CAPITOLO XXII.Il bivio.

CAPITOLO XXII.Il bivio.

Dispiacque la proposta in Barsipa. Che vuole costei? dimandavano i ribelli, radunati a consiglio. Qual nuovo inganno si cela in questa tregua, che ella ci profferisce? Tarderanno ancora parecchi giorni i soccorsi di Media; che importa? Le nostre mura sono salde e ingegni di guerra non mancano a noi, per respingere i minacciati assalti della regina. Alla perfine, di quali speranze si nutre, col popolo avverso e l'esercito mal fido? E non è forse da credere che ella tema più di noi l'esito di quest'ultimo scontro? Di certo, le è giunto all'orecchio che domani, dal sommo della gran torre, i Casdim chiameranno solennemente sovr'essa la maledizione degli Dei, e questa sua profferta è intesa a scongiurare il pericolo. Ella ben sa che il popolo di Kiprat Arbat, servo riverente dei Numi, si solleverà contro di lei, dichiarata sacrilega, e l'esercito, in cui è tanta parte dei figli del Sennaar, piglierà ansa a sostenere le ragioni del popolo. No, si risponda a Faleg, non tregua, nè accordi!

Vinceva per tal guisa il partito di respingere la proposta. Ma Zerduste, che fino a quel punto aveva serbato il silenzio, si oppose.

— Due notti in Babilonia, — egli disse, — sono gran ventura per noi, quale non ci era dato sperare dalla benevolenza del cielo. Ponete mente, o savi consiglieri del re: ciò che a noi tornò così malagevole di ottenere, la mercè di destri emissarii, tenteremo liberamente noi stessi per le vie della città, nelle lunghe ore che ci consente la tregua. Nè così audace è il popolo, nè ancora così pronto ad ammutinarsi l'esercito. D'una propizia occasione è mestieri, e questa occasione è la tregua.

— Ma sarà ella osservata, la tregua? — notarono gli altri, con accento di dubbio. — Non è per avventura da temersi una insidia?

— Semiramide non è donna da tendere insidie! — rispose brevemente Zerduste. — Ciò ch'ella promette fedelmente atterrà. State di buon animo, ed eleggete quali di voi dovranno recarsi alla reggia. Io medesimo, che più d'ogni altro avrei cagion di temere, scenderò in Babilonia cogli inviati del re e col venerato collegio dei Casdim. —

Ora, Zerduste era l'anima della rivolta e a lui tutti facevano capo, come al vero monarca. I Casdim medesimi, ai quali l'astuto prometteva tanta possanza nell'impero, erano a lui vincolati. La proposta fu dunque accettata.

Tosto, recatosi alle porte della città, il principe di Bakdi venne a parlamento con Faleg.

— La regina ascolterà dunque i voti dei Casdim e dei grandi rifuggiti in Barsipa?

— E degli anziani di Babilu; — aggiunse Faleg. — Il popolo rimasto in città è sempre il maggior numero; nè il suo voto, qualunque esso sia, va lasciato in disparte.

— Sta bene; — disse Zerduste. — E che intendi tuper altri dei ribelli, purchè siano principi delle loro nazioni? Son io dunque del numero?

— Tu primo, — rispose l'inviato di Semiramide, — e le mie parole indicavano te. Non fosti tu il consigliero della ribellione? Non comandi tu, non fai ogni cosa a tuo talento appo il re? Vieni dunque, se ti aggrada; la tua persona, come quella d'ogni altro, ci è sacra. —

Così minutamente convenuti di tutto fu giurata quel medesimo giorno la tregua nel tempio di Nebo. Giurò Zerduste per Ninia e pei ribelli; Faleg per la regina e per l'esercito suo; Abdenago, il primo degli anziani, pel popolo delle quattro favelle.

Babilonia si rasserenò come per incanto, dopo che gli araldi ebbero bandita quella sospensione d'arme, altrettanto gradita, quanto era inattesa. Gli animi, riaperti alla speranza, intravvidero la pace imminente. A che si sarebbe fatta la tregua, se non fosse parso ai combattenti di poter giungere ad utili accordi? Del resto, l'esser chiamati in mezzo gli anziani della città, quasi arbitri dei litigio, affidava il popolo che in un modo o nell'altro, per la madre o pel figlio, gli sarebbe restituita la calma.

In sull'ora del tramonto, schiuse le porte di Barsipa, scesero i grandi e i sacerdoti in Babilonia. Sulle orme loro si affrettarono molti altri, che pure non dovevano andare alla reggia, guerrieri e cittadini, a cui premeva di vedere i congiunti o gli amici. Nè Faleg si oppose a questo lor desiderio. Così, largheggiando di generosità e di clemenza, volea Semiramide. Non erano che un solo i due popoli; soltanto le sorti della guerra intestina li avean separati; tornassero quelli di prima, finchè durava la tregua.

La mattina del giorno seguente, che fu il ventesimononodi Tana, gli anziani di Babilu, condotti da Abdenago, i capi della rivolta, e i maggiori tra i Casdim, guidati dal saccanàco, ascendevano alla reggia, ed erano introdotti nella sala di Nemrod, al cospetto della regina.

Semiramide era seduta sul trono, pallida in volto, ma tranquilla, in atteggiamento regale. Immobili ai suoi fianchi stavano i flabelliferi, con alti ventagli di penne, i melofori coll'armi in pugno e i portatori di scettro, interpreti e ministri de' suoi alti comandi. Faleg e i capi dell'esercito erano in attesa, raccolti ai piedi del trono.

Zerduste non era tra i nuovi venuti. O fosse riguardo per sè, o atto di meditata cortesia verso la regina, egli non avea posto piede là dentro; ma bene erasi aperto cogli altri, ed essi indettati con lui, d'ogni cosa che avessero a dire. Il saccanàco, per giusto riserbo della sua dignità, non voleva dal canto suo esser primo ad ossequiar Semiramide. Però l'ufficio di parlare in nome di tutti era commesso al capo degli anziani, che difatti fu il primo ad inoltrarsi a' piedi del trono.

— Potente signora, — disse Abdenago inchinandosi a mezzo, — vivi in perpetuo!

— E a te ed a chi viene con te, — rispose la regina, — dian lume di savio consiglio i celesti. Io vo' che posi la guerra, e, perdonati i ribelli, allontanati gli estrani, sia riverita la mia autorità dal popolo delle quattro favelle. Ora, che pensate voi dell'offerta? I disegni della mia clemenza son questi. Amo meglio vengano essi incontro a voi, in sembianza di doni amorevoli, anzi che paiano concessioni lungamente patteggiate, e quasi strappate alla resistenza d'un animo acerbo. Madre io mi tengo del popolo, come lo sono di Ninia. La mia fede vi è nota. Schietto ed aperto ditemi dunque l'animo vostro. —

Abdenago si fece innanzi d'un passo, e postasi la manca sul petto e stesa la destra in alto, come per aggiungere solennità al suo discorso, parlò:

— Regina, non ti dispiaccia il mio dire. Pel mio labbro ti parlano gli ordini tutti della città, i rifuggiti in Barsipa, il venerato collegio dei Casdim. Il popolo delle quattro favelle è per cagion tua sventurato. Sempre, dacchè lo raccolse in questa pianura e gli diè legge il fortissimo Nemrod, questo popolo fu governato da re, scesi tutti da una medesima stirpe. Per la prima volta l'ebbe in sua balìa una donna, e quella tu fosti. La tenera età di Ninia, la tua gloria, la tua fortuna, persuasero di lasciarti lo scettro, che soltanto a destre virili era concesso impugnare....

— Io lo tenni per virtù mia, non l'ebbi in grazia a voi! — interruppe la regina.

— E sia; — disse di rimando Abdenago; — noi dunque a forza obbedienti, non già condiscendenti alla tua autorità per nostra elezione. Regnasti sola e felice undici anni; la fortuna arrise alle tue armi, fino a quel giorno che, condotto il tuo esercito sulle rive dell'Indo lontano, il Signor delle sorti volse la sua faccia da te, e tu non campasti che colla fuga da una certissima morte. —

Un amaro sorriso sfiorò le labbra di Semiramide.

— Trasvolate assai presto undici anni di gloria! — diss'ella con piglio sarcastico. — Vi giova altresì dimenticare che questa felicità, questa grandezza, di cui rimpiangete la perdita, voi, prima e vera cagione del vostro medesimo danno, sono opere mie. Chi ha fatto l'impero? Chi ha esaltato i sommi Dei di Babilu al cospetto delle vinte nazioni? Prima che io fossi, io, avventuriera d'Ascalona, siccome taluno di voi oltraggiosamente mi chiama, nessuno degli Accad aveva ancoraveduto un tratto di mare. Io quattro ne vidi, e sulle rive trionfate posi i confini della mia, della vostra possanza. Chi ha soggettato al nome dei figli di Cus tutto il paese di Martu, dalle arene di Mesraim fino alle spiaggie di Rifat, con entro città popolose e fiorenti di traffichi, e Chittim, e Caftor e tutte l'altre isole belle che si specchiano nel mare del sole occidente? Bene le terre dei Medi attrassero il cupido sguardo dei vostri re, da Nemrod a Nino; ma chi venne a capo della resistenza di Bakdi, della città che sovrasta con l'alta bandiera su tutta la contrada del sole oriente, dal Caspio, in cui l'Oxo si versa, infino all'Eritreo, dove l'Indo mette le numerose sue foci? Chi stese il regno alla terra degli aromi e dell'oro, che siede felice in mezzo a tre mari? e le prede di tante guerre, i tributi di tanti popoli soggiogati, chiusi io forse per me, o gittai nelle feste? Non mutai, dov'era bisogno, il corso de' fiumi? Non murai cittadelle? Non apersi vie spaziose, ov'erano dapprima boscaglie, dirupi e libere orme di fiere? Io strinsi d'argini poderosi l'Eufrate ed il Tigri; io riedificai la città, cingendola di saldissime mura e di fosso profondo; io innalzai questa reggia, splendor della terra; io que' templi, grata dimora ai celesti. Quale dei vostri barbari re, sia egli pure Nemrod, il terribile cacciatore di popoli, o Nino, mio sposo, giunse a tanto di gloria? E a me si ardisce dar cagione delle sventure di Babilu? Dinanzi a me si ardisce rimpiangere la mano d'un re? —

Un mormorio d'approvazione era corso per le file dei cortigiani e dei capi dell'esercito, molti de' quali aveano partecipato ai pericoli e alla gloria di tante nobilissime imprese. Gli stessi cittadini di Babilonia, e parecchi dei grandi rifuggiti in Barsipa, avevano sentito come un'aura della passata grandezza aleggiare sulle lorocervici e curvarle ad atto di riverenza e d'ossequio. Ma Abdenago, nella cui mente aveva stillato le sue sapienti perfidie il principe di Bakdi, non si era dato per vinto:

— E sia ancora; — ripigliò il capo degli anziani, — sia sempre come tu dici, o regina. Tante mirabili cose hai operato, o, per dire più veramente, hanno operato per tua mano gli Dei protettori di Babilu. Ma perchè, a mezzo il corso de' tuoi benefizi, hai tu voluto arrestarti e distruggerne i frutti? Perchè tu, fondatrice dell'impero, facendo contro a te stessa, ti sei consigliata di mandarlo a rovina? Questa recente guerra contro la maledetta Armenia, per qual ragione fu impresa? —

E Abdenago, uscendo in questa dimanda, si piantò arditamente dinanzi al trono, guardando la regina con aria di sfida. Parlavano pel suo labbro i lutti numerosi che quella guerra aveva arrecati a Babilonia, e gli cresceano l'audacia. Fremettero i convenuti nella sala di Nemrod, quali di memore sdegno, quali di corruccio per la temeraria domanda; ma gli uni e gli altri, ben sapendo che là era il nodo di quell'aspra contesa, stettero muti ed intenti ad aspettare la risposta di Semiramide. Essa fu breve.

— Non vi ho mai detto perchè imprendessi le altre; — disse alteramente la regina; — non vi dirò dunque le cagioni di questa. Ben voglio sia ricordato da voi che l'Armenia era soggetta a tributo e che, d'improvviso, scossa la nostra autorità, offeso dai figli d'Aìco la maestà del trono degli Accad, occorreva domarne con pronta guerra l'orgoglio. Un grande impero siccome il nostro non può viver sicuro, con audaci e turbolenti nemici alle spalle.

— Così non dice la fama! — replicò prontamente l'anziano.

— La fama! — esclamò Semiramide. — La fama! — ripetè con ironico accento. — E che si fa dire a questa compiacente ministra dell'invidia, del maltalento e della stoltezza del volgo?

— Che fu un capriccio di donna; — rispose Abdenago, senza fermarsi a raddrizzare la frase. — Condonami, o regina, le ruvide ma schiette parole. Siam qui per farti udire la voce del vero, non piaggerie di servi ossequenti e paurosi. Questa guerra è costata tesori. Per essa, settanta miriadi d'armati furono raccolte in Assur; tutte le più valide braccia tolte alle case loro e all'operosa pace dei campi. Ma che dico dei tesori profusi, quando è il sangue sparso che grida vendetta? Duecento migliaia di combattenti lasciarono la vita ne' preziosi monti d'Armenia, nelle infami strette di Ajotzor! Tu vincevi, o regina; trionfavi del riluttante Armeno e godevi in cuor tuo; ma tu non eri già nella desolata terra del Sennaar, confusa tra le orbate famiglie di Babilu, per lunghe e terribili ore immobile sulla riva dell'Eufrate, a contemplare i cadaveri tratti nell'onde vorticose del fiume natìo! Il fiore e il nerbo della nostra schiatta miseramente perduto; i diecimila cavalieri di Belo, onore e forza della progenie di Nemrod, mietuti dall'orrida morte; e perchè? Guerra utile era forse cotesta? O necessaria almeno? Che non la facesti tu prima? Che non ne rimovesti i danni con previdente consiglio? Ma inutile era, inutile e dannosa pel popolo di Kiprat Arbat; utile soltanto a' tuoi corrucci, profittevole alle tue regali vendette!...

— E non erano esse le vostre? — interruppe Semiramide. — Lasciamo le perfidie che s'ascondono nelle tue parole, o Abdenago; la regina le ha udite, e ti basti. Di tante morti mi duole; a me prima e piùfortemente è doluto che a voi. Ma la sorte delle battaglie è cotesta; nè la vittoria fruttifica, senza che il campo sia innaffiato di sangue. Molti guerrieri, e de' migliori, perirono, in tutte le guerre che hanno fatto grande e poderoso l'impero; molti più ancora in disutili imprese, e non già di donna corrucciata, ma d'uomini forti e prudenti, di re animosi e feroci, che voi oggi a mio scorno esaltate. E nessuno si dolse allora, nessuno impugnò l'armi della ribellione, quando il fortissimo Nemrod, in quelle medesime strette di Ajotzor, famose, o Abdenago, famose finchè duri memoria negli umani intelletti, lasciò la vita, la gloria dei passati trionfi e non una parte de' suoi, ma tutta la schiera de' valorosi Titani. E voi sventurati per me! Voi sollevati contro la mia autorità, per alto rammarico delle vite mietute! Sii più cauto, o Abdenago, nel far tuo pro di un lutto comune. In Ajotzor si combatteva il sesto giorno di Tana, e voi già apertamente ribelli dal terzo, mentre io mi disponevo a levare le tende dal campo di Assur.

— È vero; — balbettò confuso l'anziano. — Ma infine, e non era egli agevole di prevedere quella immensa rovina? Tu stessa hai ricordato il figlio di Misdraim. Sì, l'impresa del forte Titano contro le case di Thogarma fallì; vita e gloria vi perdette ed esercito. E tu, non ammaestrata dall'esempio, hai voluto ritentare la prova, far contro all'espresso voler degli Dei. Vincesti, ma la tua vittoria fu scherzo amarissimo di Nisroc; per la tua vittoria, per la tua contentezza, è Babilonia, è tutta la terra di Sennaar immersa nel lutto. A che contenderemmo di giorni? L'impero è scosso ne' suoi cardini; questo è il danno più grave, e dimanda le cure sollecite dei savi che consigliano i principi. Nè mancano essi a Ninia, al regio adolescente, che ilpopolo volle e che i sacerdoti consacrarono re sulla gente degli Accad. Figlio di Nino e tuo, non dee parerti un usurpatore del regno.

— Figlio di Nino e di Semiramide, aspetti dunque l'ora del suo destino! — gridò Faleg, che già più non poteva frenarsi. — Male s'argomenta di ottenere obbedienza dal popolo, chi primo si ribella all'autorità della sua genitrice e regina.

— Savio parli; — rispose Abdenago, scosso da quelle ferme parole e più ancora dai segni di assentimento che esse avevano destato tra i capi dell'esercito e tra parecchi de' suoi medesimi compagni. — Ma Ninia dovrà pure un giorno impugnare lo scettro de' suoi maggiori. Egli regna oramai; a che scemargli la maestà del nome, avvilirlo al cospetto delle genti, richiudendolo di bel nuovo nell'ombra gelosa del suo umile stato? Ricordi Babilonia, ricordino i Casdim, ricordi l'esercito (poichè tutti qui raunati non siamo che una famiglia, il popolo delle quattro favelle) essere a noi necessario di premunirci contro un più grave pericolo. Bene avrei desiderato tacerlo, ma infine....

— Parla — gridò Semiramide. — Molto hai già detto, e che altro oramai può farti nodo alla lingua?

— Orbene, sì, parlerò! — soggiunse Abdenago, che astutamente avea meditata la sua reticenza. — Corrono voci strane e paurose tra il popolo. Non sono forse caduti, in un sol giorno di pugna, tutti i nobili rampolli della progenie di Nemrod? Balsam, il capo dei bianchi cavalieri di Belo, Balsam, il terzo nato di Arbel, che fu padre al gran Nino, tuo sposo; Ninip, ultimo del sangue di Bab, che fu il secondo figlio di Nemrod; e Samas Iva, del sangue di Cael, e Misdrac, Ioreb, Dudaimo, balda giovinezza e decoro del vecchio ceppo di Cus, non sono essi tutti, dal primo all'ultimo, rapitiper sempre all'amore e alle speranze degli Accad? Per contro, non hai tu condotto alla reggia l'Armeno, con ogni più sollecita cura campato da morte, prigioniero in apparenza, ma perdonato in cuor tuo? Che dovrà pensare il popolo di Babilonia? che argomentare da ciò? Regina, io nol negherò, chè sarebbe vano e non degno di noi; le tue gesta furono e rimarranno gloria imperitura di Kiprat Arbat. Gioventù, bellezza, ardimento ti arridono, e molto ancora ti sarà dato operare. Ma il popolo, di cui t'è necessaria l'obbedienza e l'affetto, chiede certezza del futuro, vuol essere raffidato da te. Qual cosa vogliano i rifuggiti in Barsipa non so; parlino i loro inviati qui raccolti con noi. In nome del popolo di Babilonia ti parlo io, in nome di questo popolo che ha veduto perire in un giorno la progenie dei re, e che teme non si preparino per avventura le vie del trono ad una stirpe nuova, e quel che peggio sarebbe, di sangue straniero. —

Le vampe del rossore e dell'ira salirono alle guance di Semiramide. Il colpo era tratto alla donna e la feriva nel cuore. Cionondimeno, l'accusa di Abdenago appariva così stolta, che ella riavutasi tosto, anzichè prorompere in accento di sdegno, sorrise di compassione.

— Dimenticate che Ninia vive? — diss'ella.

— Sì, vive, — ripigliò Abdenago, crollando mestamente il capo, — ma per prodigio dei Numi. Ier l'altro, nella sua coppa d'oro gli fu ministrato un veleno. Zerduste lo trattenne, che egli già stava per accostarlo alle labbra. Il coppiere, costretto a bere invece del re, cadde fulminato a' suoi piedi.

— Ah! e che vorresti tu dire? — gridò Semiramide, che durava fatica ad intenderlo. — Forse che io.... Orribile pensiero! Una madre!... E siete voi cittadini di Babilu, voi che lo avete creduto? Ma andate da colui,dal re vostro, correte, e questo ditegli in nome di sua madre, che ella può disprezzarlo, ma ucciderlo.... ucciderlo! oh, anzi che ciò potesse balenarle alla mente, ella avrebbe lacerato col suo ferro il maledetto fianco che lo ha partorito.

— Infame calunnia scaturita dal negro abisso! — tuonò Faleg a sua volta, pallido dalla rabbia troppo a lungo repressa. — E il vostro Zerduste, l'astuto consigliero d'ogni più vil tradimento, non può egli avervi mentito? Che è mai una nuova menzogna, un nuovo inganno per lui? Che è mai la vita di un umil servo babilonese, per l'uomo straniero che non ha dubitato di mandare a rovina la patria nostra e che s'argomenta oggi di salvarla con l'aiuto dei Medi? D'ogni peggiore artifizio è capace costui! Non lo temo io, lo sdegno dei tristi; soldato sono, e so che dovunque è battaglia; son figlio di questa terra, e l'ho per nemico de' miei fratelli di sangue. Badate, o cittadini; egli inganna voi, come inganna il suo regio discepolo, e tardi vi accorgerete del danno, quando i Medi, ora sudditi vostri, vi staranno padroni sul collo. Badate, o Casdim; egli vi ha ravviluppati nei suoi lacci insidiosi, abbatterà i vostri altari, purificherà le vostre rozze idolatrie, com'egli superbamente le chiama, nel fuoco de' suoi sacrifici. —

Le concitate parole del guerriero turbarono profondamente gli astanti.

— Che dici tu? — gridò il saccanàco. — Potrebbero gli Dei esser caduti in inganno?

— Noi — incalzò Faleg sollecito. — Eglino infatti vi parlano pel mio umile labbro e vi consigliano a diffidare di Zerduste. Egli vi tradirà, o venerandi, vi tradirà, come ha tradito la donna che incauta per soverchio di generosità lo ha innalzato, lui principe di unavinta contrada, ai primi onori del regno. La prova? mi direte voi, la prova? e non l'avete voi, nella istessa mostruosità del delitto che egli appone alla regina? Può forse una madre, e una madre che abbia nome Semiramide, compresa della sua grandezza regale, sacra alla immortalità delle opere sue, macchiarsi di parricidio? Lo credano i perversi, nel cui negro animo gli spiriti malvagi vanno soffiando il loro alito immondo, non io, non voi, cittadini di Babilu, memori ancora delle nobili imprese della vostra regina, nè così dissennati da imputare a lei gli errori del caso. E a voi forse parrebbe meno evidente ciò che a me, non straniero a voi, ma fratel vostro di sangue e non meno di voi sollecito della patria comune, appar manifesto, luminoso, come il raggio di Sam? Io ne attesto gli Dei, Nergal, il corrusco signore delle battaglie, Nebo, il veggente custode del vero, Auv, il regnatore de' cieli; e possano le loro destre onnipossenti fulminarmi sul punto, se io vi dico menzogna. La madre che Zerduste accusa, si ritenne dallo assalire incontanente le mura di Barsipa, che non sono già di bronzo, come voi pensate, o ribelli; si ritenne, dico, dallo incenerirvi nel vostro ultimo covo, per tema di arrecar morte allo stolto adolescente, che crede di regnare su voi, perchè ha ferito il cuor di sua madre. Orvia, cittadini di Babilu, e voi ministri dei santissimi Numi, tornate in voi medesimi, non perseverate nella via dell'errore, su cui vi ha trascinato il malveggente di Bakdi. Io non aggiungerò le minaccie, poichè la regina non n'ha profferite. Vi dirò solo che l'esercito farà il debito suo, e, rotti finalmente gl'indugi, non darà tregua, o quartiere.

— No, nulla! nulla! Sarà fuoco e sterminio! — gridarono i capi dell'esercito, facendo eco terribile alleparole di Faleg. — Possente signora, le nostre spade son tue! —

Un gesto di Semiramide ringraziò quei valorosi; un suo accento, uno sguardo, un raggio di contentezza ineffabile, aveva già ringraziato il buon Faleg delle sue generose parole.

Negli animi dei ribelli erasi infiltrata una grande incertezza. Sentivano di non aver buone ragioni da opporre, e quel nobile ardore incominciava a soggiogarli. Più di tutti già vacillavano ne' primi propositi gli anziani della città, dalle cui risoluzioni pendevano oramai le sorti della grande contesa. Ma il vecchio Abdenago, cui rafforzavano i consigli di Zerduste e la stessa sua condizione di orator dei ribelli faceva ostinato, fu pronto a ravviare i compagni.

— Intendo, — diss'egli, — e non so darvi biasimo di questo nobile ardore. Egli è giusto che, se dal colloquio nostro non deriva alcun frutto, la lotta ripigli più accanita che mai. Ma egli è da por mente altresì, e tu già non ne dubiti, o clemente signora, che la vittoria arriverà a quella tra le due parti che abbia il popolo babilonese per sè. Io vo' concedere, — e così dicendo la voce di Abdenago s'era fatta più umile, carezzevole quasi, — che Babilu, messa al punto di scegliere a quale delle due parti accostarsi, non dimenticherebbe i dolci vincoli dell'antica obbedienza e la grandezza dei tuoi benefizi. Questa città non t'odia, checchè sia avvenuto; ma ella vuol quiete, per medicare le sue acerbe ferite; vuol sicurezza del futuro, quella sicurezza, che un giorno la condusse a scorgere in te, sebbene straniera, la degna continuatrice dei fasti della casa di Nemrod; quella sicurezza che il triste eccidio di Ajotzor e un più recente spettacolo d'ingiustizia, hanno miseramente distrutta. Ella dunque ti torneràfedele, onorerà i tuoi comandi, sorreggerà il fianco della tua autorità regale, a patto che i suoi timori siano dissipati e l'ombre de' suoi morti non siano offese più oltre dalla incolumità di quell'uomo, che cagionò tanti lutti alla terra di Sennaar. A noi testè il valoroso Faleg minacciò la pena dei nostri trascorsi; nè delle minaccie gli anziani si dolgono; essi che accetteranno umilmente, dal voler degli Dei, premio o castigo, secondo che i celesti arridano, o si mostrino avversi, alle armi di Ninia. Ma tu, o regina, se giusta sei col tuo popolo, se non odii la casa di Nemrod, se onori gli Dei che noi tutti adoriamo, devi con atti aperti e sinceri, mostrarti degna del patrocinio celeste....

— Al fine! al fine! — gridò Semiramide impaziente.

— Ci vengo: — ripigliò Abdenago. — Sia uguale la tua misura per tutti. Cada, per tuo comando, colui che fu cagione del danno. Sconti il malka delle montagne la pena della sua funesta ribellione. Sia dato al patibolo dinanzi alle porte della tua reggia, cosicchè dalle due rive dell'Eufrate il popolo delle quattro favelle lo veda espiare il suo tradimento e le lagrime che ci costa; e lo sdegno del popolo sarà placato allora (ma bada, allora soltanto) da un atto di solenne, quantunque tarda, giustizia.

— E quello degli Dei sarà placato del pari! — soggiunse il saccanàco, levando in atto di giuramento la destra.

— Si, muoia l'Armeno, e tornerai la regina degli Accad! — incalzarono i grandi del regno. — Giustizia per tutti! Troppo sangue di Babilonia si è sparso; ne porti la pena il primo e il più grande ribelle! —

Il nuovo accorgimento di Abdenago sconcertava i prudenti disegni di Faleg. Nato anch'egli nel Sennaar, imbevuto di tutta la ingenita superbia della schiatta cussita,Faleg non poteva per fermo vedere di buon occhio l'Armeno. Ma in lui era forte la gratitudine e profondo l'ossequio per la regina. Ora la lentezza di lei a punire il nemico, la bieca ostinazione dei ribelli nel volerlo morto, gli dicevano chiaramente che il leggiadro malka delle montagne era già perdonato nel cuore di Semiramide e che ella lo avrebbe conteso con ogni sua possa alle feroci vendette che instigava Zerduste. Tra l'avversione dell'animo suo e il debito della gratitudine, tra le pretensioni dei ribelli e gli indovinati impulsi del cuore di lei, non era dubbia la scelta di Faleg. Ma come opporsi efficacemente alle bieche proposte, che al cospetto degli astanti si ammantavano di tanta giustizia? Gli stessi capi dell'esercito, amici e compagni suoi, che non vedevano così addentro com'egli ne' fini riposti di Abdenago e negli struggimenti arcani d'un cuore di donna, facevano buon viso alla domanda, e il loro spiare ansiosi e muti la risposta di Semiramide, avrebbe chiarito ad occhi meno accorti de' suoi, da qual parte pendessero i loro consigli. Invero poichè tutta la resistenza dei ribelli si restringeva in quel punto, i capi dell'esercito pensavano che ad assai lieve prezzo si comprava la pace e non dubitavano che la regina fosse per accettare un partito, in cui la giustizia e la dignità sua erano salvi del pari.

Avvenne da ciò che Faleg, cercando invano tra sè come venire in aiuto alla regina, si rimanesse alquanto sospeso. E gli altri solleciti a trar profitto dal suo silenzio, incalzando negl'insidiosi parlari. Con quell'atto di giustizia che si chiedeva a Semiramide, era tolto ogni appiglio ad oltraggiosi sospetti, ogni argomento a paure degli uni, a perfidie degli altri. La pena inflitta all'Armeno era l'ostia propiziatoria ai celesti, era il messaggio di pace, il patto della nuova alleanza tra laregina ed il popolo delle quattro favelle. Ninia sarebbe tornato alla prima umiltà; Zerduste, poi, lo si cacciava fuor del reame, colla sua vita comprando l'obbedienza dei Medi sollevati. Qual più largo trionfo per lei, se per ottenerlo non occorreva spargere pur una goccia di sangue? La pace restituita ad un tratto; i guerrieri d'una medesima patria non più costretti a combattersi l'un l'altro, a incrudelire ne' padri e fratelli loro; gli orrori di una guerra civile, gl'incendi, le stragi, i lutti, risparmiati alla città diletta, che era costata tanti anni di amorose fatiche; la gratitudine immensa d'un popolo salvato; nulla fu pretermesso dagli accorti avversarii, in ciò facilmente seguiti, sostenuti, oltrepassati dallo zelo degli amici malcauti, che facevano a gara per dar nella pania dei fallaci consigli.

Semiramide non rispose parola. Aveva impallidito all'audace dimanda; in quella condizione di pace gittata là come la cosa più ragionevole del mondo, tanto più ragionevole allora, che il costume di guerra non facea sacra la vita dei prigionieri, aveva ella ravvisato il colpo maestro del suo implacabil nemico. Ah, egli non era dunque per la esaltazione di Ninia, che si adoperava l'astuto? Quell'ignaro fanciullo non era che uno strumento, un'arma brandita contro di lei, un'arma che si gittava, dopo averla adoperata a ferire! Non era più sete di regno che contrastava il poter suo; era una vendetta che cercava il cuor della donna, una vendetta tanto più sottilmente feroce, in quanto che nessuno di quella moltitudine di nemici e di fautori, poteva averla per tale. Zerduste infatti, per la proposta degli anziani, non giungeva egli a far sacrifizio di sè? Accettava l'umiliazione e l'esiglio; si dava inerme in preda allo sdegno di Semiramide, che bene avrebbe potuto, appena sedata la rivolta e ristabilita la sua autorità, cercarlodovunque egli fosse e farlo inesorabilmente morire. Chi, ciò pensando, avrebbe sospettato della magnanimità di Zerduste? Quella sua volontaria caduta era il sommo della ipocrisia; quel suo consiglio di finire ogni cosa colla morte del re d'Armenia, era la stretta fatale in cui la regina, o la donna, dovea certamente soccombere. E si sentì perduta, allora, e rimase più atterrita a gran pezza, che non fosse stata prima, all'udire d'ogni altro suo danno.

Ben le restava uno scampo; la guerra disperata, la sorte dell'armi. Ma questa che fallacissima era, non potea farla altresì micidiale nel sangue di Ninia? E poi, a che proseguire la lotta? Ella era tanto desiderosa di regnare, temuta, non amata più dal suo popolo, odiata, non creduta dall'uomo, per cui aveva messa a repentaglio la sua possanza e la fama? V'hanno istanti supremi, in cui le anime più salde sentono il fastidio della lor medesima forza, dovuta usare in troppo vili contese; e allora dalla inerzia, che si offre noncurante ai colpi nemici, spira assai più sublime grandezza, che non dall'ardore crescente, dalla terribilità della pugna.

Così smarrita, la regina volse a Faleg uno sguardo di suprema tristezza. Lo intese il fedele guerriero, che incontanente si fece a salire i gradini del trono e si curvò sul ginocchio, per udire i regali comandi. Ma egli non era già più un comando quello che Faleg doveva udire dal labbro di Semiramide.

— Tu lo vedi, o Faleg; — susurrò la regina con malinconico accento. — Tutto è perduto oramai.

— Signora! — rispose sommesso il guerriero, e il cenno del capo significò tutto quello che il labbro taceva.

— Or ora, — proseguì la regina, — udranno che Semiramide non accetta le loro condizioni. Potrei forse?..

— T'intendo! — interruppe Faleg, notando il rossore subitaneo che imporporava le guance della regina. — Ma perchè dir loro il tuo proposito fin d'ora? Tempo ti resta a pensare.

— Ho pensato; — soggiunse ella; — perchè tacerei?

— Perchè eglino, i tuoi nemici che stanno aspettando un forse preveduto diniego, rimangano ancora crucciosi nella loro incertezza. Pensa, o regina, ai giubilo che sentiranno, alle ire che non si periteranno di rinfiammare prontamente nel popolo, e consentimi di risponder loro per te. —

La regina assentì con un gesto lievissimo, e Faleg allora, vòltosi da' piedi del trono ai congregati, parlò:

— Cittadini di Babilu, Casdim venerati, e voi tutti seguaci delle fortune di Ninia, che mettete condizioni al ritorno nell'antica obbedienza per la regina degli Accad, oramai la nostra possente signora vi ha udito. Altro vi resta da aggiungere?

— No; — risposero i grandi rifuggiti in Barsipa; — muoia l'Armeno, e l'autorità di Semiramide non avrà più fidi sostegni di noi.

— Se gli Dei non sono placati, — soggiunsero i Casdim, — Ninia regnerà in sua vece. Così viva egli in perpetuo!

— E noi, — gridarono gli anziani, — aspetteremo che il signor delle sorti ci mostri a cui dovremo obbedire. Ninia è il re consacrato e i soccorsi di Media non sono lontani.

— Sta bene; — replicò Faleg, con voce impressa di guerresca baldanza; — li vedremo noi primi, i vostri soccorsi di Media.... se la regina vorrà. Andate, frattanto la possente signora degli Accad, cui Belo ha concesso l'impero dello scettro e la vittoria della spada, si raccoglierà nella solitudine de' suoi alti pensieri, mediteràle proposte, chiederà lume d'inspirazione a Nebo, al veggente consigliero dei re. La tregua spira domani; prima che il raggio di Sam si specchi nei sette colori della gran torre di Barsipa, i ministri della reggia vi annunzieranno ciò che la regina avrà risoluto di fare. —

Il parlamento ebbe fine con queste oscure parole di Faleg. Taciturni, dubbiosi, uscirono i congregati dalla sala di Nemrod. Invero, essi erano inquieti a ragione. Il silenzio della regina somigliava troppo a quella cupa tranquillità di natura, che precede lo scoppio della tempesta.

Come furono partiti, anche Semiramide si ritrasse nelle sue stanze.

— Ah, Faleg! — diss'ella al guerriero. — È finita; io non lo ucciderò! Egli è un fellone e un ingrato; ma se io lo odiassi, avrei forse atteso i consigli del volgo ribelle? E adesso, io, regina degli Accad, dovrei piegarmi per avventura ai comandi?

— Certo non lo sperano essi! — rispose Faleg. — Le armi adunque scioglieranno la contesa e meglio per noi se ciò avvenga domani.

— No; nè domani, nè poi! — esclamò Semiramide.

Faleg la guardò trasognato; e v'ebbe un istante che egli temè non aver bene udito, o aver la regina male inteso la sua proposta; l'ultima, a parer suo, che recasse un costrutto.

— Nè cedere, nè combattere! — sclamò egli poscia. — Che dunque faremo?

— Nulla! — rispose la regina, levando in alto la fronte e chiudendo gli occhi in atto di raccoglimento solenne. — Domani sarà avvenuta tal cosa, che sciolga il nodo per sempre.

— Ah! — proruppe il guerriero impallidendo. — E vorresti....

— Non mi dir nulla! Spesso han d'uopo dell'altrui consiglio i regnanti; ma v'hanno giorni, ore supreme, in cui non è dato pigliarne, fuorchè dalle voci arcane dell'anima. Tu se mi ami e rammenti....

— I tuoi benefizii, o regina? Come potrei averli dimenticati, io che ripeto da te ciò che sono, io oscuro figlio del borgo di Susqueanna, io innalzato da te ai primi gradi della milizia del regno? E come suddito e come servo di gratitudine, son tuo; la mia vita ti appartiene, fanne ciò che più ti talenta.

— Grazie, buon Faleg! — ripigliò Semiramide, crollando mestamente il capo. — Dedicare la vita dei nostri servi ed amici ad utili imprese non è più dato oramai; nè alcuna io vorrei sacrificarne, per consolare una stolta vanità colla pompa d'una rumorosa caduta. Tu sei libero, o Faleg; nessun vincolo d'obbedienza ti lega più alla regina; soltanto al fedele servitore, al costante amico, Semiramide chiede oggi un servizio.

— Parla! — diss'egli commosso. — Ogni tuo desiderio sarà legge per me.

— Esci di Babilonia, e sia teco una scorta d'uomini, quanti reputerai bisognevoli, ma scelti tra i più fedeli e i migliori de' tuoi. Si tratta di campare un uomo da morte; — aggiunse ella con imperioso e rapido accento; — la salvezza di quest'uomo è l'ultima volontà della regina degli Accad. Vanne dunque subito a lui.... m'intendi? a lui! Per le segrete scale che conducono al gran sotterraneo, guidalo fuori di Imgur Bel. Se alcuno dei cittadini lo ravvisasse, potrebbe aizzare contro lui la rabbia d'una moltitudine forsennata. Ciò devi ad ogni costo evitare....

— E impedire, fino all'ultima stilla del nostro sangue! — soggiunse Faleg. — Non dubitare! Sacro per te, il re d'Armenia è sacro per ogni tuo servitore.

— Sta bene; — ripigliò Semiramide. — Travestito, o celato in quel modo migliore che a te consiglierà la prudenza, lo condurrai per la via di Gomer, sulla sinistra dell'Eufrate, fino alle contrade di Assur. Meglio sarebbe che tu potessi accompagnarlo fin oltre il paese di Nahiri....

— Ed anco al passo di Lukdi! — interruppe Faleg sollecito, andando incontro ai voti della regina. — Non mi dire di più; la vita sua sarà salva. —

Semiramide si accostò ad uno stipo d'ebano, riccamente scolpito, e ornato di bei fregi d'argento.

— Prendi; — ella disse; — qui son gemme d'altissimo pregio. Sia tutto tuo, quanto potrai recare con te. Eccoti ancora; questo è il mio suggello regale; forse, lunge dalla città che reca l'impronta de' miei benefizi, la sua autorità sarà ancora onorata ed esso potrà in alcun tuo bisogno giovarti. Ed ora, o Faleg, giurami che tutto farai giusta il mio desiderio; giurami che condurrai salvo il prigioniero fuor della terra di Sennaar, nè lascerai di custodirlo fino a tanto egli non sia lontano da ogni pericolo.

— Pe' sommi Dei te lo giuro! Mi colga lo sdegno di Auv; mi faccia Nergal il più codardo e il più dispregevole dei guerrieri di Babilu, gli spirti d'abisso m'involgano nelle tenebre eterne, se a questo nobile ufficio io non consacrerò le forze tutte dell'animo, la virtù del braccio e la vita. Ma tu frattanto, o regina?...

— Io? Non temere, — gridò Semiramide, con aria di serena baldanza; — io mi sottrarrò, checchè avvenga, alle insidie dei tristi. Son figlia a Derceto; nol rammenti tu forse? Il giorno che a me non resti più luogo sulla terra, le sacre colombe della materna Dea mi rapiranno a volo pe' cieli. Statti di buon'animo, o Faleg; va, e pensa a ciò che m'hai giurato di fare. —

Il forte animo di Faleg venìa meno per tenerezza e sgomento. Il fedele servitore, condotto a quel punto supremo, non sapea darsi pace; vedeva di non poter più rimanere, e tuttavia non gli bastava il cuore a spiccarsi di là. Semiramide gli sporse la mano; egli cadde in ginocchio, l'afferrò tra le sue, la baciò ripetutamente, la inumidì colle sue lagrime, indi, tutto vergognoso della sua debolezza, coll'anima infranta, senza pure alzar gli occhi a guardare la sua venerata signora, a passi concitati si allontanò dalla stanza.

La regina rimase immobile a lungo, attonita, smemorata, come chi, perduta ogni speranza, o desiderio della terra, più non abbia un concetto in cui riposare la mente. Gli occhi suoi inconsapevoli si erano rivolti al cielo sereno, che si scorgeva per mezzo alle colonne di un ampio loggiato. Il sole volgeva al tramonto, e le torri, le cupole, i terrazzi di Babilonia, si tingevano in colore di fiamma viva ai raggi obliqui dell'astro morente. Offriva un meraviglioso spettacolo, quell'aureola di fuoco, entro a cui s'involgeva Babilonia, come una regina nel suo manto di porpora. Ahimè! quanti pensieri senza fine dolorosi doveva risvegliare nell'animo della gran vedova di Nino, quella gloria della sua città prediletta! Il possente raggio di Sam, innanzi di sparire dietro le arene del lontano deserto, innanzi di nascondersi per sempre allo sguardo di lei, vagheggiava le vaste mura che ella aveva innalzate, salutava i pinnacoli dei suoi templi e delle sue moli superbe, glorificava al cospetto dei cieli, esaltava l'opera sua.

Ed ella intanto si spegneva nella sua solitudine, la dolente regina! Quel maestoso splendore si sarebbe diffuso il giorno vegnente sulle mura dilette; ma ella non le avrebbe più contemplate; e Babilonia, e il popolo degli Accad, e il figlio, ingrati tutti ad un modo,avrebbero dimenticato la gloriosa fondatrice, la regina, la madre!

A poco a poco le alte gradinate dei templi, i terrazzi e le casupole si venìano ascondendo nell'ombra. Un vasto semicerchio di fuoco, simile a vampa d'incendio lontano, radiava nell'orizzonte, faceva uno sfondo rossastro alle negre torri di Barsipa.

— Deh! — esclamò la regina, seguendo cogli occhi quella gloria morente. — Come tu volgi precipitoso al tramonto, astro superbo, che rallegravi il mondo della tua luce! —

E di sè, non dell'astro, pensava ella in quel punto. Umane grandezze, splendidi sogni, sconfinate ambizioni, gloria, potenza, amore.... ah sì, questo d'ogni altra cosa più prezioso a gran pezza! questo era il grande, l'irreparabile eccidio; tutto l'altro era nulla. E forse in quel mentre, il re d'Armenia, lieto della ricuperata libertà, non memore di lei che per l'odio, s'affrettava sulle orme di Faleg. Ingrato! Ah, la sconoscesse il popolo, la tradissero i grandi del suo regno, dimenticassero tutti le sue gesta, i suoi benefizi; che poteva importarle di ciò? Ma egli! l'uomo che era caduto ebbro d'amore ai suoi piedi, che colle infiammate parole, coi giuramenti solenni, aveva strappato dalle sue trepide labbra una confessione, dal suo seno palpitante i santi veli del moribondo pudore! l'uomo che ella aveva amato, pur combattendolo, che aveva sperato vedersi un'altra volta a' piedi, vinto, più ancora che dalle sue armi, dalla certezza della sua innocenza! No, ella non avrebbe creduto mai possibile una ingratitudine sì nera. E per quella sua stolta fede, non già per le arti di Zerduste, non già per la ribellione di Ninia, non già pel traviamento del suo popolo, ella si disponeva alla morte. Ingrato, sì, ingrato e codardo! La gentilezza dell'affetto,la magnanimità, la costanza, la fede, e infine tutto quanto è di bello e di nobile nel fango umano, tutto si rifugiava, e per morire, in un povero cuore di donna.

Eppure!... eppure ella aveva sperato fino all'ultimo istante. Le pareva enorme cosa, inaudita vergogna, immeritato oltraggio de' cieli, essersi imbattuta nell'uomo più sleale e più vituperoso del mondo. Ma ohimè! così era per lei; così avviene pur troppo per tutti; ai vili le più alte venture; ai nobili cuori le più atroci amarezze, i disinganni, le onte più gravi. E in questo pensiero, peggior d'ogni morte, si prostrò, si rinchiuse lo spirito di Semiramide, che là, di rincontro alla luce del sole morente, pareva, non più donna viva, simulacro di pietra.

In quel mentre un passo frettoloso si udì nella camera. Hurki si fece innanzi alla regina.

— Potente signora.... — diss'egli peritoso.

— Che è? — dimandò la regina, destandosi repentinamente da quel suo doloroso torpore.

— Un uomo chiede parlarti.

— Il suo nome? — proruppe ella, a cui il cuore avea dato un sobbalzo.

— Regina, te ne prego, non ti turbi l'annunzio; — soggiunse l'eunuco, che era lungi dallo argomentare la cagione di quell'ansia subitanea; — è il principe di Bakdi che dimanda di essere introdotto alla tua presenza. —

La vista improvvisa d'un serpe cui lo sbadato viandante abbia molestato ne' suoi meridiani riposi, non arrecò mai così fiero turbamento, come quello che sentì la regina, all'udire quel nome e la richiesta inattesa.

— Zerduste! — esclamò, quasi sperando di avere male inteso.

— Sì, egli stesso, o regina. Egli viene sulla fede sacra della tregua, che spira domani. Conduce seco una scorta numerosa; ma solo ed inerme entrerà al tuo cospetto. Gravi cose lo spingono a typo questo passo, nè egli si allontanerà, fino a tanto non ti degni ascoltarlo. —

Semiramide stette alquanto perplessa, combattuta da sdegno, da ripugnanza e stupore.

— Che vuole costui? — diceva ella tra sè. — Ah, certo, un nuovo tradimento egli medita; un nuovo colpo si prepara a ferire. Riposa sulla fede della tregua, il malvagio! E l'ha tenuta egli forse, la fede giurata alla regina degli Accad? Ha egli risposto lealmente alla sincera fidanza della nostra amicizia? Alta sapienza dei tristi! Credono essi alla virtù che non hanno, fondano i loro perversi disegni, tendono le insidie scellerate, sulla magnanimità delle vittime loro. E mi conoscono bene addentro, costoro! Mi sanno generosa, gl'infami! Esser diversa da loro, com'è diversa la luce dall'orror delle tenebre, ecco il vantaggio che mi resta sovr'essi, ed ecco altresì l'arcana ragione della loro vittoria. Oh, perchè non sarei io malvagia un istante, un solo istante, com'essi? —

Così pensando, la regina non aveva più posto mente alla presenza e alla aspettazione di Hurki.

— Che debbo io dirgli, mia clemente signora? — si fece egli allora a domandarle.

— Che io ricuso di vederlo; — rispose la regina.

— Ma pensa.... — balbettò egli inchinandosi. — Forse da questo colloquio potrebbe dipendere....

— Che cosa? — tuonò Semiramide. — Che cosa potrebbe egli dire, che a me fosse grato ascoltare da lui?

— Non so; — disse di rimando, e con umilissimo accento, l'eunuco. — Di te mi preme e della tua gloria,o signora. È un nemico che chiede parlarti.... è il maestro e il custode di Ninia.... —

E non ardì proseguire. Ma il nome di Ninia aveva toccato un'intima fibra del cuore materno. Stette ella alquanto sopra di sè; indi, scuotendo il capo, come chi, veduti i pericoli e le molestie a cui va incontro, ha tuttavia pigliata la sua risoluzione, si volse ad Hurki e gli disse:

— Venga il malvagio; lo udrò. —


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