XIII.

*

Atarah regna sopra un vasto impero;Ha dolce l'occhio e lo sguardo severo,E passa eretta fra le vinte genti.Le sue pupille sono più fulgentiD'ogni fuoco che brilla al diademaPel quale ognuno innanzi ad essa trema.La strana gemma che il coturno allacciaDall'alto carro par che guardi in faccia—Mentre il corteggio maestoso incede—Il popol schiavo che le giunge al piede,(Al piè divin che sa sulla cerviceDell'uom posare e renderlo felice).Ella è possente, e se bella non fosseCol terror frenerebbe le sommosse;E come un uomo ella saprìa regnareE ricever l'incenso dell'altare.Ed anco è bella, e se non fosse fortePadrona pur sarebbe della sorte,E senza scettro ella potrìa guidareLa moltitudin cui dal monte al mareAbbaglia il ritmo di sue forme e il truceOcchio languente dall'arcana luce.

Ella non teme alcun rivale e sfidaChe il più grande l'offenda o la derida,E non paventa alcun Iddio e chinaNon si prostra ad alcun, poichè è divina.Sapïente, l'immenso impero reggeE per sè non conosce alcuna leggeE frena il mondo e non subisce freno.—E quando passa, alta e scoperto il senoMarmoreo e bruno e coronata in fronte,Porta la gloria alteramente e l'onte.

Prostràti al suolo cristïani e moriMiran tacendo i mostruosi amoriCui potenza e talento ognor la spinge—E i suoi desir stupiscono la sfingeChe sogna sempre nella sabbia avvintaDall'immenso silenzio intorno cinta.

Ella tutto provò. Nei più segretiAbissi del piacer con gl'inquietiSensi seguì la mente che galoppa,La fantasia malsana; e nella coppaCercò l'ultima goccia. E tutto il campoDel possibile scorse (come lampoChe ovunque guizza) e lo trovò assai vasto,Ma limitato. Nulla m'è rimasto?Disse sognando, e con la sua possanza,Con l'ingegno che annulla la distanza,Con la muta scïenza della carne,I toccati confin vuole allargarne.

Si risovvenne ed inventò. La storiaLe fu maestra, ma ad infame gloriaPeggiore ell'è d'ogni regina; strinsePiù stretti i nodi alla chimera e vinseSemiramide stessa invidïosaNel superbo sepolcro.A mente che osaAiutata dall'oro e dal potereNatura cede.E nelle calde serePerfino il puro ciel complice anch'essoParea s'inebbriasse, a lei sommessoCon le infinite stelle. Ed ella in altoGuardava meditando un qualche assaltoPer convertire coi desiri occultiIl firmamento ad infernali culti.

Lo spirto suo è astuto, ardito e pazzo.—Talor sdraiata in sull'alto terrazzo,Talor seguente in mare le sue flotte—Ora voluttüosa in lunga notteLontan dal sole nel gioir si affoga,Ora il nemico di sua man soggioga.Brevi battaglie lampeggianti adoraEd orgie senza termine in cui l'oraPassa obliata—Poi con regal calmaOzïosa sogna all'ombra d'una palma.

* *

Ella tornava un dì da una vittoriaSuprema, cinta d'abbagliante gloria.E bella al par d'una immortai guerriera…Il suo serto splendeva nella seraSiccome un sol notturno sulla terra,E il popol suo e quello vinto in guerraTremavano davanti al suo passaggio.Ed il cielo taceva sovra il maggioFiorito e caldo, e la città giulivaFiammeggiante brillava sulla riva,Accesa tutta da un delirio immane,Vivente mare fatto d'onde umane,

Sul re captivo ella teneva fiseLe sue pupille.Ella l'amò e l'uccise.

Dei prigionieri poi fissò la sorte;Prescrisse strane leggi; ogni coorteVide sfilare in una polve d'oro.I serti vinti chiuse nel tesoroE prodigò le gemme. Poi le saleE i cortili s'aprirò a colossaleFesta.Nel colmo del gioir furente,Ella scomparve. Andò per la silenteAperta scala al sommo del palazzoD'onde scorgeva l'assordante e pazzoSpettacolo dell'orgia impicciolito.E allor pensò, pensò con infinitoArdire. Ed un desìo sentì dolenteE acuto; e assorta sulla sala ardente,Che avea per vôlta il cielo imperturbato,Ora volgeva l'occhio ancor velatoDa torve ebbrezze, ora mirava inveceLe calme stelle scintillanti. Fece

Un gesto stanco, indi la mano steseE lentamente una gran coppa prese,E la vuotò con un gesto demente.S'accese la pupilla stranamente,Sparì dinanzi agli occhi suoi la festa,Curvossi indietro la sua bella testaSmorta e bramosa sotto il diadema,E cadde morta in una ebbrezza estrema.

Vidi una rotta barca sopra l'umidaSpiaggia caduta, e giunta ai giorni estremi;Dall'albero pendea una vela lacera,Eran perduti i remi.

Smarrito è ormai il vessillo che fluttua,Franto il timon, le sarte—e la sirenaScolpita sulla prua, ridente al pèlago,Ahi! giace nella rena.

E gli arabeschi, e le dorate, ingenuePitture son raschiate, e nulla restaDella prima parvenza e del bell'impetoDelle sere di festa.

Triste rovina avvolta nella polvere,Pur bella ancora per le svelte forme!—Simile all'uom che all'avvenire torbidoStanco rinunzia e dorme.

Tra le nubi del ciel, beffardo irrompereScorgeasi un raggio sulla terra serena.Guardai. Sconnesse erano ormai le fradicieCoste della carena.

Era quella la barca che l'oceanoDovea meco solcar cercando i lidiDove viviam felici nell'orgoglioDei sentimenti fidi.

Era quello il navilio delle fervideSperanze nelle imprese ardimentosePer cui s'attese invan vento propizioMentre appassian le rose.

Non indugiate mai, voi che la gondolaTenete in riva pronta per salpare.Furioso irride con lo scherno orribileAgli aspettanti il mare.

Varate pur tra la bufera rapidaIn tra i lampi ed i tuoni e le saette,Fidate pur le vostre gioie al turbine,A un fragil alber strette!

Per chi parte tra i fulmini e le tenebre,Sfidando il mar con una fede ardita,Spesso si snebbia il cielo e azzurro illuminaUna novella vita.

. . . . .

Alta e superba nella sculturalePerfezïon delle sue forme pure,Pare una statua greca—eppur sa il maleDelle tristezze oscure.

Divine son le linee del suo volto,Le curve altere della sua persona.—Nel bianco petto è un cor che soffrì moltoE al soffrir s'abbandona.

Invano nel mirare il suo profiloScorre il pensiero ai lieti dì d'AteneE ricordiam la Venere di Milo.—Le ore non son serene.

A poco a poco sul marmoreo visoNuovo pallor pose la vita. AnticaÈ la bellezza sua, ma il suo sorrisoConosce la fatica.

Che la vostra miseria non mi tange,Nè fiamma d'esto incendio non m'assale.DANTE

*

Ella già visse nell'antico Egitto,Tra le città che sembran visïoni,Allor che gloriosi nel delitto

Trionfavan superbi i Faraoni;E guardò calma col gran d'occhio neroLe feste immense e l'orride tenzoni.

Pallida e bruna, col sorriso altero,Della immobile Sfinge colossaleSfidò lo sguardo bianco ed il mistero

Con la serenità d'una rivale.—E degli amori sempre più implacatiConobbe il peso e il fàscino letale;

E gli ascosi desir negli abbagliatiOcchi d'intera folla plaudenteE le brame che lottano coi fati.

—Poscia sparì d'in mezzo a quella gente,La splendida sua vita ebbe una fine;Crebbe il pallor, fûr le pupille spente,

S'irrigidir le sue forme divineQual prodigio che subito s'arresta,E nel sonno calò senza confine.

In bende avvolta fu dai pie' alla testa,E sotto la piramide, in l'elettoSepolcro preparato come a festa,

Dormì mill'anni con lo stesso aspetto.

* *

Ora è fra noi. Per mistica e segretaLegge rinata sotto nuovo clima,Come una evocazione di poeta,

Bellezza tal che realtà sublima!I dolori dell'oggi ed i desiriGuardando senza sprezzo e senza stima.

Ahi! non cura le gioie ed i martiriDi quest'epoca folle ed ammalata,Ed ignora la causa dei sospiri.

E resta calma e pensierosa, e guataTra le piccole feste e il triste amore,Nel trionfo paranco trasognata.

Della sua vita e morte anterïoreUn vestigio sul viso l'è rimasto;Vi si scorge il ricordo che non muore

Dei sogni ardenti e del suo sonno casto.

*

Giovani e già dalle uniformi greviVicende affranti e dal tornar dei giorniInesorabili,Dagli anni lunghi e dai dì troppo breviOra tumultüosi or disadorni,

Risospinti dal caso, ancor riuniti,Ma più divisi assai che dagli eventiDal sentir intimo,Un istante obliavano, smarritiIn te, Natura, che il cuore addormenti.

* *

Andavan soli come ai dì passatiIn una valle chiusa in mezzo ai monti.Era il meriggio,Ma sui verdi sentier dal sol doratiNell'alme loro v'eran due tramonti.

Ei camminava mesto, lentamente.Guardando le pupille doloroseD'azzurro limpidoE la purezza del profilo, e spenteQuasi sul volto a lei le belle rose.

Gli antichi dì parean tornati ancora;Ei credeva sognare un sogno vero.Le foglie tremuleMormoravan su lor come in alloraChe Amor li precedeva sul sentiero.

L'alte montagne nere e i verdeggiantiColli e le roccie e i pini e le cascateD'argento vividoSuscitavano in lui gli antichi canti,Ricordavano a lei l'ore passate.

Mirava il triste sguardo ed il sorrisoAncor più triste—e gli diceva i fatiLungo il silenzioE la terribil calma del suo visoE i suoi capelli d'oro scolorati.

Egli sentiva nuovo atro doloreE non osava prenderle la mano.Il labbro roseo,La bocca semiaperta come un fioreDavan tormento di desir lontano.

Andavan sempre, appena una parolaVana scambiando ed un sorriso mesto,Ma come un rantoloL'inutil detto ritornava in golaEd il sorriso scompariva presto.

Giunsero alfine al pie' d'una cascataChe dall'alto piombava eternamente;E stanchi, subitoSedetter sulla pietra logorataSotto la piova dell'acqua cadente.

Tutto era verde intorno, alberi ed erbeEd il muschio dei sassi ognor spruzzatiDall'acqua candida,Verdi le foglie e verdi le superbeCime dei monti eccelsi e imperturbati.

A un tratto innanzi a loro una parvenzaVaga si leva. Uno spettro gentile,Ahi! bello e pallido,Oltremodo e silente. Eppure senzaStupore lo guardaro in atto umile.

Poichè l'avevan ben riconosciutoAl pallore, agli spenti occhi divini,Ai raggio lividoChe uscìa da lui, ed al suo labbro muto,—E rimaser tremanti, ad occhi chini.

Era il povero antico amor, perdutoDa tanto tempo, d'ogni speme privo,Disciolto in l'aere!…E fûr trafitti da un rimorso acuto,L'antico amor non era ahimè! più vivo.

Ahi! senza vita egli era a lor davantiCoi capelli di fiori incoronati,Ma eran languideAppassite ghirlande e i vecchi piantiS'eran negli occhi suoi cristallizzati.

Lo spettro cadde a terra. Allor pietosaAnco una volta la bella compagnaPosò un ginocchio;Lui pure si chinò; la prezïosaSalma portaro in mezzo alla campagna,

La portarono insieme a un vasto pratoSolitario più ancora e là, scavataLa terra, un tumuloApprestarono, ed or giace isolatoL'amore che finì la sua giornata.

La fossa è larga e guarda il firmamentoPerchè ei possa risorger s'è immortale,Ed in silenzioRestaro a lungo là senza lamentoE sentivan passar soffio letale.

Ed ella, fredda, lui guardava intantoSenza fede oramai ne' giorni bui.Guardava gelida;Ed ei sentì che l'occhio senza piantoDicea che aveva amato più di lui.

. . . . .

La terra è un punto in mezzo al firmamento,Tra una polve di soli astro ignorato:Atomo è l'uomo ignaro del suo fato,Che appena nato è spento.

—Cosi pensiam nelle ore solitàrieQuando è di noi signor solo il pensiero,Quando cerchiam senza fralezza il veroE scrutiam l'invisibile—

Ma allor che avvinti da due bianche bracciaNella festa dei sensi appare il veroE ne sembra si fonda ogni misteroNel mistero d'un bacio,

Sentiam che vasto più del vasto cieloE più forte del fato Amore impera,Che l'uomo è il re per cui vediam, la sera,Steso il sidereo velo.

*

Risplende il sole; il vasto cielo puroDistende la sua pace sovra il mondo;Dormono le colline, e lungi, in fondoMette una riga nera il bosco oscuro;

Ed il largo viale sontüosoConduce nella villa abbandonata,Aperta, dove l'alta sala ornataÈ piena di frescura e di riposo.

Errando nel tepor del mezzogiorno,Due vaghi amanti innanzi a quella villaS'arrestan contemplando la tranquillaVista pensosi e il muto parco intorno,

Il vecchio giardiniere ai vaghi amantiMostra la casa, e lor dice una storiaD'amor celati e di trascorsa gloria,Di luminosi giorni e amari pianti—

E d'una principessa innamorata,Da ognun respinta e fiera del suo fallo…—E la descrive—amazzone, a cavalloPassare per la strada ombreggïata—

Amorosa sedere in sul terrazzoAll'ora del tramonto a Lui vicino,—Poi sollevare uscendo dal giardinoCon la piccola mano il greve arazzo.

* *

I vaghi amanti erraron fino a seraTra le aiuole e i sentieri, e nelle vasteGallerie, su e giù tra le rimasteGaie memorie d'una gioia vera.

Il sorridente amor loro apparivaIl sovvenir d'un sentimento fido,La lunga festa del nascosto nido,La passion che nel desir si avviva,

I rai del sol sulle sboccianti roseE la profonda gioia contenutaE il ridere argentino fra la mutaComplicità festosa delle cose.

Ridean le cose. Un'allegria infinitaUsciva dai cespugli, dai viali,E tra i profumi e un vivo batter d'aliNell'ebbrezza la mente era smarrita.

E desiaron di restare. L'almaDovea goder più dolcemente e forteIn un tal sito l'indulgente sorteChe permetteva lor sì dolce calma.

* * *

Ma l'ombra scese della sera, a pocoA poco invase il cielo ed ogni loco,E stese un velo sui ricordi lieti.S'adombraron le lucide pareti,Smorti si fero i bei colori, spentiGli estremi bagliori aurei correntiIn su le stoffe sontuose e oscure,Sulle quali vivevan le figureDipinte una esistenza tenebrosaMentre morìa la vita vera. AscosaMalinconia sorgeva nei recessiAmati dove dagli Dei concessiDivini istanti eran trascorsi.E vociSorger pareano arcane—e dubbi atrociMormoravano allora e di segretiDolor non anco espressi dai poetiSvelavano a metà l'atro mistero,Senza parole definite, il veroNudo mostrando e la fuggente gioia.E lo spettro s'alzava della NoiaRegina alfine, ed i sospetti mutiS'infiltravan siccome dardi acutiPer l'alme scosse nella giovin fede.E si sentia che l'uomo, triste eredeDi colpe antiche e di fralezze vili,Sol può tener con vincoli sottiliPer un istante l'alta, passaggieraFelicità, senza misura, intera.

Piangean le cose—una tristezza immensaS'alzava ovunque; si facea più densaLa tenebra che ai cuori s'infiltrava.—Nello sconforto che la mente aggravaI rosei sogni già finiano in pianto—Rotto pei due era il soave incanto—La villa, prima gaia e ospitalieraNel dì sereno, or diventava nera,Arcigna e chiusa in ostile rifiuto.Sacrileghi sentiansi entro quel mutoTempio dal Dio crudele abbandonatoSu cui librava il minacciar del FatoUguale sempre e che si fugge invano.

Il desire parea fatto lontano.Ed un fantasma incontro a lor venìaChe avea sul volto il Duolo e l'Ironia,La sazietà e la gioia bugiarda,L'ipocrita pietà per cui s'attardaL'amor che menzognero ancor sorride.

Il vecchio giardiniere allora videFuggire i due amanti impalliditi:—La bella villa dai cortesi invitiOr sembrava un soggiorno di iattura,—Scansando il malaugurio, dalle muraUsciron presto del giardin deserto,E ripresero il lor cammino incerto.

Il palazzo è di marmo, e le fontaneEbber zampilli lieti e gorgoglianti;Sovra i pilastri due leon rampantiSuperbi ancora alzan le zanne vane.

Il cancello ad ornati irti e pesanti,Semiaperto, cadente, alle lontaneVille ricorda ancor le pompe insaneE le feste e gli amori e gli alti vanti,

Ma l'erba intanto cresce in sul viale,La ruggine corrode i gran blasoni,E stanno chiuse le istoriate sale,

Ahi, prive di chiarore e di canzoni!—La noia regna in fra le due grand'aleE con l'edera sale pei balconi.

Credete che la forma passaggieraDalla materia eterna ch'è sua culla,Come caduta in mar goccia leggieraDisparirà nell'ocean del nulla.

Sperate che il destin che si trastullaCon l'alma nostra rifulgente e nera,Allor che lascerem la terra brullaNe affogherà dentro una notte vera.

Ma v'ingannate: eterna è la condanna.Desire ignoto gli scomparsi affanna;Nasce chi muore, ad altro sol gettato.

Ma forse il dì della stanchezza estremaComprenderemo alfin tutto il poema,Ed in quel dì perdoneremo al fato.

La testa, il busto suo da imperatriceSembran scolpiti in marmo imperituro;Nel circo avrìa sorriso al morituroGladiator, suprema vincitrice.

Il morso dei desir, che a noi non liceImpuniti pensar, nei dì che furoAvrìa sentito e nel triclinio impuroRegnato bionda incoronata attrice.

Or passa altera ma non più serenaNella moderna vita dolorosa,E il suo pallor dice la stanca lena,

Lo sguardo fisso la mestizia ascosa,Lo sforzo d'una fede che raffrenaL'irrequieto spirto che non posa.

Ella ha i capelli biondi e gli occhi neri,Lo sguardo dolce ed il sorriso astuto,Parla talora il ciglio e il labbro è muto,Volan le chiome e gli occhi son severi.

Ha buono il core e lo spirito argutoE i detti or folleggianti ed ora alteri,Variano i suoi pensier sempre sinceri,Ama la canzonetta ed il liuto,

Ama il chiarore della luna mestaE il falso luccicare della scena,Si sente triste in mezzo ad una festa,

Senza ragion l'alma ha di gioia piena.Vuole la calma e brama la tempesta,Bionda con l'occhio ner, cupa e serena.

Col nero e lungo sguardo e con l'arcanaVaghezza del sorriso che indovina,Con la raccolta sua chioma corvinaE col caldo pallor che il viso emana,

Ella sembra venuta da lontanaFesta opulenta dove fu regina.Gemma salvata dalla gran rovinaDella passata gloria veneziana.

Ma per lei si vorrebbe altra cornice:L'antico Canalazzo pien di festaAl tempo di Venezia imperatrice.

Dagli ornati scalini ecco s'appresta..E sullo smalto di quel ciel feliceSpicca il profilo della bruna testa.

È un castello feudale in miniatura,Dall'abbandono sorto in nuovo aspetto;Sei secoli passaron sul suo tettoE or ridon bianche le vetuste mura.

Solitario ed in mezzo alla frescuraD'alte piante, tra verdi prati eretto,Da una profonda fossa è ancor protettoE d'acqua ha ancora una larga cintura.

Ma il ponte levatoio è fisso ormai,E aperta sta la sala allegra e vastaDove non giunge il mugghiar del vento.

E ne sembra il castello, allor che i raiVibran del sol che la torre sovrasta,Gioiel di pietra legato in argento.

Vidi l'umido labbro e pur procaceLo sguardo per lussuria semispento,E il ciglio pien di volontà tenaceE la fermezza del marmoreo mento;

Mirai la linea del profilo altera,La maestà della sua guancia smorta,E dissi: È larva od è figura vera?È viva o dal passato alfin risorta?

Chi è mai? Chi fu?—Ma nuova visïoneS'alzò dinnanzi alla mia mente scossa:Era una sala aurata, e più personeIn una luce profumata e rossa,

E Lei rividi bella e tenebrosaVersar l'ebbrezza in cesellata coppaE accendere il desir che più non posaMa vola ognor della Chimera in groppa!

Era l'antica cena di Ferrara,L'amor letale ed il velen dell'orgia…E riconobbi, uscita dalla baraAlla moderna età, Lucrezia Borgia.

Senza rumore, immacolata e lieve,Sovra il ghiaccio del lago smerigliatoIn linee lunghe scende ognor la neveE bianco sembra l'aere rigato.

E fino agli orizzonti indefinitiTutto è candore. In sulle opposte rivePendono gigantesche stalattitiCoperte di diamanti e luci vive.

Si disegnano i rami delle pianteIn bianco sovra il cielo grigio e smorto.I fiori son spariti e tutte quanteLe frondi e l'erbe. Ed ecco tutto è morto

Per un tempo e sepolto nell'inverno.Cosi tace talora ogni desìoE sembra spento pure ciò ch'è eternoSotto il manto di neve dell'oblìo.

Diritta e bianca sorge in sul camminoArido e triste della vita umana,Fragile come un fior di gelsomino,Eppur dotata di potenza arcana;Soave qual chi ancor ride al destinoMa altera come l'errante Dïana.

Dalle svelte sue forme arrotondate,Dallo sguardo, un olir voluttüoso—D'acri gioie imminenti ed aspettateSpira, desìr sotto le nevi ascoso.Il sen, le braccia di bellezza armateFormidabili sono nel riposo.

Par quasi nero il mare sconfinatoSotto il cielo pesante e cupo. Il ventoTace e tutto ne sembra addormentato;Nella natura ogni volere è spento.

Dovunque regna una oppressiva pace,S'odono mormorii sottomarini.Si dirìa ferma alfin l'ora fugaceE che immobili pendano i destini.

Ma è minacciosa la profonda e mestaCalma che rassomiglia ad una morte…Ed ecco, lungi, un soffio di tempestaEd un fragor di ferree infrante porte!

Sordo rumor e lampi ardenti e tuoni,Tenebra fitta e luce che ne abbaglia…E in mezzo alle fulgenti visioniLa letale magia della battaglia!

Di gente affaccendata è pieno il porto.Tutto è clamore, grida e voci sorde;Parlano i marinai con gesto accorto,Stridono lungo gli alberi le corde.

Al brulicar del suolo fa contrastoL'austera calma maestà del mareChe si stende color di piombo e vastoFin dove sguardo umano può arrivare.

E sotto il sole ardente d'improvvisoTutto si tace e sta ciascuno e guata.Brillano gli occhi in ogni attento viso,La folla in varie pose sta atteggiata

Verso un sol punto. Ed ecco, abbandonandoLenta la riva, al pelago infedeleRivolta, ubbidïente ad un comandoEsce la nave lieta a gonfie vele.

Circondata da rupi alte e scosceseLa valle è angusta, strana e tenebrosaPer l'altezza degli alberi. Il paeseÈ degno d'ispirar Salvator Rosa.

Sotto quell'ombre, in tra le roccie rotte,Si sognano guerrieri in armatureChe pugnan dal mattin sino alla notteCon la lancia affilata e con la scure,

Ed il cozzar de' destrier bardatiE il fluttuar dell'ondeggianti piumeE gli scudi sonare e gli ululatiDei feriti che piombano nel fiume.

I prodigiosi assalti e l'ire pazze,E il delirio di vincere e le scosseSupreme, allor che gli elmi e le corazzeSi spezzano e le spade sono rosse,

Gli sguardi irati uscir dalle visiereE i lampi irradïar l'orrenda scena!—Ma passa un fanciullin con un paniereVociando una canzone a gola piena.

Tutto riposa al raggio della luna,Ma il viale è nell'ombra a noi davanti.S'ergono all'aura in lunga fila brunaI profili degli alberi giganti.

Biancheggia in fondo tacita la villaTutta chiusa, deserta o addormentata.Non si scorge laggiù lume o scintilla,Ma la vôlta del ciel tutta è stellata.

Un poema infinito ed amorosoLe foglie vi susurrano giulive…Il parco nella notte appar festosoE le statue intraviste quasi vive.

Dormono i nidi ed i fragili fioriPosan col capo languido che pende,Si confondon le forme ed i colori…—E l'ombroso vial qualcuno attende.—

Il gracile tuo corpo lotta fieraBrevemente pugnò:—Ma vinse alfineL'alma alata e fuggì. Misera fine,Vittoria altera!

L'alma fuggì pari ai fulgenti versiChe uscìan da te quasi inconsciente e ignaro—E se ne andavan per le vie dispersiDel mondo avaro—

E mentre qui tarda giustizia ormaiAl tuo nome si rende sull'avelloChe incoronato di pòstumi raiRisorge bello,

E mentre qui trovano alfine il porto,Il rimpianto e la lode i tuoi poemi,E rivivono i primi con li estremi,—Or che sei morto—

Tu forse già mutato in altra formaGioisci d'una gloria assai più pura,Di qualche nuova vita nella normaA noi oscura.

Ma nella tomba o in nuovi dì raggiantiHai scordato, non vedi e non ascolti,Ed ignori i pigmei a te rivolti,Ora inneggianti!

* Dal libroLe Tombeau de Théophile Gautier(Paris, Lemerre, 1873).

Sereno, e stanco di vicende umane,Questa terra inquieta egli ha lasciato.Egli, il Maestro, delle forme arcaneInnamorato.

Era forte nell'arte—era il leone.Ne possedea la maestà severa,Lo sguardo assorto in calma visïone,E la criniera.

Risuscitò l'ignota poesia,Evocando col suo desir possenteIl fulgore infocato e la magìaDell'Orïente,

I monumenti sotto il cielo apertoNella tòrrida luce polverosa,E la sublime noia del desertoSenza una rosa.

Disse Bisanzio dove l'onda bagnaL'alte moschee dalle dorate fronti,I calli angusti nella dolce SpagnaIn mezzo ai monti.

Fu dell'Italia appassionato amanteE ne applaudì la gloria e la fortuna,—I palazzi il ricordano vagantePer la laguna.

Cantò la Gioia e il Bello e la paganaVoluttà della Forma, e gl'imi amoriDelle cose e i desir—l'ebbrezza umanaE i suoi colori.

Eppur sapeva le segrete peneE le immense mestizie del poeta;Sentì tristezza nella morta Atene,Pensò alla mèta,

Al destino, alla brama d'Infinito;Pianse il passato ed indagò il futuro,Interrogò le sfingi, e tese il ditoVerso l'oscuro.

L'occhio profondo all'orizzonte voltoAssaliva i confini del pensiero…E il suo sogno vagava ognor più scioltoOltre il mistero.

Or lo ha seguito. Ei che raggiunta aveaPerfezione impeccabil di parola,Sentiva in sè come sepolta deaL'alma che vola.

E forse già lassù dove s'ammantaLa gran luce terribile e superna,Bello di nuova vita, ardente cantaLa Beltà eterna.

Her eyes were as a dove's that sickeneth.SWINBURNE

Bianca apparizïon dagli occhi immensi,Dal magro viso smorto, dove un fioreSanguigno par la bocca che nei sensiVersa ignoto languore,

Ella s'avanza, arcana creatura,Dell'ideai col vero unione estrema,Anima che traspar dalla figuraE il corpo strema.

Ed in mezzo al silenzio uno strumentoNuovo risuona per la vasta sala…È la sua voce musical, portentoCh'alta dolcezza esala.

Le rime echeggian nuove ed ecco i vietiRitmi ne sembra udir la prima volta;Quelli accenti di fàscini segretiEmpion la vôlta.

Ella commove fin le turbe sordeE l'ascosa rivela umana fibra.Lira vivente dalle cento cordeChe ad ogni tocco vibra.

Or la vediamo pura statua, eternaClassica imago dalle caste pose;Ma all'indomani si rifà moderna,E con le ondose

Movenze ed il febbril gesto e il sorrisoParigina si mostra—avventuriera—Gran dama—amante dallo stanco viso,Smorta, morbosa, vera.

La lunga stola dalle pieghe belleTragicamente cade sul suo piede;Ella prega ed impreca—irosa—imbelleComanda, chiede,

Schiava, regina dal gemmato crine—Innamorata, ascetica, pagana…—Poi sovra il raso sa sgualcir le trineOcchïeggiando vana.

E a dieci lustri d'intervallo il drammaRifulge ancor nella novella attrice,Arde in quell'esil corpo una gran fiammaDivoratrice.

E, presente, il Poeta imperituro*Rammenta il dì della battaglia vinta!Ed al supremo suo trionfo puroOra la vuole avvinta.

E dico a Lei: avventurosa, insiemeAl plauso della folla il plauso ottieniDi Lui che ancor dall'alto tuona e geme,Spezzati i freni.

Vivo Egli assiste alla sua gloria intera;E applaude a te, artista, e a te sorride.—Il tuo meriggio unito alla sua seraNon scorderà chi vide.

* Victor Hugo assisteva nella primavera del 1879 alla prova generale diRuy Blas—in cui Sarah Bernhardt aveva assunto la parte della Regina.

Shakespear ne appar quale caverna misticaDa lontano riflesso stenebrata;Incerto è il suol, ma di rubini e zàffiriLa vôlta costellata.

Chi vi s'interna sente l'ali viscideDelle strigi passar sulla sua fronteE trova ignoti fior foschi e purpureiNelle sanguigne impronte.

Incespica tra i scettri e le corone,Urta i fantasmi mesti degli uccisi;Poi lo incanta la bianca visïoneDi sovrumani visi.

Inorridito per le larve pallide,Mentre fugge accecato dalle spade,Ode dal fiume la canzon d'OfeliaE il sovvenir lo invade.

E l'immensa caverna ognora stendesiDa ogni lato nel mondo interïore,O tenebrosa nel delitto o roseaNel mistero d'amore.

E l'uomo vi si perde senza guida,Oppresso, ammaliato, smorto, anelo…Ma pur fra il tenebrore e fra le stridaScorge un lembo di cielo.

Nè bello il vide mai qual nella plumbeaNotte di quelle stanze sontüoseIlluminar da una fessura tenueLe più sordide cose.

Passan guerrieri spaventosi e taciti,Passan regine pel rimorso scarne,Tornan sibille con l'antico dubbioLo spirto a affaticarne.

Contorce il riso il labbro del buffone,E intanto al suoi cade una testa mozza…Vicino al canticchiare del beoneLa passïon singhiozza,

La più gentil pietà vive in CordeliaEternamente—e ognora Otello latra;Vince ogni senno con le forme olimpicheL'imperïal Cleopatra.

Or tu, sublime attore, alta una fiaccolaScotendo in mano, discendesti al fondoDella buia caverna in cui nascondesiEntro la terra un mondo.

Animoso scendesti del PoetaNel vasto impero ove il volgo si tedia,E forzasti a parlar, possente atleta,La velata tragedia.

E il popol vide corruscar di rùtiliGemme la vôlta, e le pareti in fiammaPareangli allora che la vita scorrereSentivasi nel dramma.

Ai corpi, creator, donasti il palpitoStrappando ad ogni petto il suo segreto;Nè si potè celar nel nero strascicoIl sognatore Amleto.

Qui ne appare un profilo e là d'un torsoI muscoli, e laggiù brilla uno sguardo…Or ne atterra il delitto, ora il rimorsoDi Macbeth o Riccardo.

Con la toga romana, o sotto il lucidoCorsaletto, od il manto d'ermellino,Del cuor dell'uom sentiamo eterno il battitoPauroso del destino.

E ognor t'inoltri con l'accesa torcia,Infaticabil cercatore ardito,E rischiarato dal fulgente genioMostri un regno infinito.

Era una notte chiara e tropicale.Nell'aria torridaPassava un soffio di languor letale,Afrodisiaco.

Sul mar brillava un luccichìo di fosforo,Misterïoso;Parca forier di cósmiche battaglieL'alto riposo,

Morivan lenti in su la calda rivaI flutti languidi,L'onda lambendo la rena morivaCon lungo murmurare.

Tutto era bruno: e terra e cielo e oceano;Taceano i venti,Eppur movea lassù un arcano palpitoLe stelle ardenti.

Stendeasi in là, vastissima pianura,Il suol dell'India;Il sacro suoi della gran fede oscuraPieno di tènebre.

Pareva il mar d'alto portento gravido.Irrequieto,Ma la natura già potea conoscereIl suo segreto.

Ecco, d'un tratto, l'onda si divide,E sorge argenteaIn mezzo al mar che intorno ad essa rideUna conchiglia,

Vasta conchiglia illuminata, rosea,Che par dischiudaCosa di ciel, poichè vi sorge VenereDivina e nuda,

Ma paurosa ancor più della grecaBellezza candida,Chè bianca no, ma è d'un color che acceca,Di bronzo splendido.

S'allieta il ciel, la luna vibra un raggio…Ed ecco alteraIncanta allora in sua beltà terribileVenere Nera.

Lontana dai rumor, chiara e quieta,Addorme il core ed il pensier risvegliaLa stanza del poeta,Qui c'è l'impronta della lunga veglia,Là stanno i libri che lo spirto adora,Ovunque è sparsa una malìa segreta.

La penna giace non asciutta ancora;Tutto spira la vita e insiem la pace.Ed il sole coloraOgni appeso ritratto: là, procace,Mostra un'attrice le sue grazie infideE turba lievemente la dimora.

Qui s'impegnò la lotta che non videIl lettore distratto; e qui l'ideaPassò come la donna che sorride,Poi torna Dea.—Su un piedestallo, bianca e imperitura,La Venere di Milo ne conquide

Con la sua posa eternamente pura.

*

In fondo ai chiari abissi prezïosiChe il mar contende irato agli occhi nostri,Gl'ignorati tesori stanno ascosi.

Difesi là da spaventosi mostriEd ammassati in cristalline valliIn tra lucenti grotte e rosei chiostri;

In tra le piante strane ed i coralli,Nei profondi splendor che, ignoti, per leIridi hanno riflessi verdi e gialli,

Vergini d'ogni sguardo stan le perle.

* *

Così, lontani e avvolti nel misteroDove sorgon spettrali visioni,Nel dominio fatato del pensiero,

Tra la magìa degli imminenti suoni,Tra i vïolenti olezzi e blandi e acuti,Prede rapite e ben celati doni,

Tra gli azzurri vapor come perduti,In confuso fulgor misti e sommersi,Attendendo i poeti ed i lïuti,

Non anco detti stanno i nuovi versi.

I.Invitte stanno le superne cime3II. Separazione 15III. Storia di mare 33IV. Alla sera 47V.Rose appassite cui non rise il sole51VI. Presentimento 57VII. Nel parco 63VIII. Semper et ubique 67IX. Gli amori 79X. Una voce 89XI.Fuggiva il giorno ed io pensai97XII. La cascata 107XIII. Atarah 111XIV. La barca 121XV.Alta e superba nella sculturale127XVI. Resurrecta 131XVII. Fra i monti 137XVIII. La terra è un punto in mezzo al firmamento 145XIX. La villa 149XX. Gioia passata 159XXI. Risposta 161XXII. Ritratto 163XXIII. Ritratto 165XXIV. Ritratto 167XXV.È un castello feudale in miniatura169XXVI. Rassomiglianza 173XXVII. Paesaggio 175XXVIII. Sotto un ritratto 177XXIX. Marina 179XXX. Marina 181XXXI. Paesaggio 183XXXII. Paesaggio 185XXXIII. A Emilio Praga 189XXXIV. Théophile Gautier 193XXXV. Sarah Bernhardt 199XXXVI. A Ernesto Rossi 205XXXVII. Venere Nera 213XXXVIII. Interno 217XXXIX.In fondo ai chiari abissi prezïosi219


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