A un tratto, nel cuore innamorato di Adele Cima, e battuto e mortificato dal sentimento di non essere una donna degna dell'amore di Paolo Spada, surse una volontà improvvisa, che si maturò nell'ombra e nel silenzio, che fu covata e si schiuse al calore della passione, di cui ella ardeva per il grand'uomo. Ella si decise, così, senz'altro, a diventare una donna intelligente e colta; perchè, almeno, non tutto il mondo dove l'artista viveva le fosse vietato; perchè ella, almeno, potesse seguirlo in un discorso, in una divagazione, perchè ella non restasse più sola e abbandonata ad amarlo, mentre egli se ne andava negli orizzonti dei sogni e delle visioni a cui ella, misera, non partecipava. Ella concepì questo audace disegno nelle ore di solitudine e anche d'infinita mestizia in cui cadeva, quando Paolo Spada lavorava e si scordava assolutamente di lei: ella accarezzò entusiasticamente il suo disegno, nel tempo in cui maggiormente l'esistenza con Paolo le diventava grave e tormentosa, sentendovisi come una povera creatura perduta e senza guida; ella ostinatamente studiò questo disegno, quanto più amara e più insopportabile le pareva la sua inferiorità. Non disse nulla a Paolo. Era taciturna, sempre: e non avendo mai trovato modo di raccontargli la sua lunga miseria, la miseria della sua stupidaggine e della sua ignoranza, non volle neppure rivelargli il rimedio che il suo cuore aveva trovato o credeva di aver trovato. Con l'eroismo muto dei cuori che sanno amare e amare soltanto, ma che dall'amore traggono ogni coraggio e ogni luce, ella si accinse allo scopo, sebbene lo sentisse arduo, lontano, forse inaccessibile.
La prima cosa che ella tentò, per aprire la sua intelligenza, fu la lettura dei libri di Paolo Spada. Dopo pranzo, quando egli, fumate nervosamente quattro o cinque sigarette, si levava come mosso da un impulso automatico, per sedersi a scrivere, ella si levava e spariva. Nella sua borsa da lavoro, accanto al merletto all'uncinetto, delizia borghese di altri tempi, ella aveva sempre un volume, dei varii fra romanzi e novelle scritte da Paolo Spada: e in camera sua, si metteva a leggere. Lo stile prezioso, ricercato con quella tortura mentale che era una delle grandi qualità di Paolo Spada, le produceva la prima impressione d'incomprensibilità: vi erano delle parole che non aveva mai lette o udite e dei giri di frase, il cui senso le sfuggiva: talvolta, delle frasi ripetute le davano fastidio, come il ronzìo di un moscone nell'orecchio. Non so come, ella aveva udito a parlare del vocabolario: e finì per ricorrervi, per conoscere il senso vero delle parole strane adoperate da Paolo Spada. Con molta gravità, teneva il libro aperto sul tavolino e con l'altra sfogliava il vocabolario: alla ricerca della parola, lasciava perdere il filo del racconto e, dopo, non si raccapezzava più. E, spesso, il vocabolario non le spiegava bene, tutto: ella restava sospesa, pensando troppo per la sua piccola mente, affaticata, e non trovando più nulla. Se contrariamente, erano i soggetti di quei romanzi, di quelle novelle che la turbavano immensamente. Ella aveva letto, come tutte le donnine della sua levatura, dei romanzi di Montépin e di Ponson du Terrail, qualche romanzo di Dumas padre e qualcuno, italiano, di Guerrazzi: ma le istorie di Paolo Spada erano così stranamente diverse da quanto era stato il poco pascolo della sua fantasia! Tutti i protagonisti di Spada le sembravano degli ammalati o dei pazzi: spesso la inorridivano per il cinismo: e quando s'interessava a qualcuno, più simpatico, ecco, egli moriva. In quanto alle protagoniste, ebbene, ebbene, malgrado che qualcuna di esse fosse buona e virtuosa, malgrado che quasi tutte fossero immensamente infelici, per le lotte con sè stesse, col mondo e con l'amore, ebbene, Adele Cima le odiava, tutte! La innamoratissima donna leggeva i romanzi e le novelle, più col cuore che con la mente: e la sua curiosità d'ignorante, era anche fatta di gelosia. Con quanta carezzosa voluttà Paolo Spada dipingeva certe figure di donna e Adele Cima vi ricercava, quasi, i ritratti delle donne che egli aveva amate: con quanta crudeltà egli ne disegnava delle altre ed erano forse quelle che lo avevano respinto, o, accettandolo, lo avevano reso infelice! Ella aveva troppo partecipato alla vita di Paolo Spada e dei suoi amici artisti, per non avere capito, a forza di udirlo dire, che quanto essi raccontavano nei loro libri, era loro accaduto: non aveva visto Paolo Spada copiare le lettere di amore, nelle novelle? Così, la lettura di questi volumi lenta, ma continua, produsse sullo spirito di Adele Cima, come una rivelazione sempre più triste, sempre più torturatrice, del passato di Paolo Spada. Ah egli aveva palpitato, e pianto, e sofferto, e spasimato, il suo amante, non per lei, ma per altre donne, egli aveva molto e troppo vissuto, il suo amante, e non con lei; egli aveva avuto delle scene di passione e di disperazione come giammai con lei! Quante volte in quelle eterne veglie, in cui ella aspettava che Paolo Spada si levasse dal tavolino e, chiamandola, le dicesse che era ora di riposarsi, quante volte ella posò il libro, pallida, disgustata, avvelenata, sentendo di essere giunta troppo tardi, quando già la vita aveva detto tutto al suo amante! Quante volte ella si sentì inutile, inutile a quest'uomo, adesso più che mai, adesso che conosceva o che le pareva di conoscere tutto il passato, e come pensò, spesso, che sarebbe stato meglio liberarlo della sua sciocca presenza! Le si ripeteva, nell'anima, fatidicamente, l'impressione della prima visita, quando aveva trovato le fotografie delle altre amanti e aveva tanto sofferto: perchè non era fuggita via, in quel giorno? Pure, un accanimento la teneva, di legger tutto, di saper tutto. Involontariamente, qualche parte del suo segreto le sfuggiva:
—Perchè hai fatto morire quel povero Attilio Venturi?—ella chiese un giorno, al suo amante.
—Attilio Venturi? Chi?
—Il protagonista del tuo racconto: L'ucciso.
—Tu hai letto il racconto?
—…. sì—diss'ella, profondamente sconvolta.
—E perchè l'hai letto?
—Mah…. perchè era scritto da te….
—Non vi era obbligo, anima mia.
—Ho fatto tanto male? Sono dunque così sciocca, da non poter aprire un tuo libro?—e quasi piangeva.
—Non importa, cara—diss'egli, indulgentemente—se ciò ti diverte, fa pure. Ti è proprio dispiaciuto tanto, che Attilio Venturi sia morto?
—Oh, tanto!
—Eglidovevamorire—pronunziò Paolo Spada, col tono dogmatico dello scrittore.
—Oh!—mormorò ella, senz'altro, sentendo il peso della sua ignoranza più forte, sulle spalle.
Altri dialoghi simili, consecutivamente, accaddero. Un giorno, un amico di Paolo Spada aveva elogiato vivamente il volume delleStorie crudeli, in presenza di Adele Cima: e Paolo Spada aveva sorriso alle lodi. Ella riprese il discorso e arrossendo, disse:
—Tutti i tuoi libri sono così belli e mi piacciono tanto, Paolo! Ma perchè sei così cattivo, nelleStorie crudeli?
—Perchè la vita è cattiva, mia cara—disse lui, con un lieve rammarico nella voce.
—Oh no, Paolo!
—Che ne sai, tu? Tu non sai nulla.
—Hai ragione—ella disse, soffocando un singhiozzo.
E un'altra volta:
—Non pensavi che la vita era cattiva, Paolo, quando hai scrittoL'amore di Maria?
—Quella storia è bruttissima.
—Oh, no!
—Bruttissima, ti dico.
—A me è piaciuta—soggiunse ella, con timidità.
—Questo è il segnale più certo della bruttezza—disse lui, duramente.
Poi quando la vide piangere, cercò di consolarla, carezzandola, baciandola.
—Tu leggi troppo, ti fa male, Adele.
—Perchè, mi fa male?
—La tua testa è debole, non leggere tanto.
—Come, neppure i tuoi libri?
—I miei meno degli altri. Già, non valgono niente.
—Non dire questo, non dirlo. Perchè li hai scritti, se li disprezzi?
—Così, Adele—rispose lui, enigmaticamente, chiudendosi nel suo silenzio.
Ma, oramai, il male era fatto. Nel cervello confuso di Adele Cima turbinavano le frasi e i fatti in disordine: ed ella non afferrava più il nesso delle cose, ella imbrogliava i nomi dei personaggi e delle città, ella spesso faceva a Paolo Spada delle domande, dove appariva anche più chiaramente che ella aveva letto e non aveva inteso nulla. Due o tre volte, egli la redarguì, vivamente offeso nel suo amor proprio di artista: ed Adele che non conosceva la sensibilità sempre raccapricciante delle vanità di scrittore, due o tre volte giunse a ferirlo: e il modo come egli le si rivoltò contro, modo insolito, di animale irritato e ingiusto, la sgomentò talmente che, per un pezzo ella smise di parlargli delle sue letture. Ma il male era fatto. La serenità della mente di Adele Cima era smarrita, per sempre. Ella era entrata in una via d'intrichi e di spine che la pungevano e la soffocavano: nè conosceva più il sentiero per tornare indietro. In quella confusa e incerta rivelazione di un mondo per lei incomprensibile e in cui ella intravedeva le perfidie della menzogna, le malvagità del cuore freddo e duro, le perversità dei sensi non governati da nessuna delle schiette e fluide correnti del sentimento, la ingenua anima di Adele si arretrava, compresa di spavento: ma i suoi occhi avevano intravisto e il fiore del suo candore sentimentale era per sempre appassito. Sovra tutto, il maggior tossico le veniva da quelle donne ignote a lei, che Paolo Spada aveva conosciute e amate, che erano rimaste così impresse nella memoria dell'uomo, che l'artista aveva voluto renderle nelle sue storie.
Tutte diversamente belle e attraenti sotto la viva penna dello scrittore, tutte dotate del fascino della vita che vibra, più forte, nei ricordi e par vita, tutte variamente strane e seducenti, tutte quante davano al cuore innamorato di Adele Cima le trafitture, e i sussulti, e i pallori, e gli scoramenti di una gelosia invincibile. Con curiosità tormentatrice, ella ritornava a rileggere quelle pagine dove la natural poesia dell'arte ingrandiva e affinava quelle creature muliebri: e nella loro essenza, nella loro forma, Adele Cima le invidiava, sentendosi da loro così diversa, così lontana, sentendosi a loro tanto inferiore da soffrirne come per persone umane che l'avvilissero con la loro superiorità, ogni giorno, ogni ora:
—Tu hai conosciuto quell'Angelica, del tuo romanzo?—disse, in uno dei momenti di più forte pena.
—Sì.
—L'hai amata?
—Sì.
—Era molto seducente?
—Molto.
La povera semplice donna tacque. Ah che egli era una persona troppo sincera, mentre avrebbe potuto risparmiarle queste verità così atroci!
—Perchè hai finito di amarla?
—Mi ha tradito.
—Ah! E se non ti tradiva?
—Io tradiva lei.
—Così…. tutti questi vostri amori…. finiscono col tradimento?
—Quasi tutti.
—Finirà anche il nostro, così?—chiese lei, desolatamente, mordendosi le labbra per non iscoppiare in singhiozzi.
—Speriamo di no.
—Speriamo? Non è che la speranza?
—In fatto di amore, tutto è fallace. Ma perchè continui a chiedere di cose spiacevoli? Che ti importa? A che scavi nel passato? Quando mai tu hai scavato? Amami e basta.
—Anche io ho un cuore e una mente—ella mormorò, mortificata di essere sempre respinta nelle sue umili e taciturne funzioni di donna innamorata.
—Credilo, il cuore ti è sufficiente—egli concluse, un po' sul serio, un po' ironicamente.
Ella sentì l'ironia e non sentì la serietà del consiglio. Una gran voglia di rassomigliare a qualcuna di quelle donne, di essere meno monotona, meno semplice, meno limpida, adesso le sconvolgeva l'anima. I suoi vestiti, dapprima graziosi e carini, ma di una grande povertà d'invenzione, cominciarono a diventare più ricercati: ella ebbe una vestaglia di lana bianca, con merletti pioventi e un grosso cordone di seta bianca che la serrava: ella portò delle camicette insaldate, da uomo, con una cravatta maschile: ella tentò di tagliarsi i capelli, ma il parrucchiere la consigliò di non farlo. Queste nuove fogge, però, la mettevano in imbarazzo e la rendevano goffa. Alle pareti quasi nude delle sue due camerette ella attaccò dei vecchi ventagli giapponesi, dei pezzetti di stoffa antica racimolati fra le cianfrusaglie del quartierino di Paolo Spada e vi sospese dei quadretti che erano stati donati a lui, e che egli aveva dichiarati orribili; e questo scemo tentativo di adornamento artistico contrastava con la semplicità e anche con la volgarità del resto dei mobili. Adele Cima non aveva mai voluto fumare; anzi il fumo della sigaretta e dei sigari di Paolo Spada, dei suoi amici, le dava gran fastidio. Si forzò a imparare: ebbe tre o quattro emicranie feroci, accompagnate dal mal di stomaco, ma fumò. Soltanto si scolorava come una morta, fumando: e faceva sforzi enormi per esser disinvolta. Non aveva mai bevuto liquori, con un disgusto tutto borghese: ella provò ilcognac, e siccome aveva inteso parlare delgin, come di un liquore singolare, assaggiò anche quello. Paolo Spada, malgrado le sue profonde distrazioni, i suoi egoistici assorbimenti, notò a poco a poco tutte queste fittizie manifestazioni di bizzarria: e il sorriso con cui le accoglieva, aveva della bontà compassionevole. Due o tre volte, egli rise della goffaggine di Adele Cima: ed ella fu colpita da quel riso come da una pugnalata. Una sera, quando più ella era stata tentata di essere eccentrica e raffinata, e quando meno vi era riescita, quando più era stata ridicola nei suoi esperimenti, Paolo Spada, le aveva detto, con durezza:
—Smetti.
Ella si era fatta di mille colori e aveva abbassato gli occhi.
—Non fumare più, smetti; smetti di vestirti come ti vesti; non berecognace non parlare di amore col terzo e col quarto. Smetti, smetti, Adele.
—Che ho fatto di male?
—Nulla: ma sei ridicola. Chi te lo fa fare?
—Così—diss'ella, con voce fievole, a capo basso.
—Vi è una ragione, a queste stravaganze. Dilla subito.—replicò improvvisamente.
—L'idea di piacerti….—balbettò l'infelicissima.
—Hai sbagliato. Mi dispiaci enormemente.
—La paura del tuo disprezzo…. hai amato tante donne intelligenti e fini…. io sono una creatura volgare….
—Mi sei piaciuta come eri: non ti guastare. Smetti tutte queste buffonate. Tu non ti puoi cangiare.
—Oh Dio!—singhiozzò la poveretta.
—E ringrazia il Signore, invece, che non ti cambia. Se ti cambiasse, non ti amerei più.
—Perchè mi dici questo?
—Perchè è la verità. Ritorna alla tua semplicità, mia cara, o ci lasciamo per sempre.
Come ritornarvi totalmente? Ella obbedì, con la devozione della persona assolutamente innamorata, a quanto le aveva detto Paolo Spada; ella ritornò, tristemente, alle sue vesti di gusto borghese e ai suoi cappellini insignificanti: ella lasciò le sigarette e ilcognac: ella schiodò tutti i ventagli vecchi e tutti i brandelli scoloriti delle stoffe, dalle pareti delle sue stanzette. Ma tutti questi atti, consecutivi, le rammentavano la inanità della sua persona: le ripetevano, mandando il rosso della vergogna al viso, che ella non poteva elevarsi, in nessun modo, dalla mediocrità dove era sempre vissuta: le replicavano, in tutte le forme, che una donna semplice o anche sciocca, sempre tale rimane e che non vi era speranza, per lei, di essere considerata da Paolo Spada salvo che per una donnetta di casa, scema, ignorante, che gli dava dell'amore senza fantasia e senza drammi, quando egli aveva voglia di essere amato. Lo scorno dell'esperimento fatto e mancato le ritornava sempre, massime quando, era sola: ed ella chiedeva al Signore, nelle sue preghiere, per qual ragione era stata slanciata e poi chiusa in un amore dove tutte le sue facoltà soffrivano, dove soffocava nel silenzio ogni suo dolore e dove ella non avrebbe mai più trovato la felicità, giammai.
Le sue sofferenze si acuivano. Ella frequentò molto la chiesa, in quel tempo. Cercava la liberazione, o cercava la pace; ma non otteneva nè l'una, nè l'altra, giacchè ella era legata a Paolo Spada per la vita e per la morte, giacchè ella era sempre in un profondo spostamento morale e materiale. Paolo Spada, giusto in quel tempo, fu preso da un accesso di mondanità. Ogni sera indossava la marsina, metteva un fiore all'occhiello, arricciava e profumava i suoi baffi e partiva. Ella lo aiutava a vestirsi, avendo per lui le cure minute di una madre: non gli chiedeva neppure dove andasse e a che ora ritornasse. Lo aspettava. Quando aveva chiusa la porta; alle sue spalle, cominciava per Adele una lunga veglia. Ella riordinava la casa, tutta quanta, dandole il suo assetto notturno; lavorava all'uncinetto, alla coltre fatta a disegno di stelle, poichè aveva rinunziato alla lettura: sonnecchiava; si addormentava sulla sedia. Talvolta si svegliava, di soprassalto, a un rumore: non era nessuno. Talvolta lo stridore della piccola chiave inglese di Paolo Spada che schiudeva la porta del quartierino, la scuoteva. Lo vedeva riapparire bene spesso pallido e stanco, senza voglia di aprir bocca.
—Fai male ad aspettare—le diceva, brevemente.
—Non importa, Paolo.
Non le diceva più nulla, lui, assorto nella stanchezza: non le faceva una carezza non le dava un bacio: si addormentava di un sonno pesante. Ella restava sveglia, nervosa, piangendo chetamente talvolta. Vi erano notti in cui egli rientrava eccitatissimo. Le raccontava tutto, mettendo in burletta i tipi ridicoli della società, ridendo dei buffi spettacoli, elogiando fugacemente qualche donna incontrata. Adele tendeva l'orecchio, a queste lodi:
—Era molto bella, donna Maria Vargas?
—Bellissima: pareva Monna Lisa del Giocondo.
L'amante sciocca, dai capelli castani insignificanti, dai grandi occhi limpidi e meravigliati, ammutoliva. Egli continuava a chiacchierare, fumava, si faceva fare del tè che ella aveva imparato ad apprestare benissimo, mentre le mani le tremavano, nel suo ufficio di donnetta di casa. E, spesso, tornando da questa casa luminosa, da questi teatri scintillanti, dove aveva visto delle donne bellissime, dove il suo animo di artista aveva esaltato la sua ammirazione di uomo, egli era con Adele Cima così carezzoso e così appassionato che, malgrado la piccola intelligenza di lei, ignara delle mistificazioni umane dell'amore, ella intendeva donde venisse questo rinnovellamento passionato; e tutto il suo essere inorridiva alla mistificazione. Vagamente, ma ostinatamente, ella era gelosa di tutte queste donne mondane, signore e attrici, grandi dame e grandi avventuriere che, preso da un furore di esteriorità tutto estetico, Paolo Spada ricercava ogni giorno e ogni sera: ma Adele Cima non arrivava a precisare la propria gelosia. Non diceva nulla: ma fiotti di veleno le inondavano le vene. Si consumava, dentro, e non voleva dare un sol dolore a Paolo, sentendo anche che era inutile e dannoso fargli delle scene. Qualche indizio di tradimento, molto tenue, forse ancora ingiusto le s'ingrandiva nel cuore appassionato, col dubbio di qualche fatto compiuto. Paolo Spada aveva cambiato fiore all'occhiello: era una rosa bianca, adesso, quella che portava ogni giorno. Una copia dell'Amore di Mariaera partita, avvolta in una stoffa medievale, a rose bianche su fondo rosa pallido, e diretta a un indirizzo sconosciuto. Un giorno, uscendo per alcune spesuccie, aveva incontrato Paolo Spada sotto l'atrio della Posta, a San Silvestro: egli aveva avuto innanzi ad Adele Cima, una leggiera fiamma al viso. Poi, finalmente, un giorno, Adele ebbe la prova precisa e netta del tradimento: un biglietto di convegno, di donna Maria Vargas: un biglietto cascato dalla tasca di Paolo Spada. Era impossibile il dubbio. Egli rientrò: trovò Adele Cima gittata sul letto, vestita, col viso verso la parete.
—Che hai? Ti senti male?
—Sì.
—Dove hai male?
—Alla testa.
—Ora ti do l'antipirina. Vado a chiamare il medico?
—È inutile: è un male che passa.
Veramente, egli aveva udito qualche cosa di cambiato nella voce di Adele Cima: ed aveva esitato a ritornare nella sua stanza. Prima di uscire, andò da lei, di nuovo:
—Come vai?
—Meglio: grazie.
—Vuoi qualche cosa?
—…. No
—Io torno subito.
—Va bene.
Veramente non si era voltata a lui e la voce era più tronca e più velata che mai. Ma egli attribuì alla nevralgia tutti quei fenomeni e uscì. Quando rientrò, alle undici di sera, la trovò ancora sul letto, supina, in uno stato di abbattimento immenso, con orribili crampi allo stomaco. Aveva bevuto della morfina per avvelenarsi: l'aveva trovata in una boccettina che Paolo Spada teneva in serbo, per iniettarsi ogni tanto. Egli non le strappò questa verità che a furia di affannose domande, di richieste strazianti, giacchè tutto l'essere di Paolo era trangosciato all'idea che una povera creatura umana avesse potuto morire per lui. Ella lo guardava, con occhi così disperati e amorosi, insieme, che egli non resisteva a quello sguardo. Al medico accorso Paolo non disse nulla, non seppe neppure ricordarsi la misura della morfina che Adele aveva potuto ingoiare: e tutta la notte la sciocca amante che tutto aveva sopportato, ma non aveva saputo resistere al tradimento, tutta la notte ella fu in pericolo mortale, attaccata al collo di Paolo Spada, guardandolo con gli occhi stralunati dal male e dall'amore, toccandolo con le mani gelide e bagnate di sudore, senza poter pronunziare una parola sola, quasi strozzata, soffrendo come una dannata o cadendo in prostrazioni che parean simili alla morte. Accanto a lei, egli agonizzava. Aveva ritrovato il biglietto perduto di donna Maria Vargas, sotto l'origliere di Adele Cima ed aveva inteso la ragione di quel suicidio, la ragione immediata e invincibile.
—Perchè hai fatto questo? Perchè?—le gridò, indignato contro sè stesso, contro i capricci mondani e contro tutte le donne mondane.
La inferma non rispose, ma lo guardò con tale espressione di silenzio!
—Non dovevi farlo. Non ne valeva la pena—le disse ancora lui, esaltatissimo.
Alla morente gli occhi si sbarrarono in un infinito stupore, come se ella si meravigliasse, sentendo che un tradimento non è un tradimento.
—Sei una scema; non capisci niente; io non amo che te; sei una scema—le continuò a dire lui, in preda a una indomabile agitazione.
Adele Cima, a quell'aggettivo che si veniva ripetendo, con tanta ostinazione e tanta crudeltà, insieme a tanto amore, nella sua agonia, chiuse gli occhi per morire.
Ma non morì. La salvarono il medico e Paolo Spada. Fu molto tempo malata, ma guarì. Il suo fu un suicidio mancato, come erano state mancate varie altre cose della sua vita. Spesso, nella convalescenza, in un effluvio di tenerezza, innamorato più che mai della sua stupidina, Paolo Spada le veniva ripetendo:
—Perchè hai voluto morire?
—Per donna Maria di Vargas.
—Ti giuro che non ne valeva la pena, anima mia.
—Oh sì!
—No, no, sei sempre la stessa, non capisci nulla. Se morivi, vedi,Adele, era perchè non hai mai capito niente.
—È vero—mormorava lei, assorta.
Dopo quel tentativo di suicidio, inutile, che non le aveva dato la liberazione, ella non domandò a Dio neppure più la pace. Il suo destino era di vivere, di amare, e di soffrire per l'amore, giacchè il Signore le aveva inflitto il castigo di amare un uomo diverso da lei per istinti, per temperamento, per carattere, giacchè sul suo amore pesava la fatalità del dissidio intellettuale, lo stato di oppressione della creatura meno nobile e meno spirituale, accanto a un'anima che saliva nei cieli dell'arte. Ella doveva soffrire e non doveva trovare rimedio alle sue sofferenze, giacchè le anime alte e squisite trovano mille vie per isfuggire ai contrasti della vita quotidiana, mentre le piccole anime li subiscono tutti, senza scampo e senza rifugio.
Poi, più tardi, quando ella fu bene guarita e Paolo Spada fu bene sicuro che quella donna gli fosse vincolata per sempre, egli scherzò anche sul tentato suicidio. Chi manca un suicidio, non corre un'avventura buffa? L'amante sciocca ne rise anche lei, per celare la vergogna di quella ridicolaggine. Più tardi ancora, Paolo Spada tornò a tradirla, come si tradisce una buona moglie fedele, con altre donne: ella lo seppe, ma non trovò la forza di voler morire, temendo troppo di esser chiamata la più scema fra le donne. Anzi, egli finì per confessarle le sue scappate, convincendola che erano necessarie alla sua vita d'arte, ma che egli amava sempre la sua cara sciocca. La quale sciocca donna non si convinse punto, di questa necessità del tradimento: vi si rassegnò, piuttosto, poichè voleva il suo destino, così, che ella, che sarebbe stata felice con un uomo limitato e buono e onesto come lei, fosse infelicissima con un grande artista.
A Roberto Bracco.
Massimo era solo. L'amico d'infanzia, non veduto da anni e poi incontrato improvvisamente per la via, dopo il lieto riconoscimento era venuto, alle sette, a pranzare in casa di Massimo. E costui che trascinava pesantemente il fardello di un'estate cittadina, mentre tutti gli altri anni era partito nel mese di giugno, si riprometteva una buona serata di ricordi, in compagnia dell'amico ritrovato. Avevano, infatti, passato due ore insieme fra il pranzo, la sigaretta e i liquori, chiacchierando dei tempi antichi, cominciando tutti i loro discorsi con unti ricordi, sorridendo vagamente alle care memorie che si affollavano alla mente, interrompendosi talvolta, dando in qualche esclamazione di rimpianto, di nostalgico desiderio. Ma nella amichevole giocondità che aveva dilatato i loro cuori, si era presto infiltrato un senso di malinconia; avevano fatte vie diverse ed erano diventati assai diversi, in tutto; partiti dal medesimo punto, avendo fatto gli stessi studii, l'amico era adesso un illustre avvocato di provincia, con moglie e figli, con idee pratiche e semplici, un po' appesantito di fibre e di spirito; e Massimo se ne era andato per dieci o quindici anni all'estero, di legazione in legazione, diplomatico senza passione, indolente, non facendo carriera per la sua pigrizia, contento o non malcontento del suo posto di segretario, bello come un meridionale bello, ma già appassito, coi capelli che si facevano radi sulla fronte e gli occhi smorti, non ricchissimo, ma abbastanza ricco, e adesso inchiodato da un anno a Napoli, in licenza—in penitenza, dicevano gli amici. Massimo era fine, originale, ma già consumato dalla sua esistenza, e segretamente oppresso da altre cure: l'amico era pieno di talento, ma forte e tranquillo, rimasto un po' grossolano, chiuso nel buon senso provinciale che chiama follia l'originalità, e che si mortifica nel presente, per godere in un troppo tardo avvenire. Così, mentre l'uno raccontava all'altro la propria vita, colui che ascoltava, apprezzava, giudicava, freddamente giudicava, senza dire il suo giudizio in forma cruda, mitigando, è vero, per riguardo all'amicizia d'infanzia, ma facendo intendere come si trovassero lontani: e a un certo punto si guardarono in viso, perchè pensarono di essere, oramai, due estranei; ma non lo dissero. E forse, in fondo, Massimo invidiava all'illustre avvocato di provincia la sua limitata ambizione e il suo assiduo lavoro, e la famiglia grassa, pacifica, al sicuro delle tempeste, e la casa messa alla buona, ma la casa degli avi, la casa dei figliuoli, e quel senso di praticismo, di serietà, di equilibrio, tutte le cose, infine, che gli mancavano; mentre l'avvocato invidiava a Massimo la vita vagabonda ma aristocratica nelle Corti straniere, e l'avvenire che potea essere splendido, e la libertà di scapolo, e tutte le avventure di quella esistenza fantastica, e quella casa di giovanotto elegante e squisito, visioni che avrebbero oramai turbato i suoi sonni di provincia. A un certo momento, sospirarono ambedue. La serata era calda: dal balcone aperto del salotto dove fumavano, non spirava un soffio di aria: solo un acuto profumo di gelsomini veniva di fuori. Si accorsero di essere diventati malinconici. Troppe cose del passato avevano ricordate, troppe pietre sepolcrali di persone care perdute, di amori morti avevano rimosse: tutto questo non si fa senza un triste piacere, e il piacere poi fugge, e la tristezza resta. Fumavano in silenzio, con la testa rovesciata sulla spalliera della poltroncina; poi l'avvocato aveva guardato l'orologio. Per cortesia, disse a Massimo:
—Vieni via con me?
Ma non si eran forse detto tutto? E non avevan forse fatto male, a dirsi tutto? Massimo rispose vagamente che doveva scrivere alcune lettere urgenti; che si sarebbero veduti più tardi, alla Villa, verso le undici, senz'altro. Freddamente, l'avvocato promise di esserci, e si divisero, convinti che non si sarebbero riveduti quella sera, e forse mai più. Per dolce che sia il passato, esso è morto; e fantasmi, anche soavissimi, turbano l'animo dei più coraggiosi. Quando fu solo, Massimo si pentì di essersi condotto a casa quell'amico: tante chiuse cicatrici avevano stillato sangue, in quelle due ore! Mentre egli seguitava a fumare, nel salotto, udiva il suo servitore che riordinava la piccola stanza da pranzo; e poco dopo, il giovanotto gli venne a chiedere se avesse bisogno di lui, in quella sera, chè avrebbe voluto andarsene a trovare certi amici, per fare una passeggiata, con quel caldo così grande. Massimo, con una parola, lo licenziò: la porta si richiuse; egli era perfettamente solo. Ma la sua serata era perduta, postochè aveva voluto risalire imprudentemente il fiume del passato, in compagnia di una persona che aveva amata: il viaggio lo aveva scoraggiato, facendogli perdere quell'ultimo resto di morale pazienza, che lo aiutava a tirare innanzi quella solitària e fastidiosa estate napoletana. In queste ore di ribellione, sdraiato, abbandonato a una mortale spossatezza esteriore, mentre dentro gli si sollevava il cuore, egli fumava assai certe stupefacienti sigarette egiziane, che per lo più finivano per stordirlo: ma in quella sera di estate le sigarette gli si sfacevano fra le labbra strette ed egli le buttava via, semispente, a pezzetti. Andò al balcone: era al terzo piano di un gran palazzo di via Gennaro Serra, ed essendo più basse le case innanzi alla sua, pel livello della via, vedeva un po' di mare e un grande arco di cielo stellato.
La notte era bellissima, con un gran palpito luminoso della Via Lattea; ma la brezza non veniva e l'aria opprimeva. Sentendosi avvampare la testa, solo, stanco e pure non potendo restar fermo, prese la penna e volle scrivere: ma improvvisamente, innanzi alla carta bianca, si fece in volto più bianco della carta stessa, quasi che avesse veduto apparire non so quale visione, fra le penembre della stanza. Dalla via Gennaro Serra, un continuo rumore di carrozze si udiva: tutti uscivano dalle loro case, tutti se ne andavano per le strade, a respirar meglio, a guardare le stelle, a godere la notte napoletana bella, fresca nelle ore alte. Egli si fece di nuovo al balcone, soffocando: ritornò alla scrivania, si rimise a scrivere, ma non vi riuscì. E perchè avrebbe dunque scritto? A che servono le negre parole scritte sulla candida carta, nella effervescenza della solitudine, quando il parente, o l'amico, o l'amante che le riceve, le legge forse dinanzi a estranei, freddamente, ridendone? Troppo tempo e troppe cose passano fra il momento che si scrive e quello che si legge, fra chi scrive e chi legge, perchè una lettera serva a qualche cosa. Un organetto si fermò in piazza Monte di Dio, a suonare, con un metro largo, con un tempo largo, una canzonetta assai allegra, la quale così diventava bizzarramente triste; Massimo s'impazientì contro quel sentimentale o stanco suonatore di organino, che mutava una tarantella in marcia funebre. Forse il suonatore era vecchio; forse aveva fatto una magra giornata; forse era un infelice, perciò usciva dalla sua mano quella nenia così stravagante. Massimo si abbassò sulla ringhiera del balcone, e da quell'altezza buttò a caso una moneta da due lire al suonatore. La musica, dopo un poco, tacque: e Massimo se ne dolse; ora si sentiva più solitario, più annoiato, più insofferente che mai della sua dimora in Napoli. Che fare, dove andare, dove portare il suo corpo e il suo spirito, con quali sciocchi? con quali indifferenti, con quali esseri detestabili andare? Come passare quella notte di estate? Non avrebbe avuto riposo, lo sentiva: e sentiva che non vi era rimedio alla sua agitazione. Andava e veniva dalla scrivania al balcone, macchinalmente, quando un, sottile canto vicino lo colpì. Si fermò, ascoltando. Il canto veniva da un balcone poco discosto dal suo, anch'esso al terzo piano: aguzzò gli occhi, vide un'ombra bianca, era una donna che cantava una vecchia romanza del Tosti, poco nota, che è piuttosto un recitativo e che comincia così:
Il gallo canta; e i sogni lieti o tristiFuggon nel grande oblìo.Torna al mondo dei sogni, onde venisti,Larva dell'amor mio……..
La voce era tenue e un po' tremula, ma le parole si udivano distintamente. Massimo tese l'orecchio, guardò acutamente, e si accorse che la donna si dondolava sopra una sedia, cantando, come se si cullasse; aspettò che ella avesse finito, poi, piegandosi sulla ringhiera, chiamò:
—Luisa, Luisa?
—Che volete?—rispose una fresca e lieta voce femminile.
—Buona sera: vi sto ascoltando, ma la vostra canzone è troppo triste.Perchè non ridete un poco?
—Così, per ordine vostro?
—Ve ne prego: ridete.
—A che servirebbe?
—Per rallegrare la mia infinita malinconia.
—Voi, malinconico?—e diede in uno scroscio di risa fresco e limpido.
—Brava, brava!—egli esclamò, applaudendo.
Lei, per parlare con lui, si era alzata dalla sedia, si era messa all'angolo del balcone, curvandosi per veder meglio, e non li divideva che lo spazio di una stanza; le due case erano vicine.
—Vi basta?—chiese Luisa ridendo ancora.
—Mai abbastanza. Sono un uomo morto, Luisa. Ma quando sarò da quattro giorni nella tomba come Lazzaro, veniteci voi e ridete; io risusciterò, ve lo prometto.
—Ci vedremo allora, non mancherò—diss'ella ridendo.
Poi tacque improvvisamente. Massimo, per ringraziarla, si mise a cogliere dei gelsomini bianchi, odorosissimi, li raccolse in pugno, tentò due volte di buttarglieli sul balcone: ma erano così leggieri che caddero in istrada, candidi, roteanti.
—Peccato, peccato!—gridò lei, che aveva indovinato il grazioso pensiero.
E restò a guardare, giù, come se potesse ancora scorgere quella pioggerella di gelsomini odorosi. A un tratto, ella diede un piccolo grido:
—Che è?
—Ne ho trovato uno, per terra. Grazie! Sul balcone di Luisa un'ala di ventaglio si agitava ed egli ne vedeva luccicare le stelline:
—Siete voi, che avete quel ventaglio?
—Sì; perchè?
—Perchè pare un pezzo di firmamento.
—Non mi burlate—disse lei un po' seria.
Parlavano così tranquillamente, come se stessero in un salotto di conversazione: ma le notti estive sono così belle a Napoli, ed è così naturale stare al balcone, o sulla terrazza o nelle vie, è così naturale la chiacchiera all'aria aperta! Certo l'elegante addetto non avrebbe fatto così a Bruxelles, o a Copenaghen, dove le notti sono gelide, e i balconi hanno triplici imposte: nè con le dame della società sua, si sarebbe permesso una simile famigliarità. Appunto per questo egli trovava gusto in questa conversazioncella borghese con una semplice ragazza, da un balcone all'altro, dimenticando la profonda noia e il disgusto che lo avevano assalito mezz'ora prima. Adesso, sorgendo da quel poco di mare che si vedeva dai balconi, un globo rossastro si levava nel cielo, e ascendendo, impallidiva, diventava roseo….
—…. ecco la luna, signor Massimo—mormorò lei, piano.
Eppure egli udì.
—È una bellissima luna, Luisa—le rispose, con convinzione.
—Fra poco si nasconderà dietro quelle case, e non la vedrò più—disse la fanciulla, sempre piano.
Egli udiva benissimo. A un tratto, chiamò:
—Luisa?
—Che volete?
—Volete uscire, a veder la luna?
—Sola?
—Con me.
—…. nossignore—disse lei, dopo aver esitato.
—Perchè nossignore?
—Per questo—replicò Luisa, enigmaticamente.
—Venite, via. Torniamo presto.
—No, non posso.
—Siete cattiva, sapete.
Luisa non rispose.
—Se non vi decidete, vado via solo. La notte sarà magnifica e voi non la vedrete. Peggio per voi! Sono abbastanza vecchio, per non compromettervi. Volete venire?
—…. non posso.
—Buona sera.
—Buona sera—mormorò ella, lentamente.
In verità, rientrando nella sua stanza, per prendere il cappello e i guanti, Massimo era indispettito. Aveva trovato un diversivo alle tristezze supreme di quella serata; la compagnia di Luisa come quella di un buon camerata, di un buon amico, lo avrebbe distratto. Ed ecco che quella sciocchina faceva la ritrosa, mentre era libera, indipendente, mentre egli non si era mai sognato di farle una linea di corte, da un anno che si conoscevano. Nervoso, abituato a superare facilmente tutte le difficoltà, il più piccolo inciampo lo inquietava: non andò di nuovo al balcone, spense tutti i lumi, e battè fortemente la porta, uscendo sul pianerottolo; anche Luisa era una sciocca! Ma passando innanzi a un'altra porta che dava sullo stesso pianerottolo, la vide schiudersi un poco e il profilo bruno di Luisa apparve:
—Signor Massimo?—fece ella, guardandolo coi neri e dolci occhi, chiedendogli scusa col tono della voce, con lo sguardo.
—Andate là, che non capite niente!—esclamò lui, nascondendo un sorriso, fingendo di essere ancora in collera.
—Io…. capisco—disse lei, schiudendo addirittura la porta.
Ora si vedeva tutta la sua snella e alta figura, rivestita di un abito bianco di semplice mussola, con un nastro di velluto nero alla cintura: si vedeva il delicato volto ovale e bruno, dove la piccola bocca rosea si schiudeva come un fior di granato; e le sottili sopracciglia nere e arcuate davano agli occhi neri, per sè buoni e soavi, un'aria d'infantile meraviglia.
—Perchè avete detto di no, Luisa? Avete così poco spirito? Vi ho forse mai fatto la corte, io, perche dobbiate temere la mia compagnia?
—È vero, non me l'avete mai fatta—rispose Luisa, senza sorridere, abbassando gli occhi.
—O dunque? Andiamo, prendete un cappello e una mantellina, fate una collezione di risate, e venite con me. Sarà un'opera di misericordia spirituale: sono così infelice!
—Sì? Tanto?—interrogò lei, ansiosa.
—Infelicissimo—confermò lui, fra il tragico e il burlesco.
—Per amore, eh?—chiese ella, arrossendo della domanda.
—Nossignora, ragazza curiosa. Naturalmente, nessuna donna mi ama e io, naturalmente, non ne amo nessuna. Andate a vestirvi e fuggiamo….
Ella voltò le spalle, ubbidendo. Massimo restò appoggiato allo stipite della porta aperta, col cappello in mano, rigirando il suo bastoncino di ebano fra le dita, tranquillo adesso, abbandonandosi al minuto che passava, senza pensare ad altro. Dopo un poco, brevi passi discreti si riudirono e Luisa apparve, infilando i morbidi guanti lunghi di camoscio: aveva messo una mantellina di merletto nero a perline nere sul suo vestito bianco e un gran cappello di velo nero, una di quelle scuffie ampie e caratteristiche che stanno divinamente solo a un volto giovanile. Sorrideva, con le labbra, con gli occhi, guardando Massimo, così fresca, così luminosa di gioventù e di spirito, che egli espresse immediatamente la sua opinione.
—Siete una creatura incantevole—disse, con un tono fra la galanteria e la verità, tanto che ella non seppe nè adontarsene, nè rallegrarsene.
Per nascondere il proprio imbarazzo, Luisa si voltò a chiudere la porta di casa sua, mettendosene la chiave in tasca. Si avviarono, accanto, per le scale, senza che Massimo le offrisse il braccio: ella aveva un modo di camminare leggiero e spedito che le veniva dalla estrema giovinezza.
—Sentite—le diceva lui, scendendo—ognuno di noi si secca….
—Io non mi secco mai.
—…. non mi contraddite, voi vi seccate, come me, della solitudine. Quando state sola, che fate?
—Penso….
—E non vi viene voglia di uccidervi?
—Neppur per sogno. I miei pensieri sono dolci.
—A che pensate?
Ella fu lì lì per rispondere, con sincerità: ma fortunatamente si rattenne.
—Che v'importa?—mormorò invece, con una certa malinconia.
—Ma insomma, se deviate sempre il discorso, non lo finirò mai. E vi assicuro che è grazioso, che vale la pena di udirlo, Dunque, che voi vi possiate seccare o no nella solitudine, questo non preme, ma nella solitudine mi secco io, e voi siete allegra, voi cantate, voi suonate l'arpa, voi ridete così bene. Uniamoci insieme, fraternamente, così io non mi seccherò più, e voi, credo, vi divertirete meglio. È deciso, eh? Come fratello e sorella, naturalmente. Un giorno o l'altro, poi, vi mariterei a un amico che amassi molto. È deciso?
Ella rideva, rideva, sommessamente, mentre attraversavano l'ampio portone. Una risata, però, che aveva qualche soverchio trillo nervoso.
—Non volete saperne?—disse lui, seriamente, fermandosi, sul marciapiede.—Non è mica una cattiva offerta. Sono vecchio, io, ma sono sempre un buon figliuolo: ho viaggiato, vi posso raccontare delle storielle interessanti…. pensateci bene….
—Sì…. sì…. combineremo, un giorno o l'altro—e la fanciulla voltò la faccia in là, per non farsi scorgere.
Massimo e Luisa scendevano per via Gennaro Serra incontrando una quantità di gente che saliva e scendeva, ondeggiando, a coppie, a gruppi, a crocchi, a file, con la mollezza estiva della folla napoletana. Malgrado che fossero le dieci, molte botteghe erano ancora aperte e illuminate: non vi si lavorava; delle donne in giacchettina bianca prendevano il fresco sulla porta, chiacchierando, e dall'Egiziaca veniva un suono di chitarre e di mandolini. La birreria Dreher, sotto i marmorei portici di San Francesco di Paola, aveva messo fuori tutti i suoi tavolini di marmo, e le tazze di birra, dalla cima schiumosa e nevosa, apparivano alte sui vassoi, portati dai camerieri, mentre i pesanti piattini di cristallo si accumulavano innanzi agli avventori. Adesso, sorgendo pallida e mancante sul lato sinistro, elevandosi sopra l'arsenale di marina, la luna illuminava tutta piazza Plebiscito. La facciata della Prefettura, tutta chiara sotto il raggio lunare, aveva delle persone che si muovevano sui suoi grandi veroni: il Gran Caffè e i suoi tavolini, allargantisi sulla via, e i molti avventori erano avvolti in un chiarore fantastico, e le donne recavano con lentezza il cucchiaino del sorbetto alle labbra, o agitavano il ventaglio pian piano, con gli occhi sgranati, quasi sognassero. Nella piazza Plebiscito, andando lentamente nella morbida luce lunare, la gente passeggiava, sulla striscia di pietra bianca, innanzi alla fontana: e il grande getto d'acqua, alto, sottile, pareva una piuma bianca, immobile, tutta penetrata dalla luminosità della luna.
—Che bella notte!—susurrò Luisa, affrettando il passo.
—Vi è troppa gente—disse lui, buttando la sigaretta, diventato a un tratto pallido e pensoso.
Luisa se ne accorse. Affettuosamente gli toccò la mano con la sua mano guantata, interrogandolo con lo sguardo; egli non rispose, ma le fece un cenno che non chiedesse, che non voleva parlare. Per temperare questo silenzio, graziosamente le prese la manina guantata e se la passo sotto il braccio, e camminarono più presto, andando verso Santa Lucia. Qualcuno si voltava a guardare la fanciulla biancovestita, i cui occhi brillavano soavemente sotto la nera e trasparente aureola del cappello; ma ella non vedeva nulla, si piegava ogni tanto a guardare il suo compagno, per osservare se l'umor torvo si fosse allontanato.
—Ma che avete?—chiese, alla fine, agitata.
—Vorrei…. vorrei non essere qui—proruppe lui, esprimendole tutta la sua nostalgia inguaribile.
—Ah!—-disse ella, senz'altro, chiudendo gli occhi, mentre le labbra le tremavano.
E Massimo non seppe, o gli mancò la forza di spiegare, di modificare la sua scortesia. Alta già sopra Capri, la luna imbiancava tutta la via marina di Santa Lucia, dove mille lumicini si agitavano, dove itrams, carichi di gente che andava verso Posillipo, passavano, ogni cinque minuti a suono di cornetta, dove le venditrici ambulanti di acqua sulfurea davano il loro richiamo, dove i pescatori accovacciati nelle nasse, fumavano la pipetta corta che aveva lo stesso colore della loro pelle. Appoggiati al largo parapetto che dà sulla via inferiore di Santa Lucia e sul mare, uomini e donne godevano la prima brezza notturna che si era messa al sorgere della luna; si udiva suonare il pianoforte nel salone all'Hotel de Rome, il salone che dà sul mare; laggiù, laggiù, verso ilWermouth di Torino, dei cantori ambulanti cantavano. Negli equipaggi signorili, passavano le donne in abiti chiari, coi diamanti che scintillavano alle orecchie; Dovunque gente, dovunque suoni e canti, dovunque la vitalità di un popolo che lentamente sorbisce la felicità di una notte estiva lunare.
Senza dirle nulla, invece di andare verso il Chiatamone, portandosi la fanciulla a braccetto, egli le fece discendere la scala che porta alla via inferiore di Santa Lucia, donde si va ai bagni la mattina; dove i vaporini approdano, dove approdano i barcaiuoli, con le barchette, dove sono le sorgenti dell'acqua sulfurea: ivi, su quella lingua di terra, brulica una folla di marinai, di pescatori, di donnette popolane, e una trattoria ha le sue tavole, quasi quasi sino all'acqua nera della riva; i bevitori di acqua sulfurea vi mettono le loro sedie di paglia, e i bimbi vi vendono le ciambellette brusche. Pure, in quella notte, quel brulichio bruno si rallentava, quasi che il placido lume della luna quietasse tutti i movimenti, rammutolisse tutte le voci, e desse tutta la sua dolcezza alla vivace scena. Quando furono sull'ultimo scalino dell'ampia gradinata, Massimo e Luisa si arrestarono un minuto.
—Andiamo a cena?—domandò lui, distratto.
—Oh no!
—È vero, sono una bestia. Eppure dobbiamo far qualche cosa…. andiamo per mare, allora?
—Sì—rispose lei, pensosa—andiamo.
—Ma vi piace di andarvi? non lo dite per compiacenza? Io vi annoio terribilmente, lo so…. Ma, non è colpa mia. E poi, voi siete buona e perdonate. Se non volete andare in barchetta, rinunziamoci.
—Andiamoci subito.
Ed egli intese, in quelle parole, una preghiera così spontanea, che chiamò subito un barcaiuolo. Entrò prima Massimo e invece di dar la mano a Luisa, per farla discendere, mentre ella esitava, vedendo quel baratro nero, le stese le braccia, la sollevò leggermente e la depositò sul cuscino di cotonina, accanto a sè. Il barcaiuolo che aveva avuto ordine di andare verso Mergellina, vogava tacitamente. Massimo fumava: ma ogni tanto, dando uno sguardo a Luisa, la vedeva così tranquilla, così serena, così intimamente felice; ella era così bella in quell'abito bianco, sotto la trasparente ala del suo cappello, con le mani abbandonate in grembo, che egli non osava dire una parola, non volendo turbare quel soave spettacolo. La barchetta si allontanava in linea retta, per poi girare intorno al forte Ovo: e le case di Santa Lucia, e la collina di Pizzofalcone parea che crescessero verso il cielo, verso la luna, come attirate da quel morbido chiarore. Massimo e Luisa non scambiavano una parola, solo egli la guardava con insistenza; tutto il delicato volto e la persona candidamente vestita, avevano in quell'ora e in quel paesaggio un effluvio di poesia che avrebbe inebriato il cuore più freddo. Ella gli sorrideva, così, naturalmente, quasi che il suo destino, nella vita, fosse di sorridergli sempre; e l'ingenuo, giovanile fascino del sorriso rammentava a lui altri tempi, altre cose, vagamente, dandogli un infinito e indefinito sentimento di tenerezza. Allora, sottovoce, egli provò il bisogno di chiamarla:
—Luisa.
—Che dite?—rispose ella, piegandosi per udir meglio.
—Niente.
Ma ancora, più tardi, mentre si allontanavano sempre più verso l'alto mare, nel candore immacolato della luna, verso l'orizzonte; che si era fatto chiarissimo, egli la chiamò per nome, assai piano, come se pronunciasse quel nome per sè stesso, evocandolo, invocandolo, emblema di dolcezza nelle sue sillabe, nelle sue lettere, nel musical suono, in quello che era, in quello che rappresentava. Quando quel lieve soffio l'animava, come una carezza, Luisa s'inchinava, attratta, vincolata dalla voce e dalla musica; e Massimo vedea che il viso le si tramutava, onde di sangue le fiottavano alle guancie, onde di pallore le salivano alla fronte. E non so quale acuta, spirituale voluttà lo teneva, di vedere scolorare, al suono della sua voce, quel purissimo volto giovanile: e tutta la tenerezza ch'egli poneva nella parolaLuisa, si facea più profonda, sgorgava più larga, per circondare, avvolgere, abbracciare quella persona di donna. Ma fu un punto, e la emozione di Luisa era così intensa, egli vide tale smarrimento negli occhi della fanciulla, che si fermò, e riaccendendo una sigaretta:
—Perchè non cantate?—le disse.—Voi dovete cantare, me lo avete promesso.
Scherzava con quella ironia cortese che serviva a nascondere il proprio pensiero. Luisa crollò il capo, tristemente: l'incanto si dileguava; ella udiva un'altra volta, mentre Massimo parlava, quella velatura di sogghigno che guastava quante affettuose cose egli dicesse. Tentò di riafferrare un minuto di dolcezza:
—Chiamatemi ancora—gli disse pregandolo.
—Oh Luisa, Luisa, Luisella, piccola fanciulla cara, se non cantate, io vi riporto a terra.
A lei gli occhi si riempirono di lacrime; il sangue ascese impetuosamente dal cuore agli occhi; nonostante schiuse la bocca e con la sottile voce tremula, diede alle fragranti aure marine una vecchia canzone. Con le mani congiunte in grembo, con la testa un po' levata, guardando il gran cielo intorno, ella cantava; la fine bocca rosea si schiudeva ad arco, mostrando i denti bianchi, scintillanti, e ogni tanto i soavi occhi seguivano quasi il movimento molle della musica, aprendosi più grandi sul paesaggio. Massimo si era voltato verso lei, appoggiando il braccio sul bordo della barchetta, seguendo il ritmo della canzone che pareva si cullasse nel ritmo del mare. A un tratto, la voce le si velò; ella tacque.
—Che avete?
—Nulla, nulla.
—Perchè siete così triste, Luisa?
—V'ingannate, non sono triste…. sono anzi così contenta di esser qui…. credetelo….
Una emozione era in tutto quello che diceva, così sincera!
—Vi credo, Luisa. Dite un'altra canzone….
—Sono tutte cose vecchie!
—Non importa….
—E non tutte sono liete.
—Non importa…. Mi basta che le cantiate voi.
—Non volevate che io ridessi?—insistè lei.—Raccontatemi una delle vostre storielle interessanti e riderò!
—Se vi racconto una storiella, io, vi faccio piangere—e buttò la sigaretta in mare.
—Allora tacete. È così dolce questa notte.
Mentre il barcaiuolo vogava verso Mergellina, con un cenno largo Luisa indicò a Massimo le carezzose linee delle colline che vanno da San Martino al capo di Posillipo, tutte bagnate dalla luce lunare, con le loro case chiarissime dalle mille finestre aperte e illuminate, coi lumi che cingono l'arco della marina napoletana come una linea di fuoco, con uno scintillio dovunque, per le vie e sulle colline. Essi attraversavano, tagliandola, la grande striscia fredda, lucente come metallo, che la luna alta metteva sul mare, dall'orizzonte alla riva, lunghissima, occhieggiante, come mille specchietti moventisi nel raggio lunare. Massimo guardò intorno, ma i suoi occhi tornavano al purissimo viso di Luisa, come se da esso partisse quel fascio di dolcezza. Ella sostenne un minuto lo sguardo di Massimo, poi le palpebre le batterono, ammaliate, non reggenti a quel fascino:
—Siete voi che siete dolce—le disse lui, all'orecchio.
Adesso avevano voltato l'angolo di Mergellina, costeggiavano, lungo la via di Posillipo, tutta piena di ville, di osterie, ditramsche passano continuamente, in tutte le ore della sera, specialmente in estate. Talvolta, tendendo l'orecchio, si udivano dei canti venire dalla terra, affievoliti; e le ville, piene di gente sulle terrazze, sembravano quei castelletti di carta, dai cento bucherelli, che i bambini illuminano con un solo cerino interno, giocattoli frastagliati o trasparenti dai personaggi minuscoli. Passando rasente una di esse dal giardino pensile tutto fiorito arrivarono delle risate, degli allegri strilli femminili.
—Abbiamo un pubblico cortese—disse Massimo—ci prendono, per due amanti.
—Ah!—rispose lei, niente altro.
Il palazzo di Donn'Anna si delineava, nero, avanzandosi sul mare: sul suo lato destro e sul sinistro, delle trattorie popolari erano piene di banchettatori e di bevitori, ma la facciata che dà sul mare serbava il suo carattere di rovina disabitata, col mare che entrava chetamente nei suoi portoni, ormai trasformati in grotte, come quelle di Sorrento e di Capri. La luna batteva sulla facciata del palazzo, che la ricchezza e la superbia di donn'Anna di Medina Coeli non aveva potuto finire, prima di ritornare alla Spagna natìa: e i finestroni e le finestre prendevano il chiaror lunare, fantasticamente; la rovina pareva meno aspra, meno tetra, sotto il placido raggio.
Il barcaiuolo che remava più lentamente, per riposarsi, chiese aMassimo se voleva entrare in una di quelle grotte, con la barca.
—Avete forse paura?—chiese lui a Luisa, prendendone distrattamente la mano appoggiata al bordo della barchetta.
—No, non ho paura—ella rispose: eppure la voce era velata di emozione.
L'apertura della grotta era tutta bianca e l'acqua vi fiottava sordamente, gorgogliando: ma quando la barca s'internò in quel chiuso laghetto di acqua marina, la oscurità si fece profonda. La barca stava immobile, in un gorgoglio fresco di onda che batte alle pareti di pietra, in una gran tenebra. La mano di Luisa era restata in quella di Massimo: egli la sentiva molle, abbandonata, nella sua, quasi che non vi fosse miglior sorte, miglior destino per essa. Involontariamente, egli la strinse, e intese che la mano rispondeva alla sua stretta, fiaccamente, ma dicendo sempre: sì. Allora egli si piegò; in quell'ombra, per distinguere la faccia di Luisa; il barcaiuolo remava, per uscire dalla grotta e quando furono di nuovo sull'aperto mare, al lume della luna, egli vide due lunghe lacrime scendere da quei belli occhi e disfarsi sulle guancie. Ah! egli non poteva veder piangere nè un bimbo, nè una donna, foss'anche di gioia: e fu più turbato di lei.
—Che avete? Avete avuto paura, avete freddo?—chiese precipitosamente, tenendole le mani, che erano gelide, invero, nei guanti.
—No, no….
—Sì, sì, sbarchiamo, questo viaggio in mare, alla luna, vi ha gelato.Sbarchiamo, cammineremo a piedi, per riscaldarci.
Presso il palazzo Donn'Anna vi è spiaggia. Sbarcarono, in fretta, egli pagò il barcaiuolo e lo licenziò: quello gli disse delle parole di augurio; anche lui li prendeva per due amanti. Per salire alla strada dovettero passare presso una di quelle trattorie, fra le tavolate dei mangiatori e dei bevitori, senza guardare nè a dritta nè a sinistra, egli sempre un po' agitato, ella che lo seguiva senza badare a nulla, quasi che il suo fato fosse quello di seguirlo sempre, dovunque, senza sapere dove si andasse. I bevitori e i mangiatori ridevano e gridavano: la bianca figura di donna non ne fece voltare nessuno, tutti erano ebbri del vino, della notte, o delle chiacchiere dette, con la tanto bella e felice esaltazione meridionale. Massimo e Luisa scesero per la stretta scaletta, uno presso l'altro, e quando si trovarono sulla via di Posillipo stettero, esitanti.
—È forse tardi per voi? Volete rientrare?
—Non so…. Voi rientrate?
—Vi accompagnerei, sì, ma senza rientrare. Non dormirò, io, stanotte….—e voltò la faccia in là.
—Allora…. allora rimarrò ancora un poco—disse fievolmente lei.
—Grazie, siete buona—e le strinse la mano.
Così, camminarono, senza darsi braccio, verso Posillipo, sul piccolo marciapiede rasentato daitramsche vanno e vengono: imbattendosi in gente che tornava a piedi, in piccole comitive schiamazzanti, in coppie solitarie appoggiate al parapetto, guardanti il mare. Massimo e Luisa, avanzando lentamente, non parlavano, divisi sempre da coloro che transitavano. Le ville a mezza costa, e quelle giù, al mare, avevano innanzi ai portoni delle carrozze che aspettavano: i balconi lasciavano udire la musica che vi si faceva, il sottile e immemore concerto delle notti estive napoletane: degli equipaggi, di ritorno, passavano; le donne erano avvolte in lievi scialli bianchi. Senz'accorgersi della via, Massimo e Luisa andavano innanzi, innanzi: la linea deitramsfinì; si fecero rare, poi sparvero, le osterie; la gente s'era diradata, a poco a poco, e quando ebbero voltato l'angolo della villa Dini, la solitudine fu perfetta. Solitudine bianca, senza terrori di ombre, senza la tetraggine che ispirano la campagna e il mare, di notte. Solo un alto, lontanissimo cielo; solitudine mite, piena di giardini in fiore tutti candidamente frastagliati dalla luce lunare, piena di parchi dai grandi alberi immersi nel chiarore, piena di vigne folte che l'autunno aspettava, per la vendemmia, piena di orti dove ancora, come un po' dappertutto, si udiva l'odore del gelsomino notturno. La via era deserta, l'ora era tarda, ormai: e solo, ogni tanto, qualche rara carrozza ritornava da villa Postiglione: tutto Posillipo, con le sue campagne, col suo mare, coi suoi rotondi piccoli golfi che sembrano, in fondo alla riva, un grande occhio azzurro divino, coi suoi profumi, pareva che appartenesse a Massimo e Luisa, Egli camminando con la testa bassa, con gli occhi bassi, giuocava con la mazzettina di ebano, urtando le pietruzze della via; Luisa andava accanto a lui, fissando gli occhi sul mare: ma i suoi occhi avevano un velo innanzi, il suo sguardo aveva la fissità di chi non vede. Ogni tanto levava una mano alla fronte, per respingere da parte una ciocca dei suoi neri capelli che ricadeva sempre: e quel movimento aveva qualche cosa di assai leggiadro. Quanto tempo camminarono, così, senza scambiare un detto? Nessuno di loro avrebbe potuto dirlo: presi dal loro mondo interiore, presi dall'ambiente che li aveva vinti, mancava oramai a loro la nozione del tempo e dello spazio, erano in quell'oblìo quieto, addormentatore, che vince tutti i cuori, dopo le emozioni che dà il sentimento, o che danno le cose. Massimo si riscosse pel primo:
—Che cattivo compagno son io!—esclamò.—Saranno due ore che non vi dico una parola.
—…. Forse non avevate nulla da dirmi—azzardò lei, con un timido sorriso.
—V'ingannate: se vi dicessi tutto quello che dovrei dirvi, sarebbe un opera in-folio, in ventiquattro volumi!
—Dite, allora….
—Ci vorrebbero alquanti anni della vostra vita, per udirmi, cara: e…. credo che sia meglio non farne niente.
—Ditene qualcuna, di queste cose….—insistè lei, con un tremito nella voce.
—No, no—replicò Massimo, recisamente.
Ella lo guardò, così triste, che egli non potette celare un moto di dispetto.
—Ma Luisa! Ma che siete una sensitiva? State ridendo, il che è una cosa graziosa per tutti, graziosissima per me, e basta guardarvi perchè la risata vi si spenga sulle labbra! Sorridete, e basta che vi si dica una parola perchè sparisca il vostro sorriso! Figliuola mia! Vi avverto che di questo passo, ci vuol poco a essere la donna più infelice di questa terra.
—Non importa, la felicità—ella rispose, con un sorriso estatico.
—Bugia, bugia! Bisogna esser felici, bisogna avere il cuore di bronzo! Di bronzo, cara mìa bella!
—Non importa, meglio averlo aperto a ogni tenerezza—replicò con la forza del suo innocente animo.
—Vi preparate un brutto avvenire, Luisa,—disse lui, glacialmente.
—Non importa—ella ribattè, per la terza volta, con il supremo coraggio dei cuori buoni.
Ed era così bella della sua gioventù, del suo candore, della sua abnegazione, così bella per sè, e per quello che confusamente ma fortemente sentiva, tanto nobile abbandono, tanto alto sacrificio da lei traspariva, che egli si arrestò, un po' smarrito, ammirando quella creatura semplice e sana, che si gittava nel precipizio a occhi chiusi, sorridendo.
—Povera Luisa—mormorò soltanto lui, carezzandole la manina inguantata che si appoggiava fidente al suo braccio.
—Non mi compatite—ella rispose, crollando il capo, sorridendo a una idea—io sono più felice di voi,
—Forse—disse lui, con voce breve.
Adesso, dopo avere oltrepassato il ponte di Posillipo, quel largo poggiuolo che da una parte si affaccia alla collina folta di vigneti, e dall'altra sopra, una valle che discende al mare, mollemente, lasciato il lastricato del ponte che suonava sotto i loro passi, nella notte, erano entrati in un sentiero oscuro, fra una siepe alta di more spinose, e una muraglia alta, tappezzata di edera, che serra le due ville ultime sul mare di Posillipo, la villa Postiglione e la villaSans souci. Era sparita la luna dietro la muraglia, e sullo stretto sentiero che discendeva, essi non vedevano che un'altissima striscia di cielo, tutta chiara, dove le pie stelle avevano un tremolìo bianco e languido. Dagli orti, di nuovo, un confuso olezzo di fiori e di erbe odoranti arrivava, dove più acuto signoreggiava il profumo del gelsomino: ed essi andavano in quell'ombra, in quel fresco notturno, ignari della loro strada, sul molle terreno umido di brina che si faceva elastico sotto i loro passi. A un tratto, levando gli occhi, un'immensa linea di paesaggio si schiuse loro innanzi, tutta candida sotto la luce lunare. Erano al Capo, in quel posto che la fantasia popolare ha chiamato ilParadisiello: e il gran golfo di Napoli era come una immensa conca chiarissima, cinta da lumi vividi, scintillante fin nelle borgate, scintillante fino laggiù, laggiù all'estrema punta di Massalubrense, dove l'abbraccio si chiude; e da qui tutto il gran mare che bagna i Campi Flegrei e Pozzuoli e Cuma, in una curva nobilissima e poetica, in un silenzio di cose e di uomini, quasi che niuno più, dopo i greci e i romani, fosse venuto ad albergare in quel bellissimo e felice paese. Lo scoglio del Capo si avanzava fra i due golfi, bagnato di luce da una parte, oscuro dall'altra, ma tutto il mare, dovunque, qui sotto lambente la pianura vasta dei Bagnoli, laggiù, sotto l'isola di Nisida, e lontano lontano, era un chiarore immenso, immobile e quieto.
—Dio, quanto è bello!—ella disse, con la voce velata dalla emozione.
Là innanzi, creata dalla natura, è una piattaforma quasi rotonda, una terrazza messavi dal Signore, a cui gli uomini hanno aggiunto un muretto rotondo per appoggiarvisi, per sedervisi; di là tutto si vede. Di giorno su quella terrazza vi sono tre o quattro mendicanti, vecchie e piccine, che chiedono fastidiosamente l'elemosina agli stranieri estatici; ma di notte non un'anima, non un passo. Sulla terrazza, lungo il muretto e dietro ad esso, pei greppi, cresce l'erba selvatica odorosa e qualche piccolo fiore agreste. Essi si fermarono colà silenziosi, appoggiati al muretto, senza lasciarsi, penetrati dalla poesia ineffabile di quell'ora, in quel paesaggio: poesia intima e profonda che misticamente li avvolgeva.
—È tutta dolcezza—disse la fanciulla, la cui voce si era velata, affievolita.
—Infinita dolcezza—rispose lui come un'eco.
—Chi abita in quell'isola, lassù?—chiese ella, levando la mano, indicando Nisida.
—Una gente trista….—e pareva non volesse continuare.
—Che gente?—insistè lei, piegando il suo bel viso chiaro verso di lui.
—I galeotti: lì v'è il bagno penale.
—Una gente infelice—ella corresse, umilmente.—Ma le belle notti estive, le belle notti lunari, si levano anche per essa.
—Cara Luisa….—ripetè lui, vagamente.
Ella lo guardava pronunziare il suo nome, non solo assaporandone la musicalità, ma sentendone acutamente tutto il tono, tutta la intenzione. Ogni volta che questo nome usciva dalle sue labbra, ella aveva un piccolo tremito interno: quando già il nome era stato portato via dalle onde dell'aria, ancora in lei, nel suo cuore si allargavano più grandi, più grandi i cerchi di quel tremore.
—Guardate quelle casette, laggiù?—continuò ella, per sfuggire alla sua crescente commozione, accennando alle casette dei Bagnoli.—Son tutte chiuse, non un lume. Tutti riposano felici, senz'aver bisogno di ammirare la notte e la luna…..
—Gli abitanti di quelle casette videro un giorno un orribile spettacolo—rispose lui, macchinalmente—è qui che hanno fucilato Misdea.
—Qui?
—Laggiù, in quella pianura.
—In una notte come questa?
—No, in un'alba freddissima.
—Perchè lo hanno ucciso?
—Perchè aveva ucciso.