Costui girando intorno al cavallieroCon quella cetta spesso lo molesta;E poi se volta e via va sì legiero,Che cosa non fo mai cotanto presta.Salta più volte in groppa del destriero,E prese Brandimarte nella testa;Ma come vede che gli volta il brando,Salta alla terra e via fugge cridando.
Già il cavalliero a lui più non attende,E sopra a gli altri fa la sua vendetta,E chi per lungo e chi per largo fende:Ormai non vi è di lor pezzo né fetta.Poi dietro a Fugiforca se distende;Ma quel ribaldo ponto non aspetta,E de quel corso ben serìa scampato;Ma fortuna lo gionse e il suo peccato.
Perché, saltando sopra ad una macchia,Lo prese ad ambo e piedi una berbena,Come se prende al laccio una cornacchia,E lei battendo l'ale se dimena,E tra' del becco e se dispera e gracchia.Ma Fugiforca non è preso a pena,Che Brandimarte, qual correndo il caccia,Gli gionse adosso e ben stretto lo abraccia.
E non lo volse de brando ferire,Parendo a lui che fosse una viltate,Ma ben diceva: - Io te farò morire,Sì come tu sei degno in veritate.Meco legato converrai venire,Tanto che io trovi o castello o citate;E là per la iustizia del segnoreSerai posto alle forche a grande onore. -
E Fugiforca piangendo dicia:- Quel che ti piace ormai pôi di me fare;Ma ben ti prego per tua cortesia,Che non mi mena alla Liza in sul mare. -Ora, segnori e bella compagnia,Finito è nel presente il mio cantare.A l'altro racontar non serò lento;Dio faccia ciascadun lieto e contento.
Canto ventesimosettimo
Un dicitor che avea nome Arïone,Nel mar Cicilïano, o in quei confini,Ebbe voce sì dolce al suo sermone,Che allo ascoltar venian tóni e delfini.Cosa è ben degna de amirazïoneChe 'l pesce in mar ad ascoltar se inchini;Ma molto ha più di grazia la mia lira,Che voi, segnori, ad ascoltar retira.
Così dal cel lo stimo in summa graccia,E la mente vi pongo e lo intellettoNel dire a modo che vi satisfaccia,E che vi doni allo ascoltar diletto.Pur ho speranza che io non vi dispiaccia,Come mi par comprender ne lo aspetto,Se ne la istoria ancora io me ritorniDi cui gran parte ho detto in molti giorni.
Nel canto qui di sopra io vi lasciaiDi Fugiforca, il quale, essendo presoPer Brandimarte, menava gran guai,Ed essendosi a lui per morto reso,Con molto pianto e con lacrime assai,Standoli avante alla terra disteso,Per pietate e mercè l'avea a pregareChe non lo voglia alla Liza menare.
- Se tu mi meni alla Liza, barone,Di me fia fatta tanta crudeltate,Che, ancor che ben la merti di ragione,Insino a' sassi ne verrà pietate.Deh prendate di me compassïone!Non che io voglia campare in veritate,Ch'io merto che la vita mi sia tolta,Ma non voria morir più de una volta.
E là di me fia fatto tanto strazioQuanto mai se facesse di persona;Quel re del mio morir non serà sazio,Ché troppo ingiurïai la sua corona;E forse questo me ha condotto al lazio,Sì come ne' proverbi se ragionaE come esperienzia fa la prova:Peccato antiquo e penitenzia nova.
Perché, essendo una volta alla marina,Qual da la Liza poco se alontana,Perodia vi era in festa, la regina,Con Dolistone, intorno a la fontana;Io, là correndo, presi una fantina,Qual poi col conte di Rocca SilvanaCambiai ad aspri, e fôrno da due miglia:Questa di Dolistone era la figlia.
Né puotè il re, né altrui donarli aiuto,Sì che a Rocca Silvana la portai,A benché da ciascun fui cognosciuto,Però che in quella casa me allevai;Né cotal tema poi me ha ritenuto,Ma robbato ho il suo regno sempre mai,Dispogliando ciascun sino alla braga;Ma questo è quello che per tutto paga. -
Pensando Brandimarte a cotal dire,Ne fu contento assai per più cagione;Pur disse al ladro: - Il te convien venireIn ogni modo a quel re Dolistone,Qual, come merti, ti farà punire. -Così dicendo il lega in su un ronzone,Con gran minaccie se ponto favella,Poi la sua briglia dette a Doristella.
E non parlava quel ladron nïente,Perché di Brandimarte avia paura.Or, giongendo alla Liza, una gran genteTrovarno armata sopra alla pianura;E Doristella fu molto dolente,- Lassa! - dicendo - in che disaventuraRitrovo il patre a questo mio ritorno,Che è posto in guerra ed ha l'assedio intorno! -
E facendo di ciò molti pensieri,Scoprisse avanti da cento pedoniE circa da altretanti cavallieri,I qual cridarno: - Voi sete pregioni! -- Altro che zanze vi sarà mestieri, -Rispose Brandimarte - o compagnoni,A volerci pigliar così di fatto! -Tra le parole il brando avia già tratto.
E gionse per traverso un contestabile,Quale era grande e portava la ronca,Armato a maglia e piastre innumerabile;Ma tutto a un tratto Tranchera lo tronca.Né mai se vidde un colpo più mirabile,Ché la persona sua rimase moncaDe un braccio e de la testa a un tratto solo,E l'uno e l'altro in pezzi andò di volo.
Ben ne fece de gli altri simiglianti,E de' maggior, se Turpin dice il vero,Onde gli pose in rotta tutti quanti:Beato se tenìa chi era il primiero,Quel dico che a fuggire era davanti;E non tenean né strata né sentiero,Né in dietro a riguardar se voltan ponto;Fugge ciascuno insin che al ponto è gionto.
Ora nel campo si leva il romore.- A l'arme! a l'arme! - ciascadun cridava.Adosso a Brandimarte a gran furoreChi di qua chi di là ciascun toccava;E lui ben dimostrava un gran valore,Ma contra tanti poco gli giovava:A suo mal grado quella gente fellaPigliarno Fiordelisa e Doristella;
E seco Fugiforca, quel ladrone:Via ne 'l menarno, come era legato;Ma non cessa però la questïone,Ché Brandimarte al tutto è disperato,E fa col brando tal destruzïone,Che sino alla cintura è insanguinato,Né puote il suo destrier levare il passoPer la gran gente morta in quel fraccasso.
Ma per le dame è ciò poco ristoro,Quale ha perdute quel baron gagliardo.Lasciamo lui, e torniamo a coloroChe via ne le menarno senza tardo;E come avanti fôrno a Teodoro,Lui cognobbe Doristella al primo guardo,E lei cognobbe anch'esso al primo tratto,Come lo vidde, e ciò non fu gran fatto;
Però che ciascadun tanto se amava,Che altra sembianza non avea nel core.Or quando l'un quell'altro ritrovava,Non fu allegrezza al mondo mai maggiore;E ciascadun più stretto se abracciava,Dandosi basi sì caldi de amore,Che ciascadun che intorno era in quel loco,Morian de invidia, sì parea bel gioco.
Poi lui conta alla dama la ragionePerché alla Liza era intorno acampato,E facea guerra al patre Dolistone,Dicendo: - Io venni come disperato,A lui dando la colpa e la cagioneChe via te conducesse il renegato,Dico Usbego, che Dio gli doni guai!Ove ne andasti, non seppi più mai. -
La dama ad ogni parte gli respose,E dègli alla risposta gran conforto,E la ventura sua tutta gli espose,E come Usbego a quel palagio è morto;Poi lo pregava con voce piatoseChe divetasse ad ogni modo il tortoQuale era fatto a quel baron valente,Che fo assalito da cotanta gente.
Per il dover fo lui mosso di saldo,E più dai preghi della giovanetta,Onde da lui mandò presto uno araldo,Ove era la battaglia, e un suo trombetta;E là trovarno Brandimarte caldo,Più che ancor fosse, a far la sua vendetta.Ma come il real bando a ponto intese,Lasciò la zuffa, tanto fu cortese.
E venne con gli araldi in compagniaDe Teodoro al pavaglion reale(Costui già il regno de gli Armeni avia;Morto era il patre a corso naturale),E lo trovarno a mezo de la via,Con molta gente e pompa trïonfale,Intra quelle due dame, ogniuna bella:Qua Fiordelisa e là sta Doristella.
Ricevutolo in campo a grande onore,Re Teodoro il tutto gli contò,Cominciando al principio del suo amore,Insino al giorno ove gionti son mo;E poi elesse un degno ambasciatore,Che a Dolistone e Perodia mandò,Per voler pace e amendar quel che è fatto,Pur che abbia Doristella ad ogni patto.
La cosa era passata in tal travasoQuale io ve ho detto, e tal confusïone,E Fugiforca e' pur preso è rimaso,Ché un tristo mai non trova bon gallone.Legato ancor si stava quel malvasoCon le mano alle rene in sul ronzone,E Brandimarte, che l'ebbe trovato,Dimandò al re che fusse ben guardato.
Onde per questo con gran diligenzaEra guardato e con molta custodia,Co' e ferri a' piedi, e non stava mai senza,E per il suo mal far ciascadun lo odia.Ora lo ambasciador con riverenzaA Dolistone e a sua dama PerodiaParlò sì bene, e fu tanto ascoltato,Che quel concluse per che egli era andato.
E tornò fora con lo olivo in testa,Che era un signale a quel tempo di pace,E poi la somma espose de sua inchiesta,Qual sopra a gli altri a Doristella piace.Tutti alla Liza intrarno con gran festa;Ma Fugiforca, quel ladro fallace,Via era condutto lui con mal pensieroTra' carrïaggi, sopra ad un somiero.
Ne la Liza per tutto è cognosciuto:Chi gli cridava dietro e chi da lato,E lui dicea: - Macon mi doni aiuto,Ché un altro non fu mai peggio trattato! -E Brandimarte, poiché fu venutoAvanti al re, quel ladro ha presentato.Il re mirando lui se meraviglia:Ben sa che è quel qual già tolse la figlia.
Ma che sia preso si meravigliava,Cognoscendol sì presto e tanto astuto.De la filiola poi lo adimandava,Se sapea lui quel che fosse avenuto;Ed esso a pieno il tutto racontava,Insin che il prezio ne avea recevuto:Ma che poi se partitte incontinente,Sì che di lei più non sapea nïente.
- Per prezzo al conte di Rocca SilvanaIo la vendetti; - diceva il ladrone- Da mille miglia è forse di lontanaDi sopra a Samadrìa la regïone. -E Brandimarte alor con voce umanaAdimandava quel re DolistoneSe ebbe segnal la figlia, che abbia a mente;Ma Perodia rispose incontinente.
Come Perodia ha Brandimarte odito,Rispose al dimandar senza dimora;Né aspetta che parlasse il suo marito,Ma disse: - Se mia figlia vive ancora,Sotto alla poppa destra forse un ditoHa per segnale una voglia di mora;De una mora di celso, ora me amento,Essendo di lei pregna ebbi talento.
Là mi toccai; ed ella, come nacque,Sotto la poppa avea quel segno nero;Né mai per medicine o forza de acqueSe puotè via levare, a dire il vero. -Or Brandimarte, sì come ella tacque,Cominciò poi la istoria, il cavalliero;A parte a parte il fatto gli divisa,Sì come sua filiola è Fiordelisa.
E fatto gli altri tuor di quel cospetto,Però che Fiordelisa avia vergogna,La fece avanti a loro aprire il petto,Onde più prova ormai non vi bisogna.Perodia e Dolistone han tal dilettoQual have il pregionier, quando si sognaLa notte esser impeso e la dimanePoi viene assolto e in libertà rimane.
Ciascuno ha pien di lacrime la faccia.Piangendo gli altri ancor di tenerezza,La matre lei e lei la matre abraccia:Ogniuna di basarse ha maggior frezza.A Fugiforca fu fatta la graccia,Pregando ogniom per lui nella allegrezza;Cridi e lieti romori a gran divizia,Campane e trombe suonan di letizia.
Poi furno queste cose divulgateFuor nella terra e per tutto il paese,E con trïonfo le noce ordinateCon real festa a ciascadun palese,E le due damigelle fôr sposate,Ché Fiordelisa Brandimarte prese,E Teodor si prese Doristella;Non so se alcun trovò la sua polcella.
Ché tanto poche ne vanno a marito,Che meglio un corvo bianco se dimostra;Ma queste due, sì come aveti odito,Eran pur state avanti a questo in giostra.Usavasi a quel tempo a tal partito,Ora altrimente nella etade nostra,Ché ciascuna perfetta si ritrova;E chi nol crede, lui cerchi la prova.
Ora queste due dame che io ve dicoCatolice ènno entrambe e cristïane,E Macone avean tolto per nimicoE le sue legge scelerate e vane;Onde ne andarno dal suo patre antico,E sì con prieghi e con parole umaneSe adoperarno, per la Dio mercede,Che lo tornarno alla perfetta fede.
Dapoi la matre con minor faticaRidussero anco a sua credenza santa;E la corte da poscia a tal rubricaSe attenne e la citate tutta quanta;E, senza che di questo più vi dica,La grazia de le dame fu cotanta,Che de i monti d'Armenia alla marinaCorse ciascuno alla legge divina.
Ora de ricontar non è mestieroLa festa, che ogni dì cresce maggiore;Qua se fa giostra, e là fassi torniero,Altrove è suono e danza con amore;Ma pur sta Brandimarte in gran pensiero,Né se può il conte Orlando trar del core.In fine un giorno la sua opinïoneFie' manifesta in tutto a Dolistone,
Mostrando quasi aver fermato il chiodoChe in ogni forma Orlando vôl seguire.Diceva Dolistone: - Io non te lodoPer questo tempo adesso il dipartire;Ma, se pur de lo andare ad ogni modoSei destinato, non so più che dire,Né di ciò la cagion più te dimando,Il gire e il star serà nel tuo comando. -
Una galea dapoi fu apparecchiataDi molte che ne avea quel barbasoro;Questa era la reale e meglio armata,Che avea la poppa tutta missa ad oro.Brandimarte e sua dama e più brigataLà se allogarno, con molto tesoroQual Perodia ha donato alla sua figlia,Rubin, smeraldi e perle a meraviglia;
Tra l'altre cose il più bel pavaglioneChe se trovasse in tutta la Soria.Ora spira levante, e il suo patroneGli acerta che ogni indugia è troppo ria;Onde se accomandarno a DolistoneE a tutti gli altri, e vanno alla sua via,Passando Rodi e la isola di Creti;Col vento in poppa van zoiosi e lieti.
Ma il navicare e nostra vita umanaDe una fermezza mai non se assicura,Però che la speranza al mondo è vana,Né mai bon vento lungamente dura;Qual ora si levò da tramontana,Chiamando il Greco, che è mala misturaA cui di Creti vôl gire in Cicilia;L'aria se anera e l'acqua si scombilia.
Dicea il parone: - Il cel turbato è meco,E non me inganno già , ma ben me sforza,Perché io vorebbi ne la taza il Greco,E lui me 'l dona ne la vela a l'orza.Io non posso alla zuffa durar seco:Ove gli piace, convien che io mi torza. -Poi dice a Brandimarte: - A dir il vero,Con questo vento in Franza andar non spero.
Africa è quivi dal lato marino,Se drittamente ho ben la carta vista,E noi volteggiaremo nel camino,Ché, quando non se perde, assai s'acquista.Forse mutarà il vento, Dio divino!E cessarà questa fortuna trista;Pregar si puote che un siroco vegna,Qual ci conduca al litto de Sardegna. -
Parlava quel parone in cotal sorte,Chiedendo quel che egli avrebbe voluto,Ma tramontana ognior cresce più forte,E 'l mar già molto grosso è divenuto;Onde ciascun per tema de la morteFacendo voti a Dio dimanda aiuto;Ma lui non li essaudisce e non li ascolta,E sottosopra il mar tutto rivolta.
Pioggia e tempesta giù l'aria riversa,E par che 'l celo in acqua se converta,E spesso alla galea l'onda atraversa,Battendo ciò che trova alla coperta.Vien la fortuna ogniora più diversa,E spaventosa, orribile ed incerta,Pur col vento che io dissi, tuttavia,Sin che condotti gli ebbe in Barbaria.
Presso Biserta, al capo di Cartagine,Son gionti, ove già fu la gran citadeChe ebbe di Roma simigliante imagine,E quasi partì seco per mitade;Di lei non se vede or se non secagine,Persa è la pompa e la civilitade;E gran trïomfi e la superba alturaTolti ha fortuna, e il nome apena dura.
Or, come io dissi, il franco BrandimarteFu gionto per fortuna in questo porto.Ma un fie' comandamento in quelle parteChe ogni cristian che ariva ivi, sia morto;Perché una profecia trovarno in carte,Che in fine, al lungo andare o in tempo corto,Da un re de Italia fia la terra presa,Per cui da poi serà la Africa incesa.
E Brandimarte, che il tutto sapea,Non volse palesarse per nïente,Avengaché di sé poco temea,Ma sì de la sua dama e d'altra gente.A tutti disse ciò che far volea,Ma poi discese in terra incontinente,E presentossi allo amiraglio avante,Dicendo come è figlio a Manodante;
E come vien da le Isole Lontane,Per vedere Agramante e la sua corte,Ed a provarse a sue gente soprane,Qual son laudate al mondo tanto forte;Onde lo prega che quella dimaneLo faccia accompagnar con bone scorte,Sin che a Biserta sia salvo guidato,Proferendosi a ciò de esser ben grato.
E lo amiraglio, che era assai cortese,Lo fece accompagnar di bona voglia;E Fiordelisa di nave disceseE molta altra brigata con gran zoglia.Verso Biserta la strada si prese,Ed arivarno senza alcuna nogliaVicino alla citate una matina,E là fermârsi a canto alla marina.
Dapoi che ebbe donato molto argentoA questi che gli han fatto compagnia,Coi suoi se ragunò baldo e contentoSopra una larga e verde prataria,Ove dal mar venìa suave vento,Tra molte palme che quel prato avia.Sotto di queste senza altra tenzoneFece adricciare il suo bel pavaglione.
Questo era sì legiadro e sì polito,Che un altro non fu mai tanto soprano.Una Sibilla, come aggio sentito,Già stette a Cuma, al mar napolitano,E questa aveva il pavaglione orditoE tutto lavorato di sua mano;Poi fo portato in strane regïone,E venne al fine in man de Dolistone.
Io credo ben, Segnor, che voi sappiatiChe le Sibille fôr tutte divine,E questa al pavaglione avea signatiGran fatti e degne istorie pellegrineE presenti e futuri e di passati;Ma sopra a tutti, dentro alle cortine,Dodeci Alfonsi avea posti de intorno,L'un più che l'altro nel sembiante adorno.
Nove di questi ne la fin del mondoNatura invidïosa ne produce,Ma di tal fiamma e lume sì iocondo,Che insino a l'orïente facean luce;Chi avea iustizia e chi senno profondo,Quale è di pace, e qual di guerra duce;Ma il decimo di questi dieci volteLe lor virtute in sé tenea raccolte.
Pacifico guerrero e trïomfante,Iusto, benigno, liberale e pio,E l'altre degne lode tutte quanteChe può contribuir natura e Dio.La Africa vinta a lui stava davanteIngenocchiata col suo popol rio;Ma lui de Italia avea preso un gran lembo,Standosi a quella con amore in grembo.
E come Ercole già sol per amoreFo vinto da una dama lidïana,Così a lui prese Italia vinta il core,Onde scordosse la sua terra Ispana,E seminò tra noi tanto valore,Che in ogni terra prossima e lontanaCiascaduna virtù che sia lodataO da lui nacque, o fo da lui creata.
Ma l'undecimo Alfonso giovanetto,Con l'ale è armato, a guisa de Vittoria,Sì come la natura avesse elettoUno omo a possidere ogni sua gloria;Ché, volendo di lui con dir perfettoDi ciascuna cosa seguir la istoria,Avria coperto, non che il pavaglione,Ma il mondo tutto in ogni regïone.
Pur vi era ordita alcuna eletta impresaDe arme, o di senno, o di guerra, o de amore:Sì come è Italia da' Turchi diffesaPer sua prodezza sola e suo valore;E la battaglia tutta era distesaDi Monte Imperïale a grande onore,E le fortezze ruïnate al fondo,Sì belle che eran di trïomfi al mondo.
Il duodecimo a questo era vicino,Di etate puerile e in faccia qualeSerìa depinto un Febo piccolino,Coi raggi d'oro in atto trïomfale.Ne l'abito sì vago e pellegrino,Giongendovi gli strali e l'arco e l'ale,Tanta beltate avea, tanto splendore,Che ogniom direbbe: "Questo è il dio d'Amore."
Avanti a lui si stava ingenocchiataBona Ventura, lieta ne' sembianti,E parea dire: "O dolce figliol, guataAlle prodezze de gli avoli tanti,E alla tua stirpe al mondo nominata;Onde fra tutti fa che tu ti vantiDi cortesia, di senno e di valore,Sì che tu facci al tuo bel nome onore."
Molte altre cose a quel gentil lavoroVi fôr ritratte, e non erano intese,Con pietre prezïose e con tanto oro,Che tutto alluminava quel paese.Di sotto al pavaglione un gran tesoroIn vasi lavorati se distese,De smeraldo e zaffiro e di cristallo,Che valeano un gran regno senza fallo.
Non vi potrei contare in veritateIl bel lavoro fatto a gentilezza;Ninfe se gli vedeano lavorate,Che eran tanto legiadre a gran vaghezza,Che meritan da tutti essere amate;Vedeansi cavallier di tal prodezza:Quivi erano ritratti a non mentire;Ma a qual fine, alcun non sapria dire.
Or Brandimarte presto lo abandona,Come lo vidde a quel campo dricciato;Sopra a Batoldo la franca personaPresso a Biserta se appresenta armato,E con molta baldanza il corno suona.Ne l'altro canto ve sarà contatoCome il fatto passasse e la gran giostra;Dio vi conservi e la Regina nostra.
Canto ventesimottavo
Segnori e dame, Dio vi dia bon giornoE sempre vi mantenga in zoia e in festa!Come io promissi, a ricontar ritornoDe Brandimarte, che con tal tempestaPresso a Biserta va suonando il cornoEd isfida Agramante e la sua gesta,Dicendo nel suonare: - O re soprano,Odi mio suono, e nol tenire a vano.
Se non è falsa al mondo quella famaLa qual per tutto tua virtù risuona,E per valore un altro Ettor ti chiama,Perché hai de ogni prodeza la corona,Onde per questo ti verisce ed amaTal che giamai non vidde tua persona,Ed io tra gli altri certamente sono,Che non te ho visto, ed amo in abandono:
Fa che risponda a ciò che se ne dice,O valoroso ed inclito segnore,Della tua corte, che è tanto feliceChe de ogni vigoria mantiene il fiore.A me soletto in su quella pendiceProvarli ad un ad un ben basta il core;Ma non so se al pensier cotanto arditoMancarà lena, e vengami fallito. -
Stava Agramante in quel tempo a danzareTra belle dame sopra ad un veroneChe drittamente riguardava al mare,Ove era posto il ricco pavaglione.Odendo il corno tanto ben sonare,Lasciò la danza e venne ad un balcone,Apoggiandosi al collo al bel Rugiero,E giù nel prato vidde il cavalliero.
E stando alquanto a quel sonare attento,La voce e le parole ben comprese,E vòlto alli altri disse: - A quel ch'io sento,Questo di noi ragiona assai cortese;E certo che me ha posto in gran talentoDe essere il primo che faccia paleseSe ponto ha di prodezza o di valore;Siano qua l'arme e il mio bon corridore. -
Benché dicesse alcun che facea male,E mormorasse assai la baroniaChe sua persona nobile e realeAponga ad un che non sa chi se sia:Lui di natura e de animo è cotaleChe mena a fretta ciò che far desia;Onde lascia da parte l'altrui dire,E prestamente se fece guarnire.
De azuro e de ôr vestito era a quartiero,E a tale insegne è il destrier copertato;La rocca e' fusi porta per cimiero.Ver Brandimarte se ne vien al prato;E solo è seco il giovane Rugiero,Senza alcuna arma, for che 'l brando a lato,E dopo alcun parlar tutto cortese,Voltò ciascuno e ben del campo prese.
Poi ritornarno con le lancie a restaQuei dui baron, che avean cotanta possa,Drizzando i lor ronzon testa per testa.Ciascuna lancia a meraviglia è grossa,Ma entrambe se fiaccarno con tempesta,E l'uno a l'altro urtò con tal percossa,Ch'e lor destrier posâr le groppe al prato,Benché ciascun di subito è levato.
E via correndo come imbalorditiNe andarno a gran ruina quasi un miglio,E credo che più avanti serian giti,Ma fu dato a ciascun nel fren di piglio.E duo baroni al tutto eran storditi,E a l'uno e a l'altro uscia il sangue vermiglioDi bocca e da l'orecchie e per il naso,Tanto fu il scontro orribile e malvaso!
Or se vengono a dietro a passo a passo,Ciascun di vendicar voluntaroso;Poi spronarno e destrieri a gran fraccasso,L'un più che l'altro a corso ruïnoso.Alcun di lor non segna al scudo basso,Ma dritto in fronte a l'elmo luminoso;Le lancie de le prime eran più grosse,Ma non restarno integre alle percosse.
Però che nel scontrar di quei baroniSino alla resta se fiaccarno, in tantoChe non eran tre palmi e lor tronconi,Né più che prima se donarno il vantoDe alcun vantaggio e forti campïoni,E l'uno e l'altro è sangue tutto quanto;E, come e lor destrier sian senza freno,Ne andâr correndo un miglio, o poco meno.
Due lancie fece il re portare al prato,Che avea il tempio de Amone, antiquo deo,E, sì come da vecchi era contato,Di Ercole l'uno, e l'altra fo de Anteo.Bene era ciascun tronco smisurato:Ognuna a sei bastasi portar feo;Vedise adunque aperto in questo locoChe la natura manca a poco a poco,
Se questi antiqui fôr tanto robusti,Che avean forza per sei de quei moderni;Ma non so se gli autor fosser ben giusti,E scrivesseno il vero a' lor quaderni.Or son portati al campo e duo gran fusti;E guarda pur, se vôi: tu non discerniQual sia più forte, ché senza divaroDi vena e di grossezza son al paro.
A Brandimarte fu dato la eletta:Ciò volse il re Agramante per suo onore.Ben vi so dir che ogniomo intorno aspettaVeder che abbia più lena e più vigore.Ma, mentre che ciascun di lor se assetta,Di verso al fiume se ode un gran romore.Fugge la gente trista e sbigottita:Tutti venian cridando: - Aita! aita! -
Il re Agramante sì come era armatoVer là se tira e lascia il gran troncone;E Brandimarte a lui se pose a lato,Per aiutarlo in ogni questïone.Via vien fuggendo il popol sterminato;Ed Agramante prese un ragazone,Qual sopra ad un ronzone era a bisdossoE senza briglia corre al più non posso.
- Ove ne andati? - diceva Agamante- Ove ne andati, pezzi de bricconi? -E quel rispose con voce tonante:- Per beverare andavamo e ronzoniDietro a quel fiume che è quivi davante,E là fummo assaliti da leoni,Qual posti ce hanno in tal disaventura,Che bene è paccio chi non ha paura.
Da trenta insieme sono, al mio parere,Che ce assalirno con tanta tempesta,Che de scampare apena ebbi il potere,Ben che io gli vidi uscir de la foresta.Che sia de gli altri, non potea vedere,Perché giamai non ho volta la testaA remirar quel che de lor se sia;Or fa al mio senno, e tuotti anco te via. -
Il re sorrise e a Brandimarte voltoGli disse: - Certo alquanto ho di dispettoChe il piacer della giostra ce sia tolto,Benché alla caccia avrem molto diletto. -E Brandimarte, il qual non era stolto,Rispose: - Il tuo comando sempre aspetto;Sì che adoprame pure in giostra o in caccia,Ch'io son disposto a far quel che ti piaccia. -
Il re dapoi mandò nella citateChe a lui ne vengan cacciatori e cani,De' qual sempre tenìa gran quantitate,Segusi e presti veltri e fieri alani,Ed altre schiatte ancora intrameschiate.Or via ne vanno e tre baron soprani,Brandimarte, Agramante e il bon Rugiero,Per dare aiuto ove facea mestiero.
Ma ne la corte se lasciâr le danze,Come il messo del re là su se intese,E fuor portarno rete e speti e lanze,E furvi alcun che se guarnîr de arnese,Ché a cotal caccia vôle altro che cianze;Né lepri o capre trova quel paese,Ma pien son e lor monti tutti quantiDi leoni e pantere ed elefanti.
E molte dame montarno e destrieri,Con gli archi in mano ed abiti sì adorni,Che ogniom le accompagnava volentieri,E spesso avanti a lor facean ritorni.E tutti e gran segnori e cavallieriUscîr sonando ad alta voce e corni:Da lo abaglio de' cani e dal fremirePar che 'l cel cada e 'l mondo abbia a finire.
Ma già Agramante e il giovane RugieroE Brandimarte, che non gli abandona,Sopra a quel fiume ove è l'assalto fiero,Ciascuno a più poter forte sperona;E ben de esser gagliardi fa mestiero,Ché ogni leone ha sotto una persona;Alcuna è viva e soccorso dimanda,E qual morendo a Dio se aricomanda.
A ciascadun di lor venne pietate,E destinarno di donarli aiuto,Avendo prima già tratte le spate:Non vôle indarno alcun esser venuto.Ecco un leon con le chiome arrizzate,Maggior de gli altri, orribile ed arguto,Che in su la ripa avea morto un destrero:Quello abandona e vien verso Rugiero.
Rugier lo aspetta e mena un manroverso,E sopra della testa l'ebbe aggionto,E quella via tagliò per il traverso,Ché tra gli occhi e l'orecchie il colse a ponto.Ora ecco l'altro, ancora più diversoE più feroce di quel che io vi conto,Al re se aventa da la banda manca,E l'elmo azaffa e nel scudo lo abranca.
E certamente il tirava de arcione,Se non ne fosse il bon Rugiero accorto,Qual là vi corse e gionselo al gallone,Sì che de l'anche a ponto il fece corto.Brandimarte ancor lui con un leoneFatto ha battaglia, e quasi l'avea morto,Quando se odirno e corni e' gran rumoriDi quella gente, e' cani e' cacciatori.
Ora cantando a ricontar non bastoDi loro e cridi grandi e la tempesta;Tutte le fiere abandonarno il pasto,Squassando e crini ed alciando la testa.Quale avean morto, e qual è mezo guasto;Pur li lasciarno, e verso la foresta,Voltando il capo e mormorando d'ira,A poco a poco ciascadun se tira.
Ma la gente che segue, è troppo molta,E fa stornir del crido e il monte e il piano;Dardi e saette cadeno a gran folta,A benché la più parte ariva invano.De quei leoni or questo or quel se volta,Ma pur tutti alla selva se ne vano;E il re cinger la fa da tutte bande:Allor se incominciò la caccia grande.
La selva tutto intorno è circondata,Che non potrebbe uscire una lirompa;Più dame e cavallieri ha ogni brigata,Che mostrava alla vista una gran pompa.Il re dato avia loco ad ogni strata,Né bisogna che alcun l'ordine rompa;Alani e veltri a copia sono intorno,Né se ode alcuna voce, o suon di corno.
Poi son poste le rete a cotal festaChe spezzar non le può dente né graffa,Indi e sagusi intrarno alla foresta:Altro non si sentia che biffi e baffa.Or se ode un gran fraccasso e gran tempesta,Ché per le rame viene una ziraffa;Turpino il scrive, e poca gente il crede,Che undeci braccia avia dal muso al piede.
Fuor ne venìa la bestia contrafatta,Bassa alle groppe e molto alta davante,E di tal forza andava e tanto ratta,Che al corso fraccassava arbori e piante.Come fu al campo, intorno ha la barattaDe molti cavallieri e de AgramanteE molte dame che erano in sua schiera,Onde fu alfine occisa la gran fiera.
Leoni e pardi uscirno alla pianura,Tigri e pantere io non sapria dir quante;Qual se arresta a le rete e qual non cura.Ma pur fôr quasi morti in uno istante.Or ben fece alle dame alta paura,Uscendo for del bosco, uno elefante:Lo autore il dice, ed io creder nol possoChe trenta palmi era alto e vinti grosso.
Se il ver non scrisse a ponto, ed io lo scuso,Ché se ne stette per relazïone.Ora uscì quella bestia e col gran musoUn forte cavallier trasse de arcione,E più di vinti braccia gettò in suso,Poi giù cadette a gran destruzïone,E morì dissipato in tempo poco;Ben vi so dir che gli altri gli dà n loco.
Via se ne va la bestia smisurata,Né de arestarla alcun par che abbia possa;La schiera ha tutta aperta ove è passata,A benché de più dardi fu percossa,Ma non fu da alcun ponto innaverata;Tanto la pelle avea callosa e grossaE sì nerbosa e forte di natura,Che tiene il colpo come una armatura.
Ma già non tenne al taglio di Tranchera,Né al braccio di Rugiero in questo caso;A piedi ha lui seguita la gran fiera,Ché il destrier spaventato era rimaso.Tanto ha quello animale orribil cieraPer grande orecchia e pel stupendo nasoE per li denti lunghi oltra misura,Che ogni destriero avia di lui paura.
Ma, come vidde solo il giovanetto,Che lo seguiva a piedi per lo piano,Voltando quel mostazzo maledetto,Qual gira e piega a guisa de una mano,Corsegli adosso, per darli di petto;Ma quel furore e lo impeto fu vano,Perché Rugier saltò da canto un passo,Tirando il brando per le zampe al basso.
Dice Turpin che ciascuna era grossa,Come ène un busto d'omo a la centura.Io non ho prova che chiarir vi possa,Perché io non presi alora la misura;Ma ben vi dico che de una percossaQuella gran bestia cadde alla pianura:Come il colpo avisò, gli venne fatto,Ché ambe le zampe via tagliò ad un tratto.
Come la fiera a terra fu caduta,Tutta la gente se gli aduna intorno,E ciascun de ferirla ben se aiuta:Ma il re Agramante già suonava il corno,Perché oramai la sera era venuta,E ver la notte se ne andava il giorno.Or, come il re nel corno fu sentito,Ogniomo intese il gioco esser finito.
Onde tornando tutte le brigateSe radunarno ove il re se ritrova;Tutti avean le sue lancie insanguinate,Per dimostrar ciascun che fatto ha prova.Le fiere occise non furno lasciate,Benché a fatica ciascuna se mova;Pur con ingegno e forza tutti quantiFurno portati a' cacciatori avanti.
Da poi de cani un numero infinitoEra menato in quella cacciasone:Qual da tigre o pantere era ferito,E quale era straziato da leone.Come io vi dissi, il giorno era partito,Che fo diletto di molte persone,Però che ciascadun, come più brama,Chi va con questa, e chi con quella dama.
Qual de la caccia conta meraviglia,E ciascadun fa la sua prova certa;E qual de amor con le dame bisbiglia,Narrando sua ragion bassa e coperta.E così, caminando da sei migliaCon gran diletto, gionsero a Biserta,Ove parea che 'l celo ardesse a foco,Tante lumiere e torze avea quel loco.
E dentro entrarno a gran magnificenzia,Quasi alla guisa de processïone;Omini e donne a tal appariscenziaPer la citade stavano al balcone.Brandimarte al castel prese licenziaPer ritornar di fora al paviglione,E benché il re il volesse retenire,Per compiacerlo al fine il lasciò gire;
E dal nepote il fece accompagnare,E da cinque altri. Lì con grande onoreLa sera istessa il fece appresentareDe più vivande, ciascuna megliore;E una sua veste gli fece arrecare,Con pietre e perle di molto valore:La veste è parte azurra e parte de oro,Come il re porta, senza altro lavoro.
Poi l'altro giorno, come è loro usanza,Una gran festa se ebbe ad ordinare,E venne Fiordelisa in quella danza,Ché Brandimarte e lei fece invitare.Tre son vestiti ad una somiglianza,Ché tal divisa altrui non può portare;Brandimarte, Agramante con RugieroD'azurro e d'or indosso hanno il quartiero.
Standosi in festa ed ecco un tamburinoVien giù del catafalco a gran stramaccio.Per tutto traboccava quel meschino,Ché ogni festuca gli donava impaccio,O che la colpa fosse il troppo vino,O che di sua natura fosse paccio;Ma sopra al tribunal ove è Agramante,Pur se conduce e a lui se pone avante.
Il re credendo de esso aver diletto,Lo recevette con faccia ridente;Ma, come quello è gionto al suo cospetto,Batte la mano e mostrase dolente,E diceva: - Macon sia maledetto,E la Fortuna trista e miscredente,Qual non riguarda cui faccia segnore,Ed obedir conviensi a chi è peggiore!
Costui de Africa tutta è incoronato,La terza parte del mondo possiede,Ed ha cotanto popolo adunatoChe spaventar la terra e il cel si crede.Or ne lo odor de algalia e di moscatoTra belle dame il delicato siede,Né se cura de guerra, o de altro inciampo,Pur che se dica che sua gente è in campo.
Non si dièno le imprese avere a ciancia:Seguir conviensi, o non le cominciare,E fornir con la borsa e con la lancia,Ma l'una e l'altra prima mesurare.Così faccia Macon che il re de FranciaTe venga a ritrovar di qua dal mare,Ché alor comprenderai poi se la guerraFia meglio in casa, o ver ne l'altrui terra. -
Parlando il tamburin, fo presto presoDa la guarda del re che intorno stava,Né fu però battuto, né ripreso,Perché ebriaco ogniomo il iudicava.Ma il re Agramante che lo ha ben inteso,Gli occhi dolenti alla terra bassava;Mormorando tra sé movia la testa,E poi crucioso uscì fuor de la festa.
Onde la corte fo tutta turbata:Langue ogni membro quando il capo dole;La real sala in tutto è abandonata,Né più se danza, come far se suole.Il re la zambra avea dentro serrata:Alcun compagno seco non vi vôle;Pensando il grande oltraggio che gli è detto,Se consumava de ira e de dispetto.
Poi, come l'altro giorno fo apparito,Fece il consiglio ed adunò suo stato,Dicendo come ha fermo e stabilitoDi fornire il passaggio che è ordinato;E poi fa noto a tutti a qual partitoE da cui serà il regno governato,Perché il vecchio Branzardo di BugeaVôl che a Biserta in suo loco si stea,
A lui dicendo: - Attendi alla iustizia,E ben ti guarda da procuratoriE iudici e notai, ché han gran tristiziaE pongono la gente in molti errori.Stimato assai è quel che ha più malizia,E gli avocati sono anco peggiori,Ché voltano le legge a lor parere;Da lor ti guarda, e farai tuo dovere.
Il re di Fersa, Folvo, anche rimane,E Bucifar, il re de la Algazera;L'uno al diserto alle terre lontane,E l'altro guarda verso la rivera.Se forse qualche gente cristïaneCon caravella, o con fusta ligiera,Over gli Arà bi te donino affanno,Sia chi soccorra e chi proveda al danno. -
Dapoi gli fece consegnar Dudone,Che era condotto de Cristianitate,Dicendo a lui che lo tenga pregione,Sì che tornar non possa in sue contrate;Ma poi nel resto il tratti da barone,Né altro gli manchi che la libertate.Da poscia a Folvo e a Bucifar comandaChe a Branzardo obedisca in ogni banda.
E perché ciò non sia tenuto vano,Per la citate il fece publicare,Ed a lui la bacchetta pose in mano,La quale è d'oro, e suole esso portare.Or se aduna lo esercito inumano:Chi potrebbe il tumulto racontareDe la gente sì strana e sì diversa,Che par che 'l celo e il mondo se sumersa?
Quando sentirno il passaggio ordinare,Chi ne ha diletto, e chi n'avea spavento.La gran canaglia se adunava al mare,Per aspettar sopra le nave il vento.Chi vôle odir l'istoria seguitare,Ne l'altro canto lo farò contento,E se gran cose ho contato giamai,Seguendo le dirò maggiore assai.
Canto ventesimonono
La più stupenda guerra e la maggioreChe racontasse mai prosa né verso,Vengo a contarvi, con tanto terroreChe quasi al cominciare io me son perso;Né sotto re, né sotto imperatoreFu mai raccolto esercito diverso,O nel moderno tempo, o ne lo antico,Che aguagliar si potesse a quel che io dico.
Né quando prima il barbaro Anniballe,Rotto avendo ad Ibero il gran diveto,Con tutta Spagna ed Africa alle spalleSpezzò col foco l'Alpe e con lo aceto;Né il gran re persïano in quella valleOve Leonida fe' l'aspro decreto,Con le gente di Scizia e de EtïopiaEbbe de armati in campo maggior copia,
Come Agramante, che sua gente anombraSolo a la vista, senza ordine alcuno.De le sue velle è tanto spessa l'ombra,Che il mar di sotto a loro è scuro e bruno;E sì l'un l'altro il gran naviglio ingombra,Che fu mestier partirse ad uno ad uno,Avendo il vento in poppa alla seconda.Avanti a gli altri è Argosto di Marmonda:
Ne la sua nave è la real bandiera,Che tutta è verde e dentro ha una Sirena.Il re Gualciotto apresso di questo era,Quale era ardito, e bella gente mena,Ed era la sua insegna tutta nera,Di bianche columbine al campo piena;E Mirabaldo viene apresso a loro,Che porta il monton nero a corne d'oro:
Il campo ove è il montone, è tutto bianco.E da questi altri venìa longi un pocoSobrin, che è re di Garbo, il vecchio franco,Il qual portava in campo bruno il foco;E dietro mezo miglio, o poco manco,Il re de Arzila seguitava il gioco:Il nome di costui fu Brandirago,Che avea nel campo rosso un verde drago.
Dapoi Brunello, il re de Tingitana,Avea la insegna di novo ritratta,Più vaga assai de l'altre e più soprana,Perché lui stesso a suo modo l'ha fatta;Come oggi al mondo fa la gente vana,Stimando generosa far sua schiattaE le casate sue nobile e degneCon far de zigli e de leoni insegne.
Così Brunel, la cui fama era poca,Come intendesti, ché era re di novo,Nel campo rosso avea depinta una oca,Che avea la coda e l'ale sopra a l'ovo.De ciò parlando lui con gli altri, gioca- Ben - dicendo - fo antico, e ciò ti provo:Ché lo evangelio, che è dritto iudicio,Afferma che la oca era nel principio. -
Il re Grifaldo apresso a lui ne viene,Che porta una donzella scapigliata,E quella un drago per l'orecchie tiene:Cotal divisa avea tutta la armata,Benché sua insegna a questa non conviene,Ché solo è nera e di bianco fasciata.Il re di Garamanta era vicino,Giovane ardito, e nome ha Martasino.
Costui portava nel campo vermiglioLe branche e il collo e il capo de un griffone;E dietro alla sua nave forse un miglioVeniva il re di Septa, Dorilone,Qual porta al campo azurro un bianco ziglio;Poi Soridano, che porta il leone.Il leon bianco in campo verde avia:Costui ch'io dico, è re de la Esperia.
E re di Constantina, Pinadoro,Venne, che al rosso la acquila portava,Ch'è gialla, con due teste, in quel lavoro;E poco apresso Alzirdo il seguitava,Che ha la rosa vermiglia in campo d'oro;E Pulïano alla bandiera blavaSegnata avea de argento una corona;Franco è costui, che è re de Nasamona.
Né 'l re de la Amonìa ponto vi manca,Benché sua gente è tutta pedochiosa,Dico Arigalte da la insegna bianca,Né dentro vi ha dipenta alcuna cosa.Poi Manilardo, che porta la brancaQual tutta è d'oro a l'arma sanguinosa:La branca di cui parlo, è di leone.La armata apresso vien di Prusïone.
De la Norizia è re quel Manilardo,Questo altro de Alvarachie, ch'io vi conto.Saper volete qual sia più gagliardo?Né l'un né l'altro, a dirvelo ad un ponto.Re di Canara, il qual venne ben tardo,Ma pure apresso di questi altri è gionto,Portava, se Turpin me dice il vero,Nel campo verde un corvo tutto nero.
Era costui nomato Bardarico,Che in occidente ha sua terra lontana.Poi venne Balifronte, il vecchio antico,E Dudrinasso, il re de Libicana;Fo re di Mulga quel vecchio ch'io dico,E porta in campo azurro una fontana;E Dudrinasso alla bandiera e al scudoPorta nel rosso un fanciulletto nudo.
E Dardinello, il giovanetto franco,Ha le sue nave a queste altre congionte.Il quartiero ha costui vermiglio e bianco,Come suolea portare il padre Almonte;E pur cotale insegna, più né manco,Portava indosso ancora Orlando il conte.Ma ad un di lor portarla costò cara;Questo garzone è re de la Zumara.
Presso vi viene il forte Cardorano,Il re di Cosca; e porta per insegnaUn drago verde, il quale ha il capo umano.Da poi Tardoco, che in Alzerbe regna,E seco Marbalusto, il re de Orano;Quello avia al scudo una serpe malegna,Che intorno avolto ha il busto tutto quanto,Per non odire il verso de lo incanto.
E Marbalusto un capo de reginaPortava, intorno a quello una ghirlanda.Poi Farurante, che è re di Maurina,Che al scudo verde ha una vermiglia banda.Alzirdo ha la sua armata a lui vicina(In campo azurro avea d'oro una gianda);E de Almasilla il re Tanfirïone,Qual porta in bianco un capo di leone.
Or già vien de la corte il concistoro,Che a quella impresa è tutta gente eletta;Mordante avea il governo di costoro.La prima armata vien di Tolometta,Con due lune vermiglie in campo d'oro,Che portava Mordante e la sua setta;Costui fo grande e di persona fiero,Filiol bastardo fo di Carogiero.
Da Tripoli seguia la gente franca:Non fo di questa la più bella armata,Né più fiorita; e, se nulla vi manca,Da Rugier paladino era guidata.Lui ne lo azurro avea l'acquila bianca,Qual sempre da' suoi antiqui fu portata.Da poi venìa la armata de Biserta,Ove Agramante ha la sua insegna aperta.
Di Tunici ivi apresso era il naviglio,E quel governa il vecchio Daniforte,Omo saputo e di molto consiglio,Gran siniscalco de la real corte.Portava in campo verde un rosso ziglioCostui, che viene in Franza a tuor la morte;E poscia da Bernica e da la RassaL'una armata con l'altra insieme passa.
Di queste avea il governo Barigano,Quale ha nutrito il re da piccolino,E porta per insegna quel paganoIn campo rosso un candido mastino.Dietro da tutti il gran re di Fizano,Mulabuferso, ha preso il suo camino;Lui porta divisato nel stendardo,Come nel scudo, in campo azurro un pardo.
In cotal modo, come io vi discerno,La grande armata in Spagna se disserra;Il re Agramante ha de tutti il governo:Non fu tal furia mai sopra la terra.Come se aprisse il colmo de lo inferno,Se far volesse al paradiso guerra,E la sua gente uscisse tutta integra,Qual con pallida faccia e qual con negra:
Morti e demonii, dico, tutti quanti,Del fuoco uscendo e d'ogni sepultura,Sarebbono a questi altri simiglianti,Per contrafatte membra e faccia oscura.Il stil diverso e i navigli son tanti,Che cento miglia e più la folta dura,Qual nel litto di Spagna se abandona,E da Maliga tiene a Taracona.
Il re Agramante lui sotto TortosaDiscese, ove il fiume Ebro ha foce in mare;Là se adunò la gente copïosa,E verso Franza prese a caminareA gran giornate, senza alcuna posa.Già la Guascogna sotto a loro appare,Callando l'Alpe, e giù scendono al piano,Sin che fôr gionti sopra a Montealbano.
Di sotto a quel castello, alla campagna,Era battaglia più cruda che mai,Però che il re di Franza e il re di Spagna,Come di sopra già vi racontai,Con lor persone e con sua corte magna,E gente de' suoi regni pure assai,Sono azuffati, e sopra di quel dossoCorre per tutto il sangue un palmo grosso.
Là se vedea Ranaldo e Feraguto,L'un più che l'altro alla battaglia fiero;E il re Grandonio orribile e membrutoAvea afrontato il marchese Oliviero;Ad alcun de essi non bisogna aiuto.E Serpentino e il bon danese OgieroSe facean guerra sopra di quel piano;E il re Marsilio contra a Carlo Mano.
Ma Rodamonte il crudo e BradamanteAvean tra lor la zuffa più diversa;Ché, come io dissi, il bon conte de AnglanteAvea de un colpo la memoria persa,Quando il percosse il perfido africante,Che tramortito a dietro lo riversa.Tutta la cosa vi narrai a ponto,Però trapasso e più non la riconto.
Se non che, essendo quella dama altieraOra affrontata al saracino ardito,E durando la zuffa orrenda e fiera,Il conte Orlando se fu risentito;E ben serìa tornato volentieraA vendicarse, come aveti odito:Essendo dal pagan sì forte offeso,Gli avria pan cotto per tal pasto reso.
Ma pur, temendo a farli villania,Poi che era de altra mischia intravagliato,Sua Durindana al fodro rimettia,E, lor mirando, stavasi da lato.Quel loco ove era la battaglia ria,Posto è tra duo colletti in un bel prato,Lontano a l'altra gente per bon spaccio,Sì che persona non gli dava impaccio.
Tre ore, o poco più, stettero a fronteLa dama ardita e quel forte pagano;E stando quivi a rimirare il conte,Alciando gli occhi vidde di lontanoQuella gran gente che callava il monte,E le bandiere poi di mano in mano,Con tal romor che par che 'l cel ruine,Tanta è la folta; e non se vede il fine.
Diceva Orlando: - O re del celo eterno,Dove è questo mal tempo ora nasciuto?Ché il re Marsilio e tutto suo governoDi tanta gente non avrebbe aiuto.Credo io che sono usciti dello inferno,Benché serà ciascuno il mal venutoE il mal trovato, sia chi esser si vôle,Se Durindana taglia come suole. -
Così parlava con molta arroganza;Verso quel monte ratto se distende.Sopra del prato integra era una lanza:Chinosse il conte e quella in terra prende,Ché cotal cosa avea spesso in usanza.Non so se lo atto a ponto ben s'intende;Dico, stando in arcione, essendo armato,Quella grossa asta su tolse del prato.
Con essa in su la coscia passa avanteSopra de Brigliador, che sembra occello.Ma ritornamo a dir del re Agramante,Che, veggendo nel piano il gran zambello,Forte allegrosse di cotal sembiante,E fie' chiamarsi avante un damigello,Qual fu di Constantina incoronato,E Pinadoro il re fu nominato.
A lui comanda che vada solettoTra quelle gente e, senza altra paura,Là dove il grande assalto era più strettoE la battaglia più crudiele e dura,Piglia qualche barone al suo dispetto,Vivo lo porti a lui con bona cura;O quattro o sei ne prenda ad un sol tratto,Accioché meglio intenda tutto il fatto.
Re Pinadoro parte cavalcando,E prestamente scese la gran costa;Da poi, per la campagna caminando,Non pone a speronare alcuna sosta,Ma poco cavalcò che trovò Orlando,Come venisse per scontrarlo a posta,E disfidandol con molta tempestaSe urtarno adosso con le lancie a resta.
Quivi de intorno non era persona,Benché fosse la zuffa assai vicina;L'un verso l'altro a più poter speronaA tutta briglia, con molta ruina.Ciascadun scudo al gran colpo risuona,Ma cade a terra il re di Constantina;Sua lancia andò volando in più tronconi,E lui di netto uscì fuor de l'arcioni.
Orlando lo pigliò senza contese,Poi che caduto fu de lo afferante,Però che lui non fece altre diffese,Né puote farle contra al sir de Anglante;E seco ragionando il conte inteseCome quel ch'è nel monte è il re Agramante,Che per re Carlo e Francia disertareCon tanta gente avia passato 'l mare.
De ciò fu lieto il franco cavalliero:Guardando verso il cel col viso baldoDiceva: "O summo Dio, dove è mestiero,Pur mandi aiuto e soccorso di saldo!Ché, se non vien fallito il mio pensiero,Serà sconfitto Carlo con Ranaldo,Ed ogni paladin serà abattuto,Onde io serò richiesto a darli aiuto.
Così lo amor di quella che amo tantoSerà per mia prodezza racquistato,E per la sua beltate oggi mi vantoChe, se de incontro a me fosse adunatoCon l'arme indosso il mondo tutto quanto,In questo giorno averòl disertato."Ciò ragionava il conte in la sua mente,E Pinadoro odìa de ciò nïente.
Ma il conte, vòlto a lui, disse: - Barone,Ritorna prestamente al tuo segnore,Se ti ha mandato per questa cagioneChe tu rapporti a lui tutto il tenore.Dirai che il re Marsilio e il re CarloneFan per battaglia insieme quel furore,E s'egli ha core ed animo reale,Venga alla zuffa e mostri ciò che vale. -
Re Pinador lo ringraziava assai,Come colui che molto fo cortese;E torna adietro e non se arresta mai,Sin che il destriero avanti il re discese,Dicendo: - Alto segnore, io me ne andaiOve volesti, e dicoti paleseChe la battaglia ch'è sopra a quel piano,È tra Marsilio e il franco Carlo Mano.
Né so circa a tal fatto il tuo pensiero,Ma giù non callerai per mio consiglio,Perché io trovai nel piano un cavallieroDe la cui forza ancor mi meraviglio,Che il scudo e sopraveste de quartieroHa divisato bianco e di vermiglio;E se ciascun de gli altri serà tale,Il fatto nostro andrà peggio che male. -
E disse sorridendo il re Sobrino,Che a questo ragionare era presente:- Quel dal quartiero è Orlando paladino:Or scemarà il superchio a nostra gente;Ben lo cognosco insin da piccolino.Così Macon lo faccia ricredente,Come di spada e lancia ad ogni provaIl più fiero omo al mondo non se trova.
Or saperà se io ragionava invanoDentro a Biserta, allor che io fui schernito,Perché io lodai da possa Carlo ManoE lo esercito suo tanto fiorito.Traggasi avanti Alzirdo e PulïanoE Martasino, il quale è tanto ardito,Ché Rodamonte, alor cotanto acceso,Per la mia stima adesso è morto o preso.
Tragansi avanti questi giovanetti,Che mostravano aver tanta baldanza,E sono usati a giostra, per diletti,Andar forbiti e ben portar sua lanza.Ed acciò che altri forse non suspettiCh'io dica tal parole per temanza,Gir vo' con essi, e l'anima vi lasso,Se alcun di lor mi varca avanti un passo. -
Re Martasino a questo ragionareDe ira e de orgoglio tutto se commosse,E disse: - Certamente io vo' provare,Se questo Orlando è un om di carne e de osse,Poi che Sobrin non lo osa ad affrontare,Che sin da piccoletto lo cognosse.Chi vôl callar, se calla alla pianura:Nel monte aresti chi de onor non cura. -
Così parlava il franco Martasino:Non avea il mondo un altro più orgoglioso.Grossetto fu costui, ma piccolinoDe la persona, e destro e ponderoso,Rosso de faccia e di naso acquilino,Oltra a misura altiero e furïoso;Onde, cridando e crollando la testa,Giù de la costa sprona a gran tempesta.
Re Marbalusto il segue e Farurante;Alzirdo e Mirabaldo viene apresso,E Bambirago e il re Grifaldo avante.Né il re Sobrin, de cui parlava adesso,Mostra aver tema del segnor de Anglante,Ma più de gli altri tocca il destrier spesso,E con tanto furore andar se lassa,Che a Martasino avanti e a gli altri passa.
Né valse de Agramante il richiamare,Ché ciascaduno a più furia ne viene;Di esser là giù mille anni a tutti pare,Come livreri usciti di catene.Quando Agramante vede ogniomo andare,Movese anch'esso, e già non se ritiene,Né pone ordine alcuno alla battaglia,Ma fa seguire in frotta la canaglia.
Lui più de gli altri furïoso e fiero,Sopra de Sisifalto avanti passa,E seco a lato a lato il bon Rugiero,Ed Atalante, che giamai non lassa.Contar l'alto romor non fa mestiero;Ciascun direbbe: "Il mondo se fraccassa."Trema la terra e il cel tutto risuona,Cotanta gente al crido se abandona.
Suonando trombe e gran tamburi e corniLa diversa canaglia scende al piano.Pochi di lor ne avea di ferro adorni,Chi porta mazze e chi bastoni in mano.Non se numerariano in cento giorni,Sì sterminatamente se ne vano.Ma tutti eran di lor con l'arme indossoAvanti van correndo a più non posso.
In questo tempo il re MarsilïoneGionto era quasi al ponto di morire,Né più se sosteniva ne lo arcione,Ma già da banda se lasciava gire,Però che adosso ha il franco re Carlone,Che ad ambe man non resta di ferire,E, come io dico, lo travaglia forte,Che quasi l'ha condutto in su la morte.
Ma, alciando gli occhi, vidde il re Agramante,Qual giù callando al piano era vicino,Con tante insegne e con bandiere avante,Che empìano intorno per ogni confino.Quando vidde callar gente cotante,Fasse la croce il figlio di Pepino;Per meraviglia è quasi sbigotito,Veggendo il gran trapel di novo uscito.
Il re Marsilio abandonò di saldo,Per porre altrove l'ordine ed aiuto.Poco lontano ad esso era Ranaldo,Che male avea condotto Feraguto.Benché ancor fosse alla battaglia caldo,Il brando pur di man gli era caduto;Or con la mazza ben gran colpi mena,Ma de la morte se diffende appena.
Ranaldo l'avria morto in veritate,Come io vi dico, e sempre il soperchiava,Perché poco estimava sue mazzate,E de Fusberta a lui spesso toccava.Tra le percosse orrende e sterminateOdì re Carlo, che a voce chiamava:Sì forte lo chiamò lo imperatore,Che pur intese intra tanto romore.
- Figlio, - cridava il re - figlio mio caro,Oggi d'esser gagliardo ce bisogna;Se tosto non se prende un bon riparo,Noi siam condotti alla ultima vergogna.Se mai fu giorno doloroso e amaroPer Montealbano e per tutta Guascogna,Se la Cristianità debbe perire,Oggi è quel giorno, o mai non de' venire. -
A questo crido de lo imperatoreIl franco fio de Amon fu rivoltato,A benché combattesse a gran furoreCon Feraguto, come io vi ho contato,Il qual de la battaglia avia il peggiore;E poco gli giovava esser fatato:Tanto l'avea Ranaldo urtato e pisto,Che un sì malconzo più non fu mai visto.
E sì fu per affanno indebilito,Ed avea l'armi sì fiaccate intorno,Che intrare a nova zuffa non fu ardito,Ma prese posa insino a l'altro giorno.Ranaldo al campo lo lasciò stordito,Tornando a Carlo, il cavalliero adorno,Che ordinava le schiere a fronte a fronteVerso Agramante, che discende il monte.
De le schiere ordinate la primieraDette il re Carlo a lui, come fu gionto,Dicendo: - Va via ratto alla costiera,Ove e nemici giù callano a ponto.Fa che seco te azuffi a ogni manieraNel piè del monte, sì come io ti conto;Apizza la battaglia al stretto loco,Ove è quel re che ha in campo nero il foco.
Ora certanamente me divinoChe il re Agramante avrà passato il mare,Ché quel da tale insegna è re Sobrino:Ben lo cognosco e so ciò che può fare.Di certo egli è gagliardo saracino.Or via, filiolo, e non te indugïare! -Poi la seconda schiera Carlo donaAl duca de Arli e al duca di Baiona.
Entrambi son del sangue di Mongrana:Sigieri il primo, e l'altro ha nome Uberto.Poscia il re Otone e sua gente sopranaL'altra schiera ebbe sopra al campo aperto.La quarta, ch'era a questa prossimana,Governa il re di Frisa, Daniberto;La quinta poi il re Carlo arriccomandaA Manibruno, il quale era de Irlanda.
El re di Scozia giù mena la sesta;La settima governa Carlo Mano.Or se incomincia il crido e la tempesta.Gionto alla zuffa è il sir de Montealbano,Sopra Baiardo, con la lancia a resta:Tristo qualunche iscontra sopra il piano!Qual mezo morto de lo arcion trabocca,Qual come rana per le spalle insprocca.
Rotta la lancia, fuor trasse Fusberta:Ben vi so dir che spaccia quel cammino.- Or chi è costui che mia gente diserta, -Diceva, a lui guardando, il re Sobrino- Ed ha il leon sbarato alla coperta?Io non cognosco questo paladino.Nel gran paese dove Carlo regna,Mai non viddi colui, né questa insegna.
Ma debbe esser Ranaldo veramente,Di cui nel mondo se ragiona tanto.Or provarò se egli è così valente,Come de lui se dice in ogni canto. -Nel dir sperona il suo destrier correnteQuel re che di prodezza ha sì gran vanto;La lancia rotta avia prima nel piano,Ma ver Ranaldo vien col brando in mano.
Ranaldo il vidde e, stimandol assaiPer le belle arme e per la appariscenza,Fra sé diceva: "Odito ho sempre maiChe il bon vantaggio è di quel che incomenza;Al mio poter tu non cominciarai,Ché chi coglie de prima, non va senza."Così dicendo sopra de la testaAd ambe man lo tocca a gran tempesta.
Ma l'elmo che avea in capo era sì finoChe ponto non fu rotto né diviso,E nïente se mosse il re Sobrino,Benché non parve a lui colpo da riso.Ma già son gionto a l'ultimo confinoDel canto consueto; onde io me avisoChe alquanto riposar vi fia diletto:Poi serà il fatto a l'altro canto detto.
Canto trentesimo
Baroni e dame, che ascoltati intornoQuella prodezza tanto nominata,Che fa de fama il cavallier adornoAlla presente etade e alla passata,Io vengo a ricontarvi in questo giornoLa più fiera battaglia e sterminata,E la più orrenda e più pericolosaChe racontasse mai verso né prosa.
Se vi amentati bene, aveti oditoOve sia questa guerra e tra qual gente,E come il re Sobrin fosse feritoDal pro' Ranaldo in su l'elmo lucente;Ma tanto era feroce il vecchio ardito,Che mostrava di ciò curar nïente;E vòlto contra il sir de MontealbanoSopra la fronte il colse ad ambe mano.
Ranaldo a lui rispose con ruina,E tra lor duo se cominciò gran zuffa;Ma l'una schiera e l'altra se avicina,E tutti se meschiarno alla baruffa.Benché sia più la gente saracina,Ciascun cristian dua tanta ne ribuffa:Grande è il romor, orribile e feroceDi trombe, di tamburi e de alte voce.
Di qua di là le lancie e le bandiereL'una ver l'altra a furia se ne vano,E quando insieme se incontrâr le schiereTesta per testa a mezo di quel piano,Mal va per quei che sono alle frontiere,Perché alcun scontro non ariva in vano;Qual con la lancia usbergo e scudo passa,Qual col destriero a terra se fraccassa.
E tuttavia Ranaldo e il re SobrinoL'un sopra a l'altro gran colpi rimena,Benché ha disavantaggio il saracino,E dalla morte se diffende apena.Ecco gionto alla zuffa Martasino,Quello orgoglioso che ha cotanta lena;E Bambirago è seco, e Farurante,E Marbalusto, il quale era gigante.
Alzirdo e il re Grifaldo viene apresso,Argosto di Marmonda e Pulïano;Tardoco e Mirabaldo era con esso,Barolango, Arugalte e Cardorano,Gualciotto, che ogni male avria commesso,E Dudrinasso, il perfido pagano.De quindeci ch'io conto, vi prometto,Stasera non andrà ben cinque a letto.
Se non vien men Fusberta e Durindana,Non vi andranno, se non vi son portati,Ma restaranno in su la terra piana,Morti e destrutti e per pezzi tagliati.Ora torniamo alla gente africanaE a questi re, che al campo sono entratiCon tal romore e crido sì diverso,Che par che il celo e il mondo sia sumerso.
La prima schiera, qual menò Ranaldo,Che avea settanta miglia di Guasconi,Fu consumata da costor di saldo,E cavallier sconfitti con pedoni.Così come le mosche al tempo caldo,O ne l'antiqua quercia e formigoni,Tal era a remirar quella canagliaSenza numero alcuno alla battaglia.
Ma de quei re ciascun somiglia un dragoAdosso a' nostri; ogniom taglia e percote,E sopra a tutti Martasino è vagoDe abatter gente e far le selle vote;E così Marbalusto e BambiragoAl campo di costui seguon le note,E gli altri tutti ancor senza pietatePongono i nostri al taglio de le spate.
Il crido è grande, i pianti e la ruinaDi nostra gente morta con fraccasso,Crescendo ognior la folta saracina,Che giù del monte vien correndo al basso.Re Farurante mai non se raffina;Grifaldo, Alzirdo, Argosto e Dudrinasso,Tardoco, Bardarico e PulïanoSenza rispetto tagliano a due mano.
Ranaldo, combattendo tutta fiataContra a Sobrino, il quale avea il peggiore,Veduta ebbe sua gente sbaratata,Onde ne prese gran disdegno al core,E lascia la battaglia cominciata,Battendo e denti de ira e de furore.Stati per Dio, segnori, attenti un poco,Ché or da dovere si comincia il gioco.
Battendo e denti se ne va Ranaldo,Gli omini e l'arme taglia d'ogni banda;Ove è il zambello più fervente e caldoUrta Baiardo e a Dio si racomanda.Il primo che trovò fu Mirabaldo,In duo cavezzi fuor d'arcione il manda;Tanto fu il colpo grande oltra misura,Che per traverso il fesse alla centura.
Questo veggendo Argosto di MarmondaDivenne in faccia freddo come un gelo,Mirando quel per forza sì profondaTagliar quest'altri come fosse un pelo.Ranaldo ce gli mena alla seconda,Facendo squarzi andare insino al celo;Cimieri e sopraveste e gran pennoniVolan per l'aria a guisa de falconi.
Di teste fesse e di busti tagliati,Di gambe e braccie è la terra coperta,E' Saracini in rotta rivoltatiFuggendo e ansando con la bocca aperta;Né puon cridar, tanto erano affrezzati.Sempre Ranaldo tocca di Fusberta,Facendo di costor pezzi da cane:Tristo colui che là oltra rimane!