EPILOGO

EPILOGO

Noi sappiamo chi fu Giacomo Leopardi grazie all'analisi particolareggiata di tutte le sue circostanze intrinseche ed estrinseche, ed alla sintesi del suo pensiero; tra le prime e il secondo abbiamo trovato un nesso intimo, un rigoroso rapporto. Pure questo nesso, questo rapporto è negato, non solo da altri, da molti biografi e critici, ma anche, e prima e più vivacemente di tutti, dallo stesso Leopardi. “Ce n'a été que par l'effet de la lâcheté des hommes, qui ont besoin d'être persuadés du mérite de l'existence, que l'on a voulu considérer mes opinions philosophiques comme le résultat de mes souffrances particulières, et que l'on s'obstine à attribuer à mes circonstances matérielles ce qu'on ne doit qu'à mon entendement. Avant de mourir, je vais protester contre cette invention de la faiblesse et de la vulgarité et prier mes lecteurs de s'attacher à détruire mes observations plutôt que d'accuser mes maladies.„ Senza violenza, ma con ironia, quando lo Stella gli riferì il giudizio d'un lettore, secondo il quale lesue teorie non erano “fondate a ragione ma a qualche osservazione parziale,„ egli rispose al suo editore: “Desidero che sia vero.„ Ed anche Tristano, all'amico che giudica il suo libro sulla vita malinconico, sconsolato e disperato perchè egli, l'autore, è infelice, risponde che tutto si sarebbe aspettato “fuorchè sentirmi volgere in dubbio le osservazioni ch'io faceva in quel proposito, parendomi che la coscienza d'ogni lettore dovesse rendere prontissima testimonianza a ciascuna di esse. Solo immaginai che nascesse disputa dell'utilità o del danno di tali osservazioni, ma non mai della verità, anzi mi credetti che le mie voci lamentevoli, per essere i mali comuni, sarebbero ripetute in cuore da ognuno che le ascoltasse. E sentendo poi negarmi, non qualche proposizione particolare, ma il tutto, e dire che la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d'infermità, o d'altra miseria mia particolare, da prima rimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso, e per più giorni credetti di trovarmi in un altro mondo; poi, tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi....„

Prima di esaminare il valore delle sue proteste, notiamo che egli non le ripete sempre con tanta violenza ed ironia; che anzi più volte fa molte concessioni ai suoi contraddittori. Questo medesimo Tristano che si èsdegnato ed ha riso, e che propone anche, al colmo del sarcasmo, di bruciare il proprio libro “come un libro di sogni poetici, d'invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come un'espressione dell'infelicità dell'autore„; confessa poi, sul serio e non più da burla, la propria infelicità: “perchè in confidenza, mio caro amico, io credo felice voi e felici tutti gli altri; ma io, quanto a me, con licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo; e tutti i giornali de' due mondi non mi persuaderanno il contrario.„ Ed Eleandro: “Io giudico, quanto a me, di essere infelice; e in questo so che non m'inganno. Se gli altri non sono, me ne congratulo con tutta l'anima. Io sono anche sicuro di non liberarmi dall'infelicità prima che io muoia. Se gli altri hanno diversa speranza di sè, me ne rallegro similmente.„ Con eguale sentimento, aggiuntovi il terrore del mistero, il Pastore asiatico canta:

Questo io conosco e sento,Che degli eterni giri,Che dell'esser mio frale,Qualche bene o contentoAvrà fors'altri; a me la vita è male.

Questo io conosco e sento,Che degli eterni giri,Che dell'esser mio frale,Qualche bene o contentoAvrà fors'altri; a me la vita è male.

Questo io conosco e sento,

Che degli eterni giri,

Che dell'esser mio frale,

Qualche bene o contento

Avrà fors'altri; a me la vita è male.

È possibile che questa coscienza della propria sciagura non determini la sua filosofia disperata? Uno dei caratteri salienti ne è, come vedemmo, la misantropia; e di questa, biasimandola in Eleandro, Timandro assegna la causa: “Voi parlate„, gli dice, “al vostro solito malignamente,e in modo che date ad intendere di essere per l'ordinario molto male accolto e trattato dagli altri: perchè questa il più delle volte è la causa del mal animo e del disprezzo che certi fanno professione di avere alla propria specie.„ Si confrontino queste parole con quelle che il Leopardi disse in prima persona:

aspro a forzaTra lo stuol de' malevoli divengo,

aspro a forzaTra lo stuol de' malevoli divengo,

aspro a forza

Tra lo stuol de' malevoli divengo,

e con queste altre:

E sprezzator degli uomini divengoPer la greggia ch'ho intorno:

E sprezzator degli uomini divengoPer la greggia ch'ho intorno:

E sprezzator degli uomini divengo

Per la greggia ch'ho intorno:

si vedrà che il suo disprezzo dei proprii simili dipende dal disprezzo che egli stesso ha patito da essi. Tanto egli è persuaso di questa verità, che le dà forza di sentenza: “Chi comunica poco cogli uomini, rade volte è misantropo. Veri misantropi non si trovano nella solitudine, ma nel mondo: perchè l'uso pratico della vita, e non già la filosofia, è quello che fa odiare gli uomini.„

È sempre difficile, e qualche volta anche risibile, il tentar di immaginare che cosa sarebbe stato un uomo se diverse in tutto o in parte fossero state le sue circostanze. Chi può dire che cosa avrebbe scritto Dante se non fosse stato bandito, o che cosa avrebbe fatto Napoleone se fosse nato un secolo prima? Una logica inesorabile governa tutte le opere umane; se noi possiamo credere di disporreliberamente della nostra vita e del nostro pensiero avvenire, non possiamo negarne, anzi continuamente ne discopriamo la rigorosa determinazione nel passato. Pertanto è impossibile giudicare quel che sarebbe avvenuto di Giacomo Leopardi in circostanze diverse dalle sue; ma questo rigore di determinazione egli stesso dimostra, anche senza volerlo. Non c'è uno solo dei suoi giudizii che non sia suggerito da un'impressione ricevuta; i fatti esercitano una continua influenza sul suo pensiero. A Bologna gli uomini gli parvero “vespe senza pungolo.„ Perchè? Perchè vi fu bene accolto. Milano fu detta da lui “insociale„ perchè non fu contento dell'accoglienza che vi trovò. A Napoli, sul principio, sentendosi soddisfatto, lodò l'indole “amabile e benevola„ degli abitanti; poi, trovatosi male, capovolse il suo giudizio. Egli espressamente confessa quanto gli riuscisse funesto l'essersi visto disprezzato e fuggito a Recanati: “cosa che per altro ha pregiudicato per sempre al mio carattere.„ Confessa ancora che tra le cause della sua malinconia a Roma, gran parte ha la sua “particolare costituzione morale e fisica.„ Se, anche restando a Recanati, le malattie gli danno tregua, queste tregue suscitano “qualche speranza di potermi rifare mutando vita.„ Se appena egli potesse occuparsi a suo agio negli studii, la sua disperazione sarebbe mitigata: “Dici troppo bene ch'ioforse non m'accorgerei, certamente non sentirei tutta la nullità umana se potessi ancora trattenermi negli studi.„ Basta talvolta la primavera a consolarlo: “Io sento riaprirsi l'animo al ritorno della primavera, chè certo due mesi addietro ero stupido, insensato in modo, ch'io mi faceva maraviglia a me stesso, e disperava di provar più consolazione in questo mondo....„ Egli definisce anche meglio il mutamento che le mutate sue condizioni producono in lui quando si duole col Giordani perchè questi è caduto nella stessa malattia d'animo che ha afflitto lui: “dalla quale non ch'io sia veramente risorto, ma tuttavia conosco e sento che si può risorgere. E le cagioni erano quelle stesse che producono in te il medesimo effetto: debolezza somma di tutto il corpo e segnatamente de' nervi, e totale uniformità, disoccupazione e solitudine forzata, e nullità di tutta la vita. Le quali cagioni operavano ch'io non credessi ma sentissi la vanità e noia delle cose, e disperassi affatto del mondo e di me stesso. Ma se bene anche oggi io mi sento il cuore come uno stecco o uno spino, contuttociò sono migliorato in questo ch'io giudico risolutamente di poter guarire, e che il mio travaglio deriva più dal sentimento dell'infelicità mia particolare, che dalla certezza dell'infelicità universale e necessaria.„ Basta che la sua salute risenta un poco di giovamento dal clima di Pisa, che egli non tremi più dal freddo, che possapasseggiare lungo l'Arno, che mangi con appetito, che abiti una camera a ponente, sopra un grande orto, tra buona gente; che la vita gli costi quanto la sua misera borsa gli consente di spendere, perchè tosto egli si senta rivivere, e torni a far versi, e canti il suoRisorgimento:

Credei ch'al tutto fosseroIn me, sul fior degli anni,Mancati i dolci affanniDella mia prima età:I dolci affanni, i teneriMoti del cor profondo,Qualunque cosa al mondoGrato il sentir ci fa.Quante querele e lacrimeSparsi nel novo stato,Quando al mio cor gelatoPrima il dolor mancò!Mancâr gli usati palpiti,L'amor mi venne meno,E irrigidito il senoDi sospirar cessò!Piansi spogliata, esanimeFatta per me la vita;La terra inaridita,Chiusa in eterno gel;Deserto il dì; la tacitaNotte più sola e bruna;Spenta per me la luna,Spente le stelle in ciel.. . . . . . . . . .

Credei ch'al tutto fosseroIn me, sul fior degli anni,Mancati i dolci affanniDella mia prima età:I dolci affanni, i teneriMoti del cor profondo,Qualunque cosa al mondoGrato il sentir ci fa.

Credei ch'al tutto fossero

In me, sul fior degli anni,

Mancati i dolci affanni

Della mia prima età:

I dolci affanni, i teneri

Moti del cor profondo,

Qualunque cosa al mondo

Grato il sentir ci fa.

Quante querele e lacrimeSparsi nel novo stato,Quando al mio cor gelatoPrima il dolor mancò!Mancâr gli usati palpiti,L'amor mi venne meno,E irrigidito il senoDi sospirar cessò!

Quante querele e lacrime

Sparsi nel novo stato,

Quando al mio cor gelato

Prima il dolor mancò!

Mancâr gli usati palpiti,

L'amor mi venne meno,

E irrigidito il seno

Di sospirar cessò!

Piansi spogliata, esanimeFatta per me la vita;La terra inaridita,Chiusa in eterno gel;Deserto il dì; la tacitaNotte più sola e bruna;Spenta per me la luna,Spente le stelle in ciel.. . . . . . . . . .

Piansi spogliata, esanime

Fatta per me la vita;

La terra inaridita,

Chiusa in eterno gel;

Deserto il dì; la tacita

Notte più sola e bruna;

Spenta per me la luna,

Spente le stelle in ciel.

. . . . . . . . . .

Tale era il suo stato: egli non aveva forzadi lamentarsi, non chiedeva conforto, era immerso come in un letargo dal quale nulla riusciva a destarlo; desiderava la morte, ma gli mancava anche la forza di esprimere a sè stesso questo desiderio. A un tratto non si riconosce più:

Chi dalla grave, immemore,Quiete or mi ridesta?Che virtù nova è questa,Questa che sento in me?Moti soavi, immagini,Palpiti, error beato,Per sempre a voi negatoQuesto mio cor non è?Siete pur voi quell'unicaLuce de' giorni miei?Gli affetti ch'io perdeiNella novella età?Se al ciel, s'ai verdi margini,Ovunque il guardo mira,Tutto un dolor mi spira,Tutto un piacer mi dà.Meco ritorna a vivereLa piaggia, il bosco, il monte;Parla al mio core il fonte,Meco favella il mar.Chi mi ridona il piangereDopo cotanto obblio?E come al guardo mioCangiato il mondo appar?

Chi dalla grave, immemore,Quiete or mi ridesta?Che virtù nova è questa,Questa che sento in me?Moti soavi, immagini,Palpiti, error beato,Per sempre a voi negatoQuesto mio cor non è?

Chi dalla grave, immemore,

Quiete or mi ridesta?

Che virtù nova è questa,

Questa che sento in me?

Moti soavi, immagini,

Palpiti, error beato,

Per sempre a voi negato

Questo mio cor non è?

Siete pur voi quell'unicaLuce de' giorni miei?Gli affetti ch'io perdeiNella novella età?Se al ciel, s'ai verdi margini,Ovunque il guardo mira,Tutto un dolor mi spira,Tutto un piacer mi dà.

Siete pur voi quell'unica

Luce de' giorni miei?

Gli affetti ch'io perdei

Nella novella età?

Se al ciel, s'ai verdi margini,

Ovunque il guardo mira,

Tutto un dolor mi spira,

Tutto un piacer mi dà.

Meco ritorna a vivereLa piaggia, il bosco, il monte;Parla al mio core il fonte,Meco favella il mar.Chi mi ridona il piangereDopo cotanto obblio?E come al guardo mioCangiato il mondo appar?

Meco ritorna a vivere

La piaggia, il bosco, il monte;

Parla al mio core il fonte,

Meco favella il mar.

Chi mi ridona il piangere

Dopo cotanto obblio?

E come al guardo mio

Cangiato il mondo appar?

Se ciò non è opera della speranza, se egli ancora si duole perchè non vedrà mai più ilviso della speranza; se il suo risorgimento non è totale; se egli continua a credere che la natura sia sorda, che non sia sollecita del bene ma soltanto dell'essere, e non si curi d'altro che di serbare gli uomini al dolore; se non ha fede negli uomini nè nell'amore, bisogna accusarne la gravezza dei suoi mali, il lungo abito del dolore. Venti anni di pene fisiche e morali, di aspettazioni vane, di disinganni continui non si possono scordare perchè il nuovo clima è più dolce, perchè la nuova città è più ospitale: il parziale beneficio determina nel suo pensiero una parziale conversione: ma questo esatto proporzionarsi dell'effetto alla causa dimostra appunto come tutta la sua vita morale sia rigorosamente governata dalla sua vita reale.

Il sollievo di Pisa è dipeso dalla migliorata salute; un altro egli ne prova quando il De Sinner gli promette di pubblicare in Germania i suoi scritti filologici. Disperato della gloria, basta che egli creda di poterne gustare i vantaggi perchè tosto ritorni da morte a vita: “Quel forestiero che ha veduto l'Eusebio, è un filologo tedesco al quale.... ho fatto consegna formale di tutti i miei mss. filologici, appunti, note, ecc. cominciando dalPorphyrius. Egli, se piacerà a Dio, li redigerà e completerà e li farà pubblicare in Germania, e me ne promette danari e gran nome. Non potete credere quanto mi abbia consolato quest'avvenimento,che per più giorni mi ha richiamato alle idee della mia prima gioventù, e che, piacendo a Dio, darà vita ed utilità a lavori immensi, ch'io già da molti anni considerava come perduti affatto, per l'impossibilità di perfezionare tali lavori in Italia, pel dispregio in cui sono tali studi tra noi e peggio pel mio stato fisico.„ Quindi la sua misantropia si tempera; egli quasi la critica: “Nessuno è sì compiutamente disingannato del mondo, nè lo conosce sì addentro, nè tanto l'ha in ira, che guardato a un tratto da esso con benignità, non se gli senta in parte riconciliato.„ Ancora meglio: “Io conobbi già un bambino il quale ogni volta che dalla madre era contrariato in qualche cosa, diceva:ah, ho inteso, ho inteso: la mamma è cattiva. Non con altra logica discorre intorno ai prossimi la maggior parte degli uomini, benchè non esprima il suo discorso con altrettanta semplicità.„

Pertanto, dopo averlo negato, egli stesso riconosce esplicitamente il rapporto tra le sue circostanze e le sue idee. Porfirio, discutendo con Plotino intorno alla vanità universale della quale è troppo persuaso, osserva: “E qui primieramente non mi potrai dire che questa mia proposizione non sia ragionevole: se bene io consentirò facilmente che ella in buona parte provenga da qualche mal essere corporale.„ Se queste parole non si riferiscono, come pare evidente, allo stesso Leopardi, noi troviamoche egli confessa a chiare note come la sua filosofia dipenda dalla sua esperienza. Alla sorella infatti scrive: “Direte che io vi sono sempre intorno colla filosofia; ma mi concederete che questa non mi è stata insegnata nè dai libri, ne dagli studi, nè da nessun'altra cosa, se non dall'esperienza: ed io vi esorto a questa filosofia, perchè credo che vi abbiate i miei stessi diritti e la mia stessa disposizione.„ Queste parole sono del 1823: diremo che da giovane egli concedesse quel rapporto da causa ad effetto tra le sue disgrazie e il suo pessimismo che più tardi doveva con tanto sdegno negare? La sua lettera sdegnosa al De Sinner è del '32: leggete che cosa scriveva al Bunsen nel '35, tre anni dopo, e due soli prima di morire: “Voi avete ragione che nelle mie prose la malinconia è forse eccessiva e forse anche qualche volta fa velo al giudizio. Datene la colpa parte al mio carattere, e parte all'età in cui furono scritte....„ Egli quasi vorrebbe correggerle! Il rapporto tra il pensiero e la vita è ancora nitidamente affermato più sotto: “La propria mia esperienza m'insegna che il progresso dell'età, fra i tanti cangiamenti che fa nell'uomo, altera ancora notabilmente il suo sistema di filosofia.„ Che cosa vuol dir questo, se non che la filosofia non è un prodotto puro della ragione astratta, ma il risultato necessario della pratica delle cose? Egli osserva pure come sia erroneo l'attribuirea cause esteriori e reali ciò che dipende soltanto dall'intima nostra natura; i vecchi, per esempio, “riuscendo il freddo all'età loro assai più molesto che in gioventù, credono avvenuto alle cose il cangiamento che provano nello stato proprio, ed immaginano che il calore che va scemando in loro, scemi nell'aria o nella terra.„ Altrettanto non accade in lui, quando, per tutte le sue sciagure, afferma l'infelicità necessaria e universale?

Tuttavia, se per tante prove e per sua stessa confessione la dipendenza delle fasi del suo pensiero dai casi della sua vita è innegabile, che cosa faremo delle proteste che egli pure fieramente lanciò? Perchè protestò talvolta? Perchè non riconobbe sempre che tale egli fu quale doveva essere? Perchè negò l'efficacia dell'esperienza e riconobbe soltanto quella della ragione? Il perchè non è difficile da trovare. Ammettendo senz'altro che dall'esperienza, dalle circostanze esteriori ed intime tra le quali la sua vita si svolse nascesse la sua filosofia, che valore avrebbe essa avuto? Si sarebbe ridotta a un giudizio particolare, a un'opinione personale, a un'impressione fortuita: nessuno le avrebbe dato credito. Se egli voleva — e per la legge dell'amor proprio doveva volere — che fosse appresa come una cosa seria, come un'espressione della verità, doveva necessariamente negarne le cause reali ed affermarne soltanto l'originerazionale. Anche concedendo, come fece a proposito di Bruto, che la disperazione può dipendere dalle calamità, egli doveva presumere che l'ispirazione della calamità “ha forza di rivelare all'animo nostro quasi un'altra terra, e persuaderlo vivamente di cose tali, che bisogna poi lungo tempo a fare che la ragione le trovi da sè medesima„; e che l'effetto della calamità “si rassomiglia al furore dei poeti lirici, che d'un'occhiata scuoprono tanto paese quanto non ne sanno scoprire i filosofi nel tratto di molti secoli.„ E poi: non è una cosa sciagurata che il pensiero umano, che questo nostro giudizio del quale siamo tanto superbi, pel quale ci siamo collocati sul vertice della vita, sia così rigorosamente determinato da cause sulle quali nulla possiamo, sia quasi come un frutto a formare il quale hanno contribuito la specie della pianta, la natura del terreno e l'ordine delle meteore? Non è doloroso, non è male che la nostra mente non possa operare libera e sola, che il nostro giudizio non sia indipendente e sovrano? Il Leopardi intende questa necessità, e se talvolta la nega, la negazione non è altro che una forma di ribellione.

Nè, da un'altra parte, il suo pensiero fu realmente tutto determinato dai soli casi della sua vita, dalle “circostanze materiali„ dalle “sofferenze particolari„ dalle “malattie.„ Noi possiamo trovare nelle storie esempii di vite piùinfelici ancora di quella del Recanatese, senza che per questo i disgraziati abbiano tutto negato; ne troveremo molti che si sono contentati, che si sono confortati; qualcuno anche che ha riso d'un riso schietto. Ma l'esperienza del dolore è acquistata, nel Leopardi, da uno spirito inquieto la cui inquietudine è cresciuta per effetto dell'educazione. Già vedemmo che il colore del tempo nel quale egli visse fu grigio. Nel suo dolore e nel suo pessimismo sono pertanto da distinguere due gradi, ed egli stesso li distingue. Quando dice che vive “malinconico, solitario e tristo„, quando scrive: “Non so perchè, ma mi trovo in una malinconia che cresce ogni giorno„; quando loda la noia e i “dolci affanni„, quando narra che aver pianto a Roma sulla tomba del Tasso è l'unico “piacere„ che abbia gustato nella città eterna; quando compone ilPassero solitario,L'Infinito,La sera del dì di festa,Alla Luna,Consalvo, le poesie idilliache, elegiache, dove la tristezza è composta, dove il dolore è indefinito, egli è un romantico come tutti gli altri. I disinganni inevitabili ai troppo immaginosi, le ferite inevitabili ai troppo sensibili, l'esperienza di alcuni dolori reali, gli avrebbero fatto esprimere quella malinconia diffusa, quasi grata, quasi soddisfatta di sè stessa, che i poeti e i novellieri e i filosofi del suo tempo espressero concordemente. Egli sa che c'è, ed ha realmenteprovata la malinconia dolce e grata; ma perchè i suoi dolori non ebbero limite, perchè lo perseguitarono sino alla morte, perchè egli non potè godere, questo sentimento che è come “un crepuscolo„ dà luogo alla malinconia “nera e solida„ che è “notte fittissima e orribile.„ Guardate il dolente Chateaubriand: non ebbe egli i suoi piaceri, le sue fortune, i suoi trionfi? Il suo pessimismo è pertanto temperato. Un giorno egli scrive: “Ne désirons point survivre à nos cendres, mourons tout entiers de peur de souffrir ailleurs. Cette vie-ci doit corriger de la manie d'être.„ Non è la stessa idea che informa tanta parte degli scritti del Leopardi? Ma lo Chateaubriand, se arriva a concepirla, non la svolge, non la estende, non la sostiene, non ne fa un articolo della sua fede; non la mette neppure in un libro, l'annota in un manoscritto pubblicato dopo la sua morte; fate che, dopo averla concepita, le sventure d'ogni sorta lo perseguitino ogni giorno e lo schiaccino: egli vi tornerà sopra, la svilupperà, l'affermerà — come ha fatto Giacomo Leopardi. Noi già notammo che questi non stima sempre bella e buona la morte: perchè dunque la giudica “atra„, perchè la chiama “abisso orrido, immenso?„ Perchè si duole che la vecchiezza e la morte abbiano principio fin da quando

il labbro infantePreme il tenero sen che vita instilla,

il labbro infantePreme il tenero sen che vita instilla,

il labbro infante

Preme il tenero sen che vita instilla,

e non si possano emendare dalla

Nonadecima età più che potesseLa decima o la nona, e non potrannoPiù di questa giammai l'età future?

Nonadecima età più che potesseLa decima o la nona, e non potrannoPiù di questa giammai l'età future?

Nonadecima età più che potesse

La decima o la nona, e non potranno

Più di questa giammai l'età future?

Se egli fosse costantemente persuaso che la morte è un bene, il solo bene, si dorrebbe così? Se si duole, ciò è perchè non sempre il suo pensiero è tutto ottenebrato: vi sono momenti durante i quali egli pensa che la morte è un male, il peggiore, con la vecchiezza che menoma le potenze vitali delle creature; e pertanto che la vita è un bene vero; che la vita dei giovani, calda, operosa, feconda, dischiusa a tutte le impressioni della natura, confusa nel gran torrente della vita universale, è il bene sommo, il miracolo dell'universo. E non solo il rigore spaventoso del suo destino gli vieta di fermarsi in questi concetti perchè brutalmente interrompe le sue tregue; non solo l'esempio di tanti dolenti lo conferma nella sua tristezza; ma la stessa disposizione della sua mente lo conduce alla negazione assoluta. Forse, attenuate le sue disgrazie, il suo pessimismo non si sarebbe attenuato in proporzione. Avendo cominciato a considerare la miseria del mondo e la vanità delle cose, egli sarebbe arrivato, con minore esperienza del dolore, a conclusioni non molto diverse. Per l'acutezza della sua sensibilità egli doveva naturalmente esprimere un giudizio disperato ad ogni impressione dolorosa; ma egli non erasoltanto sensibile, era anche riflessivo. Noi trovammo in lui un potente spirito filosofico, l'attitudine, l'abitudine, il bisogno di procedere dal noto all'ignoto, dal particolare al generale, dal fatto alla legge. Una mente così logica non poteva credere che il dolore del quale egli era vittima fosse un'eccezione, una rarità, una cosa tutta fortuita; se l'uomo, se il poeta gli si ribellavano — come si ribellarono tante volte — il filosofo doveva vedervi un fatto naturale, necessario; e del fatto accertato doveva indagare la cagione, e trovarla in una legge. Il filosofo, vedendo l'uomo penare, doveva guardarsi attorno per considerare se queste pene fossero realmente singolari, se agli altri uomini fossero proprio sconosciute; e osservando la vita e leggendo le storie doveva scoprire che, esacerbato in lui, il dolore è retaggio di ogni uomo. Egli udì i lamenti esalare dagli oppressi petti dei suoi simili, in ogni tempo, in ogni luogo. Intorno a lui egli trovò altrettanti fratelli in tutti i romantici. Classico, seppe che gli antichi erano assuefatti a credere “che le cose fossero cose e non ombre„ e la felicità “possibilissima a conseguire, anzi propria dell'uomo.„ Ma se la visione della vita e del mondo fu un tempo generalmente luminosa e serena, non per questo mancò l'esperienza del dolore. Anche gli antichi sentirono quel che c'è d'incompiuto, di manchevole, d'incerto nel destino umano, e conobbero l'enormitàdel fato che ci sovrasta, e non furono esenti dalle lacrime; così il Leopardi discoprì nella invidiata serenità dell'ideale pagano le ombre che la velano; e discopertele affermò l'universalità del dolore.

Ecco: “il saggio Chirone, che era dio, coll'andar del tempo si annoiò della vita, pigliò licenza da Giove di poter morire, e morì.... Or pensa, se l'immortalità incresce agli Dei, che farebbe agli uomini.... Gl'Iperborei, popolo incognito, ma famoso; ai quali non si può penetrare, nè per terra nè per acqua; ricchi d'ogni bene; e specialmente di bellissimi asini, dei quali sogliono fare ecatombe; potendo, se io non m'inganno, essere immortali, perchè non hanno infermità nè fatiche nè guerre nè discordie nè carestie nè vizi nè colpe, contuttociò muoion tutti: perchè, in capo a mille anni di vita, o circa, sazi della terra, saltano spontaneamente da una certa rupe in mare, e vi si annegano.„ Ancora: “Bitone e Cleobi fratelli, un giorno di festa, che non erano in pronto le mule, essendo sottentrati al carro della madre, sacerdotessa di Giunone, e condottala al tempio; quella supplicò la dea che rimunerasse la pietà de' figliuoli col maggior bene che possa cadere negli uomini. Giunone, invece di farli immortali, come avrebbe potuto, e allora si costumava; fece che l'uno e l'altro pian piano se ne morirono in quella medesima ora. Il simile toccò ad Agamede ea Trofonio. Finito il tempio di Delfo, fecero istanza ad Apollo che li pagasse: il quale rispose volerli soddisfare fra sette giorni; in questo mezzo attendessero a far gozzoviglia a loro spese. La settima notte mandò loro un dolce sonno, dal quale ancora s'hanno a svegliare; e avuta questa, non dimandarono altra paga....„ Se favole simili dimostrano che la morte non è un male, ma il premio più insigne; hanno i filosofi antichi espresso molta fede nella vita? Seneca “non trova contro al timore altro rimedio più valevole della considerazione che ogni cosa è da temere.„ Il consiglio di Senofonte significa che il godimento dei beni è poco grato se manca la speranza di maggiori beni futuri: “consiglia che avendosi a comperare un terreno, si compri di quelli che sono male coltivati; perchè, dice, un terreno che non è per darti più frutto di quello che dà, non ti rallegra tanto, quanto farebbe se tu lo vedessi andare di bene in meglio....„ Ma questa aspettazione dei beni, questa ricerca della felicità, come è oggi causa dei più amari disinganni, così era giudicata anticamente: secondo Bione boristenite “i più travagliati di tutti sono quelli che cercano le maggiori felicità.„ Bruto giudicò la virtù “una parola nuda„, Teofrasto negò la gloria e disse che la morte sopravviene non appena l'uomo comincia a vivere; gli stoici insegnarono che per ottenere la felicità non c'è altravia che rinunziarla; Virgilio “contro l'uso dei Romani antichi, e massimamente di quelli d'ingegno grande, si professa desideroso della vita oscura e solitaria; e questo in una cotal guisa, che si può comprendere che egli vi è sforzato dalla sua natura, anzi che inclinato; e che l'ama più come rimedio o rifugio, che come bene.„ Ma come enumerare tutti gli antichi dolenti? Tristano, vedendo rifiutata da tutti la sua filosofia dolorosa, crederà che sia di sua propria invenzione: “ma poi, ripensando, mi ricordai ch'ella era tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pieni pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l'estrema infelicità umana; e chi di loro dice che il meglio è non nascere, e per chi è nato, morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli Dei, muore in giovinezza; ed altri altre cose infinite su questo andare.„ E se Porfirio pensa di uccidersi, non trova forse antichi esempi di uomini che vollero morire “per tedio solamente, e per sazietà dello stato proprio.... quali erano coloro che udito Egesia, filosofo cirenaico, recitare quelle sue lezioni sulla miseria della vita; uscendo dalla scuola andavano e si uccidevano; onde esso Egesia fu detto per soprannomeil persuasor di morire?...„

Certamente gli antichi lodarono anche moltissimo la vita; come la lodano anche i moderni:ad ora ad ora il pianto cessa, gli occhi brillano, i canti di gioia riecheggiano; ma che cosa concludere? Che vi sono due leggi, una del dolore, un'altra del piacere? Le leggi particolari sono molte; ma dev'essercene pure una generale, universale, la legge delle leggi, la chiave del mistero. L'appetito di scienza che è in Leopardi filosofo non resta appagato se dalle leggi particolari egli non assorge all'ultima, o alla prima, all'unica certamente dalla quale tutte le altre dipendono. Ma questa verità fondamentale nessun uomo l'ha scoperta, nessun uomo la può scoprire; guardate: se uno s'affanna troppo a cercarla, la scienza moderna lo chiama pazzo, lo giudica affetto da follia metafisica!... Tale è veramente la condizione dell'intelletto umano: che esso, o deve rinunziare a comprendere tutta quanta la verità, o deve appagarsi di una verità non tutta vera. Il Leopardi passa dalla considerazione del proprio dolore a quello degli altri uomini, dei vivi e dei morti; logicamente collega tutti i fatti che lo dimostrano; da filosofo segue “indefessamente con l'occhio dell'intelletto un ordine di verità connesse tra loro a mano a mano„, ed arriva alla legge del dolore universale, necessario, eterno, infinito, inconsolabile. Ma egli pur sente d'avere esagerato. La sua teoria non è equa, come non sono state eque tutte le altre d'invenzione umana; ed egli stesso implicitamente lo riconosce.Filippo Ottonieri “stimava che una buona parte degli uomini, antichi e moderni, che sono riputati grandi o straordinari, conseguirono questa riputazione in virtù principalmente dell'eccesso di qualche loro qualità sopra le altre. E che uno in cui le qualità dello spirito sieno bilanciate e proporzionate fra loro; se bene elle fossero o straordinarie o grandi oltre modo, possa con difficoltà far cose degne dell'uno o dell'altro titolo, ed apparire ai presenti o ai futuri nè grande nè straordinario.„ Un uomo veramente, esattamente equilibrato, che volesse e sapesse tenere conto preciso di tutto, non solo non farebbe cose grandi o straordinarie, ma non ne farebbe neppur piccole, non farebbe niente. Tutti i nostri giudizii sono parziali, partigiani, appassionati, monchi; ma chi si spaventasse di questa necessità dovrebbe continuamente tacere. Poichè il silenzio continuo e la rinunzia totale sono impossibili in qualunque uomo, e più che impossibili, assurdi in un ingegno, in un genio come Giacomo Leopardi, questi formulerà postulati dei quali, mentre l'amor proprio vuole che si riconosca l'esattezza, la ragione denunzia inconsapevolmente l'esagerazione, perciò la falsità. Tutte le volte — e come vedemmo non sono poche — che egli riconosce il nesso tra la sua vita e la sua filosofia, non viene a dire, indirettamente, che la sua filosofia sarebbe diversa se egli avesseavuto un altro destino? E questo nesso che c'è in lui, non c'è in ogni uomo? Quindi tutte le filosofie non sono relative e, per qualche lato, false? Egli che ha fatto tante distinzioni tra uomini ed uomini e che si è tanto lagnato del proprio destino, afferma pure “questa massima riconosciuta da tutti i filosofi, la quale ti potrà consolare in molte occorrenze; ed è che la felicità e l'infelicità di ciascun uomo (esclusi i dolori del corpo) è assolutamente eguale a quella di ciascun altro, in qualunque condizione o situazione si trovi questo o quello. E perciò, esattamente parlando, tanto gode e tanto pena il povero, il vecchio, il debole, il brutto, l'ignorante, quanto il ricco, il giovane, il forte, il bello, il dotto: perchè ciascuno nel suo stato si fabbrica i suoi beni e i suoi mali; e la somma dei beni e dei mali che ciascun uomo si può fabbricare è uguale a quella che si fabbrica qualunque altro.„ Ma, come abbiamo visto che lo Chateaubriand non mette nelle sue opere la sentenza disperatissima sulla necessità della morte totale senza speranza di vita futura, così il Leopardi non sviluppa nei suoi scritti il più equo e consolante giudizio: lo esprime soltanto in una lettera alla sorella. Una critica meschina ed arrogante ardisce cogliere in fallo queste grandi anime, e presume di veder meglio di loro e più a dentro. Esse vedono e sanno tutto; ma naturalmente tutti i concetti non sono e non possono essere concordi;e fra i moltissimi bisogna pure scegliere. Il Leopardi ha visto prima che i suoi censori quel che si può e si deve dire contro la sua filosofia disperata; leggete il suo epistolario: vedrete che egli vi appare meno pessimista che non nelle opere. Certo l'esagerazione è biasimevole; ma non è altrettanto necessaria? Ecco: per il suo bisogno di risolvere i formidabili enimmi della vita e della morte lo hanno giudicato infermo di follia metafisica; se egli avesse temperato il suo pessimismo, se avesse dato forza agli argomenti con i quali sente di poterlo combattere, avrebbero provato che in lui c'è anche la follia del dubbio.

Per fortuna questa accusa almeno non gli può esser mossa. Non ostante le contraddizioni inevitabili, egli non dubita. È un appassionato, un operoso ridotto contro sua voglia a discutere, ma inconsolabile per essersi dovuto restringere ai semplici ragionamenti; tutta la forza della sua volontà è concentrata nella sua fede — negativa, ma incrollabile. Nel negare, egli mette lo slancio mistico dei suoi pii antenati. Non che dubitare della sua credenza al rovescio, egli l'afferma vivacemente, e sdegnosamente protesta contro chi ne vuol scemare il valore, riducendola a un effetto dei suoi dolori. E non ha torto: la sua filosofia, se è derivata dall'esperienza, è anche scaturita dalla ragione. Ma un pessimismo soltantofilosofico e speculativo interesserebbe i pensatori, lasciando freddi tutti gli altri. Il pessimismo del Leopardi non è freddo, perchè il filosofo è accompagnato in lui dal poeta; e non è falso, perchè la speculazione è accompagnata dall'esperienza. Il filosofo che nega è anche un uomo che soffre. Perciò egli fu, è e sarà sempre creduto.

Egli fu, è e sarà sempre ammirato perchè ha saputo definire tutti gli aspetti del dolore umano con una forma che eccita il più grande, il più puro, il più raro piacere. — Questo pessimismo suo, quantunque sembri totale e insanabile, ammette un temperamento ed offre un conforto. Egli preferisce la morte alla vita; ma la morte non consola la vita, la distrugge: la consolazione è nell'Arte. Per quella stessa ragione che la gioventù e l'amore sono le sole cose delle quali egli si loderebbe, l'arte è la sua consolazione. Amore e gioventù vivono di amene illusioni, che la vita pur troppo distrugge: l'arte crea tutto un mondo ideale contro il quale la realtà non può nulla: in mezzo alle peggiori disgrazie, tra i disinganni più atroci, l'artista può rifugiarvisi. Ed egli vi si rifugia. La sua gioventù è finita prima di cominciare; nessuna donna lo ha amato; i mali lo assediano; ma il suo pensiero vive ed opera ad ora ad ora, e l'arte gli concede tutte le sue grazie. Essa è per lui divina. Giudicata “inevitabile„ l'umana infelicità, egli trovaun conforto negli “studi del bello.„ Se la vita degli uomini è tutto un ozio perchè tutto è vanità, l'arte, che pare esercitarsi intorno a cose vane, è invece la sola attività utile, perchè essa sola compensa la tristezza della realtà con la letizia delle fantasie. Questo è un invertimento del giudizio comune: che importa, se l'infelice ottiene per esso un sollievo e si riconcilia con la vita e quasi benedice quella natura che aveva già maledetta?

Fine.

INDICEParte Prima.L'UOMO.L'indole:I.Il sentimento poeticoPag. 1II.Lo spirito filosofico11L'educazione:Classicismo e romanticismo23L'esperienza:I.La salute52II.L'amore65III.La famiglia94IV.La patria152V.La gloria177Parte Seconda.IL PENSIERO.Il pessimismo:I.L'illusione193II.La misantropia212III.Lo scetticismo224IV.La morte237L'ironia245Epilogo278

OPERE DI FEDERICO DE ROBERTO(Edizioni Treves).Le donne, i cavalier'.... Edizione di lusso, in-8, illustrata da 100 incisioniL. 12 —I Vicerè, romanzo. 2 vol.10 —Una pagina della storia dell'amore3 50L'illusione, romanzo3 50La sorte, novelle3 50La messa di nozze, romanzo5 —L'albero della scienza, novelle4 —Al rombo del cannone5 —All'ombra dell'olivo6 —Ironie, novelle4 —Leopardi7 —

OPERE DI FEDERICO DE ROBERTO(Edizioni Treves).

Le donne, i cavalier'.... Edizione di lusso, in-8, illustrata da 100 incisioniL. 12 —

I Vicerè, romanzo. 2 vol.10 —

Una pagina della storia dell'amore3 50

L'illusione, romanzo3 50

La sorte, novelle3 50

La messa di nozze, romanzo5 —

L'albero della scienza, novelle4 —

Al rombo del cannone5 —

All'ombra dell'olivo6 —

Ironie, novelle4 —

Leopardi7 —

Nota del TrascrittoreOrtografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.


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