Buon dì e buon anno dea DomineddioA questo branco di brave persone.Doh, non traete i sassi: i’ son ben io,Bench’io non ho gonnella e capperoneCalandrin sono: e vengo con disioGiù dal Canto alla macina in Mugnone:E non vo’ per la pietra; ma giulíoHo la ribeba in mano e le canzone.Quanto vo’ bene a chi m’aprì l’avello!Ch’or veggo rifiorir la mia casata,E Buffalmacco e Bruno e Maso e Nello.Deh dov’è monna Tessa mia dolciataE ’l porco mio e ’l prete? I’ vo vedelloE salutar tutta la mia brigata.Or non è diretataLa stirpe mia; or pe’ nostri confiniSon ventidue milioni i CalandriniAttesi tutti e chiniL’elitropia a cercar dell’unità,La libertà con la prosperità:E pur va e pur vaUnguanno e l’altro, che sudati e lassiS’han per le rene e ne’ garetti i sassi.Più tristi ch’e’ tre assiSon oggi i Buffalmacchi: e monna TessaCon la voce in falsetto di badessaA ministrar s’è messa.Or non son io che di mogliema impregno:Più savio Calandrino ha il vostro regno.Venga, ben venga il degnoBaron di Broglio che col vin v’ammalia:Egli impregnò dell’unità d’Italia,E figlia sempre, e a baliaAlloga tuttavia tanti figliuoli,Che di Marradi avanzano i fagiuoli.Nè manca chi v’imboliIl porco e a voi con le pallotte apprendaChe voi ’l rubaste e vogline l’ammenda.Or sì ch’è reverendaLa mia gesta, e al favor tutto s’inchinaDi così fatta gente calandrina.O prole mia divina,Regno mio bello e popolo felice,Io Calandrin, non Dante, com’uom dice,Io fui la tua radice.Goditi Alfonso[41]per vicario mio,Chè starai bene con Domeneddio.Or fatevi con Dio,Brigatella discreta, e state sodiAlla bombanza; ch’io men vo a Bengodi.
Buon dì e buon anno dea DomineddioA questo branco di brave persone.Doh, non traete i sassi: i’ son ben io,Bench’io non ho gonnella e capperone
Buon dì e buon anno dea Domineddio
A questo branco di brave persone.
Doh, non traete i sassi: i’ son ben io,
Bench’io non ho gonnella e capperone
Calandrin sono: e vengo con disioGiù dal Canto alla macina in Mugnone:E non vo’ per la pietra; ma giulíoHo la ribeba in mano e le canzone.
Calandrin sono: e vengo con disio
Giù dal Canto alla macina in Mugnone:
E non vo’ per la pietra; ma giulío
Ho la ribeba in mano e le canzone.
Quanto vo’ bene a chi m’aprì l’avello!Ch’or veggo rifiorir la mia casata,E Buffalmacco e Bruno e Maso e Nello.
Quanto vo’ bene a chi m’aprì l’avello!
Ch’or veggo rifiorir la mia casata,
E Buffalmacco e Bruno e Maso e Nello.
Deh dov’è monna Tessa mia dolciataE ’l porco mio e ’l prete? I’ vo vedelloE salutar tutta la mia brigata.
Deh dov’è monna Tessa mia dolciata
E ’l porco mio e ’l prete? I’ vo vedello
E salutar tutta la mia brigata.
Or non è diretataLa stirpe mia; or pe’ nostri confiniSon ventidue milioni i Calandrini
Or non è diretata
La stirpe mia; or pe’ nostri confini
Son ventidue milioni i Calandrini
Attesi tutti e chiniL’elitropia a cercar dell’unità,La libertà con la prosperità:
Attesi tutti e chini
L’elitropia a cercar dell’unità,
La libertà con la prosperità:
E pur va e pur vaUnguanno e l’altro, che sudati e lassiS’han per le rene e ne’ garetti i sassi.
E pur va e pur va
Unguanno e l’altro, che sudati e lassi
S’han per le rene e ne’ garetti i sassi.
Più tristi ch’e’ tre assiSon oggi i Buffalmacchi: e monna TessaCon la voce in falsetto di badessa
Più tristi ch’e’ tre assi
Son oggi i Buffalmacchi: e monna Tessa
Con la voce in falsetto di badessa
A ministrar s’è messa.Or non son io che di mogliema impregno:Più savio Calandrino ha il vostro regno.
A ministrar s’è messa.
Or non son io che di mogliema impregno:
Più savio Calandrino ha il vostro regno.
Venga, ben venga il degnoBaron di Broglio che col vin v’ammalia:Egli impregnò dell’unità d’Italia,
Venga, ben venga il degno
Baron di Broglio che col vin v’ammalia:
Egli impregnò dell’unità d’Italia,
E figlia sempre, e a baliaAlloga tuttavia tanti figliuoli,Che di Marradi avanzano i fagiuoli.
E figlia sempre, e a balia
Alloga tuttavia tanti figliuoli,
Che di Marradi avanzano i fagiuoli.
Nè manca chi v’imboliIl porco e a voi con le pallotte apprendaChe voi ’l rubaste e vogline l’ammenda.
Nè manca chi v’imboli
Il porco e a voi con le pallotte apprenda
Che voi ’l rubaste e vogline l’ammenda.
Or sì ch’è reverendaLa mia gesta, e al favor tutto s’inchinaDi così fatta gente calandrina.
Or sì ch’è reverenda
La mia gesta, e al favor tutto s’inchina
Di così fatta gente calandrina.
O prole mia divina,Regno mio bello e popolo felice,Io Calandrin, non Dante, com’uom dice,
O prole mia divina,
Regno mio bello e popolo felice,
Io Calandrin, non Dante, com’uom dice,
Io fui la tua radice.Goditi Alfonso[41]per vicario mio,Chè starai bene con Domeneddio.
Io fui la tua radice.
Goditi Alfonso[41]per vicario mio,
Chè starai bene con Domeneddio.
Or fatevi con Dio,Brigatella discreta, e state sodiAlla bombanza; ch’io men vo a Bengodi.
Or fatevi con Dio,
Brigatella discreta, e state sodi
Alla bombanza; ch’io men vo a Bengodi.
***
Il Carducci alla fine d’ottobre tornò a Bologna, e il Risi indi a poco andò a Siena, dove era stato trasferito come professore di Liceo. Tornato a Bologna, il Carducci si mise tutto negli studi. Come dai grandi materiali danteschi raccolti per le lezioni degli anni innanzi aveva tratto fuori nel 1865 il discorso su le Rime di Dante, così nell’anno di poi mise insieme di su i materiali stessi i tre discorsiDella varia fortuna di Dante, che videro la luce nellaNuova Antologiadell’ottobre 1866 e marzo e maggio 1867.
Negli studi cercava una diversione agli incresciosi pensieri delle vicende politiche. Aspromonte gli aveva lasciato nell’animo una grande amarezza;la convenzione del settembre 1864 e il trasferimento della capitale a Firenze erano sembrati a lui, come a molti, una tacita rinunzia a Roma. Ebbe un barlume di speranza nella primavera del 1866, quando l’alleanza con la Prussia e la guerra offrivano all’Italia l’occasione di affermarsi e compiere la sua unità: invece avemmo Custoza e Lissa, e l’umiliante regalo di Venezia, in premio dell’avere arrestato Garibaldi alle porte di Trento. Una dura fatalità pareva incombere sull’Italia. Il giugno 1867 il Carducci mi scriveva: «Pur troppo le cose vanno male e di che modo! Vorrei raccogliermi solamente negli studi e non pensar più a nulla, ma l’animo non me lo permette. Mi sfogo di quando in quando a far sonetti.» Ne aveva pubblicati tre nellaRivista Bolognese, un quarto,Al Petrarca, me lo mandava due giorni dopo manoscritto insieme all’odePer la rivoluzione di Grecia.
A queste poesie tenne dietro l’odeAgli amici della Val Tiberina.
Nell’agosto del 1867 il Carducci, accettando l’invito della famiglia Corazzini, andò a passare qualche giorno alla Pieve San Stefano, col proposito di visitare le sorgenti del Tevere. Nella vita sana e patriarcale della campagna, in mezzo a gente di cuore e alla buona, egli si sentiva rifatto, e ritrovava il suo buon umore. Il 15 agosto, invitandomi a raggiungerlo, mi scrisse una lettera piena d’allegria e di facezie, a cominciare dalla data: «giornodell’Assunzione di Maria Vergine [treno diretto per il Paradiso].» Ma il pensiero degli avvenimenti politici non lo abbandonava neppur là. C’era tra i fratelli Corazzini quell’Odoardo che pochi mesi dopo morì delle ferite ricevute a Mentana. Naturale che in quei lieti ragionari si parlasse del desiderio e del bisogno di vendicare la patria delle umiliazioni patite. Da quei discorsi e dalla visita alle sorgenti del sacro fiume nacque la poesiaAgli amici della Pieve, che è veramente il primo epodo, ed è una specie di fanfara, annunziante la spedizione di Garibaldi su Roma.
Ahimè, se il governo, che aveva organizzato le sconfitte di Custoza e di Lissa, era caduto sotto la generale riprovazione, quello che gli successe era pure il governo che aveva dato all’Italia Aspromonte.
E le preparò Mentana.
Tornato a Bologna tutto pieno dell’entusiasmo che gli aveva dettato l’ode, la quale fu subito stampata a Pistoia (Società tipografica pistoiese, Carducci, Bongiovanni e C.,XXVagostoMDCCCLXVII), il Carducci si mise all’opera con gli altri membri di un comitato dell’Associazione democratica per promuovere ed aiutare la spedizione garibaldina nell’Agro Romano.
Inutile dire di che sdegno e dolore fu preso quando, dopo l’annunzio dell’assassinio dei fratelli Cairoli a Villagloria e della vittoria di Garibaldi a Monterotondo, seppe sbaragliati i garibaldini a Mentana daglichassepotsfrancesi, Garibaldi arrestatoe tradotto nella fortezza del Varignano. Chi poteva non coprirsi la faccia per la vergogna di chiamarsi italiano? Più che il dolore, sfogò la feroce ira sua nelle terribili strofeMeminisse horret, scritte nei primi giorni di novembre a Firenze. Indi a poco ebbe a Bologna la notizia della morte di Odoardo Corazzini, e gli ruppe dal cuore il famoso epodo, che commosse tutti e che ai pochi intelligenti di poesia, ai quali la politica non annebbiava l’intelletto, parve una cosa veramente nuova e meravigliosa.
L’epodo fu pubblicato nel giornale democratico di BolognaL’Amico del Popolodel 19 e 20 gennaio 1868, e fattane subito una edizione a parte in opuscoletto (Bologna, Tipografia degli Agrofili italiani). Fu ristampato a Pistoia, riprodotto intero dal giornaleLa Riforma, e in parte da un giornale di Palermo.
Una lettera del Carducci del 30 marzo 1869 mi diceva: «Eccoti una ballata di Goethe, tradotta il sabato santo nello stesso metro e nello stesso numero di versi».
Da qualche tempo s’era dato sul serio allo studio della lingua tedesca, cominciato un po’ alla stracca col Teza fino dal 1862, e poi lasciato andare. Ora lo aveva ripreso con l’aiuto d’un maestro, e con grande passione, tanto che presto era riuscito a padroneggiare i poeti più difficili; il Klopstock, il Goethe, lo Schiller, l’Uhland, l’Hölderlin, il Platen, il Heine; i quali tutti, ma non tutti, s’intende,nello stesso grado, egli ammirava e prediligeva. Da alcuni di essi, specie dallo Schiller, tradusse molto, per suo esercizio, in prosa letterale; poi dal Heine e da qualche altro venne in vario tempo traducendo in versi alcune liriche, con felicità straordinaria.
***
Nel novembre 1867 un decreto governativo trasferiva il Carducci dalla cattedra d’italiano dell’Università bolognese a quella di latino dell’Università di Napoli. Il Carducci non accettò il trasferimento, e il Ministro dovè revocarlo.[42]Qualche mese appresso un altro decreto lo sospendeva dall’insegnamento e dallo stipendio e lo deferiva al Consiglio Superiore sotto l’accusa di sentimenti ed atti demagogici e sovversivi, fra i quali la firma di un indirizzo al Mazzini ove si facevano voti per un nuovo e migliore ordine di cose.
Imperava allora il Menabrea, che aveva mandato i soldati italiani a far da comparsa alla tragedia di Mentana, e che aveva colleghi nel Ministero il Gualterio, il Cantelli, ed il Broglio all’istruzione.
Il Carducci, per quanto disgustato, non si commosse affatto della sospensione: mandò la sua difesa al Consiglio Superiore, ben sapendo che lesue ragioni non avrebbero contato niente.[43]Il 21 maggio 1868 mi scriveva: «Io, amico mio, sto bene: lavoro al mio comento sul Petrarca: riveggo le stampe d’un libretto diPoeti erotici del secolo XVIIIper il Barbèra; gli preparo un altro libretto di poeti lirici dello stesso secolo; scrivo una vita del Savioli erudita e critica per la Deputazione di Storia patria; correggo per la lingua un informe manoscritto d’un generale; fo lezione di storia a tre ufficiali. Rade volte in vita mia son vissuto così quieto e sereno: aggiungi che mi riman tempo per leggere; e leggo assai di Giovenale e delleGeorgiche. Vivo quieto e sereno; se bene qualche fiato dell’umana viltà che mi giunge si provi a volermi commovere.»
Proprio in questo tempo aveva finito di correggere le ultime bozze delle poesieLevia Gravia, che furono pubblicate il 1º di giugno dalla Tipografia Niccolai e Quarteroni di Pistoia. Era la prima raccolta di poesie che mandava fuori dopo il volumetto sanminiatese del 1857; ed era molto diversa da tutte quelle che negli anni innanzi aveva avuto in animo di fare. Comprendeva, in quattro libri, cinquanta sonetti e ventiquattro fra odi e canzoni; lametà circa riprodotte dal volumetto di San Miniato, l’altra metà nuove; nessuna d’argomento politico.
Il libro di cui furono stampati soltanto trecento esemplari, a spese dell’autore, ebbe pochissima diffusione: si può dire che fuori di qualche amico e di qualche raro intelligente e amatore d’arte, ben pochi ne compresero il valore.
Il Carducci aveva escluso deliberatamente dal suo volume tutte le poesie politiche; ma gli avvenimenti pubblici erano stati e seguitavano ad essere così gravi e dolorosi, che l’imagine loro assediava e agitava continua l’animo del poeta. Era una specie di ossessione che essi esercitavano sullo spirito di lui. Dopo Mentana, per tacer d’altro, l’uccisione di Monti e Tognetti, e più tardi l’entrata a Roma, che doveva essere un fatto glorioso, e fu una nuova vergogna. Come tacere, come non protestare contro la viltà degli uomini che rappresentavano l’Italia ufficiale? Quasi strappato a forza agli studi d’erudizione e di critica nei quali cercava la pace, il poeta pigliava per un istante la penna e scriveva: nel novembre del 1868 l’epodo per Monti e Tognetti, che fu subito pubblicato nel n. 339 del giornaleLa Riforma, e riprodotto in opuscolo (dalla Tipografia Niccolai e Quarteroni di Pistoia), da vendersi a favore delle famiglie dei decapitati; fra il 1868 e il ’69 i tre sonettiEhu pudor!; nel gennaio del 1870 l’epodoIn morte di Giovanni Cairoli, che fu pure pubblicato nellaRiforma(n. 45, 14 febbraio 1870); e nelgiugno, calmatosi un po’, quelloPer le nozze di Cesare Parenzo, nel quale al rabbioso impeto archilocheo degli altri epodi succedevano più miti armonie.
***
All’epodo per Monti e Tognetti, che il Carducci mi aveva mandato manoscritto, io aveva fatto alcune osservazioni, alle quali egli rispose cercando persuadermi che avevo torto; nonostante conchiudeva: «Piglia tutto ciò per una esplicazione di teorica, non per una difesa: vedi se ragionandovi sopra, ti puoi accostare a me; o, altramente, significa pure le tue idee di nuovo e quelle che ti possono sopravvenire. Perchè avrei caro che tu persuadessi me; allora in un altro epodo (oramai sono il poeta degli epodi) mi atterrei alla tua teorica.» Io avevo biasimata come non rispondente al vero, nella prima parte dell’epodo, la rappresentazione del pontefice, che cinicamente si frega le mani pensando alla scure che taglierà le teste dei due condannati, e ci scherza sopra con un linguaggio sarcastico che mi parve ributtante. Le risposte del Carducci lì per lì mi persuasero, ma confesso che non riuscirono a farmi piacere interamente quella parte della poesia.
Era questo il primo periodo deiGiambi ed Epodi, e terminava con esso il decimo anno della dimora del Carducci a Bologna. In quei dieci anni l’ingegno suo si era completamente svolto e affermato:non gli restava che perfezionarsi e ascendere securamente al sommo dell’arte.
Intanto il Barbèra, il quale voleva bene al Carducci e sentiva la potenza dell’ingegno di lui, ma era ben lontano dal parteciparne le opinioni, e sapeva come editore fare gli affari suoi, gli offrì di stampare in un volume tutte le sue poesie, comprese le ultime; ed il Carducci accettò, e dentro l’anno approntò il volume, che uscì nel febbraio 1871; diviso in tre parti:Decennali(1860-1870),Levia Gravia(1857-1870),Juvenilia(1850-1857). IDecennalicomprendevano tutte le poesie d’argomento politico, a cominciare dall’odeSicilia e la Rivoluzione, escluse le precedenti, che l’editore voleva e l’autore non volle ristampare; iLevia GraviaeJuveniliariproducevano, con qualche cosa di più, e una diversa partizione, il volume pistoiese del 1868.
Nello stesso anno 1870 io proposi al Carducci di stampare dal Vigo un volume di studi letterari: sulle prime disse di no, e offrì invece di fare una raccolta di rime antiche (Le caccie del secolo XIV), per le quali aveva già pronto molto materiale, e laVita Nuovadi Dante con tutte le rime che appartengono alla serie di essa, e con illustrazioni scelte di altri, italiani e stranieri, e sue nuove. Alla mia insistenza che l’una cosa non escludeva l’altra, si arrese, ma di mala voglia, e il 23 dicembre mi scriveva: «L’anno venturo volevo consacrarlo intero al mio Petrarca e al mio Dante: perchè frastornarmene?Sono annoiato e infastidito del ristampare le mie poesie: perchè ricondannarmi, povero asino, a portarmi dietro il concime e il letame della mia propria stalla rivedendo le bruttissime prose? Lasciami svoltolarmi nella grande erba verde del Petrarca, lasciami andar lento lento, asino filosofo e critico, nella gran selva di Dante. Che importa a me di tutto il mondo vivo? Voglio dimenticarlo.... Molto meglio di tutto sarebbe che il Vigo si stesse contento per ora a far leCaccie. Oh il bellissimo librettino che vogliam fare!... Altra cosa che mi arride è laVita Nuovacon tutti i suoi commenti e le poesie che si riferiscono a cotesto ciclo della Vita di Dante, e forse anche in un altro volumetto le poesie dellaScuola di parte bianca, Cavalcanti, Cino, Frescobaldi, ec. Sentirai la storia dellaVita Nuovae del pensiero interiore di Dante, sentirai e dirai, bravo! Ci lavoro ora all’Università: scrivo ora tutto il commento. Scriverò le lezioni. Un altr’anno faremo un bel volume.» Tuttavia consentì a stampare un volume di prose sue, a condizione che il Vigo non avesse fretta, e gli lasciasse agio a finire e correggere alcuni scritti che dovevano entrare nel volume. Nell’agosto dell’anno venturo venne per una quindicina di giorni a Livorno, e fu conclusa definitivamente la pubblicazione del volume degliStudi letterari, che tardò ancora tre anni a venir fuori.