—Andremo, è vero, Maria?—disse Elisa, appena fu uscita la signoraGuerini.
—Non so,—rispose Maria,—devo pensarci, perchè se mi fa piacere essere in buona relazione coi nostri vicini, non ho mai pensato di entrare nella loro intimità; c'è fra noi troppa distanza; essi sono ricchi, e ci potrebbero trascinare a delle spese che per noi sarebbero una rovina, e forse ci renderebbero malcontenti della nostra vita modesta, che ora ci piace tanto.
—Andiamo, andiamo, ho tanta voglia di vedere la villa; dicono che è così bella,—disse Elisa.
—E a me Alberto mi ha promesso di farmi andare in velocipede,—soggiunse Carlo.
—Voi, proprio non lo meritereste; se mi risolverò a condurvi sarà per compensare Vittorio d'essere stato coraggioso.
—Andiamo,—supplicava Mario,—così potrò fare qualche caricatura!
Maria non seppe resistere a quelle preghiere e promise di accompagnarli.
Allora Elisa incominciò a pensare ad aggiustare il suo vestito, quello che metteva i giorni di festa, ed era tutto sciupato; voleva andare in paese a comperare dei nastri per adornarlo, ma Maria si oppose. Non voleva spendere un centesimo per quella festa, e tanto meno per fronzoli inutili; bisognava contentarsi di andar vestiti semplicemente e non mettersi in capo di essere ammirati: soltanto voleva dare un'occhiata ai vestiti chiari per vedere che non ci fossero macchie o strappi, e durante il giorno ebbe un bel da fare a ripulirli e stirarli, e dar loro qualche punto. Angiolina le era di grande aiuto e pensava alle sue amiche senza pensare a sè stessa.
Essa diceva che avrebbe fatta una figura meschina col suo vestito di lanetta bigia ed anzi si era proposta di stare a casa; ma quando capì che Maria non gliel'avrebbe permesso, si rassegnò, dicendo che si sarebbe nascosta in un canto perchè nessuno badasse a lei.
Per tutta la giornata quei ragazzi non fecero che parlare della festa; erano allegri, felici, gridavano e saltavano come pazzi.
Maria stava sopra pensiero; dopo la fiera, la festa in casa Guerini: erano troppi divertimenti, troppe distrazioni, e chi ne andava di mezzo era lo studio, e temeva che Carlo non potesse passare gli esami; ma egli la rassicurava. Avrebbe studiato con più lena dopo essersi divertito.
Il giorno dopo all'ora stabilita s'avviarono verso villa Guerini.
Maria era vestita semplicemente di lana, con un cappellino di paglia che le copriva la fronte; le sorelle avevano aggiustato e ripulito i loro vestiti chiari e in mezzo alla campagna facevano una bella figura.
Quando giunsero davanti al gran cancello della villa, si fermarono un po' timide, non avevano coraggio d'andare avanti.
Anche Maria, che non era avvezza a frequentare la società, si sentiva confusa e impacciata, ma si fece coraggio ed entrò seguita dalla sua compagnia. Attraversarono un viale ombreggiato ed un giardino tutto formato da gruppi di conifere, di piante esotiche e di macchie fiorite.
—Come è bello!—dicevano i ragazzi in ammirazione;—pare un giardino incantato.
E pareva incantato davvero: ad ogni tratto s'apriva un viale, poi si trovavano quasi rinchiusi in un boschetto misterioso, poi veniva un po' di rado dove entrava esultante un raggio di sole, e alberi, e fiori, e sedili coperti di musco; ma per un bel tratto non trovarono anima viva; ad un certo punto soltanto incontrarono due cani danesi, che fecero subito amicizia con Mario e Giannina, e finalmente dopo aver passato un viale più largo si trovarono davanti alla bellissima villa tutta circondata di piante fiorite e illuminate dal sole, rallegrata da immensi zampilli d'acqua, che a quella luce parevano spruzzi di diamanti, e davanti videro un bel prato verde dove era preparata una quantità di giochi, e si trovavano aggruppate varie persone, belle signore eleganti, e vispi bambini che correvano e si trastullavano, ridendo e riempiendo quel giardino di vita e d'allegria.
I signori Guerini fecero molte feste ai Morandi, e la signora presentò al marito, Vittorio che aveva salvato Alberto, Angiolina quella brava figliuola ch'era stata tanto utile alla sua mamma, e Maria che amava già come una vecchia amica, della quale don Vincenzo e il professore Damiati avevano sempre parlato con molta stima. Il signor Guerini era un uomo cortese, ma d'aspetto severo, e a quei fanciulli dava soggezione tanto che gli stavano innanzi cogli occhi bassi senza parlare.
Egli, per fargli animo, disse loro di raggiungere il crocchio dove si trovavano Alberto ed Elvira cogli altri invitati, e mentre si disperdevano correndo sul prato, rimase a chiacchierare con Maria. Parlarono dei bimbi e del modo di educarli: egli si mostrava impensierito, perchè ai suoi figli piacevano troppo i divertimenti e poco lo studio, e mostrò il desiderio che frequentassero casa Morandi, dove sapeva che i ragazzi erano studiosi e passavano le giornate occupandosi.
Maria parlò dei suoi fratelli, poi ammirò il giardino, la villa, e si mostrò riconoscente d'esser stata invitata ad una festa così bella, come non ne avea mai veduto l'uguale.
Infatti la festa riusciva bellissima, arrivavano da lontano degli equipaggi che conducevano signore eleganti, e bimbi belli, e ben vestiti.
Sul prato verde e pieno di gente, gli attrezzi della ginnastica e l'altalena erano presi d'assalto; poi si giocava alla palla, al volano, ai cerchi; in mezzo ad un boschetto ombroso c'era un casotto di burattini, che al momento in cui s'incominciò la rappresentazione raccolse intorno a sè tutta quella schiera di bimbi.
Carlo fece una corsa in giardino sul velocipede di Alberto, Vittorio si fece prestare una macchinetta fotografica e volle tentare di cogliere qualche gruppo. Furono serviti dei rinfreschi, dei pasticcini, che formarono la delizia di tutti quei bimbi, e il divertimento terminò con un ballo campestre in mezzo al prato.
Fu una festa completa, che lasciò una durevole memoria nei ragazzi Morandi, i quali non avevano mai assistito ad un simile spettacolo, tanto che appena ritornati a casa, Angiolina scrisse subito alla sua mamma la lettera seguente:
Cara mamma,
_Te la puoi imaginare la tua figliuola ad una splendida festa in una villa grandiosa, di quelle che si trovano descritte nei libri delle fate?
Eppure, la tua figlia c'è proprio andata, in carne ed ossa, colla sua vesticciuola di lana bigia e il suo cappellino di paglia semplice e modesto.
Ma se avessi veduto che allegria! che splendidezza! Fu una vera fantasmagoria! ne ho ancora la testa tutta confusa!
Figurati un bel giardino grande, anzi immenso, con tanti viali, tanti boschetti e tanti fiori; pensa che allontanandosi dalla casa c'era da perdersi come in un labirinto.
Fortunatamente che non c'era bisogno d'allontanarsi tanto, perchètutti i divertimenti erano vicini, raccolti intorno alla villa; unvero incanto.
Della villa non potrei fartene la descrizione, perchè non vi entrai che un momento solo, ed ho preferito stare in giardino dove c'erano tanti giochi e tante bambine.
Non mi ricordo nemmeno tutto quello che ho fatto; so che ho giocato, ho ballato come una disperata, ho assistito ad una rappresentazione di burattini; figurati che Arlecchino voleva far da maestro agli altri, e intanto diceva una quantità di spropositi, che ci facevano smascellar dalle risa.
Ho mangiato una quantità di pasticcini deliziosi, e mi sono tanto divertita, che credo in paradiso non ci si possa divertire di più.
C'era una lotteria, con regali per tutti, ed io ne ho avuto uno bellissimo, un astuccio con l'occorrente per scrivere; poi Alberto Guerini, il quale ha una macchina fotografica, fece la fotografia di tutti i presenti, a frotte, a gruppi, e mi promise una copia del gruppo, dove c'entro anch'io, per memoria di una giornata così bella.
Ritornando a casa, non si fece che parlare della festa. Elisa era fuori di sè, e invidiava Elvira destinata ad una vita così ricca ed elegante. Carlo avrebbe avuto una gran voglia del velocipede di Alberto, e Vittorio diceva di volersi fabbricare una macchinetta fotografica; il professore gli avea spiegato tanto bene come era fatta, che sperava di riuscirvi.
Anche Mario e Giannina erano allegri, e pensavano di andar spesso in casa Guerini; ma Maria non sembra pensarla così, osservando che la vita non è una continua festa, che bisogna studiare e lavorare, e che per quest'anno non avrebbe accettato un altro simile invito.
Poi voleva persuadere Elisa che i signori Guerini, con tutte le loro ricchezze, dovevano aver molte brighe; intanto tutto il da fare che si erano presi per divertire quella gente, poi quell'essere sempre in giro, od aver sempre degli ospiti, doveva esser una vita faticosa, che non lasciava tempo all'intimità ed al raccoglimento.
A me pare che abbia tutte le ragioni, e che facendo una vita a quel modo, non ci sia nemmeno tempo di volersi bene, e di scambiare le proprie idee colle persone care.
Ti confesso però che mi sono divertita molto, appunto perchè non avevo mai assistito ad una festa simile; ma se ciò si ripetesse spesso, mi stancherei, e non sarei contenta di passare il tempo a divertirmi senza esser utile a nessuno.
Tu temi che mi rincresca ritornare in città! Mamma mia, non dir queste brutte cose! Ho avuto molto piacere di passar quindici giorni in campagna, mi sono tanto divagata; ma rivedere dopo tanto tempo la mia mamma e il mio babbo, e ritornare alla mia casetta, è per me la gioia più grande.
Mi spiace più di tutto perdere i bei racconti di Maria; ma essa mi ha promesso di leggerne qualche altro finchè rimango qui, e poi di mandarmeli tutti, sono racconti che mi piacciono tanto; pare che il mondo sia più buono, dopo averli sentiti.
Addio, mamma mia; addio, babbo, fra tre o quattro giorni sarò di nuovo con voi, vi racconterò tutto quello che ho goduto, e che sarebbe troppo lungo scrivere, e vi farò vivere della mia vita di questi quindici giorni; la vostra_
Maria era disperata; dopo la festa di casa Guerini i suoi fratelli erano tanto fuori di sè che non riusciva più a farli studiare; non facevano che parlare del divertimento goduto, delle splendidezze di quella villa. Carlo era infatuato del velocipede, Vittorio della macchina fotografica, e si era proposto di farsene una, sicchè Maria diceva loro chiaro e tondo che dopo una visita di ringraziamento, non sarebbe ritornata tanto spesso a villa Guerini, ma i ragazzi aspettavano Alberto ed Elvira, che avevano promesso di venire ad ascoltare un racconto di Maria.
Aspettavano anche il professore e don Vincenzo, perchè ormai i racconti si leggevano di giorno, in un angolo della corte, sotto un pergolato.
Elisa era impaziente che venissero; intanto si guardava nello specchio per vedere se era ben pettinata e quasi si vergognava della sua casa modesta, del suo giardino, il quale non era che una corte con un po' di piante, e diceva:
—Chissà che cosa diranno i Guerini, loro che hanno una villa così bella!
—Sciocca,—le diceva Maria,—colle tue idee sarai sempre disgraziata; noi non siamo ricchi e non possiamo competere coi nostri vicini; se non si contentano di venire nella nostra casa modesta, rimangano pure nella loro villa. Tu certo nei loro panni sdegneresti di venire da persone modeste come noi.
Elisa rimase tutta avvilita ed andò ad abbracciar la sorella dicendole:
—Non andare in collera, hai ragione, sono troppo ambiziosa, e voglio correggermi; ma non vengono mai,—soggiunse guardando fuori dalla finestra.
—Pazienza,—disse Maria,—abbiamo vissuto tanto tempo senza di loro e potremo vivere ancora.
—Eccoli, eccoli,—esclamò Carlo.
Infatti si sentì in distanza un rumore di ruote, e poi una carrozza si fermò davanti al cancello del cortile.
Scesero i ragazzi Guerini e l'istitutrice. Alberto diede a Vittorio una lente di una sua vecchia macchina fotografica, come gli aveva promesso, perchè si facesse una macchinetta; e una scatola di lastre preparate, affinchè potesse divertirsi a fare delle fotografie, e dopo gli avrebbe mostrato il modo di svilupparle.
Elvira, dopo aver salutate le amiche, pregò Maria che le leggesse una delle sue belle storie; intanto erano venuti anche don Vincenzo e il professor Damiati, e tutti si sedettero sotto il pergolato con tanto di orecchie attente per non perdere una parola del racconto di Maria.
L'infanzia di Carmela fu triste, la madre le morì quando era ancora in fasce, ed essa fu costretta a vegetare sola sola, in una viuzza di Napoli, dove non penetrava raggio di sole, mentre il padre, Giovanni, girava la città vendendo ostriche ed altri frutti di mare.
—Sta tranquilla, e bada di non farti male,—le diceva prima di uscire di casa; poi le lasciava qualche cosa da mangiare, dei gusci di ostriche per giocare, e se ne andava fino alla sera in giro per la città.
Carmela non ardiva uscire dalla sua buia stradicciuola, ed era contenta quando qualche bimbo del vicinato si fermava a giocare con lei.
Così cresceva pallida, come una pianta priva di sole; avea i capellinerissimi, che non pettinava mai, arruffati e tanto in disordine chele nascondevano la faccia e gli occhi, belli ed espressivi.
Si era ormai abituata a quella vita e avrebbe desiderato checontinuasse per molto tempo, quando avvenne un fatto che portò ildisordine in casa, e le fece provare il primo dolore della sua vita.
Un giorno il padre venne a casa ad un'ora insolita conducendo con sè una bella donna, bianca, rossa e grassa; proprio il ritratto della salute,
—Questa donna ti farà da mamma, e non starai più sola,—le disse,—bisogna che tu le voglia bene.
Carmela alzò gli occhi, guardò la donna e rispose:
—Non avevo bisogno di nessuno; stavo tanto bene sola.
—È un vero mostriciattolo,—disse la donna, dando un'occhiata alla bambina, che s'era rincantucciata e nascosta in mezzo ad un mucchio di cenci.
—È molto buona, e non dà noia; te la raccomando,—soggiunse Giovanni rivolgendosi alla moglie.
Ma ad Anna non piaceva quella bimba, che la chiamava mamma, e le era d'impiccio; essa aveva sposato Giovanni per godersi un po' di libertà, almeno nei primi anni di matrimonio, e cominciò ad averla in uggia, fin da quel primo giorno.
Per Carmela che desiderava soltanto star quieta, la pace era finita, perchè Anna, amante dei propri comodi e del farsi servire, la faceva sgambettare e lavorare tutto il giorno.
—Bisogna bene che s'avvezzi a far qualche cosa, se non vuol mangiare il pane a tradimento,—diceva al marito ed alle vicine. Le comandava di far questo o quello, di attingere l'acqua, o accendere il fuoco per far bollire i maccheroni, di scopare le stanze, e magari di aggiustarle i vestiti; se la bimba non ubbidiva, erano busse che cadevano sulle sue spalle senza pietà, sicchè a Carmela toccava rassegnarsi e sgobbare come un mulo.
E fu peggio, quando nacque in casa un'altra bimba, e Carmela fu costretta a fare anche da bambinaia, e guai se non toccava la sua sorellina con tutta delicatezza! Se la bimba faceva capricci, la colpa naturalmente era di Carmela, e a lei toccavano i rimproveri e le busse.
Di carattere dolce, non diceva nulla, non si lagnava, si rassegnava alla sua trista sorte e piangeva in silenzio.
Molte volte s'era proposta di raccontare al padre i maltrattamenti della matrigna, poi non ne aveva avuto il coraggio. Del resto non avrebbe servito a nulla, perchè Giovanni, innamorato della moglie al punto d'esserne schiavo, non vedeva che cogli occhi di lei, e anch'egli preferiva Graziella, colle sue guancie rosee e paffute, colla allegria chiassosa, che dava vita alla casa come un raggio di sole, a Carmela buona, dolce, ma sempre triste, muta e rassegnata.
Mano mano che Graziella cresceva, erano per lei, non solo le carezze e i baci, ma altresì i vestiti più belli, i bocconi più saporiti; in casa i genitori la tenevano come una regina, e appagavano tutti i suoi desiderii, ed essa era capricciosa, volea sempre uscire, andare a divertirsi, e la mamma che non sapeva negarle nulla, la conduceva al passeggio, in riva al mare, a giocare cogli altri ragazzi, e lasciava Carmela sempre a casa, a far bollire la pentola, come Cenerentola.
Se per caso mostrava desiderio anch'essa di uscire, per vedere qualche cosa di più gaio della stradicciuola, dove vegetava priva d'un raggio di luce, la madre le faceva capire che colla sua faccia gialla era ben meglio che restasse nell'ombra, e già che non poteva brillare alla luce del sole dovea rassegnarsi ad essere utile alla famiglia.
Carmela nel suo isolamento aveva un solo amico: il figlio d'una vicina che abitava nella stessa viuzza, e che da bambino aveva giocato assieme a lei coi gusci d'ostriche. Egli si chiamava Gennaro, e quando sapeva che la signora Anna era uscita, andava dalla Carmela a raccontarle i piccoli avvenimenti della sua scuola, le parlava dei compagni, dei suoi divertimenti, della campagna, del mare e delle rappresentazioni di Pulcinella, alle quali assisteva spesso, ed essa stava là intenta ad ascoltarlo, pendeva dalle sue labbra e per quei racconti avrebbe lasciato qualunque divertimento.
Un giorno Gennaro la venne a salutare; avea stabilito di andar a fare il mozzo sopra un bastimento, e dovea andare lontano lontano a girare il mondo, perchè volea diventare marinaio.
—Che farò ora senza di te?—disse Carmela.
—M'aspetterai, e quando ritornerò, ti racconterò tante belle storiedi paesi che non conosci.
—Vedrai delle altre bambine, e ti dimenticherai di me, che sonobrutta.
—Non è vero, i tuoi occhi sono tanto belli e buoni, che non lidimenticherò certamente.
Era la prima volta che Carmela sentiva fare un elogio della sua persona, ed era commossa, avrebbe voluto dire tante cose al suo amico, ma non poteva; un groppo alla gola le toglieva il fiato; però lo guardò coi suoi occhi buoni, con uno sguardo espressivo che voleva dire:—Torna presto.
Dopo quel giorno, rimase ancora più triste; ma quando la matrigna le diceva che era un mostriciattolo, essa pensava alle parole di Gennaro, e si consolava.
Graziella cresceva a vista d'occhio, era bianca, rossa e prosperosa, ma di una bellezza volgare; avea poco cuore, e quando poteva, cercava d'umiliare la sorella in tutti i modi possibili; raccontava i suoi trionfi, i complimenti che le venivano fatti; era continuamente occupata ad adornarsi e ad agghindarsi allo specchio, pensava sempre a vestiti nuovi, tanto che il babbo dovea lavorare dalla mattina alla sera, per appagare i suoi capricci.
—Ma non ti pare che sarebbe tempo che Graziella guadagnasse qualche cosa?—diceva Giovanni alla moglie.
—Lascia che si diverta, è ancora una bimba,—rispondeva Anna; però, un giorno si decise di metterla da una sarta, affinchè imparasse il mestiere; ma ciò non valse ad altro che a darle un pretesto per stare di più fuori di casa, e per diventare più vanerella.
Carmela s'era rassegnata anch'essa a tenere Graziella come un essere privilegiato, e l'ammirava continuamente; si divertiva anzi ad ornarla come una bambola, ed a vederla farsi più bella, dopo aver indossato la veste nuova che aveva aiutato a cucirle, rubando delle ore al sonno.
Graziella era una piccola egoista, non amava che sè stessa. Accarezzava Carmela quando aveva bisogno del suo aiuto; la mamma, perchè la conducesse ai divertimenti; il babbo, quando voleva che le desse quattrini per comperare dei fronzoli; e godeva la vita senza pensieri, passando lunghe ore fuori di casa, assieme alla madre, non curandosi nè di Giovanni, che lavorava come un cane, nè di Carmela, che si preoccupava di preparare loro la minestra, e porre in ordine la casa.
Un giorno Anna e Graziella si spaventarono nell'udire che una loro vicina era morta di vaiuolo, e che la malattia regnava nella città. Ebbero subito il pensiero di andare lontano; ma Giovanni disse che non avea quattrini da sprecare per capricci. Perciò dovettero rassegnarsi a rimanere, ma tremavano dalla paura di prendere la malattia, e quando uscivano di casa, cercavano di star in mezzo alla via per non toccare il muro; non parlavano più coi vicini, ed erano infelici di dover vivere con quel pensiero. Un giorno Giovanni venne a casa con una febbre fortissima, e le due donne divennero pallide come morte, quando il dottore affermò che si trattava di vaiuolo.
Il primo pensiero di Anna fu di mandare il marito all'ospedale, dicendo che sarebbe stato curato meglio; ma egli disse che voleva morire nel suo letto: in quanto a lei era padronissima di andarsene, se temeva di prendere il male; in quanto a lui qualche santo lo avrebbe aiutato.
—Non è per me, è per Graziella,—disse Anna,—sarebbe peccato che la sua faccia rimanesse butterata; non posso permettere che rimanga qui a questo pericolo.
—Andate,—disse Carmela,—resterò io che sono brutta.
Anna non si fece ripetere due volte questa proposta, e rispose:
—È giusto; è inutile che stiamo qui tutti; tu sola basti; poi si tratta di tuo padre: ti raccomando di curarlo bene e guarda di non prender quel brutto male; anzi è meglio che tu ti faccia vaccinare.
Anna non s'avvicinò nemmeno al letto per salutare il marito, e assieme a Graziella, che quando aveva inteso parlare di vaiuolo non era più entrata in casa, andò a Portici, presso una vecchia parente.
Carmela rimase sola accanto al letto dell'ammalato, non dormendo nè giorno nè notte per assisterlo, e quando il dottore le diceva:
—Badate, è una malattia contagiosa, non vi avvicinate troppo a vostro padre—essa non gli dava retta, e si contentava di lavarsi col sublimato corrosivo o coll'acido fenico, dicendo:
—Faccio queste cose, perchè voglio star bene e poter assistere mio padre, e che non resti solo; ma per me, non m'importa di nulla.
Per parecchi giorni sopportò le più crudeli sofferenze; avvilita dall'impotenza di recar sollievo al povero infermo. Vi fu un momento che il padre, in preda ad una febbre ardente, voleva gettarsi dalla finestra, ed essa temè di non aver abbastanza forza per trattenerlo. Nè poteva far assegnamento sull'aiuto di alcuno, perchè tutti fuggivano la loro casa come se fossero appestati, ed essa era alla disperazione; sola, col padre delirante, che voleva alzarsi, che non la riconosceva più, e la cacciava via. Fortunatamente quel periodo non durò molto, e a furia di cure e di riguardi il male prese una buona piega: ma bisognava vedere com'era sfigurato il povero Giovanni! avea la faccia gonfia, tutta piena di piaghe, e Carmela con una pazienza da santa, vinceva il ribrezzo e la nausea che quella vista le incuteva, per curarlo e diminuirgli lo spasimo.
Furono venti giorni di vero martirio per la povera figliuola; e quello che le dispiaceva di più, era vedere che nè la madre nè Graziella davano segno di vita, mentre l'ammalato domandava nel delirio continuamente di loro.
Quando Giovanni incominciò a star meglio, allora conobbe la grande abnegazione della sua figlia, e l'egoismo della moglie e di Graziella, e disse a Carmela:
—Tu sei un angelo. Guai se non eri tu a curarmi! sarei morto come un cane; e dire che a te non badavo nemmeno! Come mi pento d'essere stato così ingiusto! Ma ora, noi due staremo sempre assieme, e le altre resteranno là dove sono andate; non le voglio più vedere.
Carmela le difendeva:—Sarebbe stato un peccato che Graziella venisse presa da una malattia così terribile, che può lasciar tracce sul viso,—diceva scusandole.
Ma Giovanni non voleva saperne più nè della moglie, nè dell'altra figliuola, e diceva abbracciando Carmela:
—Si sta tanto bene noi due, e non voglio più che tu faccia la vita che facevi una volta; verrai con me a girare la città, a respirar un po' d'aria libera: ne hai di bisogno, sei tanto pallida.
Quando la casa tu disinfettata, e Giovanni guarito, ritornò Anna, ma egli non la volle vedere.
Anna se la prese con Carmela, dicendo che le aveva guastato il marito, che non le voleva in casa perchè Graziella era più bella di lei; e mentre s'avventava contro la figliuola per batterla, entrò Giovanni, che, rivoltosi alla moglie, disse:
—Voi non siete degna di respirare l'aria che respira quest'angelo; voi mi avete abbandonato, essa mi ha assistito e m'ha salvato.—Poi a Carmela, disse:—Andiamo via noi da questa casa, giacchè loro non vogliono andarsene.—E condusse fuori la figlia, la quale diceva alla matrigna:
—Vado per obbedienza.
Giovanni era forte, robusto e non avea paura del mare; s'unì ad una compagnia di pescatori, e quando faceva buona pesca, andava a venderla assieme a Carmela, la quale si sentiva rivivere trovandosi tutto il giorno all'aria aperta che le accarezzava la faccia, le penetrava nei polmoni, e la rinvigoriva.
Essa però pensava sempre ad Anna e Graziella, che non sapevano lavorare, e sarebbero certo morte di fame; e quando il padre aveva fatto una buona pesca, riempiva in segreto una cesta di pesci, e sull'imbrunire andava nell'antica viuzza accanto alla casa dove era nata, e sulla soglia lasciava la cesta, e poi rifaceva la via in un lampo.
Anna e Graziella quando la prima volta trovarono i pesci presso l'uscio, dissero:
—È la provvidenza che si ricorda di noi.
Esse non erano più riconoscibili tanto soffrivano; non sapevano lavorare, e per conseguenza non avevano di che mangiare.
Graziella era bensì ritornata a lavorare dalla sarta, ma non guadagnava che pochi centesimi. Anna aveva offerto i suoi servizi a qualche famiglia, ma non essendo buona a nulla, dopo le prime prove veniva licenziata.
—Tutto colpa di quel mostricciattolo di Carmela, che ha stregatoGiovanni durante la malattia,—diceva Anna, e si sentiva crescerl'odio che aveva sempre avuto per quella fanciulla.
Quando trovavano la cesta di pesce sulla porta, dicevano che certo qualche buona fata pensava a loro, e per far qualche soldo, vendevano il pesce ai vicini.
Graziella sarebbe stata curiosa di sapere chi dovesse ringraziare del pesce, e volea spiare sull'uscio per scoprire qualche cosa; ma Anna non volea saper nulla: diceva che era meglio credere che venisse dal cielo e non aver obbligazioni con alcuno.
Una sera che Carmela avea portato il pesce al posto consueto, e se ne tornava a casa, incontrò nella viottola buia un bel marinaio che la guardò negli occhi.
—Gennaro, siete voi?
—Carmela!—esclamò,—non vi avrei più riconosciuta, vi siete fattabella come una fata.
—E nemmeno io vi avrei riconosciuto, se il cuore non m'avesse dettoche eravate voi.
—Ma che cosa fate ora?
—Sto in riva al mare, e faccio la pescatrice.
—Volete che vi accompagni!
—Venite.
Così traversarono la città raccontandosi a vicenda le loro avventure di tutto il tempo in cui erano stati lontani. Ad un certo punto, il marinaio si fermò, e le chiese guardandola negli occhi:
—Volete che ci sposiamo? io sono stanco di star solo.
—Perchè no?—rispose Carmela,—se è contento il babbo!
—Andiamo a chiederglielo,—disse Gennaro.
E senza por tempo in mezzo, andò da Giovanni a chiedergli la manodella figlia.
Il giovane era forte e aveva voglia di lavorare, e Giovanni non seppetrovar altra risposta che questa:
—Se vi piacete, pensateci voi; io non ho nulla in contrario.
E così combinarono, e Carmela si sentiva contenta come una regina.
Però il giorno del matrimonio, disse al padre:
—Perchè io sia felice devi farmi un bel regalo.
—Tu sai che non sono ricco.
—Ma tu puoi fare quello che chiedo.
—Ebbene; che cosa vuoi?
—Prima, promettimi che lo farai.
—Sentiamo.
—Devi perdonare alla mamma e a Graziella.
—Non me ne parlare.
—Ti prego, babbo, se vedessi come hanno sofferto; non si riconoscono più: sii buono, fammi contenta. Dunque, le faccio venire?
—Fa pure, sei tu la padrona.
E Carmela corse, anzi volò alla sua vecchia casa, entrò come un razzo, e disse:
—Mamma? Graziella? venite, venite, il babbo vi perdona.
Graziella la guardava stupefatta, Anna era muta dalla sorpresa.
Finalmente Graziella le gettò piangendo le braccia al collo, e le disse:
—Sei stata tu, non è vero, a far decidere il padre? Quanto sei buona!E fosti anche tu quella che ci portava sempre il pesce, e pensava anoi?
—È stato chi è stato, e non se ne parli più; il babbo vi perdona, edè contento di ritornare con voi; andiamo.—E le trascinò fuori, finoin fondo alla strada, dove Giovanni e Gennaro l'aspettavano.
—Ecco, babbo, oggi tutti devono esser felici, abbraccia la mamma eGraziella!—Poi presentò il suo sposo.
—Che bel giovane!—disse Anna.—Si diventa buoni quando si hanno diquelle fortune!—soggiunse ironicamente.
—Io la sposo, perchè Carmela è sempre stata buona,—disse Gennaro,—perchè ho saputo l'assistenza che ha fatto a Giovanni quando fu ammalato, e penso che se mai mi capiterà una disgrazia simile, non mi lascerà morir solo come un cane.
—Basta, basta,—disse Carmela,— non voglio che pensiamo a malinconie, dobbiamo stare allegri.
Graziella disse alla mamma:
—È vero! Carmela merita la sua fortuna; Gennaro ha ragione, è sempre stata buona anche quando io era cattiva; ma ora che ho provato che cosa è soffrire, ho più compassione per gli infelici.
Carmela la fece star zitta dandole un bel bacio.
Giovanni disse a Gennaro, scotendo il capo:
—Graziella è giovane, e se ne farà ancora qualche cosa: ma l'altra è proprio incorreggibile.
Quando Maria ebbe terminato, quell'uditorio stato attento dal principio alla fine incominciò a far dei commenti, tutti ammirarono la bontà e l'abnegazione di Carmela, ed erano contenti che l'altra ragazza fosse stata punita. Maria osservava che quantunque nel mondo i buoni non siano sempre premiati e i cattivi puniti, in ogni modo far il proprio dovere è una tale soddisfazione che non ha bisogno d'altri compensi. Mario come al solito avea fatto la caricatura di Carmela brutta come un mostriciattolo, con una grande cesta di pesci sulla testa e Graziella davanti allo specchio a farsi bella.
Intanto venne la signora Guerini colla carrozza a prendere i figli, e pregò Maria di andar spesso alla villa, dove quasi tutti i giorni dopo la cinque vi era un po' di gente e i ragazzi si sarebbero divertiti giocando assieme.
Maria ringraziò, e disse:—che non avrebbe potuto approfittare spesso dell'invito, temendo che i troppi divertimenti servissero a distrarre i suoi fratelli dagli studii, specialmente Carlo che dovea ripetere l'esame; ma chiese il permesso di condurli invece a vedere la fabbrica, perchè essi lo desideravano e sarebbe stata una cosa molto istruttiva.
La signora Guerini disse che alla fabbrica potevano andare quando credevano, anzi soggiunse che Alberto ed Elvira sarebbero stati felici di accompagnarli. Così fissarono la gita per la mattina dopo, e Vittorio pensava di mettere intanto in ordine la sua macchinetta fotografica, e far fotografie e poi andare a svilupparle nella camera oscura di Alberto.
Nel punto dove la valle si allarga e il torrente scendendo dalle montagne rumoreggia fra i sassi, si vede biancheggiare un vasto fabbricato quadrato, con grandi cortili e degli altissimi fumaiuoli che sembrano toccare il cielo.
I ragazzi Morandi erano passati tante volte davanti a quel fabbricato, s'erano fermati a sentire il rumore delle macchine e il canto degli operai, ma non avevano osato entrare, trattenuti da un cartello sul quale era scritto:Non entrano che le persone addette ai lavori; perciò quel giorno, tutti contenti, uscirono di casa prima dell'ora stabilita, impazienti di ritrovarsi coi loro amici.
Maria avea pregato il professore Damiati di accompagnarli. Egli così istruito, che sapeva parlare di tutto con chiarezza, avrebbe potuto dare ai ragazzi delle spiegazioni sulle macchine, e la visita allo stabilimento sarebbe stata più utile con una guida come lui.
Vittorio poi, che aveva la passione delle macchine, e diceva che avrebbe voluto fare l'ingegnere meccanico, era lietissimo di quella passeggiata e la considerava come una vera festa.
Passando da villa Guerini chiamarono i loro amici, e trovarono che il signor Guerini in persona voleva accompagnarli e far loro gli onori del suo stabilimento. Egli, strada facendo, incominciò a raccontare la storia della sua azienda.
Narrò che suo padre gli aveva lasciato un filatoio, ancora incompiuto, posto nell'ala più vecchia del fabbricato, ed egli a poco a poco s'era innamorato di quel genere di lavoro, era andato in Inghilterra a studiare i nuovi sistemi di filatura, avea ampliato la sua fabbrica, vi avea aggiunto una tintoria, e finalmente la tessitura delle stoffe, che ora occupava la parte principale del fabbricato; egli parlava con amore del suo stabilimento, che avea veduto nascere e crescere sotto ai suoi occhi, ma diceva di essere stanco, e impaziente che suo figlio potesse supplirlo per riposarsi.
Così discorrendo erano giunti davanti al cancello, ed entrarono tutti nel primo cortile passando per la camera del custode; un ampio stanzone dove il signor Guerini, mostrò intorno al muro, attaccate ad una tabella, delle medaglie con un numero progressivo; ogni operaio ne avea una che dovea consegnare al custode quando entrava e farsela restituire all'uscita per verificare l'ora d'entrata e le ore del lavoro.
Nel primo cortile c'erano mucchi di lana e di cotone in bioccoli, che gli operai caricavano sopra carri a mano e trasportavano sotto ad una tettoia per la pulitura. Là sotto videro alcuni grandissimi recipienti d'acqua bollente, più in là, dei forni per asciugare, poi più giù delle macchine per scardare il cotone e la lana ripulita, e dappertutto una quantità di uomini, donne e ragazzi occupati a trasportare, a ripulire, separare la merce buona dalla cattiva.
Non fecero che traversare quella tettoia, fermandosi poco, perchè il signor Guerini diceva che quelle operazioni non erano molto importanti; ma fecero una sosta più lunga nella tintoria, dove dentro a grandi caldaie, bollivano materie d'ogni colore e dove degli operai sudanti per il caldo eccessivo, prodotto da quei liquidi in ebollizione, gettavano nelle caldaie matasse di filo greggio che si tingevano nei più vivi colori, poi le mettevano ad asciugare, ma spesso dovevano passare per un'altra tinta, e forse per altre ancora.
—Andiamo avanti, che qui c'è troppo sudiciume,—diceva Elvira, ma i ragazzi si divertivano nel vedere tutto quelle pozzanghere rosse, verdi, violette, quelle acque di tutti i colori che correvano in appositi canaletti e poi andavano a finire in un fosso, che le conduceva nel torrente.
—Ora capisco,—disse Carlo,—perchè qualche volta si vede l'acqua tinta di vari colori.
—Badate di non sciupare i vestiti,—disse il signor Guerini.
Uscirono all'aperto e s'avvicinarono a un luogo donde si sentiva il rumore delle macchine, che pareva un mare in burrasca.
—Oh bello!—esclamarono in coro quei ragazzi, quando entrarono in un bel stanzone spazioso, ben illuminato, dove c'era una quantità di macchine in moto e si vedeva un bel numero d'operai attenti al lavoro; un vortice di ruote, di pulegge, di cilindri, un luccichio di metalli, tanto che per il primo momento non poterono raccapezzarsi in quella confusione, con quel rumore assordante.
—Questi sono i filatoi,—disse il signor Guerini;—sono quasi tutti uguali l'uno all'altro, e per non far confusione, fermiamoci ad osservarne uno.
Si fermarono davanti ad una bellissima macchina, grande, rotonda, dove dal centro usciva il cotone e la lana a falde, e a mano a mano che passava da alcuni forellini messi in moto da ruote dentate, s'andava assottigliando, in modo che si avvolgeva in fili sottilissimi intorno alle centinaia di rocchetti, che giravano continuamente, come in una danza vertiginosa.
Il signor Guerini fece fermare la macchina, perchè vedessero bene, e allora il professor Damiati spiegò, come quegli arnesi dove il cotone era disposto a falde quasi in natura, facessero l'ufficio della conocchia che adoperavano le donne antiche per filare, e mostrò quale progresso si era fatto da quel tempo, in cui s'impiegavano parecchie giornate per filare un solo gomitolo di cotone, ed ora se ne filano centinaia in un'ora.
—Pare una magia,—dicevano quei ragazzi tutti attenti a vedere come in quel continuo ballare di rocchetti e di fili, le cose procedessero con tanta prestezza e precisione, ed espressero il desiderio che si rimettesse in moto la macchina; poi stettero ad osservare meravigliati, estatici, ammirando la velocità con cui andava, e la prontezza colla quale gli operai riappiccavano il filo che qualche volta si spezzava durante il lavoro, cambiavano i rocchetti e fermavano la macchina quando accadeva qualche incaglio.
—Pare una gran ragnatela,—disse Mario, che stava ad ammirare a bocca aperta quello spettacolo nuovo per lui.
—Mi pare che ce ne sieno tante di ragnatele!—soggiunse Angiolina,—e dire che non ho mai pensato, che per una gugliata di cotone ci volesse tanto lavoro!
—Ma credi che con quel cotone si possa lavorare?—chiese AlbertoGuerini.—Senti,—e le diede un filo, che appena teso, si spezzò.
—Vedete,—disse, mostrando di essere istruito nella materia,—ora venite con me e vi farò vedere.
E li condusse vicino ad un'altra macchina, la quale serviva di torcitoio, cioè torceva i fili di due o tre rocchetti avvoltolandoli intorno ad uno solo; e qui Alberto tutto contento di poter far sfoggio della sua scienza, soggiunse:
—In questo modo si fa il cotone più o meno grosso, secondo che si torcono insieme due, tre o quattro fili; e così il cotone che serve per cucire, si può far forte quanto si vuole.
Tutti i ragazzi stavano a bocca aperta, davanti a quelle macchine in moto, a quegli operai attenti al lavoro, che parevano anch'essi far corpo colle loro macchine, ma furono ancora più maravigliati quando andarono nello stanzone della tessitura.
—Oh bello!—disse Giannina fermandosi davanti ad un grande telaio, dove erano tesi in bell'ordine dei lunghissimi fili, e una spola correva avanti e indietro con grande rapidità, formando, dove passava, una tela fitta e compatta.
—Pare un topolino!—esclamò Mario.
—Ecco, vedete, questo è l'ordito,—disse il professore Damiati,—e il filo che lo attraversa guidato dalla spola è la tessitura; badate come quando la spola è passata, con un macchinismo quasi automatico, una metà dei fili s'abbassa e l'altra metà si alza perchè i fili che devono essere intrecciati si alternino coi fili trasversali.
—E che cosa sono tutte quelle spole?—disse Carlo.
—È per fare un tessuto di colori diversi; ogni colore ha una spola, e l'operaio deve stare attento di cambiarla al momento giusto.
—Come è bello!—disse Vittorio,—mi piacerebbe star qui tutto il giorno,—e intanto guardava sotto alle macchine, cercando di scoprire il loro meccanismo, si arrovellava il cervello in mezzo a quell'intrecciarsi di ruote e di cilindri, e diceva che gli pareva impossibile, che tutte quelle macchine così esatte e perfette, fossero fatte dagli uomini.
Mentre erano là con tanto d'occhi ad osservare, la tela si tesseva con grande rapidità e si avvoltolava intorno ai cilindri; e nel medesimo tempo dalla parte opposta ne usciva altrettanto ordito, e Vittorio continuava a guardare dicendo:
—È meraviglioso, io ci perderei la testa.
Il professore spiegava come l'invenzione di quelle macchine fosse avvenuta a poco a poco, a furia di uomini d'ingegno che vi apportarono sempre nuovi miglioramenti e coll'aiuto delle nuove scoperte nell'industria; narrò che i primi tessuti erano cose grossolane, poi l'arte del tessere si perfezionò col telaio inventato da Jaquard, ma anche quello era rozzo, pesante, e la spola doveva esser guidata dalla mano, finchè a poco a poco si giunse al punto di poter ottenere colla massima facilità una immensa quantità di lavoro, specialmente dopo che s'incominciò ad adoperare il vapore come forza motrice.
Maria avrebbe voluto stare tutta la giornata in quel tempio del lavoro, ma temeva di abusare della bontà del signor Guerini, il quale trascurava in quel momento le sue occupazioni, per servire loro di guida; poi temeva che una visita tanto prolungata, potesse distrarre gli operai; sicchè dopo aver dato un'occhiata alle stanze meno importanti dove la tela veniva imbiancata e cilindrata, dove ai rocchetti di cotone si appiccicavano dei bigliettini colla marca di fabbrica e si mettevano in scatole per la spedizione; dopo essersi per ultimo soffermata davanti alla macchina a vapore, dalla quale partiva tutto il movimento, uscì da quel luogo riportandone un'impressione indimenticabile.
Vittorio era riuscito coll'aiuto d'una lente regalatagli da Alberto, a mettere assieme una macchina fotografica molto semplice, ma colla quale si riprometteva un grande divertimento, pel tempo delle vacanze.
Ecco come avea fatto per combinare la sua macchinetta:—Prima prese una cassettina di legno, che foderò di stoffa nera, avendo cura che non vi penetrasse nemmeno un filo di luce: poi collocò davanti la lente destinata a raccogliere i raggi luminosi e mandarli nell'interno della cassetta, o camera oscura; guardò se gli oggetti posti davanti alla lente si disegnavano bene e con chiarezza, sopra un vetro smerigliato che pose dietro alla cassetta per fare l'esperimento. La macchinetta era riuscita bene; ed egli poteva benissimo al posto del vetro smerigliato mettere dei vetri preparati col bromuro d'argento, e sensibili alla luce. Studiò un sistema per cambiar i vetri entro un sacco nero, in modo che non fossero esposti alla luce, e fece un cappello aderente alla lente da mettere e togliere a mano, e intanto studiava una forma più comoda di otturatore.
Egli voleva fare il ritratto di tutta la sua brigata, prima che partisse l'Angiolina; faceva i dispetti a Mario che coi suoi disegni non avrebbe potuto più gareggiare con lui, il quale copiava scene e paesi colla rapidità fotografica.
Quando la sua macchina fu pronta, fece posare al sole tutta la famiglia, e si stizziva perchè, vedendo la sua aria importante da provetto fotografo, non potevano star fermi, nè trattenersi dal ridere. Rifece tre volte il gruppo nella speranza che riuscisse almeno una volta; poi non ebbe pace finchè non gli venne fatto d'andare alla villa Guerini per sviluppare le sue lastre nella camera oscura d'Alberto, il quale dovea fargli da maestro.
Andò assieme a Carlo, che era ansioso di vedere i risultati della fotografia, e quando furono tutti e tre rinchiusi nella camera buia, Alberto versò un liquido in una bacinella e disse:
—Vedete, questo è idrochinone, una sostanza che farà risaltare la imagine sul vetro; si potrebbe anche adoperare l'acido pirogallico, l'ossalato di ferro e tante altre cose; ma io preferisco questo, perchè mi pare migliore.—Poi coperte le lastre col liquido, gl'insegnò a scuoterlo fino al punto di veder disegnarsi qualche cosa, infatti sui vetri si andavano figurando delle linee bianche e nere come per virtù magica.
—Vedete,—disse,—gli oggetti chiari più in luce, vengono neri, e viceversa, le cose scure vengono chiare, perciò queste si chiamano negative. Ecco ora questo vetro è abbastanza nero, mettiamolo in questa bacinella, dove c'è un po' d'iposolfito di sodio il quale scioglie i sali d'argento ormai inutili; così, ora, la negativa è completa, possiamo portarla alla luce; però prima bisogna lavarla bene nell'acqua pura.
Quando furono alla luce ebbero la dolorosa sorpresa di trovare una negativa colle figure doppie.
—Oh rabbia! si sono mossi,—disse Carlo tutto imbronciato.
—Mi pare che sia la macchina che s'è mossa;—disse Alberto,—queste però sono riuscite meglio; ma sono senza testa,—soggiunse osservando la seconda negativa.
La terza era meglio delle altre, ma le persone avevano la faccia nera e poco distinta, e anche quella non si poteva dire ben riuscita, però bisognava lasciarla asciugare prima di stamparla, e poterne vedere l'effetto. Alberto regalò agli amici qualche pezzetto di carta preparata, affinchè potessero stampare le fotografie, ed una bottiglietta con un liquido per fissarle sulla carta.
—Quando questa carta è esposta alla luce senza negativa viene tutta nera,—disse Alberto—e non si vede nulla;—e spiegò come le parti che sulla negativa erano chiare venivano scure sulla carta, perchè la luce vi passava liberamente e l'anneriva, mentre le parti scure rimanevano chiare; ed era tutto contento di poter fare da maestro a quei ragazzi, che per la prima volta avevano nelle mani una macchina fotografica.
Andarono a casa tutti allegri, credendo che una volta stampata la fotografia avrebbero potuto mostrare la loro bravura, ma appena Maria diede loro un'occhiata, disse tutta spaventata:
—Che cosa avete fatto? Non vedete che i vostri vestiti sono macchiati?
Essi si guardarono e risposero confusi:
—È vero—ma non ci si vedeva in quella camera buia, buia; c'era soltanto un lanternino rosso.
—E intanto avete sciupato i vestiti, e così non potrete più venire in nessun posto, e molto meno dai signori Guerini, perchè non posso comperarvi degli abiti nuovi per i vostri capricci.
—Prova a ripulirli—disse Vittorio.
—Non vedete che gli acidi hanno intaccato il colore? ormai non c'è rimedio, non si possono ripulire.
Maria era disperata, voleva rompere la macchinetta, perchè quelli non erano divertimenti per loro, costavano troppo, ed era certa che non erano riusciti e non avevano fatto altro che perdere il tempo e sciupare i vestiti.
I ragazzi si misero a stampare, e rimasero proprio malcontenti di vedere i gruppi così mal riusciti, e che tutti avevano le faccia scure come se fossero africani.
Elisa non voleva essere così brutta, Giannina diceva che pareva una scimmia, e Angiolina diceva d'essere un mostro.
I fotografi erano avviliti, e Vittorio si dichiarava vinto e diceva di voler rinunciare alla fotografia, anche per non dare dispiacere alla sorella. Carlo avrebbe voluto la macchinetta di Vittorio per perfezionarsi; ma Maria la prese e la chiuse in un armadio, mentre Angiolina pensava al modo di mettere un pezzettino di stoffa nuova con un rammendo, dove erano le macchie, tanto per non vedere delle faccie scure l'ultimo giorno che restava in loro compagnia. Invece Mario trionfava; aveva ragione di essere nemico della fotografia! almeno coi suoi scarabocchi non sciupava i vestiti e anzi, già che gli capitava la buona occasione, s'accinse a fare la storia delle gesta fotografiche dei suoi fratelli.
Lavorò tutta la giornata, e quando mostrò i suoi lavori, furono accolti da un'ilarità generale.
Erano tre quadretti, pieni di spirito; nel primo la posa, coi fotografi che si davano grande importanza e gli altri negli atteggiamenti più grotteschi; il secondo rappresentava la camera oscura, cioè uno stanzino buio dove misteriosamente i suoi fratelli versavano un liquido sui loro vestiti, invece di versarlo sulle negative; poi finalmente il quadro finale: i fotografi coi vestiti macchiati e con in mano due pezzi di carta che rappresentavano dei personaggi senza testa, o con due teste, i fotografi con tanto di naso, e Maria che si disperava di vederli in quello stato.
Tutti risero, e Angiolina pregò Mario di regalarle quei disegni.
Maria faceva uno sforzo per star seria, ma avea una gran voglia di ridere, e sgridava Mario di non esser buono che a burlarsi di tutti.
Più tardi quando vennero il professore e Don Vincenzo, essa raccontò loro le disgrazie dei suoi fratelli, che s'erano sciupati i vestiti; e disse ch'era proprio adirata colla fotografia e con tutte le nuove invenzioni.
Don Vincenzo fece eco alle sue parole; anch'egli trovava che si viveva meglio nei tempi passati senza tante macchine, tanti giornali e tante scoperte. Appunto quella mattina aveva letto in un giornale che un operaio aggiustando un filo della luce elettrica era rimasto fulminato e che era avvenuto uno scontro ferroviario: tutte cose che in altri tempi non sarebbero accadute. Damiati non voleva sentire quei discorsi; egli che era un vero uomo moderno, amava il progresso e ammirava i nuovi ritrovati della scienza: diceva soltanto che bisognava esser preparati a tutte queste novità. Invece ci comportavamo da bambini, esagerando in tutto; prima eravamo rimasti spauriti dall'invasione di tante macchine, che si credevano opere infernali, dopo s'andò all'eccesso opposto, e si riguardò tutto come un giochetto, mettendo spensieratamente le mani fra le macchine, bruciandosi e avvelenandosi coi preparati chimici, esaltandosi il cervello colla lettura dei giornali, impazienti di correre e d'arrivare, dopo che il vapore avea sostituito i cavalli, avidi di notizie dopo che correvano col telegrafo, e tutta una vita agitata e febbrile che venne a turbarci la calma.
—A me, vi confesso,—soggiunse,—piace questo movimento e questo progresso, ma vorrei solo che i nostri figli fossero anche essi pari alle difficoltà dei nostri tempi; cioè, più avveduti, più prudenti, e conoscessero i pericoli che aumentano da tutte le parti, e avessero l'avvertenza di schivarli. Se quell'operaio avesse saputo il modo con cui si forma l'elettricità, avrebbe saputo scansarsi prima di lasciarsi uccidere dalla corrente elettrica; se Carlo e Vittorio avessero saputo come erano composti i liquidi che adoperavano per la fotografia, non si sarebbero macchiati i vestiti; forse, causa la loro ignoranza avrebbero anche un giorno o l'altro potuto bere in sbaglio uno di quegli acidi, e avvelenarsi. Ora la smania d'arrivare a tutto, di saper molte cose, fa sì che si studia superficialmente: la scienza resa popolare, ci famigliarizza anche colle cose più nocive, e si è circondati da pericoli prima ancora di conoscerli e di saperli evitare. Una volta invece la scienza era possesso di pochi; si circondava di silenzio e mistero, e naturalmente c'erano meno pericoli; ma le popolazioni erano invece ignoranti e superstiziose.
Consigliò poi i ragazzi a diffidare delle sostanze che non conoscono, ad esser prudenti e studiare per poter rendersi ragione dei pericoli, e tenerne lontane le persone di famiglia.
Angiolina vedeva volar via con rammarico le belle giornate che passava in campagna assieme ai suoi amici; ma la mamma la sollecitava a ritornare a casa, ed essa s'era decisa di partire assieme al signor Morandi, il quale dovea recarsi in città.
Bisognava proprio che pensasse al piacere di rivedere la sua mamma, per non dolersi troppo di abbandonare quella vita che le piaceva tanto.
Aveva ancora un giorno di vacanza, e quella giornata volle impiegarla bene. Essa radunò tutta la sua roba e chiuse la sua valigetta; poi andò a salutare tutti gli angoli della casa e del cortile; volle per ultimo uscire per andare alla posta, ed ivi trovò il curato e il professore, che come al solito, parlavano delle notizie del giorno.
—Domani non sarò più qui—pensò, e quasi senza volerlo i suoi occhi le si empirono di lagrime.
Quando fu seduta a tavola disse:
—È l'ultimo giorno che pranzo con voi.
—Vuoi restare finchè stiamo tutti?—chiese Maria,—a noi fai piacere.
—Ho la mamma che m'aspetta,—rispose Angiolina.
—Ma ritornerai l'anno venturo—disse Maria.
—Per me sarei tanto contenta, e vivrò tutto l'anno con questa speranza.
Poi volle a tutti i costi portare con sè alcuni lavori che Maria dovea fare.
—Li terminerò io—disse;—così occupandomi dei vostri lavori mi sembrerà d'esser meno lontana da qui.—Poi soggiunse:—Mi dispiace per tante ragioni andar via, anche perchè non sentirò più raccontare le belle storie di Maria.
—Belle o brutte, te ne leggerò in città,—disse Maria,—intanto mi si presenterà forse l'occasione di aggiungerne delle altre.
—Ci vedremo dunque anche in città?
—Certo.
—Come sono contenta! mi dispiace meno d'andar via.
Poi voleva dire tante cose per esprimere la sua riconoscenza, ma non aveva coraggio.
—Sono una sciocca,—disse a Maria,—non so dir nulla, ma mi hanno fatto tanto bene queste settimane passate all'aria aperta; e poi ho imparato tanto, è così brava lei! Come mi piacerebbe poterla imitare!
E Maria le prendeva la testina e le dava tanti baci dicendole:
—Non hai bisogno d'imparar nulla da nessuno, conservati una buona figliuola come sei e come vorrei che fossero le mie sorelle.
—Ecco l'ultima notte che dormo in questa stanza, ecco l'ultima colazione che faccio con voi,—andava dicendo la fanciulla. Ma la colazione non la fece, perchè non ne aveva voglia: era troppo commossa di lasciare quei luoghi, dove si era trovata tanto bene.
Andò nella sua camera e discese col cappellino e la borsetta in mano.
Tutti vollero accompagnarla alla stazione, e darle qualche ricordo:Vittorio le regalò un libro, Giannina le porse un mazzo di fiori,Mario le regalò un disegno che rappresentava tutta la famiglia Morandiin lagrime per la sua partenza.
Essa era turbata e non trovava più parole per ringraziare.
—È troppo, è troppo, grazie,—continuava a dire,—quanto siete buoni!
Arrivarono alla stazione cinque minuti prima che partisse il treno.
Dovette subito mettersi al posto, ma stette al finestrino a chiacchierare coi suoi amici; aveva da raccomandar loro tante cose e specialmente di scriverle, di dirle tutto quello che accadeva in quel paese e di tornar presto in città, dove essa avrebbe contato i giorni aspettandoli. Le pareva d'aver ancora tanto da dire, ma si udì il segnale della partenza.
—Addio, addio,—disse sporgendo la manina fuori dal finestrino; poi fu vista quella manina scuotere un fazzoletto bianco mentre il treno spariva in distanza.
—Addio, addio,—gridarono tutti sventolando i fazzoletti, e stettero là fermi finchè videro un punto nero che correva, correva lontano, finchè non udirono più il rumore del treno, poi rifecero la strada fatta, ma più tristi, come se mancasse loro qualche cosa e sempre parlando di Angiolina.
—Ecco una ragazza che dovreste prendere per modello,—disse Maria.
—È vero, è tanto buona,—disse Giannina,—voglio proprio aiutarti come faceva lei.
Elisa pensava invece, che sarebbe toccato a lei ad aiutare la sorella maggiore; ma ciò le dava noia perchè il suo maggior piacere sarebbe stato di far la signora e non pensare che ai divertimenti, come Elvira Guerini.
Essa propose alla compagnia d'andare appunto a trovare i Guerini per consolarsi della partenza di Angiolina; ma Maria replicò che di distrazioni ne avevano avute anche troppe, e bisognava pensare a lavorare e a studiare, altrimenti Carlo non avrebbe passato l'esame; poi non voleva andar troppo spesso in casa Guerini; perchè la sua famigliuola modesta al contatto coi Guerini avrebbe certo acquistato delle abitudini e dei bisogni che non avrebbe potuto soddisfare.
—Quelle sì sono persone felici!—disse sospirando Elisa, e si rassegnò a tornarsene a casa, ma tenne il broncio per tutto il giorno, tanto che Vittorio si maravigliava che l'Elisa si rattristasse tanto per la partenza di Angiolina.