinando il capo, con un atto di umiltà.
—Clara, io sono uno sciocco, un malato, un infelice, io non merito questo—disse lui, turbatissimo, dando indietro, cercando fuggire.
—Voi siete l'anima più buona e più nobile che io abbia mai incontrata—ella disse, con un accento profondo di amore, che finì di sconvolgere Giovanni.
—Clara, voi avrete con me le maggiori delusioni. Io ho sofferto, io sono stanco, sono vecchio, oh quanto più di voi, così piena di vita, di vivacità! Clara, Clara, se sapeste quanto sono vecchio, e quanto sono stanco, non dareste al mio cuore questa tortura, questa nostalgia….
L'ultima parola era così imprudente! Superbamente, realizzando il suo invincibile bisogno di espiazione, ebbra di sacrificio, folle di sacrificio, ella gridò:
—Che importa? Fosse anche così, così mi piacete: fosse anche peggio, voglio amarvi così!
—È un inutile amore, Clara—egli replicò, tristissimamente.
—Perchè, inutile? L'amore non è mai inutile!
—Inutile, lo vedrete, Clara: io non debbo ingannarvi. Io non vi amo.
—Lo so: non importa—diss'ella, crollando orgogliosamente le spalle.
—Ciò che è fuggito, non ritorna più. Io non posso amarvi di nuovo.
—Non importa—replicò ancora lei, giunta al culmine della superbia e dell'umiltà sentimentale.
—Clara, Clara, questo è un romanzo: io non ho le forze morali per seguirvi in questo romanzo.
—Non importa: camminerò sola. Il mio cuore è saldo, quando l'amore lo regge.
—Oh Clara mia, mia amica buona, voi v'illudete, voi non mi amate punto, voi siete in preda a un accesso di infinita bontà, voi v'ingannate, sul vostro cuore!
—Io vi adoro—ella disse, semplicemente, sorridendo.
—Non è vero.
—Provate—ella soggiunse, subito, con una tal luce nello sguardo, con un tal sorriso di offerta sulle labbra, che il poveretto vacillò.
—Sentite, Clara, io sono il più saggio, fra i due, e invece vi sembro il più scortese e il più crudele. Clara, restiamo amici, non tentiamo la Provvidenza, non prepariamoci un avvenire di amarissime delusioni. Guai, se vi credessi!
—Mi crederete—e sorrise, fiduciosissima di sè e dell'amore.
—Io non vi vedrò più!—gridò lui, sentendo sfuggirgli l'estremo suo lembo di coraggio.
—Perchè, Giovanni? Non mi amate, è vero: ma non è una dolce consuetudine di vedermi, per voi?
—Sì, sì, purtroppo….
—Non mi amate, lo so: ma non sono io, la donna che più avete amata? Non sono io la donna con cui più avete desiderato di vivere, la sola con cui abbiate desiderato di vivere!
—La sola, la sola!
—Ebbene? perchè mi dovreste fuggire? Dite che siete stanco, ammalato, vecchio, e che non mi potete amare? Quale pericolo correte, dunque? Voi avete la gran sicurezza; che temete?
—Nulla…. infatti…. ma dovrò fuggirvi.
—No. Restiamo amici, voi volete così? Restiamoci. Solamente, solamente io non sarò amica, ma innamorata di voi.
—Clara, sarebbe una condizione insopportabile!
—Io sola, la debbo sopportare! Che fa, a voi? Vi amerò così quietamente, così segretamente, che quasi quasi non ve ne accorgerete neppure. Sarete buono con me, ecco tutto: mentre io fui così cattiva!
—Voi, non siete fatta per questo orribile stato di animo, che è l'amore non corrisposto. Voi siete stata sempre una vittoriosa….
—Lasciatemi provare la dolcezza di esser vinta—disse ella tenerissimamente.
—Voi finirete per odiarmi, Clara, io lo so!—e fece un atto di disperazione.
—Ma perchè combattete questa lotta inutile e inefficace, Giovanni, contro me, contro voi stesso? Perchè mi negate il permesso di volervi bene, quando ciò non vi costa nulla e quando ciò può anche piacervi? Perchè rinunziate, quando non vi si domanda altro che di lasciarvi amare, Giovanni? Che vi fa? Perchè dite di no, quando nessuno vi chiede di dir sì? Lasciatevi amare, lasciatevi amare, è una cosa tanto confortante, tanto consolante, credetelo!
Egli non le rispose nulla.
—Vedrete, amico mio, vedrete che questo mio amore, mentre sarà il segreto della mia esistenza, non turberà la vostra. Fidate in me. Io vi saprò amare così bene, che non ne avrete nè preoccupazione, nè noia. Verrete a vedermi, quando vorrete. Io non vi darò le mie ore: vi aspetterò, sempre. Sarò profondamente felice, quando vorrete darmi qualche ora del vostro tempo: e se non vi vedrò, ebbene, non uscirà un lamento dalla mia bocca. Vi scriverò. Mi permetterete di scrivervi, è vero? Le lettere sono uno sfogo così dolce a chi ama: e non turbano colui che non ama. Giovanni, Giovanni, lasciate che io vi ami, non mi togliete questo amore, se vi sono stata cara una volta.
E pian piano, dalla sedia in cui era seduta dirimpetto, gli scivolò inginocchiata, innanzi, levando il volto trasfigurato verso Giovanni Serra. Egli la sollevò, nelle sue braccia, dicendole forte, violentemente come se volesse convincerne sè stesso, mentre la stringeva a sè:
—Io non ti amo…. non ti amo!
—Ne sei certo?—ella chiese, misteriosamente, con la testa sul suo petto, col volto proteso a lui.
—Non lo so—balbettò il poveretto, in un impulso di luminosa verità.
E la baciò, sulle labbra. Tutta la virtù di quel cuore d'uomo, in quel bacio, cadde.
Infelicissimo amore! Immediatamente Giovanni Serra provò il confuso avvilimento della sua caduta e Clara la delusione della sua prepotenza sentimentale. Passata l'ebbrezza singolare e pur triste della grande serata, ella si trovò di fronte a Serra, nella condizione tormentosa e misera, di una donna che ama troppo, che vuole amar troppo e che, sovra tutto, pensa e dice di amar troppo, mentre non è riamata abbastanza. Infelicissimo amore! Giacchè nello speranzoso e baldanzoso animo di Clara, restituito ai consueti trionfi della sua beltà e della sua grazia, tolto dal fittizio ambiente di umiliazione morale, in cui ella si era collocata con amara voluttà di punizione, rimesso nella posizione solita ed orgogliosa di una donna che ha conquistato un uomo o che lo ha riconquistato, in questo animo in cui gli impeti della immaginazione erano il fondamento della passione e dove la vanità si nascondeva sotto le forme più semplici, in questo animo tramontò subito quel purissimo e inaccessibile ideale di un amore che volontariamente rinunzia alla corrispondenza, di un amore che volontariamente invoca di esser dolore e di essere espiazione. L'imperioso cuore che si voleva dare in un immenso sacrificio, privo di premio, ritirò subito la sua offerta, quando negli occhi smarriti di Giovanni Serra vide la follia dell'amore, quando egli si curvò a baciare quelle labbra col trasporto di un uomo che non ha mai finito di amare, che ricomincia ad amare, con la forza di dieci anni di ricordi, accumulata e repressa. Clara passò la notte seguente nella veglia deliziosa, e indescrivibilmente deliziosa di chi ha trovato, nell'amore, quello che cercava, il gran segreto che tutte le anime sentimentali e passionali cercano: un amore eguale al proprio, la corrispondenza perfetta e l'armonia sublime. La vita, infine, aveva dato, con dieci anni di ritardo, è vero, ma con più potenza di concentramento, alla donna innamorata dell'amore, ciò che ella non aveva mai provato, ciò che pochi uomini e poche donne provano sulla terra: un amore schietto e profondo, così sentito e così corrisposto. Immensa delusione: e infelicissimo amore!
Poichè, quando ella rivide Giovanni e guardò nei suoi occhi, ella vi scorse un imbarazzo mortale, una tristezza mortale, come ne nascono nelle pure coscienze di coloro che caddero per una inesplicabile debolezza della volontà. Clara credeva, era certa di vedersi apparire innanzi un uomo felice, ringiovanito, ridato alla forza vincitrice degli ostacoli e ridato agli entusiasmi dell'età più bella: e invece, Giovanni aveva l'aspetto di un uomo che ha errato e che sente amaramente tutto il peso del suo errore. Clara era lieta e dolce, aveva rialzato i suoi capelli in un grosso nodo attraversato dagli spilloni di tartaruga, come dieci anni prima, aveva un vestito chiaro e gaio: e Giovanni la guardava, con certi occhi distratti e stupiti, dove, ogni tanto, si abbassava il velo di una malinconia intensa, dove, ogni tanto, passava la nuvola dello sgomento.
—Come siete gioconda, questa sera!—le disse, come trasognato.
—Perchè ti voglio tanto bene—ella gli rispose, dolcissimamente, prendendogli le mani.
Egli si turbò sempre più.
—Non parliamo di questo, Clara.
—Perchè? Non mi credi? Non mi credi?
Egli tacque. Non le credeva, infatti. Ella intese perfettamente questa sfiducia.
—Che debbo fare, perchè tu creda?
—Nulla, Clara: non fare nulla. Io sono uno sventurato.
—E perchè? Non ti voglio bene, io, malgrado la tua incredulità? Non mi vuoi bene, tu?
—Io!—gridò lui.—No, no, non ti amo!
—E che mi hai detto ieri sera, allora? Hai mentito? Sei diventato bugiardo, ora? Non eri bugiardo, prima.
Giovanni Serra non rispose. Era così pallido, così disfatto ed evitava tanto di guardarla!
—Amore mio, amore mio—ella riprese, tenerissimamente, carezzandogli una mano—non tormentarti, te ne prego. Non ti dico nulla, non ti domando nulla: la mia voce e le mie parole ti agitano, lo vedo. Lascia ch'io stia vicino a te, così, in silenzio.
Era, difatti, seduta accanto a lui, sul divano, e gli aveva passato un braccio sotto il braccio; aveva appoggiata lievemente la testa sulla sua spalla. Un lungo silenzio: ma ella, a occhi bassi, sentiva che il respiro di Giovanni diventava affannoso. Allora, pian piano, levò gli occhi, lo guardò, gli mormorò:
—Mi vuoi bene?
Una così grande espressione di dolore, negli occhi di quell'uomo! Ella tacque, ancora un poco, legata a lui, cheta, respirando appena: poi le parve che egli le sfiorasse con le labbra i capelli:
—Mi vuoi bene, amore?—chiese, sorridendo nel fondo del cuore.
Giovanni sospirò profondamente e rispose:
—No.
Attraversata da un impeto d'ira, ella si staccò bruscamente da lui, si levò, esclamando:
—Sei cattivo e scortese.
Una scena dolorosa avvenne fra loro, dove tutta la violenza e tutta la natural tenerezza del cuore di Clara—tenerezza repressa nel periodo d'isolamento in cui era stata—sgorgarono in parole precipitose, ardenti, innamorate e pure ingiurianti: e dove tutta la mitezza e tutto il profondo scetticismo di Giovanni si manifestarono, più dolci e più freddi, pieni delle grandi timidità di chi, avendo amato invano per tanto tempo, ha oramai una paura invincibile di amare. Due o tre volte, durante questa penosissima scena, ella lo offese in un modo crudele, poichè era avvezza a calpestare i cuori che adorava, per poi adorarli più profondamente, dopo; ed egli sentì l'offesa, con un amaro piacere, giacchè essa lo autorizzava non a reagire, ma ad andarsene, per non ritornare mai più. Questo, questo, era il suo intimo desiderio, innanzi a quella donna che lo affascinava e che lo terrorizzava coi tumulti strani della sua fantasia, con le singolarità di un temperamento fuggevole e pericoloso, con l'impensato di un'anima, nella quale la inconscienza assumeva degli aspetti terribili e dolcissimi. Nel momento in cui ella più gravemente lo ingiuriò, egli pensò che era giunta la salvazione per lui, se partiva. Ma quando ella lo vide arrivato alla soglia, quando intese che lo perdeva, così, miseramente, irrimediabilmente, lo chiamò con una voce così spezzata dal pianto, che egli si volse, venne a lei. Clara piangeva, Piangeva! Mai l'aveva vista piangere, Credeva che non potesse piangere, tanto il gran riso clamoroso, e il riso breve, e il sorriso, e il sogghigno le eran particolari. Clara piangeva, soffocando dai singhiozzi, con un lamento che le usciva dalle labbra, continuo. Il cuore di quell'uomo buono s'infranse, ed egli intese sul suo petto quel povero corpo femminile scosso dai singulti, ed essa intese da quella voce tremante e fievole la parola d'amore, strappata dall'essenza di quell'anima, dolorosamente.
Tali furono, sempre, le amarissime vittorie di Clara; e procedendo oltre, il combattimento fu diversamente aspro, con forze maggiori o minori dall'una parte e dall'altra, ma concedenti sempre il più triste dei trionfi al soldato più energico e più ardente, più abituato alla guerra dell'amore, più multiplo nelle sue risorse di attacco e di difesa. Giacchè appena Giovanni Serra si allontanava da Clara, dalla sua casa, dal cerchio magico in cui ella lo rinserrava, rinasceva in lui il desiderio della fuga ultima, della liberazione. Quando ella non era presente ed egli non ne vedeva le grazie delicate, e la novissima incantatrice dolcezza, e tutta la seduzione muliebre potente, Clara gli appariva come l'aveva sempre considerata, da dieci anni: una donna attraente, perfida e fallace, a cui egli aveva gittato inutilmente il suo cuore e per la quale aveva perduto ogni fede in sè stesso e nella vita. La figura di una creatura quasi mostruosa, senza pietà femminile, senza alito di sentimento nell'anima, senza coscienza pel bene, come pel male, formatasi in dieci anni nel suo spirito, lo signoreggiava, di nuovo, con novello impulso di ribrezzo, di orrore. Mutata, forse? Forse. Ella era capace di tutto, anche di vestire l'aspetto della maggior tenerezza della maggiore nobiltà spirituale, e di essere, forse, tenera e nobile veramente, per un certo tempo per ordine della propria volontà, sino a che la natura sopita si risvegliasse, e l'onda della perfidia e della menzogna trasportasse via il bel sogno di bontà e di dolcezza. Mutata? E che, perciò? Anch'egli s'era mutato purtroppo, e dove la lava incandescente della passione aveva gorgogliato, schiumando, del fuoco, si stendeva il lapillo grigio e freddo delle devastazioni vulcaniche: dove aveva vissuto la fede nell'anima umana e nella sua purezza, vi era il gelo di un dubbio tranquillo e non più torturante: dove avevano balzato di gioia e di voluttà gli entusiasmi giovanili, vi era l'inazione e l'aridità. La lealtà, il rispetto, la bontà virile rimanevano intatte in quell'uomo che aveva avuto in dono, nella giovinezza, le qualità più nobili dello spirito: ma ciò che restava, non bastava all'amore. Una parte di quel cuore, era veramente finita. E tutta la sensibilità che ancor viveva in lui, fremeva di sgomento all'idea di essere stato ripreso da quel fascino; non si sentiva più la forza morale per quelle lotte e il risultato non gli sembrava più la sua grande ambizione. Così, di lontano, egli formava sempre il disegno di non vedere mai più Clara. Ella gli scriveva delle lettere lunghe e bizzarre, con un'incoerenza sentimentale che sarebbe stata molto interessante e molto seducente per un uomo più giovane e più vivace, meno provato dai dolori della vita, ma che gli produceva un senso di ripulsa, di maggior distacco: non rispondeva alle lettere. Ella gli mandava degli appuntamenti; Giovanni vi mancava, due o tre volte. Perchè, alla quarta volta, egli non resisteva più e vi andava, riluttante, pieno di tutte le incertezze? Egli non se lo spiegava: e nella sua timida immaginazione, il fascino di Clara assumeva un aspetto onnipossente; Giovanni aveva bisogno di credere a un potere ascoso, rarissimo, unico, per spiegare la mollezza della sua volontà. Perchè, tante volte, quando egli andava da lei, ben deciso, ben risoluto, a dichiararle che quell'amore così povero di gioie, così dubbio, così squilibrato non aveva ragione di essere e di durare, perchè Giovanni, innanzi al bel volto tranquillo e sorridente di Clara, a quelle mani che gli si tendevano affettuosamente, al suono di quella voce che ella rendeva così insinuante, per lui, perchè egli non diceva più niente, lasciandosi andare alla corrente di quel sentimento, illuso per un poco, credendo di essere amato, credendo di amare? Perchè, nelle loro grandi scene, scoppiate improvvisamente, egli aveva provato a proclamare la sua libertà, la sua indifferenza, sempre più duramente, meravigliandosi anzi talvolta della propria durezza, ed era riescito soltanto ad esasperare Clara; ma non aveva svincolato il proprio cuore? Perchè, mentre egli era dei due quello che meno pensava d'amare, che meno diceva d'amare, che non scriveva, che rinunziava ai convegni, perchè, poi, era lui quello che più cedeva, che più si dava, che più rientrava in servitù, con ritorni di affetto che costituivano le pochissime soavità di quell'amore? Perchè, una volta, quando stettero quindici giorni senza vedersi ed ella continuava a scrivergli, egli non ebbe la forza di non aprire, come aveva dichiarato, le sue lettere? E una sera, ella passava, sola, triste, pallida, per una via, rientrando nella sua casa deserta con aspetto di tale abbattimento ed infelicità, che Giovanni, vedendola innanzi a sè, non visto da lei, provò uno schianto indicibile. Ritornò a lei, subito, senza che lo avesse chiamato: e Clara stessa si stupì di questo ritorno inatteso, mentre il suo cuore si era immerso già nell'amarezza dell'abbandono. E ingenuamente, puerilmente, Giovanni non sapendo come spiegarsi la sua debolezza e la sua disfatta, pensava a qualche cosa d'insolitamente affascinante, e diceva, come un bimbo:
—È una strega.
Ma per colei che misteriosamente lo riconduceva a sè, ogni volta, questi trionfi erano un tossico. Fermentavano dentro il suo spirito indomito le ribellioni più profonde contro questo stato di lotta che avviliva l'idea ch'ella si era fatta di quell'amore e che la mortificava in tutte le sue vanità muliebri. Ella, infine, lo amava, è vero, come poteva e come sapeva, con un senso immensamente egoistico che aveva sempre dominato in quell'anima: lo amava, perchè le faceva piacere di amare, perchè il suo stato migliore era l'amore, perchè ella non sentiva la vita che quando era innamorata: l'amava perchè così aveva voluto ed ora la sua volontà era più forte di lei. Ciò che la sconvolgeva, era di non sentirsi amata abbastanza, mentre ella sapeva di dare a Giovanni il meglio che restava di lei: ciò che la esasperava, era questa battaglia quotidiana che ella sosteneva, per conservare, se non l'amore, la larva di amore che le portava quest'uomo: ciò che la faceva delirare di collera, segretamente, era di avere ancora sbagliato, anche in quest'ultima volta e di non potere in nessun modo metter rimedio al suo errore. Per il passato, coloro che l'avevano amata, erano stati tipi soliti, comuni, non più buoni e non più cattivi di qualunque altro uomo, in modo che il mondo psicologico di Clara non aveva avuto sviluppo che nelle ombre della sua anima, assai più grande e assai più complessa di quelle che ella aveva avuto ai suoi piedi. Ella aveva sofferto per loro, non già per le complicazioni sentimentali, ma perchè questi due o tre erano esseri limitati, non meschini, ma limitati, a cui ella aveva creato una luminosa e inesistente aureola. Aveva sofferto di non essere amata abbastanza, disprezzando coloro cui mancava la potenza spirituale, rimpiangendo sempre Giovanni, Giovanni, ch'ella aveva disdegnato e di cui si rammentava la violenza giovanile di passione: e lentamente, nella sua coscienza, si era formato il criterio che solo Giovanni l'avesse amata e che solo lui, così profondo, così intimo, così squisito, avrebbe potuto amarla come ella desiderava. Gli altri, erano, infine, poveri diavoli, ai quali ella aveva dato il manto di porpora della sua immaginazione e uno scettro d'oro, sotto cui ella medesima si era curvata; ma l'anima bella per sè, grande per sè, unica nella tenerezza come unica nella passione, era quella di Giovanni. Ella aveva creduto a una fatalità del destino quando, finendo la sua giovinezza, prima del tramonto, s'erano incontrati nuovamente ed egli le aveva parlato dell'amore passato. E in lei si erano dileguate le profonde stanchezze, mentre più vivo, più forte rinasceva il desiderio di amare eccezionalmente, di essere eccezionalmente amata. Ella si rammentava un Giovanni Serra tutto pieno di un ingenuo e vibrante ardor giovanile, che faceva dell'amore non un breve episodio, come tutti gli altri, ma il grande affare dei suoi giorni e delle sue notti, che dava all'amore un tesoro di intima mestizia e di gioie delicate, che portava l'immagine dell'amata come la sola visione degna della sua fantasia, e che ne pronunziava il nome con una emozione vivissima e candidamente mal repressa. Aveva creduto, quando egli le narrava i suoi dolori passati con sì grande senso di amarezza, che egli fosse sempre il medesimo: e che era giusto e umano l'amarlo; e che era una voluttà dolorosa l'amarlo senza conforto; e che, infine, infine, egli l'amasse ancora, malgrado i tentativi di fuga, malgrado i dinieghi, malgrado i terrori che gli si dipingevano sul volto, malgrado che egli restasse freddo e confuso, nelle ore più calde, in cui ella più si abbandonava a questa estrema passione. E dall'antico concetto e dal novissimo errore suo, ella traeva un veleno interno di delusione, un seguito di sconfitte inavvertite da lui, ma di cui ella provava il colpo nel fondo dell'anima, un ricadere continuamente sulle proprie speranze e un soffrire per tutte le parti, dall'amore all'amor proprio, dalla delicatezza all'orgoglio, dalla sensibilità femminile bonaria alla sensibilità femminile maligna. Come si torturava ella, per un ritardo di un'ora, per una parola detta con troppa disinvoltura, per unvoiapparso improvvisamente nel più intimo discorso: e il suo umore si cangiava, per la sottile ferita ricevuta, ed egli, che non sapeva di aver ferito, si stupiva del cangiamento, e arretrandosi, pallido, come se avesse visto un fantasma, le diceva la tetra e monotona frase:
—Voi siete sempre la stessa.
Sì, Clara era sempre la stessa, con un carattere mobile e pure ostinato, con una energia breve e caduca, con un disprezzo intimo e cordiale di sè, con un egoismo a cui dava le forme nobili dell'amore, con un desiderio di vivere e di godere che non si saziava mai; e su tutto questo fondo stravagante, e spesso perfido, e spesso capace dei più alti sagrificii, il ricordo di una vita vissuta mediocremente, il ricordo di sciocchi errori e di delusioni meschine. Era sempre la stessa, lei, ma da tutti i pianti versati nella solitudine della sua casa, da tutte le angoscie soffocate sotto la sua maschera di donna mondana, da quell'abbandono in cui aveva passato un anno, le era venuta innanzi alla mente la grande verità, che tutti i calcoli dell'egoismo sono sempre sbagliati, e che bisogna vivere per gli altri, per poter essere felici. Non era fatta per questo, la sua natura capricciosa ed esaltata: ma la sua volontà le imponeva di assuefarsi alla più semplice verità umana, che è la felicità altrui: ed ella giungeva con uno sforzo supremo là dove altre creature arrivano naturalmente e la sua bontà calma, la sua dolcezza ragionata, la sua serenità esteriore avevano, forse, maggior merito, poichè ella affogava in esse tutto il clamore di un'anima ribelle. Soffriva profondamente, perchè non era amata abbastanza, perchè non era neppure certa di essere amata: dentro le vene ardeva il sangue per collere improvvise: cento volte ella sentiva la tentazione di scacciare Giovanni da sè, di non vederlo mai più. Ma il pensiero che egli, veramente, la credesse ancora una perfida femmina, capace del male per la voluttà del male, ma l'idea di desolare ancora Giovanni, con una catastrofe spirituale, tale che per sempre ne restasse violata la sua memoria, la rigettavano nell'amore e nel sacrificio.
E più il suo spirito spasimava per la battaglia che sosteneva, più ella prodigava a Giovanni Serra i tesori della più squisita affezione. Egli, talvolta, ne restava avvilito. Ora, non le diceva più di non crederle; nè, d'altra parte, la fiducia nasceva in lui, bensì uno stupore malinconico. Quando ella gli dava qualche novella pruova, non chiesta, di amore, egli restava confuso e rammaricato:
—Io non merito questo, Clara. Tu esageri sempre: e che sarà il nostro avvenire, così?
—Io ti amerò sempre egualmente—diceva ella, esaltata.
—Quante volte l'hai detta la parolasempre?
—Ah tu sei crudele!—esclamava lei, abbassando il capo per nascondere il suo pallore.
Sì, quell'onest'uomo, quell'uomo onesto e buono era spesso crudele, con lei. Non s'accorgeva di colpirla, così duramente: o non la credeva sensibile: o credeva che fosse necessario di colpirla, per guarirla da questo morbo spirituale che la teneva. Certi giorni, dopo un'assenza di una settimana, le appariva innanzi quietissimo, avendo l'aria di non vedere che ella era disfatta dall'attesa, non dando nessuna scusa alla sua mancanza. Un dialogo freddo si stabiliva fra loro due: le labbra di lei fremevano leggiermente, perchè reprimevano lo sdegno: egli non capiva ciò e dopo un'ora trascorsa, così, in uno strazio fine e pur terribile, egli si levava per andarsene:
—Vieni domani?—ella diceva, a occhi bassi, pallida come uno spettro,
—Non so.
—Dopodomani, allora?
—Non ti saprei dire: ho delle faccende noiose da sbrigare.
—Ah!—diceva lei, senz'altro, sentendosi morire.
—Ti scriverò, quando posso venire.
—Va bene.
E lentamente lo seguiva, mentre si avviava alla porta: gli porgeva una mano gelida ed immota. Talvolta, egli le chiedeva:
—Che hai?
—Nulla—ella rispondeva con voce così mutata che egli avrebbe dovuto capire. Ma, temendo una scena, egli se ne andava, senz'altro. Come ella correva nella sua stanza, gittandosi sul letto, mordendo i cuscini, ingiuriando la freddezza di Giovanni, imprecando alla propria viltà, esalando tutta l'ira della sua delusione, soffocando le grida del suo cuore che insorgeva contro un dolore così atroce! La crisi durava una notte intiera: ella si addormentava all'alba, con gli occhi rossi di lacrime, con il petto ancora esalante sospiri. Egli non sapeva nulla di ciò. Ella temeva che Giovanni la fuggisse per sempre, se diventava troppo insistente e troppo noiosa. L'altiera donna era giunta a credersi una seccatrice. Pure, qualche sera, quando più l'onesto e buon'uomo era stato crudele, ella sentiva cadere le forze della sua rassegnazione. Allora gli appariva infelice, così accasciata, così perduta in un abisso di delusioni, che l'oscuro mistero della sua tenerezza per Clara, si svelava. Una volta, egli era andato via. Appena fuori, sulle scale, egli intese, dietro la porta ancora chiusa, un tale scoppio di singhiozzi che tornò indietro, bussò e la trovò smarrita, incapace di affogare i suoi lamenti, incapace di dominarsi più. Qual notte! Egli le parlava ed ella, perduta in un oceano di amarezza, non gli rispondeva, mentre, come se fosse sola, si raccomandava alla Madonna ed ai santi, perchè la liberassero da quelle torture. Egli le prendeva le mani, ma ella le ritraeva, come inorridita, convulsa, per rivolgerle al cielo, per chiedere la pace, la pace, niente altro: egli cercava di abbracciarla, ma quel corpo fremente gli sfuggiva; essa passava da un divano all'altro, camminava al buio, per le altre stanze, parlando sola, gemendo, tutto il suo male, gemendo di dover amare così, gemendo di essere così poco amata. Notte fatale, invero: giacchè fu allora soltanto ch'egli capì tutta la gravità del loro caso: giacchè fu in quella scena di lacrime, di convulsioni, in cui ella pareva avesse dimenticata persino la sua presenza, che egli le parlò, per una volta, come dieci anni prima, come un innamorato, come un amante. Egli s'inginocchiò innanzi a lei e le chiese perdono della sua condotta, e la pregò che avesse pietà di lui; la scongiurò di credergli, quando le diceva che nessun essere le era devoto come il suo, e di compatirlo se egli non sapeva amarla, se egli non sapeva ritrovare in un'anima stanca, malata, vecchia, gli accenti e gli entusiasmi dell'amore; che per quanto egli poteva amare, l'amava; che era poco, sì, era poco, per una donna appassionata come lei; che ella meritava un miglior innamorato, un miglior amante; ma che lui non poteva amar meglio, ma che egli le aveva dato tutto, dieci anni prima, e che quella devastazione era opera sua. Mentre ella, sfinita, esausta, si passava ancora sugli occhi aridi il fazzoletto bagnato di lacrime, Giovanni, ai suoi piedi, le narrava ancora la sua miseria sentimentale presente, la sua morbosa sensibilità che aveva paura dell'amore, la sua impotenza spirituale, tutta la rovina irreparabile che gli impediva di esser per lei il perfetto innamorato, il perfetto amante. Alle sue ginocchia, in una evocazione straziante, di quello che era stato il suo passato d'amore e nello strazio della presente realtà, egli versò poche, cocenti lacrime, le più dolorose che avesse versate mai. Smorta, con gli occhi spalancati su lui, reggendosi la testa con le mani, ella che aveva gridato tutta la sua desolazione, udiva ora le parole di una ben diversa miseria, di un disfacimento umano assai più tragico del suo; e mentre l'alba faceva il cielo di un freddissimo biancoverdino, i due amanti si guardarono, presi da una pietà immensa, per sè stessi, e sentendo che nessuno dei due poteva consolare, giammai, giammai l'altro.
Ella, folle oramai di sacrificio, fu dimentica di sè, e si rassegnò a una forma qualsiasi dell'amore, purchè Giovanni non l'abbandonasse. Rinunziava alla passione, chiudendo gli occhi: ella che adorava solo la passione! L'amasse Giovanni, come voleva, come poteva, quando voleva: purchè quel residuo di tenerezza fosse suo! Oramai ella diventava simile ai malati che, giorno per giorno, vanno rinunziando alle dolcezze che godono i sani e fanno un ragionamento malinconico a ogni rinunzia. Diceva, ella:
—Tu, che non mi scrivi mai….
E se egli annuiva, ella frenava il suo spasimo. Giovanni, un tempo, le aveva troppo scritto: adesso non ne aveva più la forza. Altre volte diceva:
—Tu non vieni; è vero, domani sera?
Ed era perchè soffriva troppo, a udirlo dire da lui che non sarebbe venuto. Parlando dell'amore, ella soggiungeva, con un debole sorriso:
—Tu che mi vuoi bene così poco….
E lo sogguardava, ansiosamente, per osservare anche l'espressione più fugace. Egli sorrideva, acconsentendo al fatto di amarla poco: Clara indietreggiava, disperata internamente della pruova. Qualche volta, bonariamente, ella gli tendeva un tranello:
—Perchè mi ami così poco? Io ti voglio troppo bene.
—Perchè non posso di più.
—Non puoi, non puoi? Tenta.
—Oh no!—esclamava, con un tono di stanchezza, di sfiducia, di paura.
—Io ti amo troppo—ella diceva, affogando di dolore, ma non mostrandolo.
—È ciò che mi trafigge. Io sono un indegno, Clara.
—E se non ti amassi più?
Giovanni impallidiva e taceva. Quel pallore, la rincorava.
—Se non ti amassi più, di'?
—Mi rassegnerei malinconicamente. Sono stato un grande sventurato, sempre.
—Ti rassegneresti?—e fremeva, ella.
—Mi rassegnerei.
—Mi riesce impossibile di non amarti, Giovanni!—ella esclamava.
—Se tu volessi, ti sarebbe facile. Credimi, non ti ho meritata prima: non ti merito adesso. Era destino!
—Parliamo d'altro—diceva lei, brevemente, vinta.
Ma si rinnovava ogni giorno, ogni sera, il duello, sopra una ben semplice frase così cara a tutti gli amanti. Quando ella era di umore più lieto, gli diceva:
—Già, non ti domando se mi vuoi bene. Sarebbe inutile.
—Sarebbe inutile—mormorava lui, sorridendo, cercando di scherzare.
—Non mi ami affatto?—e la voce lievemente le tremava.
—Affatto.
Clara taceva, incapace di scherzare più.
—Che hai?—chiedeva Giovanni.
—Nulla.
—Nulla? Ti ho rattristata?
—Un poco.
—Sono un infelice—diceva Giovanni, così schiettamente addolorato, che Clara non osava proseguire la discussione.
Ma, talvolta, la domanda era diretta:
—Mi vuoi bene?
E se lui era tranquillo, senza fremiti nella sua sensibilità, le rispondeva:
—Tu lo sai.
—Non so nulla. Ripeti un poco,
—Quante volte lo vuoi sentire, Clara!
—Gli è che non lo dici mai, mai, mai!
—A che serve?
—Mi serve: mi serve immensamente. Te ne prego, Giovanni, Giovanni mio, mio amore, dimmi se mi vuoi bene!
—Ti voglio bene—diceva lui, a occhi bassi, quasi per forza.
—Quanto?
—Quanto posso.
—E poco, è vero, è poco?
—Perchè mi ricordi che sono un poverello, in fatto di amore? Perchè mi rinfacci la mia miseria? Perchè mi rimproveri se non ho più lena, se non ho più una scintilla di entusiasmo? Clara, Clara, tu mi uccidi, così!
—Perdonami—diceva lei, scivolandogli inginocchiata innanzi, con un moto che le era familiare.
—Io non debbo vederti più—diceva lui, come se parlasse a sè stesso.
Oppure, la frase cara agli amanti riappariva in altri modi tormentosi. Talvolta, dopo un lungo silenzio, vagamente, distrattamente, come per un moto delle labbra, ella chiedeva:
—Mi vuoi bene?
Giovanni non rispondeva. Immediatamente, ella diventava trepida e ansante:
—Giovanni, mi vuoi bene?
Allora egli usciva dalle sue riflessioni e vagamente, distrattamente, diceva:
—No.
—Giovanni?
—Clara!
—Hai detto che non mi ami?
—L'ho detto.
—Ed è vero?
—È vero.
Silenziosamente, ella curvava il capo, e le lacrime le discendevano sulle guancie. Giovanni la guardava, desolato: poi, le andava vicino, le carezzava una mano, le baciava le guancie bagnate di lacrime.
—Ho scherzato—diceva.
—Tu non ischerzi mai.
—Ho scherzato.
Tutto finiva, così: ma le lacrime erano state versate. E infine, sulla frase cara agli amanti, avveniva ancora questo:
—Tu non mi chiedi mai, Giovanni, se ti voglio bene!
—Perchè chiedertelo?
—Non ti piace saperlo?
—No, non mi piace.
—Ti tormenta, il mio amore?
—Sì, mi tormenta tanto.
—Ma perchè, ma perchè?
—Perchè mi hai amato troppo tardi—esclamava lui, per la centesima volta;—perchè io non sono più il giovanotto appassionato di dieci anni fa, ma un uomo arido e stanco, senza speranze e senza desiderii! È tardi, è tardi, Clara.
—Mai tardi, per l'amore.
—Siamo vecchi, Clara: il nostro sole tramonta.
—Dio mi salvi dalla notte—ella mormorava, avvilita, senza più energia.
Vi fu un giorno, però, in cui tutte le ombre malinconiche, e le incertezze, e i timori parvero dileguati. Era nella calda estate ed ella era andata ad Albano, sui colli, per fuggire l'aria soffocante di Roma. Colà, lo aspettava pazientemente, per giornate intiere, ma egli, pur promettendo di venire a trovarla, pur scrivendole, non veniva mai. Per tre o quattro volte ella era andata alla stazione, inutilmente. Una grandissima tristezza adesso opprimeva la donna superba; giacchè le pesava sulle spalle tutto l'irreparabile del suo errore sentimentale. Volontariamente ella si era ingolfata in questo amore; con ostinazione di passione ella ne aveva abbracciata la croce; la sua fantasia l'aveva spinta ai più duri sacrificii; e adesso erano impegnati il suo cuore e il suo onore. Stando sola, nella freschezza dei colli albani, ella approfondiva l'immensità del suo ultimo fallo e quel verde riposato tutt'intorno, e quella serenità la crucciavano. Infine, un giorno egli giunse, quasi inaspettato. Era così lieto! Le disse, subito che non era venuto, ma che aveva sofferto molto, a non venire: che l'aveva molto amata, nella sua assenza: e le domandò, se ella lo amasse ancora. Così lieto! Ella diventò lietissima. Andarono, insieme, sotto l'ombrellino di Clara, a una lunga passeggiata, a braccetto, a traverso i sentieri di campagna, fra i prati fioriti. Clara aveva un vestito di seta leggiera, di un bianco avorio: e un gran cappello di merletto avorio come una cuffia. Pareva molto più giovane e così delicata che egli la chiamò, ridendo:Madame la marquise. Ella era raggiante. Si sedettero sull'erba, all'ombra di un elce secolare, famoso in quelle campagne, e le loro anime furono così assolutamente e perfettamente armoniose, in quella solinga e serena campagna, che essi si guardavano e indovinavano l'un l'altro i pensieri. Si dispersero, due volte, per la via, ridendo, scherzando, baciandosi, dietro l'ombrello abbassato di Clara: eMadame la marquisearrossiva finemente di gioia, sotto l'ombra bianca del suo grande cappello. Non un motto del passato: non un pensiero del domani: non un velo di amarezza, mai. Egli aveva l'aria di un fanciullo; strappò dei fiori di campo, odorosissimi, ne fece un gran fascio, lo portarono all'albergo in trionfo. Là pranzarono soli, soli, in un angolo della stanza da pranzo, guardandosi negli occhi, sorridendosi, toccandosi le mani nel porgersi un bicchiere, un piatto, ebbri di una gioia di vivere che li faceva impallidire di piacere. Andarono sulla terrazza dell'albergo, soli sempre, tenendosi per mano, tacendo, dicendosi nello sguardo innamorato quelle cose profonde e intime, che l'amore pensa e non dice. Ogni tanto, ella chiedeva:
—Mi vuoi bene?
—Sì—rispondeva lui, semplicemente, senza reticenze.
—Quanto?
—Molto.
—Io ti adoro—ella concludeva, arrossendo.
Alla sera, ella lo ricondusse alla stazione, attaccata al suo braccio, innamoratissima di lui, mentre lui non sapeva staccare lo sguardo da quei cari occhi: si baciarono nella penombra della stazione, senza pensare a chi li guardava. Il treno si mosse, ella restava a guardare e lui si sporgeva dallo sportello, salutando.
Ella gli scrisse, nei giorni successivi, otto o dieci lettere, folli: egli non rispose. Aveva giurato di ritornare: non ritornò. Ella ripartì per Roma, prima che la villeggiatura finisse.
Vestita di bianco, con un leggiero scialletto di crespo bianco sulle spalle, Clara, in quelle ultime lunghe sere di estate, aspettava Giovanni al balcone. Prima, la solinga donna leggeva un poco, si aggirava come un fantasma per la casa deserta; poi, verso le nove, approssimandosi l'ora dell'arrivo, ella esciva sul balcone, interrogando le penombre di via del Babuino. Malgrado che l'afa di quella fine d'agosto togliesse la gente alle case soffocanti e la spingesse per le vie, in cerca di un fantastico fresco, via del Babuino era spopolata. È lontana dal centro: ed è via di forestieri, che la popolano solo nell'inverno. Pochissima gente l'attraversava; avanzandosi la sera, non più un viandante. Clara guardava l'alto della strada, verso piazza di Spagna, donde giungeva sempre Giovanni, quando giungeva: e appena una persona svoltava l'angolo, essa si piegava sui ferri, cercando distinguere l'alta figura e il passo un po' lento, a lei così noti. L'ora serotina si svolgeva, calda, spesso attraversata da un molle soffio sciroccale; Giovanni non compariva. Affaticata dallo stare in piedi, ella si sedeva sovra uno sgabello di legno, che era fuori sul balcone; appoggiava la testa ai ferri, in atto di pazienza e di riposo; talvolta, un lieve sonno la coglieva; alle undici e mezzo, che ella sentiva suonare a Santa Maria del Popolo, si levava, rientrava, poichè Giovanni non sarebbe venuto più. Un brivido di freddo la coglieva, in casa: e si accostava alla sua scrivania, per scrivergli un biglietto, una lettera, lagnandosi che egli avesse ancora mancato alla promessa. Ma, sedutasi, si rialzava subito: a che lagnarsi? Su sette sere della settimana, egli mancava cinque: e la lasciava, così, in una interminabile aspettativa, fuori su quel balcone, in una solitudine e in una malinconia grande, sapendo benissimo che ella lo aspettava ogni sera e che era sola, solissima. Adesso, ella non si lagnava più, giacchè le scene la stancavano e la impaurivano, perduta di energia, precipitata e giacente nella inazione spirituale di chi ha troppo amato inutilmente: e non lamentandosi lei, egli non si scusava neppure e aveva l'aria di non rammentarsi che ella non esciva, non vedeva nessuno, per lui soltanto. Oramai, Clara non aveva più quelle crisi di violenza, in cui malediceva l'aridità del cuore di Giovanni e la viltà del proprio cuore che non sapeva infrangere un legame così fittizio e così torturante: ella era in preda a quelle sonnolenti rassegnazioni, che abbattono tutte le persone di carattere impetuoso, dopo un periodo di passione. Sul viso altiero di Clara, dove sempre aveva brillato il sorriso trionfale della donna padrona del proprio destino, ora sedeva l'espressione stanca e paziente della vittima. Quando Giovanni le riappariva innanzi, ella sorrideva tenuemente, gli si sedeva accanto, ma non troppo vicino, non gli faceva un rimprovero, gli parlava a voce bassa, senza ridere mai. Egli la guardava curiosamente: scrutava tutte le impressioni di quel volto mobile, di quegli occhi vivacissimi, e scorgendovi come disteso un velo d'inesorabile e quieta tristezza, crollava il capo, senza dire nulla. Egli stesso era profondamente triste. Forse, s'imponeva di non andare da Clara, più spesso. Forse, per una singolare contraddizione del suo spirito, quell'aspetto di vittima, quel silenzio, quella mancanza di sorriso, lo tormentavano più di una scena furiosa. Nel settembre, egli partì per Napoli, senz'avvertirla neanche; ella gli scrisse, tre o quattro volte, delle lettere pacate, ma senza rampogna; delle lettere dove tutto il fuoco dell'anima di Clara parea fosse stato smorzato dalle lacrime. Ritornò, Giovanni, dopo dieci giorni: ed ella non gli fece nessuna interrogazione, fredda e tenera, fredda e triste, fredda e oppressa da una fatica morale che le traluceva, torbidamente, dagli occhi.
—Che hai? Che hai?—le chiese lui, quel giorno, con ansietà, andando volontariamente incontro a una spiegazione.
—Sono stanca—ella disse, chinando gli occhi.
—Di me?
Ella esitò, un minuto. Disse:
—No.
—Finirai per odiarmi, io lo aveva preveduto—egli soggiunse, desolatamente.
—E perchè, Giovanni? Tu non hai nessuna colpa.
—E tu neanche, poveretta!—replicò lui, prendendole le mani.
Ella si svincolò, dolcemente e freddamente.
—Oh io, sì!—e un vero accento di convinzione, la dichiarava colpevole di quel malinconico ultimo peccato, pieno di tante delusioni.
—La colpa è delle cose, è degli anni, è della fatalità—egli spiegò.
—La fatalità è la scusa dei deboli e degli sciocchi—diss'ella brevemente.—Io ho voluto che questo fosse; la colpa è mia.
—Poveretta, poveretta!—mormorò lui, con voce di pianto.
—Mi sono ingannata, anche questa volta—ella replicò, con una freddezza di ghiaccio.
L'accenno agli amori passati, il primo che ella facesse durante un anno e mezzo di relazione con lui, la comunanza del suo amore con gli altri, nella mente di Clara, gli fece una impressione pessima.
—Io non ti ho ingannata—esclamò lui offeso, contristatissimo.
—Chi sa!—ella disse.—Hai creduto di dirmi la verità: ma quando è che l'hai detta?
—Mai, mai ti ho ingannata!
—Eppure un giorno mi dicevi d'amarmi e un giorno lo negavi. Quando è che mentivi?
—Mai, mai, Clara!
—Vedi bene che tu stesso ignori la verità. Tu non sai niente!
—So che soffro, ecco tutto.