Di là assistemmo al passaggio dell’intera carovana.
Che bel quadro! Me lo vedo ancora dinanzi nel momento della sua maggior vivezza. Nel mezzo del fiume, scivola un barcone pieno di cammelli e di mori d’una carovana mercantile, e un po’ più oltre l’altro barcone che porta i cavalli e i cavalieri della scorta di Fez, in mezzo ai quali sventola la bandiera di Maometto e spicca il viso nero e il turbante di mussolina del Caid. Di là dal fiume, in mezzo a una grande confusione di cavalli, di mule, di servi, di casse, che ingombrano un lunghissimo tratto di sponda, biancheggia la figura gentile del governatore Ben-el-Abbassi, seduto sopra un rialto di terreno, in mezzo ai suoi ufficiali, all’ombra del suo bel cavallo nero dalla sella color celeste. Sull’alto della riva, che si mostra come il muro d’una fortezza, dietro una lunga fila d’arabi della campagna, seduti sull’orlocolle gambe spenzoloni, sono schierati i duecento cavalieri del Governatore, che visti così in alto, sul fondo azzurro del cielo, presentano l’apparenza di duecento giganti. Alcuni servi neri ignudi si tuffano e si rituffano nell’acqua spruzzandosi e gridando. Parecchi arabi lavano i loro cenci sulla sponda, all’uso moresco, ballonzolandovi sopra con movimenti di marionetta. Altri attraversano il fiume a nuoto. Sul nostro capo passano degli stormi di cicogne; lontano, sulla riva, s’alza una colonna di fumo da un gruppo di tende di beduini; i barcaiuoli cantano una preghiera al Profeta per la buona riuscita dell’impresa; le acque mandano scintille d’oro, e Selam, ritto a dieci passi dinanzi a noi, col suo famoso caffettano, fa su questo gran quadro barbaresco e festoso, la più armoniosa macchietta rossa che possa immaginare un pittore.
Il passaggio durò parecchie ore, e via via che passava, la carovana si rimetteva in cammino.
Quando gli ultimi cavalli furono sulla sponda sinistra, il governatore Ben-el-Abbassi rimontò in sella e raggiunse i suoi soldati sull’alto della riva opposta.
Sul punto di partire, l’Ambasciatore e tutti noi alzammo la mano in segno di saluto.
La scorta di Karia-el-Abbassi rispose conuna tempesta di fucilate e disparve; ma per qualche momento vedemmo ancora in mezzo al fumo la bella figura bianca del Governatore, ritta sulle staffe, col braccio teso verso di noi in segno di buon augurio e d’addio.
Accompagnati dalla sola scorta di Fez, c’innoltrammo nella terra dei Beni-Hassen, tristamente famosa.
Per più d’un’ora, si camminò in mezzo a campi d’orzo altissimo, dai quali usciva qua e là una tenda nera, una testa di cammello, un nuvolo di fumo. Per i sentieri dove passavamo, correvano scorpioni, biscie e lucertole. Il sole, in quel poco tempo, ci aveva infocate le selle per modo che quasi non vi si poteva tener sopra la mano. La luce ci offendeva gli occhi, il polverìo ci soffocava, tutti tacevano. La pianura che ci si stendeva dinanzi come un oceano mi dava non so che sgomento, come se la carovana dovesse camminare eternamente. Ma la curiosità di veder da vicino quei fieri Beni-Hassen, di cui avevo tanto inteso parlare, mi rianimava.—Che gente sono?—domandai a un interprete.—Ladri e assassini—mirispose;—faccie dell’altro mondo, la peggior genìa del Marocco.—Ed io spiavo ansiosamente l’orizzonte.
Le faccie dell’altro mondo non si fecero aspettare lungo tempo.
Vedemmo lontano, davanti a noi, un gran nuvolo di polvere, e pochi momenti dopo fummo circondati da una turba di trecento selvaggi a cavallo, verdi, gialli, scarlatti, bianchi, violetti, cenciosi, scarmigliati, ansanti, che pareva che venissero da una mischia. In mezzo al fitto polverìo che ci avvolgeva, vedemmo il loro Governatore, un gigante con lunghi capelli e gran barba nera, seguito da due vicegovernatori canuti, armati tutti e tre di fucile, avvicinarsi all’Ambasciatore, stringergli la mano e sparire. Subito dopo cominciarono le cariche, gli urli e le fucilate. Parevano frenetici. Sparavano fra le gambe delle nostre mule, sopra la nostra testa, rasente le nostre spalle. Visti da lontano, dovevan sembrare una banda d’assassini che ci assalisse. V’eran dei vecchi formidabili con lunghe barbe bianche, ridotti a ossa e pelle; ma che parevan fatti per resistere ai secoli. V’eran dei giovani con lunghissime ciocche di capelli neri che ondeggiavano al vento come criniere. Molti avevano il petto, le gambe e le braccia nude, turbanti in brandelli e cenci rossi attorcigliatiintorno al capo; caic laceri, selle disfatte, briglie di corda, sciabolaccie e pugnali di forme strane. Le faccie poi!—È assurdo,—diceva il comandante, facendo la caricatura di don Abbondio,—è assurdo il supporre che questa gente possa fare il sacrifizio di non ucciderci!—Ognuna di quelle faccie raccontava una storia di sangue. Ci guardavano passando, colla coda dell’occhio, come per nasconderci l’espressione del loro sguardo. Cento ci venivan dietro, cento a destra, cento a sinistra, sparsi per i campi a grande distanza. Questa guardia dai lati era nuova per noi; ma non tardò ad essere giustificata. Più andavamo innanzi, più spesseggiavano le tende nella campagna, fin che passammo in mezzo a veri villaggi circondati di fichi d’India e d’aloé. Da tutte queste tende accorrevano arabi, vestiti d’una semplice camicia, a gruppi, a piedi, a cavallo, in groppa agli asini, due, persino tre sopra una sola cavalcatura; le donne coi bimbi appesi alle spalle, i vecchi sostenuti dai ragazzi, tutti affannati, smaniosi di vederci, e forse non di vederci soltanto. A poco a poco ci fu intorno un popolo. Allora i soldati della scorta cominciarono a disperderli. Si slanciarono al galoppo di qua e di là contro i gruppi più numerosi, urlando, percotendo, rovesciando cavalcature e cavalcatori, tirandosi dietro da ogniparte improperii e maledizioni. Ma i gruppi dispersi si riannodavano e continuavano ad accompagnarci correndo. A traverso il fumo e il polverìo, rotto dai lampi delle fucilate, vedevamo per quei vastissimi campi, in lontananza, tende, cavalli, cammelli, armenti, gruppi di aloé, colonne di fumo, frotte di gente rivolta verso di noi, immobile, in atteggiamento di stupore. Eravamo finalmente arrivati in una terra abitata! Esisteva dunque, non era una fiaba, questa benedetta popolazione del Marocco! Dopo un’ora di passo accelerato, ci si trovò di nuovo in una campagna solitaria, non accompagnati da altri che dalla scorta; e fatto appena un altro miglio, svoltando intorno a una macchia di fichi d’India, s’ebbe l’inaspettato e sempre vivissimo piacere di veder sventolare la bandiera italiana in mezzo alla nostra piccola città vagante, di cui s’alzavano in quel momento appunto le ultime case.
L’accampamento era sulla sponda del Sebù, il quale descrive un grand’arco dal punto dove l’avevano passato fino a quello dove eravamo giunti.
Una fitta catena di sentinelle a piedi, armate di fucile, si stendeva tutt’intorno alle tende.
Il paese era dunque pericoloso davvero.
Se ne avessi ancora potuto dubitare, me ne avrebbero arcipersuaso le notizie che raccolsi poi.
I Beni-Hassen sono il popolo più turbolento, più audace, più manesco, più ladro di tutta la vallata del Sebù. L’ultima loro prova fu una rivolta sanguinosa scoppiata nell’estate del 1873, quando salì al trono il Sultano regnante, la quale cominciò col saccheggio della casa del Governatore, a cui rubarono perfino le donne. Il latrocinio è il loro mestiere principale. Si raccolgono in bande, a cavallo, armati, e fanno delle scorrerie di là dal Sebù o nelle altre terre vicine, rubando quanto possono portare o trascinare, e ammazzando, per precauzione, quanti incontrano. Sono disciplinati, hanno dei capi, degli statuti, dei diritti riconosciuti, in un certo senso, persino dal Governo, il quale si serve qualche volta di loro per riavere quello che gli è stato rubato. Rubano per via d’imposte forzate. La gente depredata, invece di sciupare il tempo in ricerche e in ricorsi, ricupera l’aver suo pagando una somma convenuta al capo dei ladri. Per i ragazzi, specialmente, è ammesso come cosa naturalissima che debbano tutti rubare. Se si pigliano una palla nella schiena o si fanno spezzare il capo da una sassata, peggio per loro; si sa che nessuno vuol lasciarsi rubare; e poi non c’è rosa senza spine. I padri lo dicono ingenuamente:un figliuolo di otto anni rende poco, uno di dodici anni assai di più, uno di sedici molto. Ogni ladro ha il suo genere proprio: c’è il ladro di biade, il ladro di bestie bovine, il ladro di cavalli, il ladro di mercato, il ladro diduar[1], il ladro di strada. Ci sono persino i ladri che riscuotono un’imposta fissa da tutte le donne che fanno derrata di sè, non rare nemmeno fra quelle tribù vagabonde. Per le strade, assaltano particolarmente gli Ebrei, ai quali è proibito di portar armi. Ma il latrocinio più comune è quello a danno deiduar. In questo sono artisti insuperabili, non solo fra i Beni-Hassen, ma in tutto il Marocco. Vanno a rubare a cavallo, e la grand’arte consiste più nella rapidità che nell’accortezza, più nel non lasciarsi raggiungere che nel non lasciarsi vedere. Passano, afferrano e dispaiono, senza dar tempo alla gente di riconoscerli. Son furti a volo, fulminei, giochi di prestidigitazione equestre. Rubano pure a piedi e anche in questo son maestri. S’introducono neiduar, nudi, perchè i cani non abbaiano agli uomini nudi; insaponati da capo a piedi, per sguisciare dalle mani di chi li afferri; con un fascio di fronde tra le braccia, perchè i cavalli, pigliandoli per alberi, non si spaventino. I cavalli sonola preda più ghiotta. Vi si attaccano al collo, stendono le gambe sotto il ventre, e via come saette. La loro audacia è incredibile. Non c’è accampamento di carovana, sia anche d’un pascià o d’un’ambasciata, dove non penetrino, malgrado la più oculata sorveglianza. Strisciano, guizzano, si schiacciano contro terra, coperti d’erba, di paglia, di foglie, vestiti di pelli di montone, in apparenza d’accattoni, di malati, di pazzi, di soldati, di santi. Rischian la vita per un pollo, fanno dieci miglia per uno scudo. Giunsero persino a rubare dei sacchetti di denaro sotto il capo ad ambasciatori che dormivano. E appunto quella notte, malgrado la catena delle sentinelle, rubarono un montone legato al letto del cuoco, il quale, accortosi la mattina del furto, stette una mezz’ora immobile davanti alla tenda, colle braccia incrociate, e lo sguardo fisso all’orizzonte, esclamando di tratto in tratto:—Ah! madona santa, che pais! che pais! che pais!
Ho nominato iduar: non si può parlare del Marocco senza descriverli, e lo posso fare ampiamente con quello che vidi, e quello che ne seppi dal signor Morteo, il quale ci vive in mezzo da vent’anni.
Questo signor Morteo, fra parentesi, è unsingolare stampo d’uomo. Genovese di nascita, ancora giovane, marito d’una bella inglese, padre di due bambini vezzosissimi e ricco da poter vivere splendidamente in qualunque città d’Europa, se ne sta invece, relegato volontario, a Mazagan, piccola città posta sulla riva dell’Atlantico, a duecento chilometri da Marocco, in mezzo agli arabi e ai mori, non occupato d’altro che della sua famiglia e del suo commercio, non vedendo, per mesi e mesi, la faccia d’un europeo, e non serbando col mondo civile altra relazione che quella d’abbonato a due giornali illustrati. Di tempo in tempo viene a fare un giro in Italia o in Francia, ma vi s’annoia appena arrivato, e dai palchetti della Scala e del Grand-Opéra sospira la sua casetta moresca bagnata dalle onde dell’oceano, i suoi armenti, i suoiduar, la vita ignorata e tranquilla della sua seconda patria affricana. In quel paese, dove, non è molto, un agente consolare di Francia, preso da una malinconia disperata, diventò pazzo, e un altro cercò di seppellirsi vivo nelle sabbie della marina; egli non ha mai avuto un giorno displeen. Parla l’arabo, mangia all’araba, vive tra gli arabi, li studia, li ama, li difende; ha contratto qualcuno dei loro difetti e parecchie delle loro buone qualità; non ha più d’europeo, insomma, che la famiglia, il vestito e la pronuncia genovese. Contuttociò,egli non avrebbe potuto mostrarsi più amabilmente italiano di quel che fece dal primo all’ultimo giorno del viaggio. Interprete, intendente, guida, compagno, riuscì caro ed utile a tutti, e nessuno dissentì mai da lui che sopra un punto: noi auguravamo al Marocco la civiltà; egli sosteneva che la civiltà avrebbe reso quel popolo due volte più tristo e quattro volte più infelice; e bisogna confessare che, sebbene avesse torto, s’era qualche volta tentati di dargli ragione.
Ilduarè formato ordinariamente da dieci, quindici o venti famiglie, che per lo più son legate fra loro da un vincolo di parentela; e ogni famiglia ha una tenda. Le tende sono disposte in due ordini paralleli, distanti una trentina di passi l’uno dall’altro, in modo che formano nel mezzo una specie di piazzetta rettangolare, aperta alle due estremità. Queste tende sono quasi tutte eguali. Consistono in un gran pezzo di stoffa nera o color di cioccolatte, tessuta con fibre di palme nane o con pelo di capra e di cammello; la quale è sostenuta da due pali o due grosse canne, unite insieme da una traversa di legno, che regge il tetto. La loro forma è ancora quella delle abitazioni dei Numidi di Giugurta, che il Sallustio paragonava a una nave rovesciata colla carena in alto.Nell’inverno e nell’autunno, la tela è distesa fino a terra e fissata per mezzo di corde a pioli, in maniera che non v’entri nè vento nè acqua. In estate, è lasciata tutt’intorno una larga apertura per la circolazione dell’aria, protetta da una piccola siepe di giunchi, di canne o di rovi secchi. Con questo mezzo, le tende sono più fresche in estate e meglio chiuse nella stagione piovosa, che le stesse case moresche delle città, le quali non hanno nè usci nè vetrate. L’altezza massima d’una tenda è di due metri e mezzo; la massima lunghezza di dieci; quelle che superano questa misura appartengono a qualche sceicco opulento, e son rare. Una parete di giunchi divide la casetta in due parti: di qua dormono il padre e la madre, di là i figliuoli e il rimanente della famiglia. Una o due stuoie di vimini, un cassone di legno variopinto e arabescato, in cui tengono la roba; uno specchietto rotondo di Trieste o di Venezia, un alto treppiedi di canna, che ricoprono d’un caic, per lavarvisi sotto; due pietre per macinare il grano, un telaio della forma di quei dei tempi d’Abramo, un rozzo lume di latta, qualche vaso di terra, qualche pelle di capra, qualche piatto, una rocca, una sella, un fucile, un pugnalaccio, sono tutta la suppellettile d’una di queste case. In un angolo v’è una chioccia e una covata di pulcini;davanti all’entrata un fornello, formato di due mattoni; da un lato della tenda un piccolo orto; più in là alcuni fossi rotondi, rivestiti di pietre o di cemento, nei quali conservano il grano. In quasi tutti i grandiduarv’è una tenda appartata dove sta il maestro di scuola, al quale ilduardà cinque lire il mese, oltre a molte provvigioni di viveri. Tutti i ragazzi vanno là a ripetere centomila volte gli stessi versetti del Corano, e a scriverli, quando li sanno a mente, sopra una tavola di legno. La maggior parte, lasciando la scuola prima di saper leggere, per andar a lavorare coi genitori, dimenticano in breve tempo il poco che hanno imparato. I pochissimi che hanno volontà e modo di studiare, continuano fino a vent’anni, per andar poi a compiere gli studi in una città, e diventaretaleb, che significa scrivano o notaro, ed equivale a prete, poichè è una cosa sola, presso i Maomettani, la legge religiosa e la civile. La vita che si fa in questiduarè semplicissima. All’alba, tutti si levano, dicono le loro preghiere, mungono le vacche, fanno il burro, e bevono il latte agro che ne rimane. Per bere si servono di gusci di conchiglie e di patelle che comprano dalle popolazioni della costa. Poi gli uomini vanno a lavorare alla campagna, e non tornan più che verso sera. Le donne vanno a pigliar acqua e a cercar legna,macinano il grano, tessono le rozze stoffe di cui si vestono esse e i loro uomini, fanno le corde delle tende con fibre di palma nana, mandano da mangiare ai mariti, e preparano il cuscussù per la sera. Il cuscussù è mescolato con fave, zucche, cipolle e altri erbaggi; qualchevolta inzuccherato, pepato e condito con sugo di carne; nei giorni di scialo, mangiato con carne. Tornati gli uomini, cenano e per lo più, al tramonto del sole, vanno a dormire. Qualche volta, dopo cena, un vecchio racconta una storia in mezzo a una corona di parenti. Durante la notte ilduarrimane immerso nel silenzio e nelle tenebre: solo qualche famiglia tiene davanti alla tenda un lumicino acceso, che serve di richiamo ai viaggiatori smarriti.—Il vestire degli uomini e delle donne non è che una camicia di tela di cotone, una cappa e un caic grossolano. Le cappe e i caic non li lavano che tre o quattro volte l’anno, in occasione delle feste solenni, per cui son quasi sempre del colore della loro pelle o più neri. La pulizia del corpo è più curata, poichè senza far le abluzioni prescritte dal Corano, non potrebbero pregare. Le donne per di più si lavano ogni mattina tutta la persona, nascondendosi sotto il treppiedi coperto col caic. Ma lavorando come fanno, e dormendo come dormono, son sempre sudici a un modo, benchèfacciano uso, miracolo! del sapone. Nei ritagli di tempo molti giocano alle carte, e quando non giocano, un gran divertimento degli uomini è di stendersi supini in terra e di sballottare i loro bambini; per i quali però si raffreddano via via che diventan grandi, e così è dei figliuoli per loro. Molti di questi figli delduar, giungono all’età di dieci o quattordici anni senz’aver mai visto una casa, ed è curioso il sentir raccontar dai mori o dagli europei delle città, che li prendono al proprio servizio, lo sbalordimento che provano entrando per la prima volta in una stanza: come palpano le pareti, come pestano il pavimento, con che viva emozione s’affacciano alle finestre e ruzzolano giù per le scale.—Gli avvenimenti principali, in questi villaggi erranti, sono i matrimoni. I parenti e gli amici della sposa, con grande strepito di fucilate e di grida la conducono, seduta sulla groppa d’un cammello, alduardello sposo, ravvolta in una cappa bianca o turchina, tutta profumata, colle unghie tinte di henné e le soppraciglia nere di sughero bruciato, e per lo più ingrassata, per quell’occasione, con un erba particolare chiamataebba, di cui fanno grande uso le ragazze. Ilduardello sposo, dal canto suo, invita alla festa iduarvicini, da cui accorrono spesso cento o duecento uomini a cavallo, armati di fucile. La sposa scende dalcammello dinanzi alla tenda del suo futuro marito, siede sopra una sella infronzolita e infiorata, ed assiste alla festa. Mentre gli uomini fanno ilgiuoco della polvere, le donne e le ragazze, disposte in circolo davanti a lei, saltellano al suono d’un tamburo e d’un piffero, intorno a un caic disteso in terra, nel quale ogni invitato, passando, butta una moneta per gli sposi, e un banditore annunzia ad alta voce l’offerta, facendo un buon augurio all’oblatore. Verso sera, il ballo cessa, i fucili tacciono, tutti siedono in terra, vengon portati enormi piatti di cuscussù, polli arrosto, montoni allo spiedo, tè, dolci, frutta; e la cena si prolunga fino a mezzanotte. Il giorno seguente, la sposa vestita di bianco, con una ciarpa rossa stretta intorno al viso, che le nasconde la bocca, e il cappuccio tirato sul capo, accompagnata dai parenti e dagli amici, va per iduarvicini a raccoglier un’altra volta denaro. E dopo questo, lo sposo ritorna ai campi, la sposa va alla macina, e l’amore vola via. Quando uno muore, ripetono le danze. Il parente più prossimo del defunto ne ricorda le virtù; gli altri, affollati intorno a lui, danzano con gesti e atteggiamenti dolorosi, si coprono di fango, si graffiano il viso, si stracciano i capelli; poi lavano il cadavere, lo ravvolgono in una tela nuova, lo portano, sopra una barella, al cimitero, e lo sepelliscono appoggiatosul lato destro, col viso rivolto a oriente.—Questi sono i loro usi e i loro costumi, per dire così, patenti; ma gl’intimi chi li conosce? Chi può seguire i fili di cui s’ordisce la trama della vita d’unduar? Chi può sapere come parla il primo amore, come s’intrica il pettegolezzo, in che strana forma, con che strani accidenti si producano e lottino l’adulterio, la gelosia, l’invidia; che virtù brillino, che sacrifizi si compiano, che abbominevoli passioni imperversino fra quelle pareti di tela? Chi può rintracciare l’origine delle loro favolose superstizioni? Chi può chiarire quel bizzarro miscuglio di confuse tradizioni pagane e cristiane: le croci segnate sulla pelle, la vaga credenza ai satiri di cui trovano le orme forcute sulla terra, la bambola portata in trionfo al primo spuntare del grano, il nome di Maria invocato in soccorso delle partorienti, le danze circolari che rammentano i riti degli adoratori del sole?—Una sola cosa loro è certa e manifesta: la miseria. Vivono degli scarsi prodotti della terra mal coltivata, scemati ancora da imposte gravissime e mutevoli, riscosse dal Sceicco, o capo delduar, eletto da loro e direttamente sottoposto al Governatore della provincia. Rimettono al Governo, in danaro o in natura, la decima parte del raccolto, e una lira in media per ogni bestia. Pagano cento lire l’anno perogni tratto di terreno corrispondente al lavoro di due buoi. Fanno al Sultano, nelle principali feste annuali, un regalo obbligatorio, che equivale presso a poco a un’imposta di cinque lire per tenda. Sborsano denaro o forniscon viveri, ad arbitrio dei governatori, quando passa il Sultano, un pascià, un’ambasciata, un corpo di soldati. Oltre a ciò, chiunque abbia denari è esposto alle estorsioni dei Governatori, non velate, non scusate da alcun pretesto, ma sfacciatamente violente. Aver fama di agiato è una sventura. Chi ha un piccolo peculio, lo sotterra, spende di nascosto, finge la miseria e la fame. Nessuno accetta in pagamento uno scudo annerito, anche se è certo che sia buono, perchè può parer levato di sotto terra e mettere in sospetto chi dà la caccia ai tesori. Quando un agiato muore, i parenti, per scongiurare la rapina, offrono un regalo al Governatore. Offrono regali per chieder giustizia, per prevenire le persecuzioni, per non esser ridotti a morir di fame. E quando finalmente la fame li strazia e la disperazione li accieca, disfan le tende, impugnano i fucili e lanciano il grido della rivolta. Che succede allora? Il Sultano sguinzaglia tremila furie a cavallo a seminare la morte nel paese ribelle. Questi tagliano teste, predano armenti, ruban donne, incendiano messi, riducon la terra un deserto coperto di cenere e di sangue, e ritornanoad annunziare alla reggia che la ribellione è domata. Se poi la ribellione si allarga, e mandando a vuoto le arti con cui il Governo tenta di smembrarne le forze, disperde gli eserciti e riman padrona del campo, che vantaggio ne ricava, fuorchè quei brevi giorni di libertà guerresca, che le costan migliaia di vite? Eleggeranno un altro Sultano, e provocheranno una guerra dinastica tra provincie e provincie, a cui terrà dietro un dispotismo peggiore; ciò che da dieci secoli accade.
La mattina del 10 la carovana si mise in cammino, all’alba, accompagnata dai trecento cavalieri dei Beni-Hassen e dal loro Governatore Abd-Allà,servo di Dio.
Per tutta quella mattina si continuò a camminare in pianura, in mezzo a campi d’orzo, di grano e di saggina, interrotti da grandi spazi coperti di finocchio selvatico e di fiori, e sparsi di gruppi d’alberi e di tende nere, le quali di lontano presentavano l’aspetto di quei grandi mucchi di carbone che si vedono tratto tratto per la maremma toscana. Incontravamo più sovente che nei giorni innanzi, armenti, cavalli, cammelli, brigatelle d’arabi. Lontano, dinanzi a noi, si stendeva una catena di monti d’un color cenerino delicatissimo, e a mezza distanza, fra i monti e la carovana, biancheggiavanoduecube, la prima illuminata dal sole, la seconda, visibile appena. Erano le cube di Sidi-Ghedar e di Sidi-Hassem, fra le quali passa il confine della terra dei Beni-Hassen. Presso alla cuba più lontana si doveva piantare quel giorno l’accampamento.
Molto prima però di giungere al confine, il Governatore Sidi-Abd-Allà, che fin dal momento della partenza pareva pensieroso e irrequieto, si avvicinò all’Ambasciatore e fece cenno di voler parlare.
Mohamed Ducali accorse.
—L’Ambasciatore d’Italia mi perdonerà—disse il fiero Governatore—se io oso domandargli il permesso di tornar indietro colla mia scorta.
L’ambasciatore domandò perchè.
—Perchè,—rispose Sidi-Abd-Allà corrugando i suoi grandi sopraccigli neri,—la mia casa non è sicura.
Nientemeno! pensammo noi. A due miglia di distanza! Che delizia di mestiere ha da essere quello di governare i Beni-Hassen!
L’Ambasciatore acconsentì; Sidi-Abd-Allà gli prese la mano e se la strinse sul petto con una energica espressione di gratitudine. Ciò fatto, voltò il cavallo, e quella turba variopinta, cenciosa, terribile, slanciati i cavalli a briglia sciolta, in pochi momenti non fu più che un nuvolo di polvere all’orizzonte.
NOTE:[1]Si chiamaduarun accampamento d’arabi.
[1]Si chiamaduarun accampamento d’arabi.
[1]Si chiamaduarun accampamento d’arabi.
La provincia dove stava per entrare la carovana, era una specie di colonia, divisa in poderi fra un gran numero di famiglie di soldati, in ognuna delle quali il servizio militare è obbligatorio per tutti i figli maschi; anzi ogni figliuolo nasce, per così dire, soldato, serve, come può, fin dall’infanzia, e riceve una paga fissa prima di essere in grado di maneggiare il fucile. Di più queste famiglie militari vanno esenti dalle imposte, e la loro proprietà è inalienabile fin che esiste la progenitura mascolina. Costituiscono perciò una milizia regolare, disciplinata e fedele, colla quale il governo può tranquillamentedivorare, giusta l’espressione del paese, una qualunque provincia ribelle senza temere che gli ciurli nel manico; e si potrebbedire una milizia d’esattori, che rende al governo assai più di quello che gli costa, poichè nel Marocco l’esercito serve specialmente alle finanze, e l’ordigno principale della macchina amministrativa è la spada.
Appena oltrepassato il confine dei Beni-Hassen, si vide lontano uno stormo di cavalieri che venivano di galoppo verso di noi, preceduti da una bandiera verde.
Cosa insolita, erano schierati in due lunghissime linee, l’una dietro l’altra, cogli uffiziali dinanzi.
A venti passi da noi, si arrestarono bruscamente tutti in un punto.
Il loro comandante, un grosso vecchio dalla barba bianca, d’aspetto benevolo, con un turbante altissimo, porse la mano all’ambasciatore dicendo:—Siate il benvenuto! Siate il benvenuto!—e quindi a noi:—Benvenuti! Benvenuti! Benvenuti!
Ci rimettemmo in cammino.
I nuovi cavalieri erano molto diversi dai Beni-Hassen. Avevano i vestiti più puliti e le armi più lucide; quasi tutti gli stivali gialli, ricamati di filo rosso; le sciabole col manico di corno di rinoceronte, le cappe turchine, i caffettani bianchi, le cinture verdi. Molti eran vecchi, ma di quei vecchi pietrificati, per i quali pare che sia cominciata l’eternità; parecchi giovanissimi;due, fra gli altri, non più che decenni, belli, pieni di vita, che ci guardavano con un’aria sorridente come per dire:—Via, non siete poi quelle faccie patibolari che c’eravamo figurate!—V’era un vecchio nero di tale statura, che, stendendo le gambe fuori dalle staffe, avrebbe quasi toccato terra coi piedi. Uno degli uffiziali aveva le calze.
Dopo mezz’ora di cammino, incontrammo un altro drappello, colla bandiera rossa, comandato pure da un vecchio caid, che s’unì al primo; e via via, andando innanzi, altri gruppi di quattro, otto, quindici cavalieri, ognuno colla bandiera, che vennero tutti a ingrossare la scorta.
Quando la scorta fu completa, cominciarono le solite cariche.
Si vedeva ch’eran soldati regolari: si raggruppavano e si scioglievano con più ordine di tutti quelli che avevamo visti fino allora. Facevano un nuovo gioco. Uno si slanciava innanzi a briglia sciolta; un altro dietro subito ventre a terra. A un tratto il primo si rizzava sulle staffe, si voltava indietro con tutto il busto e sparava il fucile nel petto a quello che l’inseguiva, il quale, nello stesso punto, scaricava una fucilata a lui contro il fianco, in modo che se si fossero tirati a palla, sarebbero tutti e due precipitati di sella morti nello stesso momento. A uno, andando di carriera, il cavallo gli caddesotto, e lo sbalzò al di sopra della sua testa ad una tale distanza, che per un momento credemmo che si fosse ammazzato. Quello invece, in un batter d’occhio, risaltò in sella e tornò alla carica più indiavolato di prima. Ognuno lanciava il suo grido.—Guardatevi! Guardatevi!—Siate tutti testimoni!—Son io!—Ecco la morte!—Meschino me! (uno a cui era mancato il colpo)—Largo al barbiere!—(Era il barbiere dei soldati)—E un altro gettò questo curioso grido:—Alla mia dipinta!—che fece ridere tutti i suoi compagni. Gl’interpreti ci spiegarono che voleva dire: alla mia amante che è bella come se fosse dipinta; cosa strana per gente che non solo ha in orrore la pittura di figura, ma non ne ha neppure un’idea chiara. I due ragazzi fecero una carica insieme gridando:—Largo ai fratelli!—e spararono in terra curvando la testa fin quasi a toccare la sella.
Così arrivammo in vicinanza dellacubadi Sidi-Hassem, dove si doveva piantare il campo.
Povero Hamed-Ben Kasen Buhamei! Finora io non ne ho parlato che di volo; ma ricordandomi che quella mattina lo vidi, lui generale dell’esercito dei Sceriffi, aiutare i servi a piantare i piuoli della tenda dell’Ambasciatore, sento il bisogno di esprimergli la mia ammirazione ela mia gratitudine. Che buona pasta di generale! Dal giorno della partenza egli non aveva ancor fatto bastonare nè un soldato nè un servo; non s’era mai mostrato un minuto di cattivo umore; era sempre stato il primo ad uscir dalla tenda e l’ultimo a andar a dormire; non aveva mai lasciato trapelare, nemmeno agli occhi più indagatori, che il suo stipendio di quaranta lire il mese gli paresse un po’ scarso; non aveva ombra d’albagia; ci aiutava a montare a cavallo, s’assicurava che le nostre selle fossero salde, dava una legnata, passando, alle nostre mule restie; era sempre pronto a tutto e per tutti; si riposava, accovacciato come un umile mulattiere, accanto alle nostre tende; ci sorrideva ogni volta che ci vedeva sorridere; ci offriva del cuscussù; balzava in piedi, a un cenno dell’ambasciatore, come un fantoccio a molla; faceva la sua preghiera, da buon mussulmano, cinque volte il giorno; contava le uova dellamuna, presiedeva allo sgozzamento dei montoni, guardava l’album dei pittori senza dar segno di scandalo; infine era l’uomo piùad hoc, io credo, che sua Maestà Imperiale potesse scegliere per quella missione in mezzo alla folla dei suoi scalzi generali. Hamed Ben-Kasen rammentava sovente, con alterezza, che suo padre era stato generale nella guerra contro la Spagna, e parlava qualchevolta dei propri figli, che stavano colla madre a Mechinez, sua città natale.—Son tre mesi,—disse un giorno sospirando,—che non li vedo!—Forse voleva dire:—che nonlavedo;—ma disseliper pudore.
Quel giorno, dopo aver assistito alla presentazione dellamuna, fra cui v’era un piatto spropositato di cuscussù, portato a stento da cinque arabi, ci rifugiammo, come sempre, sotto la tenda, a godervi i soliti quaranta gradi centigradi che duravano fino alle quattro dopo mezzogiorno; nel qual tempo l’accampamento rimaneva immerso in un profondo silenzio. Alle quattro, la vita si ridestava. I pittori mettevano mano ai pennelli, il medico riceveva i malati, uno andava a bagnarsi, un altro a tirare al bersaglio, chi a caccia, chi a passeggio, chi a visitare un amico sotto la tenda, chi ad assistere alle cariche della scorta, chi a vedere il cuoco alle prese coll’Affrica, chi a visitare iduarvicini, e così ognuno, a tavola, aveva qualcosa da raccontare, e la conversazione scoppiettava come un fuoco d’artifizio.
Quella sera, al tramonto del sole, andai col comandante a vedere i soldati della scorta che facevano le cariche in un vasto prato vicino all’accampamento.
C’era un centinaio d’arabi, seduti in una sola fila sulla sponda d’un fosso, che guardavano.
Appena ci videro, prima alcuni, poi cinquanta, poi tutti, si levarono da sedere e a poco a poco si vennero ad affollare dietro di noi.
Noi fingemmo di non vederli.
Per qualche momento, nessuno fiatò; poi cominciò uno a dir un non so cosa, che li fece ridere tutti. Dopo quello, parlò un altro, e poi un terzo, e via via, e ad ogni parola, tutti ridevano. Evidentemente ridevano di noi, e non tardammo ad accorgerci che le osservazioni e le risate corrispondevano per l’appunto ai nostri movimenti e a certe inflessioni della nostra voce. La cosa era naturalissima: ci trovavano ridicoli. Ma che cosa dicevano? Questa era la nostra grande curiosità. Passò in quel momento il signor Morteo, lo chiamai con un cenno furtivo, e lo pregai di star coll’orecchio teso, senza farsi scorgere, e di tradurmi letteralmente le canzonature di que’ furfanti. Mi servì a meraviglia.
Uno fece subito un’osservazione che, al solito, provocò una risata.
—Dice—tradusse il Morteo—che non sa capire a che cosa serva la falda di dietro del nostro vestito, a meno che non sia fatta per nascondere la coda....
Un momento dopo, un’altra osservazione, un’altra risata.
—Dice che la divisa dei capelli che lei ha sulla nuca è la strada dove i pidocchi fanno illab el barod.
Una terza osservazione, un terzo scoppio di risa.
—Dice che son curiosi questi cristiani, che per l’ambizione di parere alti di statura, si mettono un vaso sulla testa e due puntelli sotto le calcagna....
In quel punto un cane dell’ accampamento venne a accovacciarsi ai nostri piedi.
Una quarta osservazione, e questa volta una risata sgangherata.
—Questa è forte!—disse il Morteo.—Dice che questo cane è venuto ad accovacciarsi vicino agli altri cani.... Ora li accomodo io.
Così dicendo, si voltò indietro bruscamente e disse qualche parola araba in tuono di minaccia.
Fu un colpo di fulmine. In un momento non se ne vide più uno.
Ma, povera gente, siamo giusti! Lasciando da parte le cariche dei pidocchi e la fratellanza coi cani, non avevan ragione di pensare di noi quello che pensavamo noi stessi, paragonandoci con loro? Dieci volte il giorno, mentre ci scorazzavano intorno quei superbi cavalieri, ci dicevamogli uni agli altri:—Sì, siamo civili, siamo i rappresentanti d’una grande nazione, abbiamo più scienza nella testa, noi dieci, che non ce ne sia in tutto l’Impero dei Sceriffi; ma piantati su queste mule, vestiti di questi panni, con questi colori, con questi cappelli, in mezzo a loro, per dio, siamo brutti! Ah! quant’era vero! L’ultimo di quegli straccioni a cavallo era più gentile, più maestoso, più degno dello sguardo d’una donna, che tutti, messi in un fascio, i bellimbusti d’Europa.
A tavola, quella sera, ci fu un’altra scenetta curiosa.
Vennero a visitare l’Ambasciatore e sedettero accanto a lui, i due più vecchi Caid della scorta.
L’Ambasciatore domandò loro:—Avete mai inteso nominare l’Italia?
Tutti e due insieme, accennando vivamente di no colla mano, risposero col tuono di chi si affretta a dissipare un sospetto:—Mai! mai!
Allora l’Ambasciatore, colla pazienza d’un maestro, diede loro alcune nozioni geografiche e politiche intorno al nostro misterioso paese.
Stettero a sentire cogli occhi spalancati e la bocca aperta come due bambini.
—E quanta popolazione ha il vostro paese? domandò uno.
—Venticinque milioni,—rispose l’Ambasciatore.
Fecero un atto di meraviglia.
—E il Marocco,—domandò l’altro—quanti milioni ha?
—Quattro,—rispose l’Ambasciatore per tastare il terreno.
—Quattro soltanto!—esclamarono ingenuamente, guardandosi.
Quei due bravi generali non sapevano del Marocco più che dell’Italia, e forse neanche più della loro provincia che del Marocco. Ma prima d’andarsene, ne dissero un’altra assai più comica.
Il signor Morteo mostrò loro una fotografia della sua signora, dicendo:—Vi presento mia moglie.
La guardarono e la riguardarono con compiacenza e poi domandarono tutti e due ad una voce:—E le altre?
O non sapevano, o piuttosto non si rammentavano in quel momento che i Cristiani,—infelici,—non possono averne che una.
Quella notte non ci fu verso di dormire. Chiocciavano le galline, latravano i cani, belavano i montoni, nitrivano i cavalli, cantavano le sentinelle, tintinnavano le campanelle dei venditori d’acqua, disputavano i soldati sulla ripartizionedellamuna, incespicavano i servi nelle cordicelle della tenda: l’accampamento pareva un mercato. Ma non v’erano più che quattro giorni di viaggio e noi avevamo una parola magica che ci consolava di tutto:—Fez!
Si partì per Zeguta, di buon mattino, tutti rallegrati dal pensiero che quel giorno si sarebbero viste da lontano le montagne di Fez. Spirava un fresco d’autunno, e una leggera nebbia velava la campagna. Una folla d’arabi imbacuccati nelle cappe ci facevano ala all’uscita dell’accampamento; i soldati della scorta, tutti infreddoliti, ci seguivano stretti in un gruppo; i bambini deiduarci guardavano cogli occhi pieni di sonno di dietro alle siepi e alle tende. Ma dopo pochi minuti brillò il sole, i curiosi accorsero, i cavalieri si sparpagliarono, l’aria risuonò di fucilate e di grida, tutto pigliò colore, anima e luce, e immediatamente, come suol accadere in quei paesi, succedette al fresco autunnale l’ardore dell’estate.
Fra i miei appunti di quella mattina ne trovo uno che dice laconicamente:—Cavallette. Saggio d’eloquenza di Selam.—Mi ricordo, infatti, d’aver visto un campo che da lontano pareva che si movesse, e quest’apparenza era prodotta da un grandissimo numero di cavallette verdi che s’avanzavano saltellando verso di noi. Selam, che in quel momento cavalcava al mio fianco, mi fece una descrizione ammirabilmente pittoresca delle invasioni di quegl’insetti formidabili, ed io la ricordo ancora parola per parola; ma come rendere l’effetto del suo gesto, del suo sguardo, della sua voce, che esprimevano assai più delle parole?—È uno spavento, signore! Vengon di là (e accennava a mezzogiorno). È una nuvola nera. Si sente il rumore da lontano. S’avanzano, s’avanzano, ed hanno il loro Sultano, il Sultano Ieraad, che le guida. Coprono strade, campi, case,duar, boschi. La nuvola cresce, cresce, va, va, va, rode, rode, rode, passa fiumi, passa fossi, passa muri, passa fuoco; distrugge erbe, fiori, foglie, frutti, grano, scorze d’alberi, e va va. Nessuno la ferma, non le tribù colle fiamme, non il Sultano con tutto l’esercito, non tutto il popolo del Marocco riunito insieme. Mucchi di cavallette morte? Avanti le cavallette vive. Muoion dieci? Nascon cento. Muoion cento?Nascon mille. Vedute a Tangeri. Strade, coperte; giardini, coperti; riva del mare, coperta; mare, coperto; tutto verde, tutto in moto, vive, morte, marcie, puzzo, peste, carestia, maledizione del cielo!—Così infatti accade. Il fetore che emana dalle miriadi di cavallette morte produce qualchevolta delle febbri contagiose, e, per citare un esempio, la peste spaventosa che spopolò nel 1799 le città e le campagne della Barberia, scoppiò dopo una delle loro più grandi invasioni. Quando si presenta l’avanguardia dell’esercito devastatore, gli arabi le movono incontro, in frotte di quattro o cinquecento insieme con bastoni e con fuoco; ma non riescono che a farle deviare per poco dal loro cammino, e segue spesso che una tribù cacciandole verso le terre d’una tribù vicina, la guerra alle cavallette si cangia in guerra civile. La sola forza che può liberare il paese da questo flagello, è un vento favorevole che le spinga nel mare, dove s’annegano, e vengon poi, per parecchi giorni, rigettate a mucchi sulle coste; e il solo conforto che rimanga agli abitanti quando il vento favorevole non soffia, è di mangiare, come fanno, le loro nemiche, prima che abbian deposte le uova, bollite e condite con sale, pepe ed aceto. Hanno un sapore di granchiolino di mare e se ne possono mangiare fino a quattrocento in un giorno.
A due miglia circa dall’accampamento, raggiungemmo una parte della carovana che portava a Fez i regali di Vittorio Emmanuele. Erano cammelli uniti a coppie, l’uno dietro l’altro, con due lunghissime sbarre sospese alla groppa, sulle quali posavano le casse. Li accompagnavano alcuni arabi a piedi e qualche soldato a cavallo. Alla testa della carovana v’era un carro tirato da due buoi: il primo carro che vedevamo nel Marocco! stato fatto apposta a Laracce sul modello, credo, dei primi veicoli apparsi sulla superficie della terra: tozzo, pesante, deforme, colle ruote d’un sol pezzo, senza raggi; il più strano e più ridicolo arnese che si possa immaginare. Ma per gli abitanti deiduar, i più dei quali non avevan forse mai visto un carro, era una meraviglia. Da tutte le parti accorrevano a vederlo, se lo accennavano gli uni agli altri, lo seguivano, lo precedevano, ne parlavano con gesti concitati. Persino le nostre mule, non abituate alla vista di quell’oggetto, passandovi accanto, davan segni di sorpresa e o si piantavano in quattro o facevano una giravolta. Selam stesso lo guardava con una certa compiacenza, come dicendo tra sè:—È stato fatto nel nostro paese!—Ed era compatibile, poichè in tutto il Marocco non esiste forse un maggior numero di carri che di pianoforti; i quali,se è giusta l’asserzione d’un console francese, non passano la dozzina; e oltre a questo, pare che vi sia in quel paese un’antipatia nazionale contro ogni specie di veicoli. Le autorità di Tangeri, per esempio, proibirono al principe Federico d’Assia Darmstadt, che fu in quella città nel 1839, di uscire in carrozza. Il principe scrisse al Sultano offerendosi di fare lastricare a proprie spese le strade principali, purchè gli permettesse quello che le autorità gli negavano.—Lo permetto,—rispose il Sultano,—e di buon grado; ma ad un patto: che le carrozze sian senza ruote, perchè, come protettore dei fedeli, non posso lasciare i miei sudditi esposti al pericolo d’essere schiacciati da un cristiano.—E il principe, per mettere la cosa in ridicolo, si valse del permesso ed osservò il patto, e v’è ancora a Tangeri chi si ricorda d’averlo visto attraversare la città in una carrozza senza ruote, sospesa alla groppa di due mule.
Finalmente s’arrivò a quelle benedette colline a cui si pensava da tre giorni con desiderio impaziente. Dopo una lunga salita, s’infilò una gola strettissima, chiamata in arabo Beb Tinca, dove bisognò passare ad uno ad uno, e si riuscì sopra una bella valle fiorita e solitaria in cui la carovana discese festosamente, empiendo l’aria di canti e di grida.
In fondo alla valle s’incontrò un’altra scorta del territorio delle colonie militari, la quale diede il cambio alla prima.
Erano cento cavalieri, tra i quali dei vecchissimi e dei giovanissimi, neri e capelluti; alcuni su cavalli stupendi, bardati con insolita pompa. Il caid, Abù-ben-Gileli, era un vecchio tarchiato, d’aspetto severo, di modi recisi, del quale e dei suoi soldati, si sarebbe potuto dire quello che diceva Don Abbondio dell’Innominato e dei bravi:—Per tenere a segno quelle faccie lì, non ci vuol meno di questa faccia qui; lo capisco anch’io.—Senza un riguardo al mondo per il grano e per l’orzo maturo ch’era dai due lati della strada, i soldati lanciarono i cavalli al galoppo di qua e di là, e cominciarono le solite cariche a due, a cinque, a dieci insieme, buttando i fucili in aria, rovesciandosi in dietro, a destra, a sinistra, contorcendosi sulla sella in mille maniere e urlando come anime dannate. Uno, fra gli altri, faceva il molinello col fucile con una rapidità che quasi l’arma non si vedeva. Un altro, passando, gridò con voce tonante:—Ecco il fulmine!—Un terzo, essendogli deviato il cavallo, mancò un pelo che non c’investisse e ci buttasse tutti in terra a gambe levate.
A una cert’ora l’Ambasciatore e il capitano, accompagnati da Hamed-ben-Kasen e da alcuni soldati, si staccarono dalla carovana per andar a far l’ascensione d’un monte, chiamato Selfat, poche miglia lontano; e noi seguitammo senza di loro il cammino prestabilito.
Pochi minuti dopo seguì un caso che non mi uscirà mai più, credo, dalla memoria.
Veniva verso di noi un ragazzo di sedici o diciott’anni, arabo, mezzo nudo, che mandava innanzi, con un grosso bastone, due buoi recalcitranti.
Il caid Abù-ben-Gileli arrestò il cavallo, e lo chiamò.
Si seppe dopo che quel ragazzo doveva andare ad attaccare i due buoi al carro che avevamo visto poco prima, ed era in ritardo di qualche ora.
Il poveretto, tutto tremante, si presentò al caid.
Questo gli fece non so che domande, a cui il ragazzo rispose balbettando e facendosi smorto come un cadavere.
Allora il caid si voltò verso i soldati e disse freddamente:—Cinquanta bastonate.
Tre robusti soldati saltarono giù da cavallo.
Il povero ragazzo, senza aspettare che lo afferrassero, senza profferire una parola, senzanemmeno alzare lo sguardo in viso al suo giudice, si buttò bocconi in terra, secondo l’uso, colle gambe e le braccia distese.
Tutto questo accadde, si può dire, in un batter d’occhio. Il bastone non era ancora in aria che già il comandante ed altri s’eran cacciati in mezzo e avevano fatto dire al caid che non potevano permettere quel brutale castigo.
Il caid chinò la testa.
Il ragazzo s’alzò pallido, convulso, guardando con un’espressione di meraviglia e di spavento i suoi liberatori e il caid.
—Va,—gli disse l’interprete,—sei libero!
—Ah!—gridò con un accento inesprimibile,—e disparve.
Noi ci rimettemmo in cammino.
L’ho da dire? Ho visto uccidere un uomo, ma non provai un sentimento così profondo d’orrore come quello che m’assalì alla vista di quel ragazzo seminudo disteso in terra per ricevere cinquanta bastonate. E dopo l’orrore, mi salì il sangue al capo dall’indignazione e vituperai nel mio cuore il Caid, il Sultano, il Marocco, la barbarie colle parole più fulminanti del linguaggio umano. Ma è proprio vero che bisogna sempre aspettare i secondi pensieri.—Ma e noi,—pensai qualche momento dopo;—quanti anni sono che abbiamo abolito il bastone? E quanto tempo è che s’è abolitoin Austria? E in Prussia? E negli altri Stati d’Europa?—Questa riflessione mi fece cadere lo sdegno dal cuore e non mi lasciò che un sentimento d’amarezza. Per chi poi desiderasse di sapere in che modo si bastona al Marocco, basterà dire che qualche volta, terminata l’operazione, si porta la vittima al cimitero.
Di là fino a Zeguta la carovana passò di collina in collina, di valle in valle, sempre tra campi di grano e d’orzo e prati verdissimi, circondati d’aloé, di fichi d’India, d’olivi selvatici, di quercie nane, di cisti, di corbezzoli, di mirti, di cespugli fioriti. Non si vedeva una tenda, non s’incontrava un’anima viva. La campagna era tutta lussureggiante, solitaria e tacita come un giardino fatato. Giungendo sulla sommità d’un’altura, vedemmo le cime azzurre delle montagne di Fez, che subito si rinascosero come se avessero alzata la testa un momento per vederci passare; e nel più forte del caldo arrivammo a Zeguta.
Era uno dei più bei luoghi che si fosser veduti in tutto il viaggio.
L’accampamento era posto sulla china d’un monte, in una grande cavità rocciosa, della forma d’un anfiteatro, nella quale appunto i massi e le piccole incavature formate a pocoa poco, l’una sull’altra, con una certa regolarità, dal passaggio della gente e degli animali, presentavano l’aspetto d’una vasta gradinata; e giusto in quell’ora, la gradinata era affollata d’arabi seduti a schiere semicircolari, come spettatori d’un anfiteatro vero. Dinanzi, s’apriva in forma di conca una grande valle tutta scompartita dalla varietà delle coltivazioni in quadrati verdi, gialli, bianchi, rossi, violetti, che pareva un immenso scacchiere di pezzi di velluto e di seta. Guardando col cannocchiale, si vedeva, sulle colline più lontane, qua una fila di tende, là una cuba nascosta fra gli aloé, più in là un cammello, più oltre un arabo accovacciato, un armento, un gruppo di donne; una vita sparsa e lenta che faceva sentire anche meglio d’una completa solitudine la profonda pace del luogo. Su tutta questa bellezza, si stendeva un cielo bianco, infocato, abbarbagliante, che costringeva a star col capo basso e cogli occhi socchiusi.
Ma assai più che per il paesaggio, ricorderò perpetuamente l’accampamento di Zeguta per l’esperimento che vi feci del famoso kif.
Il kif, per chi non lo sappia, è la foglia d’una specie di canapa, chiamatahascisc, conosciuta in tutto l’Oriente per la sua virtù inebriante. Nel Marocco se ne fa grandissimouso, e si può dire che sono quasi tutte vittime di questa foglia deleteria, quegli arabi e mori, molto frequenti nelle città, che guardano chi passa cogli occhi sbarrati e stupidi, e camminano, quasi strascicandosi, come gente sbalordita da una percossa nel capo. La maggior parte fumano il kif, mescolato con un po’ di tabacco, in piccolissime pipe di terra cotta; altri lo mangiano in una specie di pasta dolce chiamatamadjun, fatta con burro, miele, noce moscata e garofani. Gli effetti sono stranissimi. Il dottor Miguerez, che ne aveva fatto esperimento, me ne parlava sovente, dicendo, fra le altre cose, ch’era stato preso da un accesso di riso irresistibile, e che gli pareva di sentirsi sollevato da terra, tanto che, passando sotto un portone alto due volte lui, aveva chinato la testa per paura d’urtare. Stimolato dalla curiosità, io l’avevo pregato più volte di darmi una porzioncina dimadjun, poca, per non perdere affatto la bussola, ma bastante a farmi vedere e sentire qualcuna almeno delle mille meraviglie ch’egli mi raccontava. Il bravo dottore per i primi giorni si scusò, dicendo che sarebbe stato meglio fare l’esperimento a Fez, con tutti i comodi; ma io continuai a sollecitarlo, e a Zeguta, finalmente, un po’ a controvoglia, mi presentò in un piattino il boccone sospirato. Eravamo a tavola. Con me, se non m’inganno, nepresero un po’ l’Ussi e un altro po’ il Biseo; ma di quello che abbia prodotto in loro, non mi ricordo. Era una pasta molle, di colore violetto e di sapore di pomata. Per una mezz’ora circa, dalla minestra alle frutta, non sentii nulla, e già canzonavo il dottore per le sue paure. Ma lui mi rispondeva:—Aspetti, aspetti—e sorrideva. I sintomi dell’ebbrezza, infatti, si manifestarono alle frutta. Fu da principio una viva ilarità e una rapidissima parlantina. Poi cominciai a ridere di tutto quello che sentivo dire e che dicevo io stesso; ogni parola mia e d’altri mi faceva l’effetto d’un’arguzia finissima; ridevo dei servi, degli sguardi dei miei commensali, della mia seggiola squilibrata, delle figurine dipinte sui tondi, della forma di certe bottiglie, del colore del cacio che mangiavo. All’improvviso m’accorsi che non avevo più la testa a segno e mi diedi a pensare a qualche cosa di serio per contenermi. Pensai al ragazzo che volevan bastonare la mattina. Povero ragazzo! M’inteneriva. Avrei voluto condurlo in Italia, farlo educare, fargli abbracciare una carriera. L’amavo come un figlio. E anche il caid Abù-ben-Gileli, povero vecchio. Il caid Abù-ben-Gileli l’amavo come un padre. E i soldati della scorta? Eran tutti buoni ragazzi, pronti a difenderci, a rischiar la vita per noi. Io li amavo come fratelli. Amavo pure li Algerini,e perchè no? pensavo; non sono della stessa razza dei Marocchini? E poi, che razza! Siamo fratelli tutti, siamostretti ad un patto, bisogna amarci, io amo, io sono felice, e mettevo il braccio intorno al collo del dottore, che scoppiava dalle risa. Da quest’allegrezza caddi a un tratto in una mestizia confusa e profonda. Ricordai le persone che avevo offese, i dolori di cui ero stato cagione a coloro che m’amavano, mi sentii oppresso da mille rimorsi e da mille rammarichi, mi parve di sentire delle voci che mi parlavano nell’orecchio con un accento d’amore e di rimprovero, mi pentii, domandai perdono, mi asciugai furtivamente una grossa lacrima che mi tremolava nell’occhio. Poi mi si levò nella memoria un turbinìo rapidissimo d’immagini disparate e bizzarre che svanivano l’una nell’altra: certi amici d’infanzia dimenticati, certe parole di dialetto non più pronunziate da vent’anni, dei visi di donna, il mio antico reggimento, Guglielmo il Taciturno, Parigi, l’editore Barbera, un cappello di castoro che avevo da bimbo, l’Acropoli d’Atene, il conto d’un albergatore di Siviglia, mille stranezze. Ricordo confusamente che i commensali mi guardavano sorridendo. Di tratto in tratto chiudevo gli occhi e poi li riaprivo e non sapevo se avessi o no dormito, se fossi stato così un minuto o mezz’ora. Avevo unpensiero lucido nel capo, cominciavo a parlare, dicevo:—una volta sono andato.... Dove sono andato? Chi è andato? Tutto era svanito. I pensieri brillavano e si spegnevano come lucciole, fitti, intricati, inestricabili. A un certo punto vidi l’Ussi con una testa allungata come un’immagine riflessa da uno specchio convesso; il Viceconsole con un viso largo due palmi; tutti gli altri assottigliati, gonfi, scontorti, contraffatti come caricature fantastiche, che mi facevano delle smorfie inesprimibilmente buffe; ed io ridevo e dondolavo il capo e sonnecchiavo e pensavo ch’eran tutti matti, che ci trovavamo in un altro mondo, che nulla di quel che vedevo era vero, che stavo male, che non capivo che cosa fosse accaduto, che non sapevo dove fossi. E poi tutto fu buio e silenzio. E quando rinvenni in me, mi trovai sotto la mia tenda, steso sul letto, col dottore accanto, il quale, guardandomi al lume della candela, disse sorridendo:—È passata, via; ma dev’esser la prima e l’ultima volta.
Mentre io corro qua e là in cerca della mia cavalcatura, che non so come, ritrovo poi appiattata in mezzo ai bagagli, l’Ambasciata parte. Avrei ancora tempo di raggiungerla; ma all’uscita dall’accampamento, scendendo per una china rocciosa, la mula vacilla, la sella si slaccia, la letteratura precipita, ci vuole una mezz’ora per riassestare ogni cosa, e addio Ambasciata! Mi tocca fare il viaggio solo, seguito alla lontana da un servo zoppicante, che arriverà appena in tempo, quando io sia assalito, a vedermi dare gli ultimi tratti. Sia fatta la volontà d’Allà! La campagna è deserta e il cielo nuvoloso. Di mezz’ora in mezz’ora vedo comparire, sulla sommità delle alture lontane, una cavalcata variopinta e sparsa, in mezzo alla quale riconosco il cavallo bianco dell’Ambasciatore e il caffettano rosso di Selam; e perqualche momento mi pare di non esser più solo; ma la cavalcata sparisce, e la solitudine mi torna a pesare sul cuore. A un’ora dall’accampamento raggiungo una retroguardia di dodici cavalieri, condotti dal vecchio Abu Ben Gileli, il caid delle cinquanta bastonate, il quale mi lancia uno sguardo terribilmente espressivo rasente la schiena. Sorrido umilmente e passo oltre. Esco dalla bella valle che si dominava collo sguardo dall’accampamento, e m’inoltro in un’altra valle spaziosa, fiancheggiata da alture ripidissime, vestite d’aloé e d’olivi, che formano come due grandi muraglie verdi a destra e a sinistra d’una immensa strada diritta, chiusa, in fondo, da una cortina di monti azzurri. Incontro parecchi arabi, che si fermano per vedermi passare e guardano intorno, stupiti ch’io non sia scortato. Mi assaltano? non mi assaltano? Uno s’accosta a un albero, ne stacca in fretta e in furia un grosso ramo, e mi corre incontro. Ci siamo! Arresto la mula, afferro la pistola. Egli si mette a ridere e mi porge il bastone, spiegandomi che l’ha staccato per me, per picchiare la mula, che non vuol camminare. In quel momento mi vedo venir incontro, di gran galoppo, due soldati della scorta. La mia ora, si vede, non è ancora sonata. I due soldati mi si mettono uno a destra e uno a sinistra, come due carabinieri,e mandano innanzi il mio quadrupede col calcio dei fucili,—dicendo:—Embasciador! Embasciador!—Li ha mandati l’Ambasciatore a vedere che cosa è accaduto di me. Meritano una ricompensa. Mi fermo, ed offro loro una bottiglietta di vino che porto in tasca. Non dicono nè si nè no; si guardano sorridendo, mi accennano che non ne han mai bevuto.—Assaggiate,—dico io col gesto. Uno prende la bottiglia, versa una goccia sulla palma della mano, dà una leccata e rimane un momento pensieroso. L’altro fa lo stesso. Poi si guardano, si mettono a ridere e fanno cenno di sì.—Bevete dunque.—Uno vuota mezza la bottiglia d’un fiato; l’altro, d’un fiato, la finisce; poi si metton tutti e due una mano sul petto e guardano il cielo cogli occhi luccicanti di voluttà. Ci rimettiamo in cammino. Incontriamo altri arabi, uomini, donne e ragazzi, che mi guardano con grande stupore. Uno, fra gli altri, dice alcune parole, alle quali i soldati rispondono con un brusco cenno negativo. Ho poi saputo che, credendomi arrestato, aveva detto:—Ecco un cristiano che ha rubato all’Ambasciatore.—Si vede qualche villaggio di case bianche sulla sommità delle alture che fiancheggiano la valle; spesseggiano lecube, le palme, gli alberi fruttiferi, i leandri fioriti, i roseti; la campagna è tutta verdissima,e comincia a mostrare qua e là qualche traccia di divisione di poderi. Entriamo finalmente in una gola angusta e tortuosa, formata da due muraglie di roccia; uscendo dalla quale, ci troviamo sul terreno dell’accampamento. Siamo sulla sponda del Miches, affluente del Sebù, vicino a un piccolo ponte di muratura costrutto diciassette anni sono, in una conca formata da un semicerchio di colline rocciose. Il cielo grigio come una vôlta di piombo piove una luce smorta e uggiosa, che ci costringe a star sette ore immobili sotto le tende. Il termometro segna quarantun grado. L’aria è infocata e grave. Fra le tende non si sente altro che il canto dei grilli e il suono della chitarra del Ducali. Una noia profonda pesa su tutto l’accampamento. Ma verso sera tutto cangia. Una passata d’acqua rinfresca l’aria, un fascio di raggi abbarbaglianti, prorompendo come una corrente di luce elettrica per l’apertura della gola, indora una metà del campo; arrivano corrieri da Tangeri, corrieri da Fez, curiosi dai villaggi; due terzi della carovana si tuffano nel fiume; e il desinare è rallegrato dall’apparizione d’un nuovo personaggio, venuto dalla gran città dei Sceriffi: il moro Scellal, un altro dei protetti della Legazione d’Italia che ha una lite pendente col Governo del Sultano: il più voluminoso turbante, il più rotondo faccione,la più beata pinguedine moresca che siasi veduta da Tangeri in poi. La mattina seguente, all’alba, ci rimettiamo in cammino, senz’altra scorta che i quaranta soldati comandati da Hamed Ben Kasen. È scoppiata una rivolta nelle terre confinanti coll’Algeria, e tutta la cavalleria della provincia di Fez è stata immediatamente mandata contro i ribelli.—Vedremo molte teste appese alle porte di Fez,—dice il Ducali. Per due ore camminiamo fra le colline in mezzo alle ginestre e ai lentischi. Poi sbocchiamo nella vastissima pianura di Fez, coronata di montagne e di colli, biondeggiante di grano, sparsa di grandiduar, percorsa dal fiume della Fontana azzurra, che si va a versare nel Miches, e dal Fiume delle perle, affluente del Sebù, che va a dividere in due la città sacra dell’Impero; sorvolata da stormi di grù, d’oche selvatiche, di tortore, di pernici, d’aghironi; lussureggiante di vegetazione, piena di luce, quieta e ridente come un immenso giardino. Piantiamo l’accampamento sulla riva del fiume della Fontana azzurra. La giornata passa in un lampo, tra le caccie, le visite aiduar, gli ebrei che vengon da Fez a raccontarci dei grandi apparecchi dell’esercito, i messi della corte che portano i saluti del Sultano; le famiglie arabe che guadano il fiume, in lunghe file, prima il cammello, poi gli uomini,poi le donne coi bimbi sul dorso, poi i ragazzi, poi i cani a nuoto; le carovane che passano, le frotte di curiosi che accorrono, un tramonto che innamora e la notte più luminosa ch’abbia mai contemplato occhio umano. La mattina all’alba di nuovo in cammino. Si rientra fra le colline, si torna a discendere nella pianura, e s’infila una strada serpeggiante incassata fra due rive, che ci nascondono l’orizzonte. Tutt’a un tratto una voce sonora grida:—Ecco Fez!—Tutti si fermano. Diritto, davanti a noi, lontano parecchie miglia, ai piedi delle montagne, si vede una vasta selva di torri, di minareti e di palme, velata leggermente dalla nebbia. Un allegro:—Ci siamo!—prorompe nello stesso punto da tutte le bocche in italiano, in spagnuolo, in francese, in arabo, in genovese, in siciliano, in napoletano; e al breve silenzio della prima meraviglia, succede una conversazione rumorosa. Ci rimettiamo in cammino e andiamo ad accamparci, per l’ultima volta, ai piedi del monte Tagat sulla riva del Fiume delle perle, a un’ora e mezzo da Fez. Qui per tutta la giornata è un andirivieni e un affaccendamento che ci pare il quartier generale d’un esercito in guerra. Sono messi del Sultano, messi del primo ministro, messi del gran cerimoniere, messi del Governatore di Fez, ufficiali, maggiordomi, negozianti,patenti de’ mori della carovana, tutta gente ben vestita, linda, cerimoniosa, circonfusa dell’aura della corte e della metropoli, che parla con voce grave e gesti maestosi dell’esercito formidabile, della folla immensa, del palazzo delizioso che ci aspetta. L’entrata a Fez è stabilita per le otto della mattina seguente. All’alba tutti sono in piedi. È un gran lavorìo di rasoi, di spazzole, di pettini, di striglie, e un’allegrezza che ci rifà ad usura di tutte le fatiche del viaggio. L’Ambasciatore si mette il suo berretto dorato, Hamed Ben Kasen la sciabola di gala, Selam un caffettano color di rosa, Civo un fazzoletto verde intorno al capo, segno di grande solennità; tutti i servi, la cappa bianca; tutti i soldati della scorta, le armi lucide; tutti gl’italiani, la roba più sfoggiata dei loro bauli. Siamo, fra tutti, un centinaio, e si può affermare che l’Italia non ha mai avuto un’ambasciata più bizzarramente composta, più pomposamente colorita, più allegramente impaziente, più impazientemente aspettata di questa. Il tempo è bellissimo, i cavalli scalpitano, i caic ondeggiano al venticello della mattina, tutti i volti brillano, tutti gli sguardi si fissano sull’Ambasciatore che conta i minuti sull’orologio. Son le otto—un cenno—tutti a cavallo—e avanti. Ah! che vuol dire essere eternamente bambino! Mi sento battere il cuore!