VI.Le Maschere e l'Amica.

VI.Le Maschere e l'Amica.Le Mascheredovevano essere nell'intenzione del librettista e del musicista una esumazione dei personaggidell'antica commedia d'arte. Esumazione piena di significati poetici e musicali. Da parte del librettista era come una proposta di abbandonare «i nuovi e strani eroi» per tornare alla semplice e buona ingenuità della maschera settecentesca. Da parte del musicista era, oltre al far suo il proposito del librettista, abbandonarsi a tutta la sua spontanea italianità tornando alle forme classiche dell'opera buffa.Il proponimento poteva anche esser bello; sebbene sia saggio notare che tutti questiritorni all'anticosono pericolosissimi: giacchè, pur tralasciando il fatto che è molto dubbio un accordo intero tra il desiderio d'un artista (che, al modo che l'intende il Mascagni, è, in fondo in fondo, un servo del pubblico) di tornare al passato e l'anima del pubblico estranea ormai a questo passato; occorre per infondere una vita novella nei cadaveri che l'arte nel suo cammino infrenabile lascia dietro di sè, una ragione profonda nell'artista stesso che si accinge a tale resurrezione. Occorre che l'artista si trovi in un'opposizione violenta con i sentimenti e le convinzioni dell'ambiente che lo circonda; occorre che l'artista si senta più contemporaneo dei morti che dei vivi; occorre insomma che egli sia dotato di un senso storico squisito. Con questo non voglio dire che da fraintendimenti storici non sien nate opere insigni, ma bisognavedere di quanto le condizioni dell'ambiente favorivano l'errore di ricostruzione.Ora, oggi non siam più nel 400 in cui si potessero vestire nei quadri personaggi orientali con abiti occidentali. Oggi che un musicista come Wagner ci ha mostrato quanto bene anche con la musica potesse esser rievocato, con squisita precisione di senso storico, un tempo estraneo e lontano al Wagner e ai suoi contemporanei — in realtà, s'incolpa i musicisti moderni di wagnerismo; ma quanti hanno osato seguire le orme wagneriane nella sua mirabile coscienziosità di erudito! In altre parole: in un tempo, qual'è il nostro, in cui ogni uomo veramente colto è cittadino non solo di tutto il mondo, ma di tutta la storia a memoria d'uomo conosciuta; per una rievocazione settecentesca, quali dovrebbero esserle Mascheresi esige ben altra preparazione lenta e paziente che quella che ha servito alla composizione delleMaschere[8]. Infatti, possiamo affermare chetanto il librettista quanto il compositore hanno avuto un'idea che, come tutte le idee di questo mondo, potrebbe essere stata buona; ma l'hanno attuata servendosi di reminiscenze raffazzonate alla meglio qua e là, così come venivano alla memoria. Si tratta insomma d'una resurrezione delle gaie e graziose maschere italiane fatta a orecchio, dilettantescamente: anzi in alcuni punti suggerisce l'immagine che i dilettanti, i quali composero quest'opera buffa voluminosissima, non fossero altri che degli studenti o dei collegiali che, rubacchiando qua e là versi e motivi, avessero formato un buffonesco pasticcio per qualche rappresentazione di beneficenza nel teatrino del collegio o in qualche teatro ceduto gentilmente per l'occasione.La questione è che Pietro Mascagni ha, come ormai deve apparir chiaro da quanto è scritto fin qui, un'italianità affatto spontanea. Egli non ci può dare un'opera di reazioneai nuovi e strani eroiimmigrati dall'estero nell'arte italiana, in quanto che anche di fronte a questi nuovi e strani eroi —Iris, Amica, Ratcliffetc. — egli è rimasto indifferente, anzi assolutamente italiano; sicchè essi, i nuovi e strani eroi, metamorfosati dalla sua musica, acquistarono in grazia del Mascagni stesso pieno, sebben discutibile, diritto di cittadinanza italiana. Per correggere un difetto bisogna, anzitutto, averne intera elucida coscienza. E il Mascagni ha tanta poca coscienza dellainitalianitàdi certi suoi personaggi, che, ripeto, aveva fatto come Verdi, aveva chiamato quasi tutti i suoi eroi dall'estero, se non addirittura dall'Estremo Oriente.A Giosuè Carducci, per ridestare la morta poesia italiana non malata a dir vero di troppo amore per la grande poesia d'oltr'alpe, ma se mai distrutta da una specie di vizio solitario per furor di se stessa, era bisognata un'intera vita di dignitoso dolore, onde finalmente riacquistar piena coscienza e dell'errore dell'ambiente letterario in cui egli viveva, e dei mezzi necessari alla sua nuova grand'arte italica. DaiJuveniliaalle ultime odi è tutta una serie ascensionale di tentativi più o meno felici che l'Omero dell'Italia risorta dovette fare per svincolarsi dalla retorica e salire alla gran luce paterna di Virgilio e di Dante. Finchè nelleOdi barbare, nel cui titolo appare il solito dignitoso dubbio di non esser riuscito a riconquistare la pura italianità per tanti anni cercata, ecco che Giosuè Carducci, trasfigurato come un profeta, può intonare sicuro il nuovo Carme secolare, l'odeNell'annuale della fondazione di Roma.Ora qual'ansia di ritornare alle più schiette sorgive italiane, all'italianità non melodrammatica, vana e retorica, come la letteratura da cui il Carducciseppe liberarsi integrandola nel suo immenso mondo poetico-storico, ma sacra come la pace bronzea dei grandi miti romani, nobilita l'opera del Mascagni? Egli nè ebbe fin dall'inizio del suo cammino, nè ritrovò cammin facendo, l'ideale d'un arte austeramente italiana, per cui dovesse combattere le forme ibride, ed aspirasse al ritorno d'una grandezza italica nella musica forse mai come nella poesia e nelle arti plastiche esistita, ma soltanto per un momento desiderata e cercata. Eppure la italianità del Mascagni io stesso mi sono adoprato a dimostrare, nonchè a cercare di rendere più tersa e più ammirevole. Ma nel risolvimento di questa apparente contradizione io trovo una conferma della natura popolaresca del Mascagni. Italiano è egli, anzi italiano più d'ogni altro compositore nostrano in questo momento. Ma la sua è italianità irriflessa, incosciente, e quindi incapace per la sua incoscienza stessa di trarre dall'ambiente l'urto necessario onde trovare sicuramente le grandi vie che riconducono alle culle della nostra razza e al genio che ad esse presiede.Così al Mascagni era impossibile ridestare quella coscienza profonda dell'italianità che intraluce nelle formidabili creazioni di Dante, di Virgilio, di Carducci. Cosìle Maschere, opera inutilissima, sarebbe indegna ancora d'un'analisi, non potendo la criticaabbassarsi alla considerazione d'un'opera in cui si sfiorano irriverentemente i problemi più sacri dell'arte italiana, e quindi della vita della nostra nazione, se quest'irriverenza stessa in fondo in fondo non fosse affatto irritante, ma ingenua e adorabile come certe inconsideratezze degli animi molto giovani, e se in quest'operetta da collegiale non ci fossero alcuni gioielli d'una purezza assolutamente italiana. Ho già detto, e non è male ripetere, che è pur troppo caratteristico del melodramma italiano ottocentesco il non curare affatto l'insieme dell'opera, ma le singole parti, anzisoltantoalcune delle singole parti, e ho già detto come nelle opere più sbagliate e incoerenti del Verdi del Bellini del Donizzetti del Rossini del Mercadante la critica deve fare una scelta rigorosa ma non implacabile dei pezzi che, estranei all'insieme, continuano, quasi con un egoismo indifferente, la tradizione del linguaggio musicale italiano. Questa scelta va pur fatta nelleMaschere, e noi siamo qui per salvare onestamente dalla condanna dello spartito la sinfonia il duetto d'amore e le due danze del 2º atto, ben esigua quantità date le proporzioni gigantesche della partitura, ma di tal qualità, che sarebbe ingiustizia estetica trascurare.Chè, a dir vero, se il Mascagni avesse continuata l'opera con lo stesso tono con cui l'aveva incominciatanella sinfonia,le Mascheresarebbero riuscite una cosa assai bella. Questa sinfonia infatti vuol riprendere e riprende lo stile delle sinfonie rossiniane o mozartiane, o come più piaccia denominarle. Cosa in fondo non difficile a un musicista che molto ami la nostra musica antica. Però quello che dà una grazia simpatica a questa leggiadra sinfonia, è che i temi i contrappunti che servono a colmare il vecchio schema della sinfonia da opera buffa, son tutti profondamente mascagnani.Così è delizioso il modo con cui alla pomposità del cominciamento rossiniano succedono gli episodi melodici e contrappuntistici di contenuto affatto moderno. Bella particolarmente riesce nell'episodio a ottavi ribattuti —more rossiniano— l'armonia acidulamente moderna con cui il disegno s'inalza e s'abbassa. E dolcissimo è il cantabile che intercala per tre volte, una delle quali melanconicamente in minore, gli scherzosi movimenti a crome. Che però questa sinfonia fosse purtroppo più fatta per un gioco piacevole e ben riuscito, che per una profonda intenzione di ripristinare le forme classiche secondo un raffinato metodo il quale avrebbe dovuto del pari essere applicato a tutta l'opera, lo dimostra il fatto che il maestro non ha saputo andar più oltre della sinfonia, il resto dell'opera non essendo moderato dalla grazia dei modelli che hanno ispirato la sinfonia.Sono pure intonatissime le due danze: lapavanae lafurlana. La prima è un lento movimento di gavotta a cui a suo tempo si sposano settecentescamente due sentimentali strofe del tenore. La grazia del ritmo, la delicatezza della melodia, la semplicità dei mezzi, fanno di questa danza un altro gioiello che il Mascagni ha donato alla nostra musica. Quest'arte della danza non barocca, non pervertita da intenzioni letterario-decadenti, ma schietta e fresca, è un segreto della musica italiana e francese e andrebbe conservato con gelosia. Il Mascagni ha per la danza semplice, amabile, senza sottintesi sadici o artifizi volgari, una vera disposizione. Si ricordi il leggiadrissimo preludio del 4º atto delRatcliffdescrivente la danza nuziale: si ricordi la danza delle guechas sebbene infinitamente inferiori alla danza nuziale delRatcliff; e si ricordi più di tutto la meravigliosa monferrina dell'Amica, in cui sembra aleggiare lo spirito ingenuo ed elegante di Mozart.Lafurlanaè un gaio movimento di tarantella più comune e meno eletta nel suo svolgimento, ma pur sempre preziosa per l'italianissimo brio che la ritma.Mi resta a parlare del duetto, sebbene di questa opera interamente fallita bisognerebbe notare ancora il dolcissimocantabiledi Rosaura e Florindo nel pezzo concertato che chiude il 1º atto.Ma questo cantabile è una vera gemma sciupata dal contorno volgare e insipiente che la avviluppa quasi indistricabilmente.Nè la prima parte del duetto in questione è molto al disopra di questo pezzo concertato, e non ne avrei certo parlato se la melodia che ne forma la 2ª parte: — Colma di fiori incanti — è il mondo, eterna patria — e il prato ancora talamo — è di liberi amanti — non fosse un brano di musica dove il Mascagni raggiunge forse la più pura espressione del suo sentimento predominante se non addirittura l'unico: l'amore. Ho già detto che in Mascagni c'è quasi una estrema fioritura dell'erotismo sensuale e melanconico del 700. Questo rifiorimento, che per essere spontaneo, non ha a che vedere con la resurrezione riflessa della maschera italiana — resurrezione, come già osservammo, negata alla troppa ingenuità mascagnana — trova in questa melodia una espressione insuperabile. Una certa dignità di linea di ritmo di armonizzazione, una specie di puerilità leziosa che ci rende adorabili Florindo e Rosaura, i canori amanti rosei e paffuti che si sbaciucchiano come due colombi, avvicinano questa del Mascagni alle più dolci arie del 600 e dell'800. Forse al Mascagni non sarà concesso più dicantarecon tanta voluttuosa castigatezza di modulazioni di melismi e di ritmo.Con la castigatezza di questo duetto e con la semplicità scherzevole delle danze e della sinfonia contrastano violentemente le pesanti polifonie orchestrali e gli esagerati strillanti recitativi dell'Amica. Quest'opera era stata attesa rispetto all'Iris, come ilRatcliffrispetto allaCavalleriae, cioè, come qualcosa di definitivo, di affermativo, nell'opera del Mascagni, che tutti, anche i critici più facili e proclivi alle lodi senza senso comune, sentivano mancare, quasi direi, d'equilibrio estetico. Ma infinitamente inferiore alRatcliff, l'Amicanon aggiunge nulla alle cose già dette dal Mascagni, se non se ne eccettui lo sforzo di dirle più forte e più pomposamente. Giacchè l'autoretorica dell'Amicadifferisce dall'autoretorica delSilvano, per esser questa quasi direi un'autoretorica accettata ingenuamente, quella una autoretorica, mi si perdoni il bisticcio, doppia e cioè voluta nascondere con lo sfoggio della bravura tecnica. Gli spunti melodici dell'Amicasono infatti, come quelli delSilvano, tutto quel che di trito di vecchio di stanco poteva produrre la fantasia del Mascagni in un momento di aridità. Ma a questa specie di retorica iniziale s'aggiunge una seconda retorica nello svolgimento di essi spunti.Si prenda, ad esempio, nel 2º atto tutto lo squarcio finale dell'opera — l'a solod'Amica e la sua morte. L'orchestra rugge una frase di nessun valore.Onde di suoni si modellano su linee d'architettura sonora di nessuna novità. Ma quale sfoggio di colori pesanti, wagneriani! Un cromatismo insopportabile, un'esasperazione continua dei sentimenti, in fondo anch'essi di nessun valore drammatico, dei personaggi, rendono il continuo ammassarsi delle parti strumentali ridicolo più che brutto. E il ridicolo raggiunge il colmo, quando Amica, che come tutte le ragazze, sian pure alpigiane, non peserà più, se ben portante, di 90 chili, precipita giù dalla roccia nel torrente con tal fragore dischlaginstrumente, da far credere che ruzzoli giù per la montagna non una giovinetta ma un battaglione intero d'artiglieria e, se più sembri opportuno essendo la scena sulle Alpi, l'armata ricca di cariaggi e d'elefanti, d'Annibal dirò.Nell'Amicanoi non riconosciamo più Mascagni. La sua cara e fresca sentimentalità s'è convertita in quella forma di teatral volgarità di sentimento che, come osservai nella prima parte di questo lavoro, forma la delizia della vita intellettuale della plebe e dei piccoli borghesi. Diciamo francamente che nessuna cosa al mondo, sotto questo aspetto, meritava l'onore di essere spedita all'esposizione del cattivo gusto come l'aria:più presso al ciel — più lontan dalla terra, aria che fa fremere di ribellione alle mamme e ai babbi i buoni fidanzati al cui sospiratomatrimonio l'accorgimento pratico dei parenti oppone la magrezza dello stipendio guadagnato alle vie ferrate.

Le Mascheredovevano essere nell'intenzione del librettista e del musicista una esumazione dei personaggidell'antica commedia d'arte. Esumazione piena di significati poetici e musicali. Da parte del librettista era come una proposta di abbandonare «i nuovi e strani eroi» per tornare alla semplice e buona ingenuità della maschera settecentesca. Da parte del musicista era, oltre al far suo il proposito del librettista, abbandonarsi a tutta la sua spontanea italianità tornando alle forme classiche dell'opera buffa.

Il proponimento poteva anche esser bello; sebbene sia saggio notare che tutti questiritorni all'anticosono pericolosissimi: giacchè, pur tralasciando il fatto che è molto dubbio un accordo intero tra il desiderio d'un artista (che, al modo che l'intende il Mascagni, è, in fondo in fondo, un servo del pubblico) di tornare al passato e l'anima del pubblico estranea ormai a questo passato; occorre per infondere una vita novella nei cadaveri che l'arte nel suo cammino infrenabile lascia dietro di sè, una ragione profonda nell'artista stesso che si accinge a tale resurrezione. Occorre che l'artista si trovi in un'opposizione violenta con i sentimenti e le convinzioni dell'ambiente che lo circonda; occorre che l'artista si senta più contemporaneo dei morti che dei vivi; occorre insomma che egli sia dotato di un senso storico squisito. Con questo non voglio dire che da fraintendimenti storici non sien nate opere insigni, ma bisognavedere di quanto le condizioni dell'ambiente favorivano l'errore di ricostruzione.

Ora, oggi non siam più nel 400 in cui si potessero vestire nei quadri personaggi orientali con abiti occidentali. Oggi che un musicista come Wagner ci ha mostrato quanto bene anche con la musica potesse esser rievocato, con squisita precisione di senso storico, un tempo estraneo e lontano al Wagner e ai suoi contemporanei — in realtà, s'incolpa i musicisti moderni di wagnerismo; ma quanti hanno osato seguire le orme wagneriane nella sua mirabile coscienziosità di erudito! In altre parole: in un tempo, qual'è il nostro, in cui ogni uomo veramente colto è cittadino non solo di tutto il mondo, ma di tutta la storia a memoria d'uomo conosciuta; per una rievocazione settecentesca, quali dovrebbero esserle Mascheresi esige ben altra preparazione lenta e paziente che quella che ha servito alla composizione delleMaschere[8]. Infatti, possiamo affermare chetanto il librettista quanto il compositore hanno avuto un'idea che, come tutte le idee di questo mondo, potrebbe essere stata buona; ma l'hanno attuata servendosi di reminiscenze raffazzonate alla meglio qua e là, così come venivano alla memoria. Si tratta insomma d'una resurrezione delle gaie e graziose maschere italiane fatta a orecchio, dilettantescamente: anzi in alcuni punti suggerisce l'immagine che i dilettanti, i quali composero quest'opera buffa voluminosissima, non fossero altri che degli studenti o dei collegiali che, rubacchiando qua e là versi e motivi, avessero formato un buffonesco pasticcio per qualche rappresentazione di beneficenza nel teatrino del collegio o in qualche teatro ceduto gentilmente per l'occasione.

La questione è che Pietro Mascagni ha, come ormai deve apparir chiaro da quanto è scritto fin qui, un'italianità affatto spontanea. Egli non ci può dare un'opera di reazioneai nuovi e strani eroiimmigrati dall'estero nell'arte italiana, in quanto che anche di fronte a questi nuovi e strani eroi —Iris, Amica, Ratcliffetc. — egli è rimasto indifferente, anzi assolutamente italiano; sicchè essi, i nuovi e strani eroi, metamorfosati dalla sua musica, acquistarono in grazia del Mascagni stesso pieno, sebben discutibile, diritto di cittadinanza italiana. Per correggere un difetto bisogna, anzitutto, averne intera elucida coscienza. E il Mascagni ha tanta poca coscienza dellainitalianitàdi certi suoi personaggi, che, ripeto, aveva fatto come Verdi, aveva chiamato quasi tutti i suoi eroi dall'estero, se non addirittura dall'Estremo Oriente.

A Giosuè Carducci, per ridestare la morta poesia italiana non malata a dir vero di troppo amore per la grande poesia d'oltr'alpe, ma se mai distrutta da una specie di vizio solitario per furor di se stessa, era bisognata un'intera vita di dignitoso dolore, onde finalmente riacquistar piena coscienza e dell'errore dell'ambiente letterario in cui egli viveva, e dei mezzi necessari alla sua nuova grand'arte italica. DaiJuveniliaalle ultime odi è tutta una serie ascensionale di tentativi più o meno felici che l'Omero dell'Italia risorta dovette fare per svincolarsi dalla retorica e salire alla gran luce paterna di Virgilio e di Dante. Finchè nelleOdi barbare, nel cui titolo appare il solito dignitoso dubbio di non esser riuscito a riconquistare la pura italianità per tanti anni cercata, ecco che Giosuè Carducci, trasfigurato come un profeta, può intonare sicuro il nuovo Carme secolare, l'odeNell'annuale della fondazione di Roma.

Ora qual'ansia di ritornare alle più schiette sorgive italiane, all'italianità non melodrammatica, vana e retorica, come la letteratura da cui il Carducciseppe liberarsi integrandola nel suo immenso mondo poetico-storico, ma sacra come la pace bronzea dei grandi miti romani, nobilita l'opera del Mascagni? Egli nè ebbe fin dall'inizio del suo cammino, nè ritrovò cammin facendo, l'ideale d'un arte austeramente italiana, per cui dovesse combattere le forme ibride, ed aspirasse al ritorno d'una grandezza italica nella musica forse mai come nella poesia e nelle arti plastiche esistita, ma soltanto per un momento desiderata e cercata. Eppure la italianità del Mascagni io stesso mi sono adoprato a dimostrare, nonchè a cercare di rendere più tersa e più ammirevole. Ma nel risolvimento di questa apparente contradizione io trovo una conferma della natura popolaresca del Mascagni. Italiano è egli, anzi italiano più d'ogni altro compositore nostrano in questo momento. Ma la sua è italianità irriflessa, incosciente, e quindi incapace per la sua incoscienza stessa di trarre dall'ambiente l'urto necessario onde trovare sicuramente le grandi vie che riconducono alle culle della nostra razza e al genio che ad esse presiede.

Così al Mascagni era impossibile ridestare quella coscienza profonda dell'italianità che intraluce nelle formidabili creazioni di Dante, di Virgilio, di Carducci. Cosìle Maschere, opera inutilissima, sarebbe indegna ancora d'un'analisi, non potendo la criticaabbassarsi alla considerazione d'un'opera in cui si sfiorano irriverentemente i problemi più sacri dell'arte italiana, e quindi della vita della nostra nazione, se quest'irriverenza stessa in fondo in fondo non fosse affatto irritante, ma ingenua e adorabile come certe inconsideratezze degli animi molto giovani, e se in quest'operetta da collegiale non ci fossero alcuni gioielli d'una purezza assolutamente italiana. Ho già detto, e non è male ripetere, che è pur troppo caratteristico del melodramma italiano ottocentesco il non curare affatto l'insieme dell'opera, ma le singole parti, anzisoltantoalcune delle singole parti, e ho già detto come nelle opere più sbagliate e incoerenti del Verdi del Bellini del Donizzetti del Rossini del Mercadante la critica deve fare una scelta rigorosa ma non implacabile dei pezzi che, estranei all'insieme, continuano, quasi con un egoismo indifferente, la tradizione del linguaggio musicale italiano. Questa scelta va pur fatta nelleMaschere, e noi siamo qui per salvare onestamente dalla condanna dello spartito la sinfonia il duetto d'amore e le due danze del 2º atto, ben esigua quantità date le proporzioni gigantesche della partitura, ma di tal qualità, che sarebbe ingiustizia estetica trascurare.

Chè, a dir vero, se il Mascagni avesse continuata l'opera con lo stesso tono con cui l'aveva incominciatanella sinfonia,le Mascheresarebbero riuscite una cosa assai bella. Questa sinfonia infatti vuol riprendere e riprende lo stile delle sinfonie rossiniane o mozartiane, o come più piaccia denominarle. Cosa in fondo non difficile a un musicista che molto ami la nostra musica antica. Però quello che dà una grazia simpatica a questa leggiadra sinfonia, è che i temi i contrappunti che servono a colmare il vecchio schema della sinfonia da opera buffa, son tutti profondamente mascagnani.

Così è delizioso il modo con cui alla pomposità del cominciamento rossiniano succedono gli episodi melodici e contrappuntistici di contenuto affatto moderno. Bella particolarmente riesce nell'episodio a ottavi ribattuti —more rossiniano— l'armonia acidulamente moderna con cui il disegno s'inalza e s'abbassa. E dolcissimo è il cantabile che intercala per tre volte, una delle quali melanconicamente in minore, gli scherzosi movimenti a crome. Che però questa sinfonia fosse purtroppo più fatta per un gioco piacevole e ben riuscito, che per una profonda intenzione di ripristinare le forme classiche secondo un raffinato metodo il quale avrebbe dovuto del pari essere applicato a tutta l'opera, lo dimostra il fatto che il maestro non ha saputo andar più oltre della sinfonia, il resto dell'opera non essendo moderato dalla grazia dei modelli che hanno ispirato la sinfonia.

Sono pure intonatissime le due danze: lapavanae lafurlana. La prima è un lento movimento di gavotta a cui a suo tempo si sposano settecentescamente due sentimentali strofe del tenore. La grazia del ritmo, la delicatezza della melodia, la semplicità dei mezzi, fanno di questa danza un altro gioiello che il Mascagni ha donato alla nostra musica. Quest'arte della danza non barocca, non pervertita da intenzioni letterario-decadenti, ma schietta e fresca, è un segreto della musica italiana e francese e andrebbe conservato con gelosia. Il Mascagni ha per la danza semplice, amabile, senza sottintesi sadici o artifizi volgari, una vera disposizione. Si ricordi il leggiadrissimo preludio del 4º atto delRatcliffdescrivente la danza nuziale: si ricordi la danza delle guechas sebbene infinitamente inferiori alla danza nuziale delRatcliff; e si ricordi più di tutto la meravigliosa monferrina dell'Amica, in cui sembra aleggiare lo spirito ingenuo ed elegante di Mozart.

Lafurlanaè un gaio movimento di tarantella più comune e meno eletta nel suo svolgimento, ma pur sempre preziosa per l'italianissimo brio che la ritma.

Mi resta a parlare del duetto, sebbene di questa opera interamente fallita bisognerebbe notare ancora il dolcissimocantabiledi Rosaura e Florindo nel pezzo concertato che chiude il 1º atto.

Ma questo cantabile è una vera gemma sciupata dal contorno volgare e insipiente che la avviluppa quasi indistricabilmente.

Nè la prima parte del duetto in questione è molto al disopra di questo pezzo concertato, e non ne avrei certo parlato se la melodia che ne forma la 2ª parte: — Colma di fiori incanti — è il mondo, eterna patria — e il prato ancora talamo — è di liberi amanti — non fosse un brano di musica dove il Mascagni raggiunge forse la più pura espressione del suo sentimento predominante se non addirittura l'unico: l'amore. Ho già detto che in Mascagni c'è quasi una estrema fioritura dell'erotismo sensuale e melanconico del 700. Questo rifiorimento, che per essere spontaneo, non ha a che vedere con la resurrezione riflessa della maschera italiana — resurrezione, come già osservammo, negata alla troppa ingenuità mascagnana — trova in questa melodia una espressione insuperabile. Una certa dignità di linea di ritmo di armonizzazione, una specie di puerilità leziosa che ci rende adorabili Florindo e Rosaura, i canori amanti rosei e paffuti che si sbaciucchiano come due colombi, avvicinano questa del Mascagni alle più dolci arie del 600 e dell'800. Forse al Mascagni non sarà concesso più dicantarecon tanta voluttuosa castigatezza di modulazioni di melismi e di ritmo.

Con la castigatezza di questo duetto e con la semplicità scherzevole delle danze e della sinfonia contrastano violentemente le pesanti polifonie orchestrali e gli esagerati strillanti recitativi dell'Amica. Quest'opera era stata attesa rispetto all'Iris, come ilRatcliffrispetto allaCavalleriae, cioè, come qualcosa di definitivo, di affermativo, nell'opera del Mascagni, che tutti, anche i critici più facili e proclivi alle lodi senza senso comune, sentivano mancare, quasi direi, d'equilibrio estetico. Ma infinitamente inferiore alRatcliff, l'Amicanon aggiunge nulla alle cose già dette dal Mascagni, se non se ne eccettui lo sforzo di dirle più forte e più pomposamente. Giacchè l'autoretorica dell'Amicadifferisce dall'autoretorica delSilvano, per esser questa quasi direi un'autoretorica accettata ingenuamente, quella una autoretorica, mi si perdoni il bisticcio, doppia e cioè voluta nascondere con lo sfoggio della bravura tecnica. Gli spunti melodici dell'Amicasono infatti, come quelli delSilvano, tutto quel che di trito di vecchio di stanco poteva produrre la fantasia del Mascagni in un momento di aridità. Ma a questa specie di retorica iniziale s'aggiunge una seconda retorica nello svolgimento di essi spunti.

Si prenda, ad esempio, nel 2º atto tutto lo squarcio finale dell'opera — l'a solod'Amica e la sua morte. L'orchestra rugge una frase di nessun valore.Onde di suoni si modellano su linee d'architettura sonora di nessuna novità. Ma quale sfoggio di colori pesanti, wagneriani! Un cromatismo insopportabile, un'esasperazione continua dei sentimenti, in fondo anch'essi di nessun valore drammatico, dei personaggi, rendono il continuo ammassarsi delle parti strumentali ridicolo più che brutto. E il ridicolo raggiunge il colmo, quando Amica, che come tutte le ragazze, sian pure alpigiane, non peserà più, se ben portante, di 90 chili, precipita giù dalla roccia nel torrente con tal fragore dischlaginstrumente, da far credere che ruzzoli giù per la montagna non una giovinetta ma un battaglione intero d'artiglieria e, se più sembri opportuno essendo la scena sulle Alpi, l'armata ricca di cariaggi e d'elefanti, d'Annibal dirò.

Nell'Amicanoi non riconosciamo più Mascagni. La sua cara e fresca sentimentalità s'è convertita in quella forma di teatral volgarità di sentimento che, come osservai nella prima parte di questo lavoro, forma la delizia della vita intellettuale della plebe e dei piccoli borghesi. Diciamo francamente che nessuna cosa al mondo, sotto questo aspetto, meritava l'onore di essere spedita all'esposizione del cattivo gusto come l'aria:più presso al ciel — più lontan dalla terra, aria che fa fremere di ribellione alle mamme e ai babbi i buoni fidanzati al cui sospiratomatrimonio l'accorgimento pratico dei parenti oppone la magrezza dello stipendio guadagnato alle vie ferrate.


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