LA VERGINE

LA VERGINENon ricordo più la leggenda, ma ne veggo ancora il gran quadro nella chiesa parrocchiale di Viarano, appena vi entrammo col prefetto e tutta la camerata. Erravamo da due ore per le colline dell'Idice in una bella mattinata di settembre fra le siepi alte, che salivano, nascondendo per lunghi tratti l'incantevole paesaggio. E all'improvviso ci apparì sopra la spianata, in uno sfondo meravigliosamente largo, la chiesa.La porta era aperta.Il prefetto ci sospinse dentro come un gregge nell'ovile. Ogni ciarlio si arrestò e dinanzi, sopra l'altar maggiore, vidi come in un'alba viva un volo di angeli dalle lunghe vesti candide, colle braccia conserte, che sembravano sfuggire pel cielo. Una figura più grande, incoronata di rose, guidava nel mezzo quel volo, colle mani aperte. Era sant'Orsola colle sue vergini, non tutte certamente, ma il corteo fitto e minuto si curvava d'ambo i lati verso di lei con due strisce bianche, dentro le quali lucevano come stelle le piccole teste.Al solito m'incantai, mentre i miei compagni, piegato il ginocchio e dette le tre avemarie, si sbandavano curiosamente per la chiesa. Era piccola, piena di una pace oscura. Il prefetto inginocchiato vicino a me, col volto squallido, che gli spenzolava sul petto come una cosamorta, pareva anche più gobbo, e la sua bocca larga e arida mormorava a mezza voce una preghiera. Era un uomo pio e triste, che gli altri frati non amavano malgrado la tenerezza della sua devozione, nella quale serbava tutta la ingenuità di fanciullo. Allora io credevo forse più di lui, ma la mia fede tremava già di profonde inquietudini dopo certi impeti di poesia, che i miei compagni non intendevano, benchè avessi più di una volta tentato di spiegarmi coi più intelligenti fra essi.Quella leggenda di santa Orsola e delle sue undicimila vergini, abbattute come uno stormo di colombe da un uragano, aveva per me un fascino misterioso. Nella mia immaginazione adolescente nessuna guerra di poema valeva quella battaglia di fanciulle, che si coprivano pudicamente le ferite per morire nell'orgoglio divino della propria verginità; ma la donna capace di stringersele così dintorno doveva avere nell'anima quella forza segreta dei grandi capitani, alla quale le moltitudini non sanno mai resistere. Quando le paure dell'istinto isolano i soldati fra le file rotte dei battaglioni nell'ora della sconfitta, soltanto la passione del capitano, che si precipita contro la morte e la supera nell'ebbrezza di una sfida, può ancora riattirarli irresistibilmente nella catastrofe. Che importa la vittoria al soldato, il quale sa di rimanervi anonimo? Se vi muore, la superbia dei gradi e le lussurie del bottino saranno per altri, mentre egli ignora quasi sempre il perchè della guerra, e nella battaglia non sente che il proprio olocausto. Quindi nello sbandamento degli ordini per lui non vi è altra vittoria che la vita, altra ragione che la propria: prima era nell'esercito come una molecola in un masso, dopo non è nemmeno più un soldato.Ma in quella disperazione degli ultimi momenti, fra i guizzi dell'ira e di una paura, che non sa e non vede, trema e minaccia, basta ancora un urlo del capitano avventandosi innanzi, perchè l'agonia del terrore si muti in uno spasimo di orgoglio, e la morte abbacini tutte leanime nel proprio incanto. È Silla nella pianura di Orcomene, Napoleone al ponte di Arcole, Garibaldi sul colle di Calatafimi: è l'anima del generale, che diventa l'anima dei soldati, trionfando sulla morte prima ancora che sul nemico: è santa Orsola bianca, con una luce lunare negli occhi e il murmure dell'aurora nella voce, che inebria le fanciulle di candore e di speranza. Ella aveva forse la stessa malia dell'inverno, che purifica il mondo facendone una candida solitudine; forse anco una più alta innocenza aveva dato al suo pudore una forza di incanto sulla coscienza delle sue compagne, alle quali appariva come dentro una visione.Quindi la seguirono colla docilità delle agnelle e l'insistente predilezione delle colombe perdendosi nella luce della sua traccia. E oggi ancora il loro sciame divino attraversa nell'ora della passione la fantasia delle donne rimaste semplici, che lo veggono salire ondeggiando per un'alba di paradiso.La poesia moderna ha forse sogni più belli?Malgrado la doppia corruttela della incredulità e della religione, in noi tutti sfavilla l'ideale della vergine come il primo e più alto simbolo della donna. Indarno crediamo di sapere che la verginità non è che l'attesa della maternità, una maschera dietro la quale sta in agguato la vera fisonomia della donna, mentre l'uomo non potè mai apparire vergine ad una fantasia di fanciulla, perchè in lui la verginità non avrebbe significato di perfezione. Nella donna solamente essa diventa un suggello divino, un'aurora, che vince il meriggio, come ogni promessa supera sempre l'offerta.Nell'anima antica il culto della verginità era una dolce riconoscenza del suo incanto, o una superba pretesa maschile per la sincerità della prole futura. Dentro l'amante vigilavano già le diffidenze del padre: si voleva essere primo per la necessità di essere solo, la vergine era un segreto lungamente, gelosamente custodito nella casa dalla madre e dalle ancelle per lo sposo.Ma così sola ella non poteva sentire in se stessa l'importanza del proprio pregio. Invece di scegliere l'uomo fra gli uomini, che vedendola si fossero accesi di lei, la vergine non sapeva ancora che cosa accadesse fuori della casa, prigione o serra, nella quale cresceva occulta; il suo cuore era vuoto, la sua fantasia non si riempiva che di sogni. Dal carcere del padre a quello del marito, ecco tutto il suo viaggio: da una compagnia di fanciulle ad una promiscuità di spose, ecco la sola differenza della sua vita. La verginità era quindi la prima e la massima delle sue seduzioni, mentre più tardi nell'harem la lotta dell'amore la rendeva fatalmente cortigiana del marito. L'oriente poligamo non conobbe la vergine, e non raggiunse nell'anima la passione dell'ideale. Per la donna l'uomo rimaneva sempre padrone e straniero: ella non aveva un mondo spirituale ove ospitarlo, la sua anima piccola ignorava tutte le tragedie del pensiero e dell'azione. L'amore di un uomo era per lei una mensa comune ad altre donne: quella di madre una rivalità di chioccia con altre chiocce, e finiva prima ancora che nel pulcino spuntasse colla cresta l'orgoglio del gallo. Nei paesi orientali anche adesso la donna sa di essere inferiore all'uomo, giacchè sola non basta nemmeno al suo amore, geloso per superbia e goloso per sazietà: perciò lo spirito femminile vi appare quasi sempre melanconico in una lunga taciturnità di tramonto.Ricordo una strofe di poema indiano, nella quale la vergine è paragonata a quei morti esposti nei cimiteri agli avoltoi: tutta la sua adolescenza si esaurì nella preparazione dell'olocausto; e quando le sue carni sentirono la prima ferita, e il sangue testimoniò della loro purezza, come quei morti ella resta per sempre chiusa in un cimitero.Ma la sua anima ne soffrirà veramente?Che cosa sappiamo noi della donna orientale? potremmo noi, penetrando nella sua intimità, intendere il suo spirito? Flaubert, che scrisseSalambò, il più belpoema del nostro secolo, la più temeraria peregrinazione, attraverso il mondo antico, confessò tristamente sotto gli attacchi di Sainte-Beuve di non poter credere alla verità della mirabile donna evocata dal proprio genio. La nostra anima, immersa da due mila anni nella idealità cristiana, tenterebbe inutilmente d'indovinare il sentimento e il pensiero orientale. Che cosa ammiriamo noi davvero nella poesia greca e latina? Forse i poeti di allora sorriderebbero colla stessa indulgenza alle nostre critiche e ai nostri elogi, mentre nelle loro opere non sentiamo che la parte immutabile della natura umana e l'espressione della loro più personale originalità ci sfugge senza dubbio. Così, invertendo la difficoltà, io non ho mai saputo immaginare che cosa Virgilio, il più sentimentale dei poeti latini, capirebbe leggendo il Petrarca, o quale impressione riceverebbe Orazio da un canto di Byron.Confrontate per esempio una vestale a una clarissa; la vergine romana, che vigila il fuoco sacro della patria, colla vergine cristiana assorta nell'incanto della propria purità. Quella, immolata ad una necessità cittadina, è vergine solamente nel corpo, mentre nel suo spirito il concetto della vita è identico a quello di ogni altra donna; questa, ebbra di un amore, che nessun uomo potrebbe appagare, si consuma come un aroma dentro un raggio di sole. Ma la clarissa è pessimista. Ella sa che nella vita ammalata di peccato la legge più profonda è il dolore, dacchè Dio nel mistero della propria giustizia accettò l'innocenza per riscatto della colpa, concedendo alle vittime volontarie la potenza della redenzione. Quindi la sua verginità non è la preparazione all'amore, ma il trionfo sopra di esso per una più alta maternità spirituale dell'anima, amando tutti, pregando per tutti. Se dovrà anch'essa chiudersi nel chiostro, la nuova prigione non avrà i motivi dell'antica, perchè la sua virtù non vuole altro guardiano che se stessa: la vestale impudica era per la coscienza di Roma pari al soldato codardo;la clarissa contaminata è per noi come il poeta infedele alla poesia, il filosofo inferiore al proprio pensiero.Così noi vorremmo indarno attingere adesso l'antica serenità pagana dell'amore dopo che la morte di Cristo vi gettò dentro lo spasimo di un altro ideale: una contaminazione vi è rimasta, il peccato l'avvelena. Tutta la nostra scienza non basta contro la maledizione, che pesa sul piacere: il nostro amore esige ancora la carne, ma non se ne appaga, va più lungi e più alto, vuole l'anima, la dedizione incondizionata del cuore, la conquista assoluta dello spirito. A renderci infelici basta una sola infedeltà mentale: la nostra gelosia vigila più ansiosamente alle porte del cuore che a quelle dei sensi; il nostro vizio stesso è così monogamo che non sapremmo più preferire simultaneamente due donne.La Maddalena di Gesù è rimasta per noi dentro tutte le cortigiane, nelle quali cerchiamo il medesimo miracolo di una rigenerazione improvvisa, che riunisca in un solo incanto le sensazioni del peccato e le beatrici malie della virtù: la menzogna della nostra sensualità è talmente triste che in ogni amore basso e breve ci ostiniamo alla ricerca di una qualche forma nobile, di una qualunque grazia spirituale.Nel mondo antico invece l'amore era senza peccato.Certamente le cortigiane non vi erano stimate come le spose, ma il loro piacere era senza degradazione e il loro amore senza veleno. L'abisso scavato dal cristianesimo fra spirito e materia non divideva come adesso la coscienza dell'uomo, nel quale la vita si chiudeva tranquillamente sopra se stessa senza il tormento di terrori o di speranze divine. Oggi la nostra empietà non calma più la nostra coscienza: non crediamo forse più al paradiso, ma non sappiamo rassegnarci al nulla della tomba; quindi ci tuffiamo nel fango per sottrarci allo spasimo d'incomprensibili aspirazioni, o torniamo a sognare di figure divine innanzi ad ogni fanciulla, nella quale si prepari la donna.Per noi la vergine, come potè rimutarsi nella poesia cristiana, è già tutta la donna. Un lontano dolore di espiazione le viene ancora dalla prima Eva, ma che rimane pura e vibrante nella freschezza della propria alba; la sua voce trema come il vento tra le foglie, il sorriso le rabbrividisce sulle labbra come sulle perle della rugiada. Se le impure esalazioni della terra fumano d'ogni intorno, il suo spirito è come un lago, sul quale le nubi passano senza intorbidire le acque: ella è la bellezza e la gioia suprema, pur sapendo che dal suo ventre sgorgherà un'altra sorgente di lagrime. Il nostro desiderio s'innalza verso di lei colla trepidazione della preghiera, il nostro orgoglio si turba di riverenza nella luce della sua purità come dinanzi ad una gloria dello spirito, perchè la vergine è l'anima divina, scendente nell'amore al sagrificio della vita. Allora Dante, vedendo la piccola Beatrice, vestita di umiltà, passare per la via cogli occhi bassi, trema di uno sbigottimento, che nè Sofocle nè Properzio potrebbero comprendere. Ma Dante si sentiva indegno di quella fanciulla malgrado la superiorità del proprio genio, col quale doveva più tardi aprirle le porte del paradiso. Quando nell'anima di un secolo la vergine appare così, anche la madre si trasfigura e il trionfo della donna si compie come nel cristianesimo, sommergendo tutto il mondo. Oggi invece noi pensiamo fra le rovine dei dogmi cristiani, sui quali qualche simbolo luccica appena come una stella al tramonto: siamo tristi, e siamo soli risognando ancora una madre come Maria, una sorella come Marta, un'amante come Maddalena.Che importa tutto il resto?Come nell'albero le foglie compongono la cuna dei fiori, che altrimenti non potrebbero vivere, così i simboli del nostro spirito preparano alle figure della vita una bellezza, senza la quale non sapremmo amare. Chi non singhiozzò mai stringendosi una vergine sul cuore, non avrà conosciuto il profondo segnato dell'amore; solamente i casti sono voluttuosi, perchè l'anima sola può provarenel delirio dei sensi l'ebbrezza dell'infinito. Ogni altro amore è piccolo come l'egoismo, povero come la morte.Ma se nell'arte moderna l'amore della vergine non trova poeti che per rimpiangerlo, la colpa non è soltanto della nostra educazione, nella quale perdiamo troppo presto l'innocenza, ma della donna, caduta più bassamente di noi dalle altezze del cristianesimo. Tutta la sua poca passione si condensa nell'adulterio, quasi sempre un dramma esteriore, che la sferza coi contrasti e l'affina forse senza ridarle una virtù d'ideale. La sua verginità non è più che l'attesa del matrimonio, il suo cuore vuoto come un'urna decorativa aspetta indifferentemente qualunque fiore. Chi ama più da giovinetto? Anche allora le nostre passioni sono di uomo, tutte nate nel vizio, cresciute nell'invidia, vanitose nel lusso, avare nella miseria, col gelido sottinteso di una critica, che non sa più credere. Noi non stimiamo più le donne che amiamo: per amarci esse tradiscono come spose e come madri, ma il marito vilipeso, i figli preteriti danno alla nostra passione un carattere di viltà. Molti ne soffrono ancora generosamente, nessuno può guarirne davvero.In un libro recente Marcel Prevost parve rivelare al mondo la singolarità parigina delle mezze-vergini in un gruppo di figure incerte, senza verità nell'anima e senza fascino di bellezza. Siccome il fatto era vero, i critici accusarono l'autore d'immoralità, e poichè la sua era una pittura di superficie, piacque a tutti come vera. Ma in nessuna di quelle fanciulle, che, sguinzagliate alla caccia del marito, riserbano come ultima insidia la propria verginità, riuscendo o fallendo a seconda della fortuna, il romanziere indarno abile aveva saputo trovare le profonde contraddizioni della coscienza, dalle quali solamente prorompe il dramma. Dopo la rivoluzione morale del cristianesimo ogni dramma comincia in noi stessi: la prima antitesi è nella nostra coscienza fra la passione e la legge, la pura idealità del tipo e la sua degradazione nella realtà attraverso le scene della vita. La verginepuò vendersi, e magari falsare il tristo contratto; ma l'importanza di questa doppia caduta è tutta nel sentimento che essa ne prova, nel giudizio inevitabile di se stessa. L'espediente della verginità serbata per mezzo alle licenze del vizio, come ultima ragione del matrimonio, fu una risorsa femminile di tutti i tempi, alzata presso certi popoli all'onore di legge; oggi nella corruttela parigina può sembrare una novità o esserlo fors'anco, se in tale turpitudine l'anima della donna trovi una parola originale. Sciaguratamente per tutti l'originalità del vizio è da molti anni esaurita.Le mezze-vergini di Marcel Prevost non erano che mezze figure dipinte vivacemente e duramente sopra un ventaglio. La facilità del suo trionfo parigino non basterà quindi a farlo credere un rivelatore della donna cinquant'anni dopo Balzac, il più gran genio dello scorso secolo, il solo uomo davanti al quale l'oscura anima femminile aprisse tutte le proprie profondità.Meglio di ogni altro egli saprebbe oggi dirci il segreto di quelle fanciulle, che aspettano in agguato il marito o ne rianimano la stanchezza sensuale coll'acre sensazione della verginità. La tentazione infatti deve spesso riuscire. Quando l'amore non è più una lirica ascensione dell'anima, quale importanza può dare un uomo al vagabondaggio della civetteria femminile? Il vizio è indulgente e la vanità sempre abbastanza sofistica per giustificare qualunque apparenza. Quindi la verginità della donna sembra rinnovare nel matrimonio la verità degli antichi connubi, mentre l'uomo invece, soccombendo a tale agguato, è quasi sempre logoro dalla vita, e nella nuova casa non intende più che a prepararsi un rifugio. Tutto il problema si addensa nella donna: diventata moglie per forza d'inganno, il suo carattere si adatterà all'ufficio? Come sarà madre? Il figlio le ridarà una coscienza? E se per caso il bambino sia veramente nato dal marito, il dover riconoscere in questo il padre quali nuovi rapporti creerà fra i coniugi?Marcel Prevost non lo ha cercato: eppure il dramma era lì.L'amore dell'uomo per la vergine non può essere che effimero come un sorriso di alba, la quale si perde nel giorno. La verginità è un momento unico, pari a quello della nascita e della morte: nè l'uomo nè la donna sanno più dimenticarlo, perchè la cicatrice non si rimargina, e un vincolo annodò indissolubilmente le due anime.Ma il ricordo ne è sempre mesto.Quando le donne ne parlano, pare come un velo scenda loro sugli occhi, mentre nella parola degli uomini si tradisce una incertezza, come se per le une e per gli altri i sogni più belli, forse le più necessarie virtù della vita, siano rimaste tristamente al di là di quel minuto. Ci sentiamo invecchiati, stanchi come pellegrini per una scesa troppo lunga: la luce si oscura, il paesaggio imbrunisce, l'aria si fa greve. Udiamo delle grida nel susurro del vento, scorgiamo una macchia in ogni orma, che ci precede; partimmo fra i canti, e non parliamo quasi più, ascoltando dentro noi stessi il bisbiglio dei ricordi simile ad un murmure di acque sotterranee. Altre fanciulle, altri giovani, ritti su quella vetta abbassano lo sguardo sulla larga valle chiusa nel fondo da una palude nera: poi si stringono la mano per prendere insieme lo slancio verso il sole, e ricadono invece sulla via per discenderla come noi, insanguinandosi a' suoi rovi.Ma se qualcuno può ancora, nel rivolgersi, additare quella vetta sempre illuminata alla propria compagna senza sorprendere ne' suoi occhi un rimpianto, egli amò veramente e fu amato.E qualcuno c'è.

Non ricordo più la leggenda, ma ne veggo ancora il gran quadro nella chiesa parrocchiale di Viarano, appena vi entrammo col prefetto e tutta la camerata. Erravamo da due ore per le colline dell'Idice in una bella mattinata di settembre fra le siepi alte, che salivano, nascondendo per lunghi tratti l'incantevole paesaggio. E all'improvviso ci apparì sopra la spianata, in uno sfondo meravigliosamente largo, la chiesa.

La porta era aperta.

Il prefetto ci sospinse dentro come un gregge nell'ovile. Ogni ciarlio si arrestò e dinanzi, sopra l'altar maggiore, vidi come in un'alba viva un volo di angeli dalle lunghe vesti candide, colle braccia conserte, che sembravano sfuggire pel cielo. Una figura più grande, incoronata di rose, guidava nel mezzo quel volo, colle mani aperte. Era sant'Orsola colle sue vergini, non tutte certamente, ma il corteo fitto e minuto si curvava d'ambo i lati verso di lei con due strisce bianche, dentro le quali lucevano come stelle le piccole teste.

Al solito m'incantai, mentre i miei compagni, piegato il ginocchio e dette le tre avemarie, si sbandavano curiosamente per la chiesa. Era piccola, piena di una pace oscura. Il prefetto inginocchiato vicino a me, col volto squallido, che gli spenzolava sul petto come una cosamorta, pareva anche più gobbo, e la sua bocca larga e arida mormorava a mezza voce una preghiera. Era un uomo pio e triste, che gli altri frati non amavano malgrado la tenerezza della sua devozione, nella quale serbava tutta la ingenuità di fanciullo. Allora io credevo forse più di lui, ma la mia fede tremava già di profonde inquietudini dopo certi impeti di poesia, che i miei compagni non intendevano, benchè avessi più di una volta tentato di spiegarmi coi più intelligenti fra essi.

Quella leggenda di santa Orsola e delle sue undicimila vergini, abbattute come uno stormo di colombe da un uragano, aveva per me un fascino misterioso. Nella mia immaginazione adolescente nessuna guerra di poema valeva quella battaglia di fanciulle, che si coprivano pudicamente le ferite per morire nell'orgoglio divino della propria verginità; ma la donna capace di stringersele così dintorno doveva avere nell'anima quella forza segreta dei grandi capitani, alla quale le moltitudini non sanno mai resistere. Quando le paure dell'istinto isolano i soldati fra le file rotte dei battaglioni nell'ora della sconfitta, soltanto la passione del capitano, che si precipita contro la morte e la supera nell'ebbrezza di una sfida, può ancora riattirarli irresistibilmente nella catastrofe. Che importa la vittoria al soldato, il quale sa di rimanervi anonimo? Se vi muore, la superbia dei gradi e le lussurie del bottino saranno per altri, mentre egli ignora quasi sempre il perchè della guerra, e nella battaglia non sente che il proprio olocausto. Quindi nello sbandamento degli ordini per lui non vi è altra vittoria che la vita, altra ragione che la propria: prima era nell'esercito come una molecola in un masso, dopo non è nemmeno più un soldato.

Ma in quella disperazione degli ultimi momenti, fra i guizzi dell'ira e di una paura, che non sa e non vede, trema e minaccia, basta ancora un urlo del capitano avventandosi innanzi, perchè l'agonia del terrore si muti in uno spasimo di orgoglio, e la morte abbacini tutte leanime nel proprio incanto. È Silla nella pianura di Orcomene, Napoleone al ponte di Arcole, Garibaldi sul colle di Calatafimi: è l'anima del generale, che diventa l'anima dei soldati, trionfando sulla morte prima ancora che sul nemico: è santa Orsola bianca, con una luce lunare negli occhi e il murmure dell'aurora nella voce, che inebria le fanciulle di candore e di speranza. Ella aveva forse la stessa malia dell'inverno, che purifica il mondo facendone una candida solitudine; forse anco una più alta innocenza aveva dato al suo pudore una forza di incanto sulla coscienza delle sue compagne, alle quali appariva come dentro una visione.

Quindi la seguirono colla docilità delle agnelle e l'insistente predilezione delle colombe perdendosi nella luce della sua traccia. E oggi ancora il loro sciame divino attraversa nell'ora della passione la fantasia delle donne rimaste semplici, che lo veggono salire ondeggiando per un'alba di paradiso.

La poesia moderna ha forse sogni più belli?

Malgrado la doppia corruttela della incredulità e della religione, in noi tutti sfavilla l'ideale della vergine come il primo e più alto simbolo della donna. Indarno crediamo di sapere che la verginità non è che l'attesa della maternità, una maschera dietro la quale sta in agguato la vera fisonomia della donna, mentre l'uomo non potè mai apparire vergine ad una fantasia di fanciulla, perchè in lui la verginità non avrebbe significato di perfezione. Nella donna solamente essa diventa un suggello divino, un'aurora, che vince il meriggio, come ogni promessa supera sempre l'offerta.

Nell'anima antica il culto della verginità era una dolce riconoscenza del suo incanto, o una superba pretesa maschile per la sincerità della prole futura. Dentro l'amante vigilavano già le diffidenze del padre: si voleva essere primo per la necessità di essere solo, la vergine era un segreto lungamente, gelosamente custodito nella casa dalla madre e dalle ancelle per lo sposo.Ma così sola ella non poteva sentire in se stessa l'importanza del proprio pregio. Invece di scegliere l'uomo fra gli uomini, che vedendola si fossero accesi di lei, la vergine non sapeva ancora che cosa accadesse fuori della casa, prigione o serra, nella quale cresceva occulta; il suo cuore era vuoto, la sua fantasia non si riempiva che di sogni. Dal carcere del padre a quello del marito, ecco tutto il suo viaggio: da una compagnia di fanciulle ad una promiscuità di spose, ecco la sola differenza della sua vita. La verginità era quindi la prima e la massima delle sue seduzioni, mentre più tardi nell'harem la lotta dell'amore la rendeva fatalmente cortigiana del marito. L'oriente poligamo non conobbe la vergine, e non raggiunse nell'anima la passione dell'ideale. Per la donna l'uomo rimaneva sempre padrone e straniero: ella non aveva un mondo spirituale ove ospitarlo, la sua anima piccola ignorava tutte le tragedie del pensiero e dell'azione. L'amore di un uomo era per lei una mensa comune ad altre donne: quella di madre una rivalità di chioccia con altre chiocce, e finiva prima ancora che nel pulcino spuntasse colla cresta l'orgoglio del gallo. Nei paesi orientali anche adesso la donna sa di essere inferiore all'uomo, giacchè sola non basta nemmeno al suo amore, geloso per superbia e goloso per sazietà: perciò lo spirito femminile vi appare quasi sempre melanconico in una lunga taciturnità di tramonto.

Ricordo una strofe di poema indiano, nella quale la vergine è paragonata a quei morti esposti nei cimiteri agli avoltoi: tutta la sua adolescenza si esaurì nella preparazione dell'olocausto; e quando le sue carni sentirono la prima ferita, e il sangue testimoniò della loro purezza, come quei morti ella resta per sempre chiusa in un cimitero.

Ma la sua anima ne soffrirà veramente?

Che cosa sappiamo noi della donna orientale? potremmo noi, penetrando nella sua intimità, intendere il suo spirito? Flaubert, che scrisseSalambò, il più belpoema del nostro secolo, la più temeraria peregrinazione, attraverso il mondo antico, confessò tristamente sotto gli attacchi di Sainte-Beuve di non poter credere alla verità della mirabile donna evocata dal proprio genio. La nostra anima, immersa da due mila anni nella idealità cristiana, tenterebbe inutilmente d'indovinare il sentimento e il pensiero orientale. Che cosa ammiriamo noi davvero nella poesia greca e latina? Forse i poeti di allora sorriderebbero colla stessa indulgenza alle nostre critiche e ai nostri elogi, mentre nelle loro opere non sentiamo che la parte immutabile della natura umana e l'espressione della loro più personale originalità ci sfugge senza dubbio. Così, invertendo la difficoltà, io non ho mai saputo immaginare che cosa Virgilio, il più sentimentale dei poeti latini, capirebbe leggendo il Petrarca, o quale impressione riceverebbe Orazio da un canto di Byron.

Confrontate per esempio una vestale a una clarissa; la vergine romana, che vigila il fuoco sacro della patria, colla vergine cristiana assorta nell'incanto della propria purità. Quella, immolata ad una necessità cittadina, è vergine solamente nel corpo, mentre nel suo spirito il concetto della vita è identico a quello di ogni altra donna; questa, ebbra di un amore, che nessun uomo potrebbe appagare, si consuma come un aroma dentro un raggio di sole. Ma la clarissa è pessimista. Ella sa che nella vita ammalata di peccato la legge più profonda è il dolore, dacchè Dio nel mistero della propria giustizia accettò l'innocenza per riscatto della colpa, concedendo alle vittime volontarie la potenza della redenzione. Quindi la sua verginità non è la preparazione all'amore, ma il trionfo sopra di esso per una più alta maternità spirituale dell'anima, amando tutti, pregando per tutti. Se dovrà anch'essa chiudersi nel chiostro, la nuova prigione non avrà i motivi dell'antica, perchè la sua virtù non vuole altro guardiano che se stessa: la vestale impudica era per la coscienza di Roma pari al soldato codardo;la clarissa contaminata è per noi come il poeta infedele alla poesia, il filosofo inferiore al proprio pensiero.

Così noi vorremmo indarno attingere adesso l'antica serenità pagana dell'amore dopo che la morte di Cristo vi gettò dentro lo spasimo di un altro ideale: una contaminazione vi è rimasta, il peccato l'avvelena. Tutta la nostra scienza non basta contro la maledizione, che pesa sul piacere: il nostro amore esige ancora la carne, ma non se ne appaga, va più lungi e più alto, vuole l'anima, la dedizione incondizionata del cuore, la conquista assoluta dello spirito. A renderci infelici basta una sola infedeltà mentale: la nostra gelosia vigila più ansiosamente alle porte del cuore che a quelle dei sensi; il nostro vizio stesso è così monogamo che non sapremmo più preferire simultaneamente due donne.

La Maddalena di Gesù è rimasta per noi dentro tutte le cortigiane, nelle quali cerchiamo il medesimo miracolo di una rigenerazione improvvisa, che riunisca in un solo incanto le sensazioni del peccato e le beatrici malie della virtù: la menzogna della nostra sensualità è talmente triste che in ogni amore basso e breve ci ostiniamo alla ricerca di una qualche forma nobile, di una qualunque grazia spirituale.

Nel mondo antico invece l'amore era senza peccato.

Certamente le cortigiane non vi erano stimate come le spose, ma il loro piacere era senza degradazione e il loro amore senza veleno. L'abisso scavato dal cristianesimo fra spirito e materia non divideva come adesso la coscienza dell'uomo, nel quale la vita si chiudeva tranquillamente sopra se stessa senza il tormento di terrori o di speranze divine. Oggi la nostra empietà non calma più la nostra coscienza: non crediamo forse più al paradiso, ma non sappiamo rassegnarci al nulla della tomba; quindi ci tuffiamo nel fango per sottrarci allo spasimo d'incomprensibili aspirazioni, o torniamo a sognare di figure divine innanzi ad ogni fanciulla, nella quale si prepari la donna.

Per noi la vergine, come potè rimutarsi nella poesia cristiana, è già tutta la donna. Un lontano dolore di espiazione le viene ancora dalla prima Eva, ma che rimane pura e vibrante nella freschezza della propria alba; la sua voce trema come il vento tra le foglie, il sorriso le rabbrividisce sulle labbra come sulle perle della rugiada. Se le impure esalazioni della terra fumano d'ogni intorno, il suo spirito è come un lago, sul quale le nubi passano senza intorbidire le acque: ella è la bellezza e la gioia suprema, pur sapendo che dal suo ventre sgorgherà un'altra sorgente di lagrime. Il nostro desiderio s'innalza verso di lei colla trepidazione della preghiera, il nostro orgoglio si turba di riverenza nella luce della sua purità come dinanzi ad una gloria dello spirito, perchè la vergine è l'anima divina, scendente nell'amore al sagrificio della vita. Allora Dante, vedendo la piccola Beatrice, vestita di umiltà, passare per la via cogli occhi bassi, trema di uno sbigottimento, che nè Sofocle nè Properzio potrebbero comprendere. Ma Dante si sentiva indegno di quella fanciulla malgrado la superiorità del proprio genio, col quale doveva più tardi aprirle le porte del paradiso. Quando nell'anima di un secolo la vergine appare così, anche la madre si trasfigura e il trionfo della donna si compie come nel cristianesimo, sommergendo tutto il mondo. Oggi invece noi pensiamo fra le rovine dei dogmi cristiani, sui quali qualche simbolo luccica appena come una stella al tramonto: siamo tristi, e siamo soli risognando ancora una madre come Maria, una sorella come Marta, un'amante come Maddalena.

Che importa tutto il resto?

Come nell'albero le foglie compongono la cuna dei fiori, che altrimenti non potrebbero vivere, così i simboli del nostro spirito preparano alle figure della vita una bellezza, senza la quale non sapremmo amare. Chi non singhiozzò mai stringendosi una vergine sul cuore, non avrà conosciuto il profondo segnato dell'amore; solamente i casti sono voluttuosi, perchè l'anima sola può provarenel delirio dei sensi l'ebbrezza dell'infinito. Ogni altro amore è piccolo come l'egoismo, povero come la morte.

Ma se nell'arte moderna l'amore della vergine non trova poeti che per rimpiangerlo, la colpa non è soltanto della nostra educazione, nella quale perdiamo troppo presto l'innocenza, ma della donna, caduta più bassamente di noi dalle altezze del cristianesimo. Tutta la sua poca passione si condensa nell'adulterio, quasi sempre un dramma esteriore, che la sferza coi contrasti e l'affina forse senza ridarle una virtù d'ideale. La sua verginità non è più che l'attesa del matrimonio, il suo cuore vuoto come un'urna decorativa aspetta indifferentemente qualunque fiore. Chi ama più da giovinetto? Anche allora le nostre passioni sono di uomo, tutte nate nel vizio, cresciute nell'invidia, vanitose nel lusso, avare nella miseria, col gelido sottinteso di una critica, che non sa più credere. Noi non stimiamo più le donne che amiamo: per amarci esse tradiscono come spose e come madri, ma il marito vilipeso, i figli preteriti danno alla nostra passione un carattere di viltà. Molti ne soffrono ancora generosamente, nessuno può guarirne davvero.

In un libro recente Marcel Prevost parve rivelare al mondo la singolarità parigina delle mezze-vergini in un gruppo di figure incerte, senza verità nell'anima e senza fascino di bellezza. Siccome il fatto era vero, i critici accusarono l'autore d'immoralità, e poichè la sua era una pittura di superficie, piacque a tutti come vera. Ma in nessuna di quelle fanciulle, che, sguinzagliate alla caccia del marito, riserbano come ultima insidia la propria verginità, riuscendo o fallendo a seconda della fortuna, il romanziere indarno abile aveva saputo trovare le profonde contraddizioni della coscienza, dalle quali solamente prorompe il dramma. Dopo la rivoluzione morale del cristianesimo ogni dramma comincia in noi stessi: la prima antitesi è nella nostra coscienza fra la passione e la legge, la pura idealità del tipo e la sua degradazione nella realtà attraverso le scene della vita. La verginepuò vendersi, e magari falsare il tristo contratto; ma l'importanza di questa doppia caduta è tutta nel sentimento che essa ne prova, nel giudizio inevitabile di se stessa. L'espediente della verginità serbata per mezzo alle licenze del vizio, come ultima ragione del matrimonio, fu una risorsa femminile di tutti i tempi, alzata presso certi popoli all'onore di legge; oggi nella corruttela parigina può sembrare una novità o esserlo fors'anco, se in tale turpitudine l'anima della donna trovi una parola originale. Sciaguratamente per tutti l'originalità del vizio è da molti anni esaurita.

Le mezze-vergini di Marcel Prevost non erano che mezze figure dipinte vivacemente e duramente sopra un ventaglio. La facilità del suo trionfo parigino non basterà quindi a farlo credere un rivelatore della donna cinquant'anni dopo Balzac, il più gran genio dello scorso secolo, il solo uomo davanti al quale l'oscura anima femminile aprisse tutte le proprie profondità.

Meglio di ogni altro egli saprebbe oggi dirci il segreto di quelle fanciulle, che aspettano in agguato il marito o ne rianimano la stanchezza sensuale coll'acre sensazione della verginità. La tentazione infatti deve spesso riuscire. Quando l'amore non è più una lirica ascensione dell'anima, quale importanza può dare un uomo al vagabondaggio della civetteria femminile? Il vizio è indulgente e la vanità sempre abbastanza sofistica per giustificare qualunque apparenza. Quindi la verginità della donna sembra rinnovare nel matrimonio la verità degli antichi connubi, mentre l'uomo invece, soccombendo a tale agguato, è quasi sempre logoro dalla vita, e nella nuova casa non intende più che a prepararsi un rifugio. Tutto il problema si addensa nella donna: diventata moglie per forza d'inganno, il suo carattere si adatterà all'ufficio? Come sarà madre? Il figlio le ridarà una coscienza? E se per caso il bambino sia veramente nato dal marito, il dover riconoscere in questo il padre quali nuovi rapporti creerà fra i coniugi?

Marcel Prevost non lo ha cercato: eppure il dramma era lì.

L'amore dell'uomo per la vergine non può essere che effimero come un sorriso di alba, la quale si perde nel giorno. La verginità è un momento unico, pari a quello della nascita e della morte: nè l'uomo nè la donna sanno più dimenticarlo, perchè la cicatrice non si rimargina, e un vincolo annodò indissolubilmente le due anime.

Ma il ricordo ne è sempre mesto.

Quando le donne ne parlano, pare come un velo scenda loro sugli occhi, mentre nella parola degli uomini si tradisce una incertezza, come se per le une e per gli altri i sogni più belli, forse le più necessarie virtù della vita, siano rimaste tristamente al di là di quel minuto. Ci sentiamo invecchiati, stanchi come pellegrini per una scesa troppo lunga: la luce si oscura, il paesaggio imbrunisce, l'aria si fa greve. Udiamo delle grida nel susurro del vento, scorgiamo una macchia in ogni orma, che ci precede; partimmo fra i canti, e non parliamo quasi più, ascoltando dentro noi stessi il bisbiglio dei ricordi simile ad un murmure di acque sotterranee. Altre fanciulle, altri giovani, ritti su quella vetta abbassano lo sguardo sulla larga valle chiusa nel fondo da una palude nera: poi si stringono la mano per prendere insieme lo slancio verso il sole, e ricadono invece sulla via per discenderla come noi, insanguinandosi a' suoi rovi.

Ma se qualcuno può ancora, nel rivolgersi, additare quella vetta sempre illuminata alla propria compagna senza sorprendere ne' suoi occhi un rimpianto, egli amò veramente e fu amato.

E qualcuno c'è.


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