AL MARE, AL MARE

AL MARE, AL MAREScrivo dal lido.In questa monotona solitudine campestre spesso la visione del mare mi scuote con sì brusco risveglio che guardo vivamente d'intorno, e la memoria mi tremola dentro come la marina sull'alba.Da vari giorni le nebbie vagolavano stancamente sui monti senza che il vento vi passasse mai attraverso, ma ieri il sole riapparve festante di orgoglio: qualche vapore fumava ancora verso di lui dalla cima di monte Battaglia come un incenso di olocausto: udii gli uccelli cantare e gli uomini parlare più alto.In sella dunque, e al trotto.Pensavo a voi.Perchè non avreste potuto davvero corrermi dinanzi lievemente curva sul manubrio della bicicletta, quasi vestita da uomo con quell'abito da ciclista, che confonde i sessi in una prima promessa di voluttà? I vostri capelli biondi come il sole, sfuggendo dal molle berrettino inclinato sull'orecchio, si accendevano di lampi: l'oscillare delle ruote metteva tratto tratto come un fremito nella posa elegante del vostro fantasma volante sul nuovo cavallo di acciaio. Avanti dunque nel mattino che sorride, fra la gente in festa che si avvia verso la chiesa, mentre le campane squillano e i campi tacciono! Il sole è tornatonel cielo sereno, sul mare violaceo, che ci aspetta dietro Ravenna intenta a ripulire i propri monumenti come certi giorni le vecchie signore vanno a guardare nell'armadio i vestiti della loro gioventù, e sorridono spolverandoli guardingamente. Non sono più di sessanta chilometri, quelli che ci dividono da Porto Corsini, un porto solamente noto ai pescatori perchè è appena un canale: la città degli esarchi non ha più flotta da secoli, e la sua pineta bruciata a mezzo dal ghiaccio di un terribile inverno, quindi ripiantata, non è più un bosco antico.Il viaggio è breve, l'ora incantevole, venite meco e guardiamo.Quel prete sulla strada, fra un crocchio di contadine, non vi pare un grosso tacchino dai coralli rossi fra una torma di gallinelle faraone, che lo spiano scuotendo la testina bianca? Forse è il parroco, che sapendo tutti i loro peccati seguita a parlare di penitenza, quantunque abbia stretto tutti i loro matrimoni: perchè mai non bastò questa? Fanciulle e fanciulli ascoltano quel chiacchierio alle sottane delle mamme come pulcini dietro la chioccia, pronti a sbandarsi nel fosso; passano ronzini trottarellando, pedoni che ogni tanto abbassano gli occhi per guardarsi le scarpe domenicali, uccelli che non sanno che cosa sia la domenica. Eppure il loro canto è più lieto. Chi può dire artificiale la nostra divisione dei giorni per settimane colle feste, che la punteggiano luminosamente? Forse anche questo fu un suggerimento della natura. Udite come raglia quell'asino, che dalla lunga cavedagna sta per imboccare la strada: ha le orecchie rigide come antenne sulla testa eretta superbamente, quasi nell'impeto di un inno. Deve essere festa anche per lui, benchè tiri il solito biroccino sgangherato, con quei due vecchi che ciarlano e nello sballottamento assentono a tutto quanto dicono. Raglia e si guarda innanzi al pari di me. Forse i suoi occhi seguono il fantasma di una asina dal collo sottile e le zampe fini, che si dondola ad un trotto graziosamentesignorile senza voltarsi, come voi stessa non rivolgeste ancora il viso.Noi siamo tutti così.Perchè l'inno ci erompa dalle labbra dobbiamo vederci davanti qualche figura che ci preceda e non fugga, che inseguiamo senza raggiungere, mentre i profumi vaporanti dalla terra ci paiono il suo profumo, e i palpiti dell'aria diventano la luce del suo sorriso, la molle ondulazione del suo respiro. Allora inno e raglio salgono ai medesimi squilli, tremano nella medesima ebbrezza, allungandosi nel complimento di un appello, che finisce quasi sempre in un lamento.Al trotto, al trotto, poichè bisogna attraversare il villaggio tutto pieno di gente!Ah! un amico mi ferma per chiedermi un consiglio di avvocato: lo improvviso come un brindisi, e riparto; tanto peggio per lui se il vino non sarà migliore del brindisi. Ma l'incanto del mattino si è rotto, e non resta più che la solita domenica colla gente vestita a nuovo, la quale pare tutta di forestieri incerti di parlarsi. Infatti si guatano prima, gli uomini con uno sguardo corto e greve, le donne con occhiate lunghe come un pettegolezzo e acute come un dubbio. Tutti si passano reciprocamente in rivista: l'abito e il contegno della domenica sono la confessione degli altri giorni, se il lavoro vi fu avvelenato dalla miseria o confortato dal guadagno. Osservate i poveri, che non possono mutare vestito, come sono squallidi: gli altri invece hanno sul viso una nuova durezza, come un segreto disdegno pei vinti, ai quali faranno forse l'elemosina, ma sentendosi da loro anche più dissimili di ieri.Purtroppo nelle feste non bisogna ricordarsi coloro, che non possono prendervi parte, altrimenti la gioia dilegua.Stamane la festa è ilare perchè fatta di sole, questa sera diventerà torbida nel vino: quindi la notte si aggraverà sulla pesante ostinatezza delle ultime crapule, e seil sole non torni radioso all'alba, il risveglio sarà anche più triste, come da un male ad un altro, dalle nausee dello stravizio alle ripugnanze per il lavoro.Al mare dunque, sul quale la notte ed il giorno sono fra loro meno diversi che sulla terra!Il marinaio passa senza traccia sulle acque, mentre il contadino deve mutare la terra coltivandola; l'uno è un viaggiatore, cui la vita diviene leggiera nella labile poesia del viaggio malgrado i pericoli delle tempeste, l'altro un avaro costretto a seppellire il proprio tesoro in un campo e a tremare sempre di perderlo.Il canto del contadino è uno stornello breve come una sosta, quello del marinaio invece si allunga come il murmure e l'oscillazione delle onde.Dovetti fermarmi a Faenza per una vecchia briga intricata e pungente come un rovo; anche la città era in festa, colla gente parata dei nuovi abiti invernali, ma gli uomini non vi sono più belli come una volta, e le donne non lo sono diventate ancora. Finalmente ripresi la bicicletta dall'atrio del caffè, e spiccavo già il balzo, quando il più giovane fra i miei amici mi percosse colla mano sulla spalla.— Dove vai?— Alla Pineta.— Vengo anch'io. —Balzammo in sella fuggendo.Egli ha vent'anni ed è solo: può ancora tutto sperare, vivere egualmente bene dappertutto. L'inconsapevole poesia della giovinezza lo sospinge al volo, accendendogli una fiamma negli occhi ad ogni incontro di donna non brutta, mentre l'esultanza di una libertà fosforescente di tutte le promesse rende più viva la ciarla della sua spensieratezza.Filammo al mare, perchè qualcuno ci disse sulla piazza di Ravenna di entrare nella Pineta dal capanno di Garibaldi, distante appena qualche chilometro da Porto Corsini.Pel sinuoso canale del Candiano non vedemmo che alcune barche cariche di mattoni e di travi, altre più lungi, colla vela chiusa, parevano abbandonate sull'acqua livida e muta. Dinnanzi e d'intorno si allargava una distesa di stoppie arsicce e fosche in quell'ora del tramonto. L'aria rimaneva tiepida, la strada bianca fuggiva come per incanto sotto le ruote della bicicletta, le case diventavano sempre più rade; poi apparivano crocchi di pini e di cavalli bradi, liberi nella solitudine, immobili anch'essi. E davanti al deserto delle acque quel deserto vallivo dileguava all'orizzonte nella tenuità dell'ombra, silenziosamente. Di quando in quando un falco passava alto, colle ali stanche dalla lunga caccia, verso la Pineta, simile ad una lunga riga nera sul nostro fianco fin dove l'occhio poteva giungere.Il mio compagno taceva.Improvvisamente brillò una fiamma: era il grande occhio del faro che si apriva.Giungemmo al porto, ma non vedemmo il mare.Perchè porto? A quell'ora non vi si scorgevano che poche alberature, nessuno passava per la piazza formata da un gomito del canale davanti ad una lunga casa di un solo piano; più in là un palazzotto pretensioso alzava dal mezzo del tetto la lanterna del faro come un grosso tubo; tre capanne illuminate si aprivano sulla riva, voci e ombre erravano sulla banchina.Tesi indarno l'orecchio al murmure del mare.— Bonaccia anche questa notte! — mormorò stizzosamente un pescatore rasentandoci per entrare in una di quelle capanne.Ma noi volevamo passare la notte sul mare.Lo seguii e combinammo di salire sulla sua barcaIl Giglio, se a qualche ora della notte il vento si fosse levato.Infatti verso le undici qualche soffio cominciava.Nella notte profonda il mare mormorava sommessamente. I pescatori avevano issata la vela ad un sottilegrecale, poi erano tutti discesi nella stiva, meno il più giovane, rimasto in piedi colla mano poggiata sul timone. La vela floscia batteva seccamente sull'albero, non una stella brillava nel cielo, non una luce sul mare. Solamente la lanterna del faro lanciava, tratto tratto, un fascio più luminoso come un occhio che si aprisse improvviso e violento, mentre il grande disco rosso del semaforo pareva poco più lungi una immota luna sanguigna.L'altra barca, poichè quella compagnia di pescatori ne aveva due, ci accompagnava di fronte, così dappresso che si udivano i battiti della sua vela nell'albero e le voci ciarlare ancora. Poi tutto tacque: anche il mio amico si era addormentato nella stiva.Seduto sulla punta di prora, reggendomi con una mano alla grossa ancora, io guardavo.Nella notte bruna un vapore sembrava alzarsi dalle acque come una trasparenza luminosa fra due ombre, attraverso la quale l'occhio si allontanava nella solitudine. Ma la barca quasi immobile si cingeva sui fianchi di una luce cilestrina, mentre per la scia le si spegneva dietro una silenziosa fiammata di piccole stelle, e la bianchezza delle vele appariva vaga nell'alto. Improvvisamente mi sentii dentro un impeto di fuga, come se avessi potuto io solo gonfiare le vele, sospingendole per quella vacuità così piena di murmuri, con una violenza di tempesta, verso un buio senza fine. E invece la calma era così profonda che intendevo nel frangersi dell'acqua sotto la prora quel gorgoglio di un armento che beva, secondo la bella parola dell'antico poeta greco.In quel momento mi parve di rivedervi fra le pieghe dell'ombra, col volto smorto dentro un pallore di luce bionda: anche voi guardavate sul mare.La sua mobile linea seguitava come il suo murmure oltre il raggio di quel faro acceso sul lido da una pietà spaurita per coloro, che le tempeste della notte sorprendono con tutti i terrori dell'invisibile. Ignoro il mare e le sue procelle. Non ancora vidi in una fiera burrascanotturna tralucere subitamente la pupilla di un faro, e non so come le mie le risponderebbero; ma parmi che se in tale istante la paura della morte mi avesse vinto, quel tremulo lucignolo mi aggiungerebbe nell'anima un'altra tristezza di agonia. Laggiù, dalla terra, ecco tutta la luce che può raggiarne! Appena quanta la natura per un capriccio gentile ne mise sotto le ali della lucciola nelle prime sere di giugno, quando i grani ondulando imitano il fruscio della seta e i grilli ripetono instancabili la loro sottile nota di amore.Ogni lanterna di faro mi ha fatto sempre pensare a quella di Diogene; il mare è troppo grande e la maschera dell'uomo troppo grossa perchè un raggio possa attraversarla. Ma solo nel deserto del mare, dinanzi all'infinita mobilità delle sue forme, l'anima s'innalza veramente alla impassibilità del pensiero. Che la notte distenda la propria ombra sulla oscurità delle acque o il sole vi rompa tutti i raggi in un incendio di baleni; che una indolenza vi attenui le onde sino alla piega di un sorriso o l'uragano le sollevi precipitandole collo strepito della valanga, l'anima umana soltanto può levarsi sul mare, a dominarlo con una serenità più profonda della sua calma, o con una furia più violenta delle sue bufere.Una voce dall'altra barca cantò:— Sono io che batto, dèstati.— Chi sei? — Sono l'amore.— Che vuoi? — Solo un cantuccio,nel letto e nel tuo cuore.— Vattene, il letto è piccolo...— Apri, mi basta il cuore.— Il cuore è morto; vattene:tu l'uccidesti, amore.— Apri, che io lo resusciti,io son la vita eterna,col soffio, che può spegnerla,raccendo ogni lucerna.— Finchè il tuo petto è un giglionon dirvi morto il cuore,dorme, e nel sogno i palpitisente del nuovo albore.— Aprimi: io sono l'ospite,che aspetti, ormai raggiorna...— Vattene: amor che torna,è amor che se ne va. —— Vattene; amor che torna, è amor che se ne va — ripetè parecchie volte la voce tremando, mentre intorno alla mia barca quel fuoco cilestrino si era spento.Qual poeta disse dunque pel primo che il mare è buono? Si era egli sentito un'altra volta cullare sul suo immenso petto come un bambino? Perchè il cielo è così bello pur non essendo che un colore? Perchè il mare è sempre nuovo pur non essendo che acqua? Entrambi sono per noi un velario, alla cui misteriosa bellezza bastano le pieghe delle nuvole e delle onde, e tutto quanto vi sappiamo al di là non muta l'incanto delle nostre sensazioni.— Oh! su — gridò Beppe, il gigantesco pescatore, cacciando la testa dal boccaporto.Intesi un tramestio nella stiva, quindi cinque o sei ombre riapparirono agitandosi con atti bruschi e sicuri. Beppe legò la corda della rete all'antenna di prora, altri rotoli di corda percossero con tonfo pesante il mare, che si accese e si spense quasi subito. Solamente lungo le corde delle antenne brillavano ancora nell'acqua quei sorrisi gemmei.— Cattiva notte, signore — mi disse Beppe.— Perchè?— Poco vento, poca pesca.— E adesso torni a dormire?— No, resto qui per i delfini.— Ah! temi che straccino la rete per mangiarvi il pesce.— Già! anche ieri notte erano venuti: sono i nostri ladri. —Gli offersi mezzo zigaro.— Le piace il mare, signore? — mi chiese dopo una lunga pausa. — Vada a dormire come il suo compagno, fra poco sarà freddo.— Si farà sereno?— Non lo vedremo stanotte. —Tacemmo: egli origliava intento sul mare, io entravo nel sogno.Colla mano sull'àncora, che non ho mai saputo gettare in alcun fondo della mia traversata, udivo la voce sempre più lontana delle acque tumultuare nel mistero. La notte era mutata, il mare si rotolava dinanzi ai miei sguardi immenso e sconosciuto come nei primi giorni della vita. Schiume bianche erravano simili ad armenti, e sparivano nelle sinuosità di un'onda fuggiasca per la infinita distesa sotto gli urli del vento. Ancora una volta bisognava passarvi spiegando la propria anima come una vela davanti alla morte, cogli occhi ardenti di orgoglio. Allora le stelle nella notte, quasi fari accesi sull'altro mare celeste, segnavano la strada, o gli uccelli nel giorno, migrando a lunghe file ne tracciavano un'altra, che la barca seguiva col medesimo istinto. Invano le tempeste calavano dalle nubi ad urtarla nei fianchi colle grandi ali nere, o i banchi di sabbia aprendo la gola si acquattavano insidiosi nel vederla volare simile ad un alcione, mentre dal mezzo delle vele gonfie di vento e di speranza la canzone dei naviganti saliva a spandere il prodigio della loro vittoria.Essi passavano, magnificamente soli, fra le due immensità senza confini e senza ombra. Talvolta nell'incanto di un sogno pareva loro di udire sulle fluttuanti praterie il canto delle sirene, o lungi fra la fuga degli equorei cavalli vedevano Venere ritta sulla conca stellante torcersi i capelli nel sole. Anch'essa, l'Iddia, errava sul mare stupefatto, che si copriva di fiori luminosi sotto ilsuo sguardo. Frotte di delfini le balzavano intorno pazzi di gioia, scuotendo il glauco paludamento delle onde, sul quale cadevano insieme i sorrisi del cielo e le sillabe misteriose del vento. Ma ella, nata dall'onde, volle seguire i naviganti sino dentro le terre, apparendovi nuda e bianca alla adorazione delle genti. La sua bellezza di donna era quella medesima del mare: il suo candore aveva l'opacità della perla, la sua testa s'inclinava come un'alga, i suoi capelli erano sinuosi come i lidi, la sua bocca ardeva nel rossore del corallo, i suoi occhi balenavano come le onde.Come la marea, il suo piccolo seno si alzava e si abbassava nella tacita lusinga di un invito; come l'acqua, le sue mani erano piene di carezze.Il suo amore, dissolvendosi nel proprio prodigio, fra la mordacità dei baci e il crepitio delle parole, somigliava alla spuma del mare, mentre dalla sua anima, meglio ancora che dal cinto rimastole sui fianchi, salivano tutti gli altri misteri, gl'incanti delle lontananze e gli enigmi delle tempeste, le tentazioni violente dei vortici e la lucida insensibilità degli scogli.— I delfini! — esclamò Beppe levandosi per metter la nave in panna.Ma io tesi indarno gli orecchi.Tacevamo come nell'emozione di un agguato; la barca oscillava appena, le sue vele frusciavano come sottane Passarono così forse venti minuti, poi Beppe sterzò nuovamente la vela; e ci allontanammo adagio sul vento che cominciava ad alitare più freddo.— Scenda, scenda. —Ubbidii.Nella stiva, così bassa che nemmeno seduto potevo tenermi col busto eretto, gli altri dormivano: un lucernino a petrolio sospeso sulla cassa del focolare illuminava fiocamente quell'interno pieno di ceste e di coperte. Ma stesi presso il mio giovane amico, che russava tranquillamente sull'assito colla testa in giù e i piedi alti sopraun mucchio di corde: il suo grosso viso di fanciullo esprimeva una pace profonda in quel sonno dei venti anni non ancora turbato dalle tristi figure del passato. I pescatori gli stavano d'intorno, ma uno solo, il più vecchio, russava. Le loro facce energiche uscivano e rientravano nell'ombra ad ogni oscillazione del lanternino rossastro e fumigante; l'aria scendeva a buffi dal boccaporto, il rullio della nave era monotono.Perchè una tempesta non avrebbe potuto scatenarsi improvvisamente? Che avremmo fatto noi tutti? Ma la notte dormiva anch'essa avvolta nelle tenebre: e il pesce dorme? Ecco una delle tante cose che non so. Invece mi addormentai pesantemente per non destarmi che a giorno alto nel rumore della manovra lunga per ritrarre la rete. Il mare era sempre così tranquillo, il cielo opaco: vedevamo il porto alla distanza di due miglia.Le corde si arrotolavano come serpenti dietro i pescatori piantati sui piedi scalzi, scorrendo fra le loro mani e le loro gambe con una prestezza meravigliosa: tutte le facce splendevano. Poi la rete apparve infangando l'acqua, le braccia si tesero nel medesimo sforzo, le voci si alzarono e la rete ricadde entro la barca come un enorme sacco sudicio, nel fondo del quale una fanghiglia vivente trabalzava e balenava.— Buona pesca! — gridai ingenuamente, poichè quel mucchio mi pareva grosso.— Eh! no, signore, — mi rispose Beppe, che tenendolo sollevato già lo rovesciava.Parve che una moltitudine piccina convulsionaria, quasi pazza, ne sboccasse, battendo duramente sull'assito in una sorpresa e in uno spasimo muto; le sogliole simili a grosse lame di argento sporco si ripiegavano e scattavano con le larghe bocche piatte, disperatamente aperte; una torpedine rossa come un gran cuore vibrava difendendosi ancora fra un gruppo di canocchie, che si muovevano adagio, quasi indifferenti nella sicurezza della loro armatura perlacea, colle branchie mostruosamenteuncinate. Nessun pesce grosso, ma invece troppi di quei pesciolini, che nel mare sono come gli insetti nell'aria, il pasto per tutti.Rapidamente i pescatori facevano la cerna nel mucchio, gittandolo in vari canestri, sui quali il timoniere della notte rovesciava secchi d'acqua, attingendola con moti silenziosi di automa, mentre i rigagnoli del fango scorrevano su coperta, e tutto quel tremulo argenteo si faceva più terso nell'aria e nella morte. Centinaia di agonie avevano già cessato, ma qualche sogliola balzava ancora nel canestro, o una canocchia ne usciva abbrancandosi ai vimini, come se avesse potuto vivere bene anche fuori dell'acqua. Alcuni polipi si gonfiavano negli ultimi sforzi del vomito nero. La loro coda di topo, dimenandosi languidamente, esprimeva un dolore diverso da tutti gli altri: poi un grande cefalo bronzeo cadde loro sopra pesantemente, e un ventaglio largo biancastro coprì mezzo il canestro.— Che cosa è? — domandò il mio amico.— Un San Pietro.— Perchè San Pietro? —Tutti risero senza rispondere.— Questo lo taglieremo nel brodetto, sentirà che cosa buona, perchè nessuno sa cuocere il pesce come noi. —Infatti fu vero.Non avevamo che un piatto e un gotto in undici. Sulla piccola cassa del focolare entro una pentola nera bolliva il brodetto, in lunghe stecche appoggiato alla pentola si arrostiva alla stessa fiamma l'altro pesce: bastarono due soldi di olio, due spicchi di aglio e pochi grani di pepe a condire tutto. Mangiavamo sdraiati ciarlando come vecchi amici, che si amano da anni nel travaglio e nella libertà del mare: il mio giovane amico non era più un milionario, io non avevo mai scritto libri; non una parola italiana, non una vanità o un rispetto signorile guastarono quella intimità. Naturalmente l'oste del porto dovè mandare dei fiaschi, ma le posate, i tovaglioli e i bicchieri furono ricusati.Martino, il solo vecchio fra i pescatori, aveva fatto due volte il giro del mondo: sembrava il più povero, eppure tatti lo trattavano come un ammiraglio.A un'ora dopo mezzo giorno giù nella stiva la nebbia del vino si era fatta così densa che qualcuno cominciava a confondere le fisonomie. Tonio, il tenore della notte, colle mani dietro la testa e la testa sul fianco della nave, canticchiava fra i denti «Vattene, amor che torna è amor che se ne va», mentre il gigantesco Beppe rideva silenziosamente, stringendo un fiasco di Chianti fra le cosce, e tutti gli altri parlavano insieme di canzoni e di donne. Martino si levò di bocca la bottiglia del cognac per offrirmela, ma chinandosi mormorò confidenzialmente:— Le donne, io lo so bene, quando ero di guardia nella stiva, ne venivano sempre tre o quattro intorno al mio letto. Accade sempre così, passando la linea; allora le donne diventano come pecore, vengono a strofinarvi colla testa i calzoni. E il mare, è il mare che le rende così.— Il mare?— Sì, la donna e il mare, non c'è altro al mondo.— Meglio il vino — si volse Tonio che aveva udito.Martino parve incerto, poi succhiò una sorsata di cognac e, passandosi le mani sulla faccia rugosa, ripetè colla fissazione dell'ubbriaco:— Le donne e il vino non c'è altro. La terra, che cosa? Si carica il vino, e bisogna andarsene un'altra volta. Invece la donna è come il mare, gli si vuol bene senza credergli perchè sono così, ci mutano sotto ad ogni momento. E si beve: ecco.— Naufragasti mai?— Tre volte.— Hai moglie? —Negò alzando le spalle:— Si beve, si beve. —Infatti tutti bevevano fra il fumo degli zigari toscani, che usciva dal boccaporto come se il brodetto cuocesseancora; ma un altro fumo più denso avvolgeva le parole, che si smarrivano.Mezza ora dopo, tre o quattro dormivano, e noi uscivamo promettendo di tornare la sera a cena.In questo momento sono ancora tutti giù nella osteria cantando col mio giovane amico, che si diverte ad ubbriacarli. Io finisco di scrivere colla testa pesante per buttarmi sul grande letto matrimoniale della ostessa, alla quale tutto quel vino bevuto e pagato ai pescatori ha ispirato per noi un profondo rispetto.La camera ha il soffitto a travate come una vecchia chiesa e non è molto più piccola: fuori la stessa bonaccia di ieri sera, sotto un cielo scuro e silenzioso.Buona notte, signora.

Scrivo dal lido.

In questa monotona solitudine campestre spesso la visione del mare mi scuote con sì brusco risveglio che guardo vivamente d'intorno, e la memoria mi tremola dentro come la marina sull'alba.

Da vari giorni le nebbie vagolavano stancamente sui monti senza che il vento vi passasse mai attraverso, ma ieri il sole riapparve festante di orgoglio: qualche vapore fumava ancora verso di lui dalla cima di monte Battaglia come un incenso di olocausto: udii gli uccelli cantare e gli uomini parlare più alto.

In sella dunque, e al trotto.

Pensavo a voi.

Perchè non avreste potuto davvero corrermi dinanzi lievemente curva sul manubrio della bicicletta, quasi vestita da uomo con quell'abito da ciclista, che confonde i sessi in una prima promessa di voluttà? I vostri capelli biondi come il sole, sfuggendo dal molle berrettino inclinato sull'orecchio, si accendevano di lampi: l'oscillare delle ruote metteva tratto tratto come un fremito nella posa elegante del vostro fantasma volante sul nuovo cavallo di acciaio. Avanti dunque nel mattino che sorride, fra la gente in festa che si avvia verso la chiesa, mentre le campane squillano e i campi tacciono! Il sole è tornatonel cielo sereno, sul mare violaceo, che ci aspetta dietro Ravenna intenta a ripulire i propri monumenti come certi giorni le vecchie signore vanno a guardare nell'armadio i vestiti della loro gioventù, e sorridono spolverandoli guardingamente. Non sono più di sessanta chilometri, quelli che ci dividono da Porto Corsini, un porto solamente noto ai pescatori perchè è appena un canale: la città degli esarchi non ha più flotta da secoli, e la sua pineta bruciata a mezzo dal ghiaccio di un terribile inverno, quindi ripiantata, non è più un bosco antico.

Il viaggio è breve, l'ora incantevole, venite meco e guardiamo.

Quel prete sulla strada, fra un crocchio di contadine, non vi pare un grosso tacchino dai coralli rossi fra una torma di gallinelle faraone, che lo spiano scuotendo la testina bianca? Forse è il parroco, che sapendo tutti i loro peccati seguita a parlare di penitenza, quantunque abbia stretto tutti i loro matrimoni: perchè mai non bastò questa? Fanciulle e fanciulli ascoltano quel chiacchierio alle sottane delle mamme come pulcini dietro la chioccia, pronti a sbandarsi nel fosso; passano ronzini trottarellando, pedoni che ogni tanto abbassano gli occhi per guardarsi le scarpe domenicali, uccelli che non sanno che cosa sia la domenica. Eppure il loro canto è più lieto. Chi può dire artificiale la nostra divisione dei giorni per settimane colle feste, che la punteggiano luminosamente? Forse anche questo fu un suggerimento della natura. Udite come raglia quell'asino, che dalla lunga cavedagna sta per imboccare la strada: ha le orecchie rigide come antenne sulla testa eretta superbamente, quasi nell'impeto di un inno. Deve essere festa anche per lui, benchè tiri il solito biroccino sgangherato, con quei due vecchi che ciarlano e nello sballottamento assentono a tutto quanto dicono. Raglia e si guarda innanzi al pari di me. Forse i suoi occhi seguono il fantasma di una asina dal collo sottile e le zampe fini, che si dondola ad un trotto graziosamentesignorile senza voltarsi, come voi stessa non rivolgeste ancora il viso.

Noi siamo tutti così.

Perchè l'inno ci erompa dalle labbra dobbiamo vederci davanti qualche figura che ci preceda e non fugga, che inseguiamo senza raggiungere, mentre i profumi vaporanti dalla terra ci paiono il suo profumo, e i palpiti dell'aria diventano la luce del suo sorriso, la molle ondulazione del suo respiro. Allora inno e raglio salgono ai medesimi squilli, tremano nella medesima ebbrezza, allungandosi nel complimento di un appello, che finisce quasi sempre in un lamento.

Al trotto, al trotto, poichè bisogna attraversare il villaggio tutto pieno di gente!

Ah! un amico mi ferma per chiedermi un consiglio di avvocato: lo improvviso come un brindisi, e riparto; tanto peggio per lui se il vino non sarà migliore del brindisi. Ma l'incanto del mattino si è rotto, e non resta più che la solita domenica colla gente vestita a nuovo, la quale pare tutta di forestieri incerti di parlarsi. Infatti si guatano prima, gli uomini con uno sguardo corto e greve, le donne con occhiate lunghe come un pettegolezzo e acute come un dubbio. Tutti si passano reciprocamente in rivista: l'abito e il contegno della domenica sono la confessione degli altri giorni, se il lavoro vi fu avvelenato dalla miseria o confortato dal guadagno. Osservate i poveri, che non possono mutare vestito, come sono squallidi: gli altri invece hanno sul viso una nuova durezza, come un segreto disdegno pei vinti, ai quali faranno forse l'elemosina, ma sentendosi da loro anche più dissimili di ieri.

Purtroppo nelle feste non bisogna ricordarsi coloro, che non possono prendervi parte, altrimenti la gioia dilegua.

Stamane la festa è ilare perchè fatta di sole, questa sera diventerà torbida nel vino: quindi la notte si aggraverà sulla pesante ostinatezza delle ultime crapule, e seil sole non torni radioso all'alba, il risveglio sarà anche più triste, come da un male ad un altro, dalle nausee dello stravizio alle ripugnanze per il lavoro.

Al mare dunque, sul quale la notte ed il giorno sono fra loro meno diversi che sulla terra!

Il marinaio passa senza traccia sulle acque, mentre il contadino deve mutare la terra coltivandola; l'uno è un viaggiatore, cui la vita diviene leggiera nella labile poesia del viaggio malgrado i pericoli delle tempeste, l'altro un avaro costretto a seppellire il proprio tesoro in un campo e a tremare sempre di perderlo.

Il canto del contadino è uno stornello breve come una sosta, quello del marinaio invece si allunga come il murmure e l'oscillazione delle onde.

Dovetti fermarmi a Faenza per una vecchia briga intricata e pungente come un rovo; anche la città era in festa, colla gente parata dei nuovi abiti invernali, ma gli uomini non vi sono più belli come una volta, e le donne non lo sono diventate ancora. Finalmente ripresi la bicicletta dall'atrio del caffè, e spiccavo già il balzo, quando il più giovane fra i miei amici mi percosse colla mano sulla spalla.

— Dove vai?

— Alla Pineta.

— Vengo anch'io. —

Balzammo in sella fuggendo.

Egli ha vent'anni ed è solo: può ancora tutto sperare, vivere egualmente bene dappertutto. L'inconsapevole poesia della giovinezza lo sospinge al volo, accendendogli una fiamma negli occhi ad ogni incontro di donna non brutta, mentre l'esultanza di una libertà fosforescente di tutte le promesse rende più viva la ciarla della sua spensieratezza.

Filammo al mare, perchè qualcuno ci disse sulla piazza di Ravenna di entrare nella Pineta dal capanno di Garibaldi, distante appena qualche chilometro da Porto Corsini.

Pel sinuoso canale del Candiano non vedemmo che alcune barche cariche di mattoni e di travi, altre più lungi, colla vela chiusa, parevano abbandonate sull'acqua livida e muta. Dinnanzi e d'intorno si allargava una distesa di stoppie arsicce e fosche in quell'ora del tramonto. L'aria rimaneva tiepida, la strada bianca fuggiva come per incanto sotto le ruote della bicicletta, le case diventavano sempre più rade; poi apparivano crocchi di pini e di cavalli bradi, liberi nella solitudine, immobili anch'essi. E davanti al deserto delle acque quel deserto vallivo dileguava all'orizzonte nella tenuità dell'ombra, silenziosamente. Di quando in quando un falco passava alto, colle ali stanche dalla lunga caccia, verso la Pineta, simile ad una lunga riga nera sul nostro fianco fin dove l'occhio poteva giungere.

Il mio compagno taceva.

Improvvisamente brillò una fiamma: era il grande occhio del faro che si apriva.

Giungemmo al porto, ma non vedemmo il mare.

Perchè porto? A quell'ora non vi si scorgevano che poche alberature, nessuno passava per la piazza formata da un gomito del canale davanti ad una lunga casa di un solo piano; più in là un palazzotto pretensioso alzava dal mezzo del tetto la lanterna del faro come un grosso tubo; tre capanne illuminate si aprivano sulla riva, voci e ombre erravano sulla banchina.

Tesi indarno l'orecchio al murmure del mare.

— Bonaccia anche questa notte! — mormorò stizzosamente un pescatore rasentandoci per entrare in una di quelle capanne.

Ma noi volevamo passare la notte sul mare.

Lo seguii e combinammo di salire sulla sua barcaIl Giglio, se a qualche ora della notte il vento si fosse levato.

Infatti verso le undici qualche soffio cominciava.

Nella notte profonda il mare mormorava sommessamente. I pescatori avevano issata la vela ad un sottilegrecale, poi erano tutti discesi nella stiva, meno il più giovane, rimasto in piedi colla mano poggiata sul timone. La vela floscia batteva seccamente sull'albero, non una stella brillava nel cielo, non una luce sul mare. Solamente la lanterna del faro lanciava, tratto tratto, un fascio più luminoso come un occhio che si aprisse improvviso e violento, mentre il grande disco rosso del semaforo pareva poco più lungi una immota luna sanguigna.

L'altra barca, poichè quella compagnia di pescatori ne aveva due, ci accompagnava di fronte, così dappresso che si udivano i battiti della sua vela nell'albero e le voci ciarlare ancora. Poi tutto tacque: anche il mio amico si era addormentato nella stiva.

Seduto sulla punta di prora, reggendomi con una mano alla grossa ancora, io guardavo.

Nella notte bruna un vapore sembrava alzarsi dalle acque come una trasparenza luminosa fra due ombre, attraverso la quale l'occhio si allontanava nella solitudine. Ma la barca quasi immobile si cingeva sui fianchi di una luce cilestrina, mentre per la scia le si spegneva dietro una silenziosa fiammata di piccole stelle, e la bianchezza delle vele appariva vaga nell'alto. Improvvisamente mi sentii dentro un impeto di fuga, come se avessi potuto io solo gonfiare le vele, sospingendole per quella vacuità così piena di murmuri, con una violenza di tempesta, verso un buio senza fine. E invece la calma era così profonda che intendevo nel frangersi dell'acqua sotto la prora quel gorgoglio di un armento che beva, secondo la bella parola dell'antico poeta greco.

In quel momento mi parve di rivedervi fra le pieghe dell'ombra, col volto smorto dentro un pallore di luce bionda: anche voi guardavate sul mare.

La sua mobile linea seguitava come il suo murmure oltre il raggio di quel faro acceso sul lido da una pietà spaurita per coloro, che le tempeste della notte sorprendono con tutti i terrori dell'invisibile. Ignoro il mare e le sue procelle. Non ancora vidi in una fiera burrascanotturna tralucere subitamente la pupilla di un faro, e non so come le mie le risponderebbero; ma parmi che se in tale istante la paura della morte mi avesse vinto, quel tremulo lucignolo mi aggiungerebbe nell'anima un'altra tristezza di agonia. Laggiù, dalla terra, ecco tutta la luce che può raggiarne! Appena quanta la natura per un capriccio gentile ne mise sotto le ali della lucciola nelle prime sere di giugno, quando i grani ondulando imitano il fruscio della seta e i grilli ripetono instancabili la loro sottile nota di amore.

Ogni lanterna di faro mi ha fatto sempre pensare a quella di Diogene; il mare è troppo grande e la maschera dell'uomo troppo grossa perchè un raggio possa attraversarla. Ma solo nel deserto del mare, dinanzi all'infinita mobilità delle sue forme, l'anima s'innalza veramente alla impassibilità del pensiero. Che la notte distenda la propria ombra sulla oscurità delle acque o il sole vi rompa tutti i raggi in un incendio di baleni; che una indolenza vi attenui le onde sino alla piega di un sorriso o l'uragano le sollevi precipitandole collo strepito della valanga, l'anima umana soltanto può levarsi sul mare, a dominarlo con una serenità più profonda della sua calma, o con una furia più violenta delle sue bufere.

Una voce dall'altra barca cantò:

— Sono io che batto, dèstati.— Chi sei? — Sono l'amore.— Che vuoi? — Solo un cantuccio,nel letto e nel tuo cuore.— Vattene, il letto è piccolo...— Apri, mi basta il cuore.— Il cuore è morto; vattene:tu l'uccidesti, amore.— Apri, che io lo resusciti,io son la vita eterna,col soffio, che può spegnerla,raccendo ogni lucerna.— Finchè il tuo petto è un giglionon dirvi morto il cuore,dorme, e nel sogno i palpitisente del nuovo albore.— Aprimi: io sono l'ospite,che aspetti, ormai raggiorna...— Vattene: amor che torna,è amor che se ne va. —

— Sono io che batto, dèstati.

— Chi sei? — Sono l'amore.

— Che vuoi? — Solo un cantuccio,

nel letto e nel tuo cuore.

— Vattene, il letto è piccolo...

— Apri, mi basta il cuore.

— Il cuore è morto; vattene:

tu l'uccidesti, amore.

— Apri, che io lo resusciti,

io son la vita eterna,

col soffio, che può spegnerla,

raccendo ogni lucerna.

— Finchè il tuo petto è un giglio

non dirvi morto il cuore,

dorme, e nel sogno i palpiti

sente del nuovo albore.

— Aprimi: io sono l'ospite,

che aspetti, ormai raggiorna...

— Vattene: amor che torna,

è amor che se ne va. —

— Vattene; amor che torna, è amor che se ne va — ripetè parecchie volte la voce tremando, mentre intorno alla mia barca quel fuoco cilestrino si era spento.

Qual poeta disse dunque pel primo che il mare è buono? Si era egli sentito un'altra volta cullare sul suo immenso petto come un bambino? Perchè il cielo è così bello pur non essendo che un colore? Perchè il mare è sempre nuovo pur non essendo che acqua? Entrambi sono per noi un velario, alla cui misteriosa bellezza bastano le pieghe delle nuvole e delle onde, e tutto quanto vi sappiamo al di là non muta l'incanto delle nostre sensazioni.

— Oh! su — gridò Beppe, il gigantesco pescatore, cacciando la testa dal boccaporto.

Intesi un tramestio nella stiva, quindi cinque o sei ombre riapparirono agitandosi con atti bruschi e sicuri. Beppe legò la corda della rete all'antenna di prora, altri rotoli di corda percossero con tonfo pesante il mare, che si accese e si spense quasi subito. Solamente lungo le corde delle antenne brillavano ancora nell'acqua quei sorrisi gemmei.

— Cattiva notte, signore — mi disse Beppe.

— Perchè?

— Poco vento, poca pesca.

— E adesso torni a dormire?

— No, resto qui per i delfini.

— Ah! temi che straccino la rete per mangiarvi il pesce.

— Già! anche ieri notte erano venuti: sono i nostri ladri. —

Gli offersi mezzo zigaro.

— Le piace il mare, signore? — mi chiese dopo una lunga pausa. — Vada a dormire come il suo compagno, fra poco sarà freddo.

— Si farà sereno?

— Non lo vedremo stanotte. —

Tacemmo: egli origliava intento sul mare, io entravo nel sogno.

Colla mano sull'àncora, che non ho mai saputo gettare in alcun fondo della mia traversata, udivo la voce sempre più lontana delle acque tumultuare nel mistero. La notte era mutata, il mare si rotolava dinanzi ai miei sguardi immenso e sconosciuto come nei primi giorni della vita. Schiume bianche erravano simili ad armenti, e sparivano nelle sinuosità di un'onda fuggiasca per la infinita distesa sotto gli urli del vento. Ancora una volta bisognava passarvi spiegando la propria anima come una vela davanti alla morte, cogli occhi ardenti di orgoglio. Allora le stelle nella notte, quasi fari accesi sull'altro mare celeste, segnavano la strada, o gli uccelli nel giorno, migrando a lunghe file ne tracciavano un'altra, che la barca seguiva col medesimo istinto. Invano le tempeste calavano dalle nubi ad urtarla nei fianchi colle grandi ali nere, o i banchi di sabbia aprendo la gola si acquattavano insidiosi nel vederla volare simile ad un alcione, mentre dal mezzo delle vele gonfie di vento e di speranza la canzone dei naviganti saliva a spandere il prodigio della loro vittoria.

Essi passavano, magnificamente soli, fra le due immensità senza confini e senza ombra. Talvolta nell'incanto di un sogno pareva loro di udire sulle fluttuanti praterie il canto delle sirene, o lungi fra la fuga degli equorei cavalli vedevano Venere ritta sulla conca stellante torcersi i capelli nel sole. Anch'essa, l'Iddia, errava sul mare stupefatto, che si copriva di fiori luminosi sotto ilsuo sguardo. Frotte di delfini le balzavano intorno pazzi di gioia, scuotendo il glauco paludamento delle onde, sul quale cadevano insieme i sorrisi del cielo e le sillabe misteriose del vento. Ma ella, nata dall'onde, volle seguire i naviganti sino dentro le terre, apparendovi nuda e bianca alla adorazione delle genti. La sua bellezza di donna era quella medesima del mare: il suo candore aveva l'opacità della perla, la sua testa s'inclinava come un'alga, i suoi capelli erano sinuosi come i lidi, la sua bocca ardeva nel rossore del corallo, i suoi occhi balenavano come le onde.

Come la marea, il suo piccolo seno si alzava e si abbassava nella tacita lusinga di un invito; come l'acqua, le sue mani erano piene di carezze.

Il suo amore, dissolvendosi nel proprio prodigio, fra la mordacità dei baci e il crepitio delle parole, somigliava alla spuma del mare, mentre dalla sua anima, meglio ancora che dal cinto rimastole sui fianchi, salivano tutti gli altri misteri, gl'incanti delle lontananze e gli enigmi delle tempeste, le tentazioni violente dei vortici e la lucida insensibilità degli scogli.

— I delfini! — esclamò Beppe levandosi per metter la nave in panna.

Ma io tesi indarno gli orecchi.

Tacevamo come nell'emozione di un agguato; la barca oscillava appena, le sue vele frusciavano come sottane Passarono così forse venti minuti, poi Beppe sterzò nuovamente la vela; e ci allontanammo adagio sul vento che cominciava ad alitare più freddo.

— Scenda, scenda. —

Ubbidii.

Nella stiva, così bassa che nemmeno seduto potevo tenermi col busto eretto, gli altri dormivano: un lucernino a petrolio sospeso sulla cassa del focolare illuminava fiocamente quell'interno pieno di ceste e di coperte. Ma stesi presso il mio giovane amico, che russava tranquillamente sull'assito colla testa in giù e i piedi alti sopraun mucchio di corde: il suo grosso viso di fanciullo esprimeva una pace profonda in quel sonno dei venti anni non ancora turbato dalle tristi figure del passato. I pescatori gli stavano d'intorno, ma uno solo, il più vecchio, russava. Le loro facce energiche uscivano e rientravano nell'ombra ad ogni oscillazione del lanternino rossastro e fumigante; l'aria scendeva a buffi dal boccaporto, il rullio della nave era monotono.

Perchè una tempesta non avrebbe potuto scatenarsi improvvisamente? Che avremmo fatto noi tutti? Ma la notte dormiva anch'essa avvolta nelle tenebre: e il pesce dorme? Ecco una delle tante cose che non so. Invece mi addormentai pesantemente per non destarmi che a giorno alto nel rumore della manovra lunga per ritrarre la rete. Il mare era sempre così tranquillo, il cielo opaco: vedevamo il porto alla distanza di due miglia.

Le corde si arrotolavano come serpenti dietro i pescatori piantati sui piedi scalzi, scorrendo fra le loro mani e le loro gambe con una prestezza meravigliosa: tutte le facce splendevano. Poi la rete apparve infangando l'acqua, le braccia si tesero nel medesimo sforzo, le voci si alzarono e la rete ricadde entro la barca come un enorme sacco sudicio, nel fondo del quale una fanghiglia vivente trabalzava e balenava.

— Buona pesca! — gridai ingenuamente, poichè quel mucchio mi pareva grosso.

— Eh! no, signore, — mi rispose Beppe, che tenendolo sollevato già lo rovesciava.

Parve che una moltitudine piccina convulsionaria, quasi pazza, ne sboccasse, battendo duramente sull'assito in una sorpresa e in uno spasimo muto; le sogliole simili a grosse lame di argento sporco si ripiegavano e scattavano con le larghe bocche piatte, disperatamente aperte; una torpedine rossa come un gran cuore vibrava difendendosi ancora fra un gruppo di canocchie, che si muovevano adagio, quasi indifferenti nella sicurezza della loro armatura perlacea, colle branchie mostruosamenteuncinate. Nessun pesce grosso, ma invece troppi di quei pesciolini, che nel mare sono come gli insetti nell'aria, il pasto per tutti.

Rapidamente i pescatori facevano la cerna nel mucchio, gittandolo in vari canestri, sui quali il timoniere della notte rovesciava secchi d'acqua, attingendola con moti silenziosi di automa, mentre i rigagnoli del fango scorrevano su coperta, e tutto quel tremulo argenteo si faceva più terso nell'aria e nella morte. Centinaia di agonie avevano già cessato, ma qualche sogliola balzava ancora nel canestro, o una canocchia ne usciva abbrancandosi ai vimini, come se avesse potuto vivere bene anche fuori dell'acqua. Alcuni polipi si gonfiavano negli ultimi sforzi del vomito nero. La loro coda di topo, dimenandosi languidamente, esprimeva un dolore diverso da tutti gli altri: poi un grande cefalo bronzeo cadde loro sopra pesantemente, e un ventaglio largo biancastro coprì mezzo il canestro.

— Che cosa è? — domandò il mio amico.

— Un San Pietro.

— Perchè San Pietro? —

Tutti risero senza rispondere.

— Questo lo taglieremo nel brodetto, sentirà che cosa buona, perchè nessuno sa cuocere il pesce come noi. —

Infatti fu vero.

Non avevamo che un piatto e un gotto in undici. Sulla piccola cassa del focolare entro una pentola nera bolliva il brodetto, in lunghe stecche appoggiato alla pentola si arrostiva alla stessa fiamma l'altro pesce: bastarono due soldi di olio, due spicchi di aglio e pochi grani di pepe a condire tutto. Mangiavamo sdraiati ciarlando come vecchi amici, che si amano da anni nel travaglio e nella libertà del mare: il mio giovane amico non era più un milionario, io non avevo mai scritto libri; non una parola italiana, non una vanità o un rispetto signorile guastarono quella intimità. Naturalmente l'oste del porto dovè mandare dei fiaschi, ma le posate, i tovaglioli e i bicchieri furono ricusati.

Martino, il solo vecchio fra i pescatori, aveva fatto due volte il giro del mondo: sembrava il più povero, eppure tatti lo trattavano come un ammiraglio.

A un'ora dopo mezzo giorno giù nella stiva la nebbia del vino si era fatta così densa che qualcuno cominciava a confondere le fisonomie. Tonio, il tenore della notte, colle mani dietro la testa e la testa sul fianco della nave, canticchiava fra i denti «Vattene, amor che torna è amor che se ne va», mentre il gigantesco Beppe rideva silenziosamente, stringendo un fiasco di Chianti fra le cosce, e tutti gli altri parlavano insieme di canzoni e di donne. Martino si levò di bocca la bottiglia del cognac per offrirmela, ma chinandosi mormorò confidenzialmente:

— Le donne, io lo so bene, quando ero di guardia nella stiva, ne venivano sempre tre o quattro intorno al mio letto. Accade sempre così, passando la linea; allora le donne diventano come pecore, vengono a strofinarvi colla testa i calzoni. E il mare, è il mare che le rende così.

— Il mare?

— Sì, la donna e il mare, non c'è altro al mondo.

— Meglio il vino — si volse Tonio che aveva udito.

Martino parve incerto, poi succhiò una sorsata di cognac e, passandosi le mani sulla faccia rugosa, ripetè colla fissazione dell'ubbriaco:

— Le donne e il vino non c'è altro. La terra, che cosa? Si carica il vino, e bisogna andarsene un'altra volta. Invece la donna è come il mare, gli si vuol bene senza credergli perchè sono così, ci mutano sotto ad ogni momento. E si beve: ecco.

— Naufragasti mai?

— Tre volte.

— Hai moglie? —

Negò alzando le spalle:

— Si beve, si beve. —

Infatti tutti bevevano fra il fumo degli zigari toscani, che usciva dal boccaporto come se il brodetto cuocesseancora; ma un altro fumo più denso avvolgeva le parole, che si smarrivano.

Mezza ora dopo, tre o quattro dormivano, e noi uscivamo promettendo di tornare la sera a cena.

In questo momento sono ancora tutti giù nella osteria cantando col mio giovane amico, che si diverte ad ubbriacarli. Io finisco di scrivere colla testa pesante per buttarmi sul grande letto matrimoniale della ostessa, alla quale tutto quel vino bevuto e pagato ai pescatori ha ispirato per noi un profondo rispetto.

La camera ha il soffitto a travate come una vecchia chiesa e non è molto più piccola: fuori la stessa bonaccia di ieri sera, sotto un cielo scuro e silenzioso.

Buona notte, signora.


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