EPILOGO.

EPILOGO.

Erano trascorsi due anni dagli avvenimenti che abbiamo narrato.

Il castello di Fagnano era silenzioso e triste. Chiuse le finestre, chiusa la gran porta; solo la postierla socchiusa era indizio che qualcuno lo abitava. Le circostanti campagne erano anch’esse silenziose in quel bellissimo giorno di maggio. Chi le avesse viste al tempo del brigantaggio contro i Francesi non le avrebbe riconosciute. I contadini eran tornati tranquilli ai loro lavori, e il paesello in fondo, pressochè deserto durante il giorno, spirava un’aria di pace profonda e di raccoglimento.

Il molino della vecchia Geltrude faceva sentire il suo tic-tac tra il ronzìo dei mosconi, lo zirlar dei grilli, il grido delle rondini che volitavano intorno al tetto. La vecchia filava sull’uscio, spiando di tanto in tanto per vedere se scendesse qualcuno dal sentieruolo che metteva capo al suo molino, struggendosi dalla voglia di far quattro chiacchiere.

Era sempre la vecchietta arzilla, dagli occhietti irrequieti, dalla parlantina perenne che aspettava al varco i mulattieri e i contadini per chieder loro notizie del paesello e per tagliare i panni addosso alla gente.

La vecchietta canticchiava con aria contenta, interrompendosi talvolta per umettare con le labbra il filo troppo arido.

— Toh, toh, chi si vede! — fece di un tratto, e gettando lungi dà sè fuso e conocchia si alzò e corse fuori, facendo di gran gesti ad un vecchietto che scendeva a cavallo giù pel sentiero. — Non ti lascerò andare innanzi, no, no: son due mesi ornai! Ci ho una bottiglia di vinetto bianco che è una delizia, con certi biscotti che ho fatto io e che a te un tempo piacevano tanto! Berremo la bottiglia, mangeremo i biscotti, faremo quattro chiacchiere e poi, poi ti lascerò partire.

— Posso dire di no, posso dire di no ad una vecchia amica come te? — rispose Carmine che lentamente si era lasciato sdrucciolare dalla cavalcatura — Ma non più di un’ora, hai capito? non più di un’ora, che il duca aspetta impaziente i giornali.

— Solo i giornali aspetta? E la duchessa?

— La contessa, vuoi dire.

— Già, la contessa; poichè non vuole che le si dia altro titolo, chiamiamola pure così... La contessa, dunque, povera creatura... una santa, una vera santa pel cuore e per la bellezza... com’è afflitta!... Sfido io, ne ha ben ragione!... E dimmi: Pietro il Toro sta bene? Non è più quello, non è più quello... Lo vidi un mese fa; sembra più vecchio di venti anni... E il duca? Quello lì pare contento... Già, bisogna essere egoisti per vivere felici. Ma insomma, parla, contami tutto.

— Me se non me ne dai il tempo! — rispose Carmine.

— Hai ragione, si, hai ragione! Ma gli è come quando sturo al mattino il condotto del molino e l’acqua raccoltasi per tutta una notte prorompe impetuosa. Me ne sto sola qui per giorni interi, sola, senza poter dire una parola altro che al gatto al quale racconto tutti i miei guai.

Intanto si erano incamminati verso il molino. Carmine mise il muletto sotto la tettoia e poi entrò nella stanzuccia.

— I tuoi guai! — disse tra severo e scherzoso — E che ti manca? Non hai avuti condonati tutti i debitucci dall’amministrazione del duca e non sei stata affrancata dal censo?

— Dico guai così per dire...

— So, so quel che ti manca... Un marito, vecchia strega...

— E credi tu che se lo volessi... Sarebbe più facile a me di trovare un marito che a te una moglie, a te che non puoi reggere neanche i calzoni...

— Andiamo, via, porta codesta bottiglia di vino. E bada veh, che se vorrai parlar sempre tu, io tacerò lasciandoti struggere dalla curiosità.

— Ci sono dunque delle notizie? — gridò la vecchia sollevando il capo con gli occhi balenanti per la gioia.

— Si e no. Ma porta il vino, porta i biscotti. Io andavo in pace per la mia strada: fosti tu ad invitarmi...

— O che forse in altri tempi non eri tu a venirmi attorno, non eri tu?

I due vecchietti si scambiarono un’occhiata maliziosa e insieme un melanconico sorriso.

— Siedi, via — disse Carmine che togliendo la bottiglia dalle mani di Geltrude aveva riempito i bicchieri — siedi e bevi.

— Alla tua salute, Carmine.

— Alla tua Geltrude.

Bevettero entrambi guardandosi negli occhi.

Tutta la storia triste e fortunata di quel popolo che sol da poco era tornato nella pace, si riassumeva in quei due vecchi che attraverso tante tragichevicende per l’ambizione di pochi che aveva fatto scorrere fiumi di sangue, erano rimasti semplici e buoni.

— Dunque — disse Geltrude posando il bicchiere e forbendosi le labbra col grembiule — conta, ora. Nessuna nuova di lui?

— Nessuna! — rispose Carmine con un sospiro.

— E quella povera creatura?

— Un angelo, mia cara, un angelo. Sai l’ultima sua opera? In una stanza a pianterreno del castello ha fatto mettere delle seggiole, dei banchi con tavolinetti, e ogni giorno le povere mamme che debbono andare in campagna lasciano colà i loro figliuoli che finora erano costrette ad abbandonare per le vie; e quei marmocchi sono vigilati da una maestra che la contessa ha fatto venire da un paese molto lontano, ed hanno la merenda e il desinare.

— Toh, che cosa bella! — esclamò Geltrude che aveva sgranato gli occhi dalla meraviglia — Scommetto che nè a te nè a me sarebbe venuta una tale idea. E il duca, che fa il duca?

— Molto mutato da quello che era un tempo. Ora è tutto inteso al monumento che deve sorgere sulla tomba del fratello.

— Molto mutato, è vero: l’ho sentito dire anch’io. E poi, basterebbe quel che ha fatto per me col condonarmi i miei debiti e con affrancarmi dal censo...

— Nessuno mi caccia dalla testa — fece Carmine — che tu non al duca devi essere riconoscente, ma a lui, a lui!...

— Ma se fu il duca...

— Che ne sapeva il duca che il molino era gravato da un censo? O che un gran signore come lui sa queste cose? Pure, appena tornò qui ti fecechiamare... Quando mai ti aveva conosciuto? A meno che quaranta o cinquant’anni fa non ti avesse gironzato attorno.

— Cinquant’anni fa non ero ancor nata! — rispose la vecchia con un certo sussiego.

— Già: forse... forse non era neanche nata tua madre! Insomma, lui non ti conosceva. E poi un tempo era tanto superbo, tanto severo con la povera gente! Fu lui dunque che gli parlò di te.

— Hai ragione, hai ragione, fu lui! — esclamò la vecchia giungendo le mani. — Caro, caro e bravo signore, ricordarsi di me, di me, mentre chi sà da quali dolori aveva stretto il cuore!

— E non fu lui a ricordarsi di me, non fu lui?

— Conta, conta... Come dunque il duca ti volle al suo servizio il duca che sapeva che tu sapevi?... Ma intanto bevi! Bada veh, che fintanto la bottiglia non sarà vuotata tu non andrai via...

E la vecchia riempì i due bicchieri e ne porse uno a Carmine.

— Al ritorno di lui, Geltrude! — disse Carmine nel portare alle labbra il bicchiere.

— Ed alla pace ed alla salute di lei! — fece la vecchia bevendo.

— Come entrai al servizio del duca? Lui, sempre lui, mia cara. È vero che quella buon’anima del padre del nostro povero Riccardo... dico povero perchè chi sa che ne è di lui, chi sa che gli sia capitato in questi due anni, chi sa che ha sofferto!... Basta... penso che ci è la madre lassù che prega per lui, la madre...

— Ogni sera anch’io dopo aver detto il rosario lo raccomando alle anime del Purgatorio... Glielo debbo un tal segno di gratitudine! Essersi ricordato di me mentre aveva da pensare a ben altro!...

— Dunque — continuò Carmine — il duca, il vero duca mi aveva morendo raccomandato ai Francesi. In sulle prime tutto andò bene, quantunque ci soffrissi a trattar con quella gente: poi mi mandarono via con la scusa che ero troppo vecchio, e me ne tornai nella mia casetta confuso e scornato...

— Più povero di prima.

— Assai più povero! Ma una speranza mi sorreggeva, perchè io ho sempre avuto fede nella Provvidenza, la speranza che lui tornasse. Però passavano i mesi e senza il soccorso degli amici, e specialmente di una certa Geltrude...

— Che, che! Un po’ di farina, un po’ di formaggio, ecco quel che poteva offrire quella certa Geltrude. Ah, se non fosse stato per le male lingue, ti avrei voluto con me qui!

— Le male lingue? Come ci entrano le male lingue?

— Fai lo gnorri tu, fai lo gnorri! Che avrebbero detto le male lingue se ti avessi accolto in casa mia anche per dormirci? Sai quante se ne son dette sul conto nostro!...

— Ah, diavolo, ah, diavolo! — esclamò Carmine scoppiando a ridere. — Per questo tu mi tenevi un certo linguaggio misterioso che io non intendevo punto?

— Che ci è da ridere? Le male lingue avrebbero detto che tu eri il mio ganzo... Si è tanto facile qui a sparlare della gente!

— Come vuoi tu, come vuoi tu! Ma le male lingue mi avrebbero troppo lusingato! Basta, non m’interrompere. Dunque vivacchiavo alla meglio e avevo tutto venduto. Quasi tutto il villaggio aveva dei diritti sul mio campicello, e questo sì che mi era di una pena, di una pena che mi faceva bagnar la notte di lagrime il guanciale!

— E non me ne dicesti mai nulla, scioccone! Perchè io ti sapevo in bisogno, ma fino a questo punto poi! Se l’avessi saputo, me ne sarei infischiato delle male lingue...

— Un giorno — continuò Carmine senza badarle — il paesello fu messo a rumore da una notizia strabiliante: il duca aveva fatto adesione al governo dei Francesi e sarebbe tornato al suo castello con la figlia maritata a Riccardo, riconosciuto per erede legittimo del padre suo, del padre suo che era morto fra le mie braccia. La notizia era contenuta in una lettera che io sentii leggere da Pasquale, sai bene, il segretario del Decurionato. Era così strano, così inverosimile, che in verità me ne tornai nel mio tugurio scuotendo le spalle, e non ci pensai più come non si pensa ad una fiaba di quelle che si narrano ai fanciulli.

— Anch’io nei tuoi panni non ci avrei creduto.

— Potevo io crederci se sapevo... quel che sapevo? La Regina avrebbe permesso che Riccardo sposasse la figlia del duca di Fagnano?

— La Regina?... E che ci entra mo’ la Regina?

— Come, non sai che!...

— Che cosa, che cosa? — gridò la vecchia con gli occhi accesi dalla curiosità.

— La Regina — disse Carmine con voce sommessa, quasi temesse di essere udito — era innamorata di Riccardo.

— O che mi dici? Anch’esse dunque, le regine, fanno di queste cose? Anche i re possono avere un’altra corona, non di oro, ma di?... Del resto, la Regina era ancor giovane: ho sentito dire che aveva quasi la mia età...

Carmine la guardò un istante ed era lì lì per prorompere, ma si contenne e proseguì:

— Non ci pensai più dunque; pure mi struggevo dal desiderio di sapere che fosse avvenuto di quel giovane che io avevo amato come un mio figliuolo. Ah, se avessi saputo leggere al certo mi avrebbe scritto, perchè non era capace di scordarsi di me, quantunque fosse divenuto un duca. Era stata sempre un’anima grande la sua, anche quando non era che un misero trovatello.

— Bello poi come un principe.

— Beh, dunque una mattina io ero seduto sulla soglia della mia casetta quando vidi venire alla mia volta un gruppo di persone che parlavano ad alta voce: intesi fare il nome del duca di Fagnano, di Riccardo, della contessa, onde io mi accostai e così seppi che la sera istessa sarebbe giunto il duca con la figliuola, avendo ottenuto la restituzione dei beni. La cosa era certa, perchè erano già giunti nel castello alcuni servi che avevano aperto le porte e le finestre per dare aria alle stanze da gran tempo chiuse. Per assicurarmene corsi al castello, e il cuore mi si allargò quando vidi coi miei propri occhi che quei tali avevano detto il vero.

— Ricordo che quando questa strabiliante notizia giunse alle mie orecchie io non dormii per tutta la notte.

— Insomma, a farla corta, dopo due giorni il duca tornò con la figliuola che i servi chiamavano contessa...

— O perchè mo’? Questo non ho potuto capire.

— Perchè il Re per far conservare al duca il suo titolo che sarebbe spettato a Riccardo, ha nominato questi conte di Rovito. Hai compreso ora? E la contessa non ha voluto rinunciare al nuovo titolo col quale oramai suo marito è conosciuto.

— Suo marito! Che la lascia sola, una stella di bellezza come quella creatura! Ci dev’essere una causa!

— Son cose che noi non possiamo intendere. Chi sa quale mistero in questa che pare a noi una cosa inesplicabile! La vita dei signori non scorre semplice come la nostra... Pochi giorni dopo il loro ritorno, io ricordo proprio come se fosse ora, me ne stavo accanto al fuoco a veder bollire la pentola con un po’ di minestra, quando venne un servo con la livrea del duca e mi disse che il suo padrone mi voleva al castello. Ah, dissi, ci siamo; ha saputo che fui io a raccogliere il figlio di suo fratello e chi sa, chi sa cosa vorrà da me! Andai però con l’animo tranquillo, perchè son finiti i tempi in cui ai signori era tutto permesso. Ora i Francesi han fatto la rivoluzione e siamo tutti uguali, tutti fratelli; è vero però che chi ha, mangia, e chi non ha muore di fame, e che chi è nato sparviero vola e chi è nato verme striscia! Ma infine si sta meglio adesso.

— Sicuro — esclamò Geltrude — specialmente dacchè non pago più il censo.

— Chi può dire quel che intesi — continuò Carmine — allorchè fui innanzi a quell’uomo di cui sapevo tutte le colpe, tutti i vizî, e che aveva fatto morire di dolore un angiolo di Dio e costretto il fratello a fuggire in Francia? Appena mi vide impallidì, come sopraffatto dai ricordi e dai rimorsi; ma dovette fare uno sforzo perchè mi disse con troppo ostentata bonomia perchè fosse sincera: So che avete reso di gran servigi a mio nipote che è ora anche mio genero, il conte di Rovito, il quale è adesso all’estero per una missione diplomatica; e perchè ho bisogno di gente onesta e fidata, così per ricompensarvi di ciò che faceste per lui vi prendo al mio servizio come fattore. Avrete il vitto, l’alloggio e dieci ducati al mese.

— Dieci ducati al mese? — gridò Geltrude. — Capperi,ma dunque devi aver da parte molti bei denari!

— Nulla, Geltrude mia, nulla: ho riscattato dai debiti il campicello questo sì... Ed ecco come entrai al servizio del duca; e, bisogna dire la verità, mi si tratta proprio come uno di famiglia.

— E la povera contessa?

— Non me ne parlare di quella santa e buona creatura che vive Dio sa in quale strazio senza che mai si lagni, mai!

— Ma come si spiega che Riccardo... lo chiamo così perchè, sai bene, l’abitudine... che Riccardo non le scrive neanche?

— Io non me lo spiego, ma la contessa, ma il duca debbono ben saperne il motivo. Io non me lo spiego, perchè tu pure sai con quale passione ha amato e son sicuro ama colei che ora gli è moglie. In quei tempi, quando non aveva nè nome, nè pane, nè vesti, non era soltanto una follìa, era quasi un delitto, un sacrilegio per lui, un oltraggio per lei l’osare di guardarla; pure il destino sapeva bene quel che faceva con ispirargli quell’amore! Poteva mai lui sognare soltanto che un giorno sarebbe divenuto lo sposo di quell’astro? Sarebbe lo stesso che io sognassi di divenir papa! Ebbene, l’inverosimile, l’impossibile è ora un fatto, una realtà. Che avrebbe dovuto far lui? Non dipartirsi un solo istante, un solo da quella divina creatura... Invece, invece se ne sta lontano, chissà in quali parti estere, e non si dà la cura neanche di scrivere una lettera! Che razza di mistero sia questo io non so!

— Neanche una lettera, mai?

— Mai, Geltrude mia. Io due volte la settimana vo’, come andrò fra poco, all’ufficio postale per prendere le lettere e i giornali del duca. Quasi sempreal mio ritorno trovo la contessa nello studio del padre, ed ora incomincio a sospettare che aspetti me, proprio me. E sai che fa appena mi vede? Figge gli occhi sulle lettere per leggerne l’indirizzo, le prende, essa per la prima, e la mano le trema e gli occhi le si inumidiscono. Poi dà le lettere e i giornali al padre e se ne va lentamente come un’afflitta, come una delusa, nelle sue stanze!

— Ma, dico — osservò Geltrude che era divenuta pensosa — non ci fosse sotto qualche... tanto, siamo a quattr’occhi, mi spingo a dirlo... qualche torto di lei, del quale egli si sia accorto?

Carmine non la lasciò proseguire: diede un pugno sul tavolo che fece cadere la bottiglia, sì che il vino si versò pel pavimento.

— Ah lingua maledica — gridò — lingua infernale, se osi aggiungere un’altra parola ti caccerò con un pugno i due o tre denti che ti son rimasti.

— Ma che ho detto, infine? Si vede che la vecchiaia ti ha rimbambito. Ci sono torti e torti, e io non intendevo parlare di quello a cui l’anima tua, che pensa sempre al male, forse allude. Del resto, hai fatto spargere tutto il vino, e questo è sì buon: augurio, perchè quando si sparge del vino mentre si parla di una persona...

— Basta, basta... Ma ho fatto tardi e debbo andar via...

— No, no, non andrai via se non mi dici qualcosa di Pietro il Toro. Povero vecchio, così allegro un tempo, così disposto a tutto, a chiacchierare come a menar le mani...

— Pietro il Toro è il protetto della duchessa, la quale s’intrattiene spesso con lui, anzi più con lui che con me: però non ne sono punto geloso. Si vede che la contessa l’ha conosciuto in Sicilia.Non ti ho detto che lui custodiva l’atto matrimoniale del duca defunto, che lo custodì per trent’anni dopo averlo strappato al parroco? Ma di quel che accadde in Sicilia non dice mai nulla e invano ho cercato di fargli vuotare il sacco. Se avessi visto in che stato era ridotto quando giunse qui! Aveva attraversato lo stretto di Messina in una barca di pescatori, poi, povero vecchio, era venuto qui a piedi. Io lo incontrai e appena appena lo riconobbi; era lacero nelle vesti, disfatto, e non aveva mangiato da più giorni. Volli che mi seguisse al castello e fu a caso che ne parlai al duca, mentre la contessa era presente. Si suol dire che il silenzio è d’oro, ma in certi casi la parola, la parola è assai più dell’oro. Appena la contessa sentì fare il nome di Pietro il Toro, essa che quasi sempre è assorta nei suoi pensieri ed indifferente a tutto, si alzò accesa in volto, come se quel nome le avesse fatto sussultare il cuore, e mi disse poi: fa che venga qui, presto, presto, buon Carmine. Anche il duca pareva che conoscesse Pietro il Toro, ma non era così esultante come la contessa; pure non mostrava punto dispiacere. Ci volle del bello e del buono per indurre Pietro a salire le scale del castello; ma quando fu alla presenza della contessa, questa gli corse incontro e gli stese le mani, che Pietro, il quale è stato pur sempre rozzo e del tutto ignaro di certe convenienze baciò più volte commosso come non l’aveva visto mai. E quale non fu la sorpresa mia quando proprio il duca, lui, il quale al certo doveva sapere che era stato Pietro il Toro ad estorcere al parroco l’atto matrimoniale onde Riccardo ha potuto provare la sua legittimità, gli disse: Ti abbiamo fatto cercare per mare e per terra inutilmente; però ho sempre sperato che tornassi, perciò ti hoserbato il posto in casa mia: tu sarai il capo dei guardiani: farò le pratiche col governo e tu godrai dell’amnistia concessa a tutti. Non ti pare, cara Geltrude, che il duca avesse ricevuto l’imbeccata da qualcuno? E da chi, se non da Riccardo? Altrimenti come così di botto metteva Pietro il Toro a capo dei guardiani?

— Pare anche a me! — rispose Geltrude con una certa aria di sufficienza. — E che rispose Pietro, che rispose?

— Che rispose? Pareva più di quel mondo che di questo, tanto era confuso.

— Ma non è più quel di prima!

— Eh, credo che anche lui abbia un qualche dolore nel cuore, del quale ho creduto d’intravedere qualche cosa. Ricordi tu quella giovane donna che venne qui con Riccardo travestita da frate questuante? Devi sapere che quella era famosa, si chiamava Vittoria e uccideva un uomo come io bevo un bicchiere di vino. Ora io un giorno domandai a Pietro il Toro che ne fosse avvenuto di Vittoria e sai che mi rispose? Quella poveretta è volata al cielo! Ed aveva le lagrime agli occhi nel dir ciò. Ma non disse nulla di più, e poichè mi accorsi che alle mie domande si faceva sempre più scuro in viso, non volli dispiacergli più oltre.

Carmine si era alzato per andar via, ma Geltrude sperando di riuscire a trattenerlo ancora un pezzo, rimase seduta.

— Insomma, scusa il paragone, tu al castello ti trovi come l’asino in mezzo ai suoni! A me basterebbe poche ore per dipanar coteste matasse. Tu non sei stato mai troppo furbo; un buon uomo, questo sì, ma nulla più. E siedi ancora un poco...

— Ma che, ma che! Mi hai fatto chiacchierareper più di un’ora e non ti basta? Un’altra volta mi fermerò per un pezzo. Debbo andare e tornare coi giornali che il duca aspetta con grande ansia perchè pare si maturino di grandi cose a danno dei Francesi e tutti i re sono congiurati contro l’Imperatore.

— Va, va; verrò a farti io una visita al castello. Giusto domani è domenica, chiuderò il molino e... vorrò vedere. Mi basterà un’occhiata per capire tutto. Non ti nascondo che son capace di non dormire stanotte. Perchè ci è un mistero, un mistero ci è...

Carmine alzò le spalle ed uscì accompagnato da Geltrude.

Aveva inforcato la cavalcatura e si era già allontanato allorchè la vecchia gli gridò:

— Aspettami, sai, domani!

Egli si rivolse e le fece un segnò di assentimento.

Quando Carmine tornò al castello con le lettere e i giornali pel duca, trovò nella stanza da studio, come di consueto, colei che oramai da tutti era chiamata la contessa. Un velo di malinconia era diffuso pel volto delicato della giovinetta e ne rendeva più vaga la leggiadria. I grandi occhi pensosi raggiavano di una luce più blanda e la piega di dolore delle labbra era indizio dei segreti affanni di quel giovane cuore.

Gli occhi le si accesero allorchè vide entrar Carmine e fissarono il mucchio delle lettere e dei giornali che egli le porse come faceva sempre, quantunque il duca fosse seduto lì innanzi allo scrittoio. Ella ne lesse gl’indirizzi, e infine con un sospiro invano, trattenuto, diede al padre lettere e giornali.

— Povera figliuola! — mormorò il duca restando per un pezzo a fissarla.

Ella muoveva per andar via, visibilmente delusa, come ogni volta, nella sua vaga speranza. La posta non giungeva che soli due giorni la settimana, il mercoledì e il sabato, ed erano i giorni in cui ella or per una scusa or per un’altra si faceva trovare da Carmine nello studio di suo padre.

Fin dalla mattina ella appariva irrequieta, stizzosa, svogliata. Le due cameriere siciliane che l’avevano seguita oramai sapevano che la loro padrona in quei giorni mutava di umore per poi tornare come al consueto buona, indulgente e come affatto estranea a tutto.

Le due cameriere ne avevano ben compreso la causa e la commiseravano nei loro discorsi; ma usate al riserbo e alla discretezza non lasciavamo intravedere nulla a lei che appena tornato Carmine rientrava nelle sue stanze, ove per ore ed ore se ne stava assorta in pensieri assai tristi, a giudicar dallo aspetto di lei, e talvolta anche era stata sorpresa con gli occhi gonfi di lagrime.

Il duca aveva tentato di trarla da quello stato di angoscia muta e raccolta, ed era giunto financo a proporle di fare un viaggio per l’Italia; ma lei, senza rispondere, gli aveva rivolto uno sguardo così sdegnoso che il vecchio, timido e dimesso innanzi a sua figlia, non aveva osato d’insistere.

— Povera figliuola! — aveva detto mentre ella usciva dalla stanza.

Era tornata nella sua cameretta, l’istessa in cui aveva trascorso tanti anni della prima giovinezza, e si era lasciata cadere sul lettuccio. La mano le corse ad una collana d’oro e di gemme che in quei due anni aveva portata sempre al collo, la staccò e si diede a baciarla mentre calde lagrime le scorrevano giù per le gote.

Era la collana d’oro che quando ancora era unafanciulletta aveva perduto e le era stata restituita da un misero contadinello.

Quel misero contadinello era suo cugino; quel misero contadinello divenir doveva lo sposo dell’anima sua!

Tristi, tristi nozze erano state quelle! Che cosa non avrebbe dato lei, che cosa non avrebbe dato lui perchè il loro amore fosse santificato da Dio, fosse legittimato dagli uomini? E ciò il destino aveva loro concesso facendo del loro connubio un’opera di salvezza; l’aveva concesso per dividerli, li aveva uniti onde una morisse per l’altro, inesorabilmente.

Erano due anni, due lunghi anni che nessuna nuova di Riccardo era giunta a lei. Pure essa sentiva che Riccardo viveva, sentiva che egli era col pensiero a lei, come lei era col pensiero a lui. Sentiva che sarebbe tornato, ma intanto scorrevano i giorni, scorrevano le torride ed insonni notti, ed invano, invano ella vagava col pensiero in cerca di lui. Dove, dove fissarsi con l’anima anelante? In quale plaga, sotto qual cielo, e donde, donde veniva l’anima di lui che ella sentiva perenne intorno a sè?

Talvolta era turbata da un’idea; non era stata troppo severa lei nel volere la separazione dopo le nozze? Non era stata troppo severa nel fargli una colpa dei rapporti con la Regina contratti in tempi in cui se ella era amata, non aveva di un solo sorriso incoraggiato Riccardo in quell’amore? Col sacrificare il suo pudore di donna alla salvezza della Sovrana, non aveva lei rotto quei rapporti, divenuti incresciosi a colui che era adesso suo marito? Perchè aveva voluto spingere l’eroismo a tal segno, deludendo forse la volontà del destino?

In quei due anni aveva acquistato maggior coscienzadella vita e aveva compreso che la sua severità non era in fondo che gelosia, gelosia della quale aveva incominciato a sentire confusamente un tal quale rimorso.

Gl’impeti del sangue giovanile nulla toglievano all’amore che come una religione Riccardo custodiva per lei. Varcando la soglia della camera nuziale, se sgombra di ogni altro sentimento egli avesse avuto l’anima amante, se integra fosse stata la dedizione a lei, il suo bacio di vergine gli avrebbe ridato una verginità. Rotto ogni rapporto, con la Regina, nessuna traccia ne sarebbe rimasta in lui e la felicità sarebbe stata profonda e sconfinata come il loro amore.

Ma un tal pensiero era combattuto da un sentimento che non riesciva a dominare, da una visione che la faceva rabbrividire: lui fra le braccia di quella donna!

Meglio, meglio quel dolore sordo, continuo, che una felicità interrotta da tale orrida visione! Poteva così amarlo, poteva così abbandonarsi all’immagine sua con la sola dedizione dell’anima; potevano i loro spiriti congiungersi per lo spazio immenso, puri da ogni terrena passione!

Così ondeggiava, così aveva per due anni ondeggiato in tali pensieri pur sempre dolorosi! La sua vita era scorsa solitaria, chè ogni svago, ogni distrazione si rifiutava: solo la lettura le era alquanto di sollievo e le opere pietose a cui attendeva. Non usciva dal castello che per andare a messa la domenica nella chiesetta del villaggio, e di tanto in tanto alla benedizione della sera per pregare sulla tomba in cui dormivano il sonno eterno il padre e la madre di Riccardo.

E proprio la sera di quel giorno aveva inteso un gran bisogno di pregare. Nell’Avemaria diciascun sabato convenivano nella chiesetta a dire il rosario tutte le contadine, ed ella amava d’inginocchiarsi fra quelle poverette e sposare le sue preghiere alle preghiere di coloro che forse ne invidiavano le ricchezze e che di gran lunga erano al certo meno miseri di lei!

Avrebbe preferito di andar sola, ma il duca non aveva voluto non solo perchè sarebbe stato disdicevole per una dama in quei tempi non farsi accompagnare dai guardiani, ma anche pericoloso. Benchè il brigantaggio fosse del tutto spento, pure ci era sempre da temere in un risveglio; onde Pietro il Toro era stato incaricato di disporre, ogni qual volta la contessa gli faceva dire che sarebbe andata in chiesa, che alcuni dei guardiani le fossero di scorta.

Il vecchio scorridore non cedeva a nessuno un tale onore. Fra lui ed Alma ci erano dei rapporti ben più affettuosi di quelli che intercedano fra padroni e servi. Pietro però non ne abusava. Nessuno più di lui poteva intendere il dolore della giovinetta, nessuno più di lui poteva più sinceramente compiangerla, ma si limitava a scrollar la testa allorchè la vedeva così afflitta; e se per caso i loro occhi s’incontravano, Pietro per non acuire i dolori di lei cercava di darsi un contegno tranquillo ed indifferente.

Ma anche lui, il vecchio scorridore, aveva una spina nel cuore. Talvolta lo sentivano borbottare in disparte, ma lo si sapeva di modi troppo spicci e maneschi perchè si osasse di chiedergli che cosa sovente gli facesse scrollare il capo, mentre un sospiro di dolore gli usciva dal petto.

Pure una volta fu udito che diceva:

— Quando tornerà lui, perchè tornerà, lo sento, bisogna che quella poveretta sia seppellita interra di cristiani, che cristianamente morì quella poveretta!

E se ne facevano molti commenti senza che s’indovinasse il significato di quelle misteriose parole.

La sera dunque di quel sabato Pietro fu avvisato da una delle cameriere che la signora contessa sarebbe andata alla benedizione nella chiesetta del villaggio.

Quando la contessa verso l’imbrunire uscì dal castello trovò presso la postierla il vecchio Pietro armato, a capo di quattro guardiani armati anche essi, che da un pezzo aspettavano tenendosi dritti e immobili alla militare.

Ella sorrise a Pietro, rispose con un cenno della testa al saluto dei guardiani e si diresse verso la chiesetta. Vestita di nero, con un nero velo sulla gran massa aurata dei capelli: il sole del tramonto l’avvolgeva come in un nimbo di rosa, ed ella passava raccolta in sè, con l’incedere stanco di chi vive nella tristezza.

I guardiani la seguivano con l’aria severa di chi sente in sè riflesso il prestigio della casa a cui appartiene. I contadini che tornavano dal lavoro dei campi si fermavano per togliersi il cappello e per seguire con gli occhi la giovinetta, le cui opere pietose avevano conferito come un’aureola alla sua delicata e soave leggiadria.

In quel punto dal campanile della chiesetta squillarono i rintocchi che chiamavano i poveri villici alla preghiera della sera. Uscivano dai tuguri le contadine che avevano deposte le ceste, le fascine portate dalla campagna. Il giorno appresso era festa, quindi potevano indugiare quella sera ad andare a letto, potevano raccogliersi in comune nella preghiera.

Esse erano ben liete e quasi orgogliose di averea compagna la figlia del loro signore che era stata l’amica della Regina. Era un conforto per esse, povere creature che non avevano mai conosciuto la felicità, il vedere, il sentire che quella giovane donna, che portava un gran nome, che possedeva una grande ricchezza, che era bella come un angelo del buon Dio, pregava come un’afflitta a piè dell’altare la Madre degli afflitti. Ci erano dunque dei dolori profondi oltre a quelli che esse soffrivano per la loro miseria?

Ed erano indotte da quella comunione di tristezza alla rassegnazione. Tutti dunque soffrono quaggiù, anche coloro cui la fortuna fu prodiga di ogni suo dono? In ginocchio, col capo sul petto, nella penombra di quella povera chiesa con un semplice e disadorno altare in fondo, con un crocifisso in alto, sopra una immagine della Madonna, innanzi alla quale ardevano due candele, esse dimenticavano la distanza del grado e della nascita, e si sentivano accomunate con quella figlia di uno dei più cospicui signori del Regno nella muta preghiera che si elevava a Dio dalle loro anime addolorate.

La chiesetta era già affollata quando Alma entrò. Tutti si fecero da parte per darle il passo. Attraversando la navata, andò ad inginocchiarsi innanzi alla lapide che chiudeva la tomba dei duchi di Fagnano, ove avevano sepolto anche la madre sua, e si diede a pregare fervidamente, mentre si elevavano tristi e solenni le voci dei fedeli che cantavano le litanie.

I guardiani si erano arrestati nel fondo. Solo Pietro aveva seguito la giovinetta ed appoggiato a uno dei pilastri si teneva immobile. Portava, è vero, sul petto l’immagine della Madonna del Carmine, ma reputava bastevole il baciarla devotamente allorchè la sera metteva il capo sul guanciale.Tutte le altre pratiche convenivano bensì alle donne ma non agli uomini; perciò se ne stava pressochè indifferente, non perdendo di vista, come un buon cane di guardia, la sua padrona.

Veramente, come tutte le anime rozze ed incolte sentiva profondamente la fede in un essere superiore che considerava come il padrone di tutti, anche dei suoi padroni. Ma la lunga vita passata nei boschi l’avevano disavvezzo dalle pratiche religiose che non avevano molta importanza per lui.

Certo non si divertiva, anzi era così seccato talvolta della monotona cantilena delle contadine che volontieri le avrebbe spazzate via. Ma era troppo compreso del suo dovere per osar di mostrare la noia che gli faceva metter sovente la mano alla bocca per nascondere gli sbadigli.

Fu appunto in uno di questi momenti che volgendo in giro gli occhi vide l’ombra di un uomo al par di lui appoggiato ad un pilastro e che al par di lui si teneva immobile. Per quel che poteva intravedere confusamente, non era punto un contadino. Chi era dunque? Lui conosceva tutti del paesello e non aveva bisogno di vederli in viso. Il viso di quell’ombra gli era nascosto, ma a giudicare dall’atteggiamento pareva che tenesse gli occhi addosso ad Alma da cui era discosto solo di pochi passi.

— Chi diavolo può essere? — borbottò Pietro che da antica abitudine era indotto a diffidare di ciò che non appariva chiaro al suo grosso cervello.

Lo sconosciuto si era posto, quasi temesse quel po’ di luce che irradiava dall’altare, nel buio dietro il pilastro e volgeva le spalle a Pietro.

— Bisogna che sappia chi è. È vero che adesso i tempi son mutati, non so se in peggio o in meglio, ma si suol dire che il diavolo non ha pecoreeppure vende lana!

Diceva ciò sforzandosi di vedere in viso lo sconosciuto che continuava a tenersi immobile.

Intanto la funzione era finita; le contadine si alzarono per andar via. Si alzò anche Alma e mosse per uscire.

Pietro il Toro stette un momento incerto, ma la curiosità fu più forte del dovere; lasciò passare la contessa, poi rapidamente si accostò allo sconosciuto.

Nello scalpitio della folla che usciva dalla chiesa echeggiò un grido.

Alma aveva trovato i guardiani innanzi lo spiazzo della chiesa; ma dov’era Pietro il Toro che la seguiva sempre come la sua ombra?

Si guardò intorno e poi si rivolse ai guardiani:

— Pietro — disse — non è uscito con voi?

— No, Eccellenza — le rispose uno di essi — È ancora in chiesa.

Si mise in via senza chiedere più oltre. Era forse una delle solite bizzarrie di quel vecchio a cui ella oramai era usata.

Avevano fatto pochi passi quando uno dei guardiani disse:

— Eccolo che esce. Ma che ha Pietro il Toro? Non mi pare che abbia l’aspetto ordinario.

Ella si fermò a tali parole, ma già Pietro il Toro le era dinnanzi.

Anch’ella rimase sorpresa quasi spaventata. Pietro il Toro aveva una strana fisionomia, un viso quasi sconvolto come chi abbia il cuore gonfio e a stenti trattenga le parole. Quando fu vicino alla sua padrona mosse le labbra per parlare ma ne uscì un mugolio come se la voce lì lì per prorompere gorgogliasse nella gola.

— Che avete, Pietro? — gli chiese Alma che incominciava a sbigottirsi.

— Che ho? Nulla! — rispose il vecchio dopo un pezzo — Che posso avere? Ho che se Vostra Eccellenza mi dicesse: Pietro, tu devi volare, a me pare che stasera mi siano spuntate le ali, e volerei! Ah, che brutto uccellaccio, non è vero? Ma volerei, ve lo giuro!

Ella continuò a guardarlo sorpresa, perplessa. Se non l’avesse visto nell’andare in chiesa così calmo, così severo, col viso come di consueto rabbuiato, avrebbe creduto che Pietro il Toro, pur di solito così sobrio, avesse alzato il gomito.

— Pietro ha bevuto — mormorò uno dei guardiani agli altri — Nel venire non ce ne accorgemmo; ma il vino ha lavorato alla chetichella ed ora ecco gli effetti.

— Ma perchè non andiamo al castello? — continuava a dire Pietro il Toro — Che facciamo qui fermati? Ammenochè Vostra Eccellenza non mi ordini di ballare. Un tempo ero famoso. Lo domandi al vecchio Carmine. È vero però che mi chiamavano l’orso.

Ma era ubbriaco, era ubbriaco, o incominciava a dar di volta?

Questo si chiedevano i guardiani seguendo Alma e discorrendo sottovoce perchè Pietro non sentisse. Egli intanto andava innanzi e indietro festante come un cane che abbia ritrovato il padrone. Però era troppo furbo per non accorgersi della sorpresa destata nei suoi compagni ed anche nella contessa.

— Ah, voi mi tagliate i panni addosso perchè mi vedete così allegro! E che! Non son padrone di essere allegro? Finora fui, come suol dirsi da noi, col morto davanti, e voi non eravate contenti. Pietro, che hai? Vecchio, perchè quell’aria funebre? Noi vogliamo sapere quel che ti passapel capo. Ed ora che sono allegro, ora vi chiedete se son pazzo o se sono ubbriaco! Non sono nè l’uno nè l’altro. O meglio, sono pazzo sì, fino al punto che stasera pagherò da bere a tutti. Proprio, quando il servizio sarà finito e i padroni andranno a letto... ma qualcheduno non dormirà, ve lo assicuro io... noi faremo un pò di baldoria, e domani, domani nessuno vi troverà a ridire, anzi si troverà che non ne avremo fatta abbastanza. E inviteremo anche Carmine. Perdio, lui per il primo! Povero Carmine, se gli dicessi una parola, una sola... Ah, imbecille che sono! E che dovrei dirgli? Nulla, nulla, solo che vogliamo stare allegri perchè, via, ne era tempo ormai.

Immersa ne’ suoi pensieri, Alma non l’ascoltava punto, quantunque ben sorpresa della parlantina del vecchio, di consueto così taciturno. Ella aveva intuito il perchè della profonda tristezza del vecchio: era il ricordo della povera Vittoria, era l’assenza di lui: glielo leggeva negli occhi, nel sorriso nei momenti in cui s’incontravano nei corridoi del castello; ma nessuno di essi ne aveva parlato mai, egli per riverenza, ella per ritrosia.

Giunti alla postierla Alma si rivolse come faceva ogni volta per rispondere al saluto dei guardiani, dai quali si sentiva molto amata, e già era per salire le scale che mettevano nelle sue stanze allorchè vide il vecchio Pietro che si era tolto il cappellaccio e mostrava nel viso sorridente il desiderio di parlarle. Onde si arrestò e non potè trattenersi dal dirgli.

— Ma insomma, Pietro, che hai?

— Ho contessina, ho che... ho fatto un voto.

— Un voto tu, e a chi?

— Alla Madonna del Carmine alla quale debbo se dopo tante peripezie sono ancor vivo.

— E in che consiste un tal voto?

— Glielo dirò, Eccellenza, glielo dirò. Vede, Eccellenza, quella porticina che serba ancora le traccie del fuoco e del fumo? Fu proprio in quella che lui... il conte suo marito... capitan Riccardo che io ho amato come un figlio... cioè, bestia che sono! che amo come un figlio quantunque sia un gran signore... Io lo sapevo, ma lo tenevo celato a lui, perchè... perchè... è inutile dirlo il perchè. Fu dunque da quella porticina che lui tra il fumo, le fiamme, le schioppettate si precipitò come un leone sui Francesi. Ah, l’avesse visto! Un vero paladino di Francia... Altro che Rizzieri!... Altro che Fioravante!... E così diede il tempo a lei, alla Regina, al duca di porsi in salvo!

Ella ascoltava commossa, con la visione di lui negli occhi, di lui bello e prode, di lui così temuto e così amato. Ma perchè Pietro, che per non acuire i dolori di lei, con istintiva delicatezza non aveva mai evocato tali ricordi, perchè quella sera, tutto pervaso di una sì strana allegria, l’aveva financo trattenuta, ciò che per un altro sarebbe stato una grave mancanza di rispetto?

— In che dunque consiste un tal voto? — tornò a chiedergli.

— In una bizzarria, un capriccio da vecchio. Eccellenza, che non le sarà poi di gran fastidio, perchè lei, anche senza il mio voto, va sempre tardi a letto, e quando veggo i vetri della sua stanza illuminati dico fra me: La mia padrona piange, e avrei dato il mio sangue, i pochi anni che mi restano di vita perchè la mia padrona non piangesse più e... ridesse come io ora rido!...

— Lo so Pietro, lo so che mi vuoi bene, ed anche lui ti voleva bene.

— Ti voleva? che cos’è questovoleva? Mi vuole, ha capito Eccellenza? mivuolebene!...

Alma trasse un sospiro e mosse per salire la scala.

— Non le ho detto il mio voto! — s’affrettò a dir Pietro — Mi faccia la grazia di trattenersi ancora un poco... Ecco qui... lei dovrebbe star sveglia fino a mezzanotte nella sua stanza... come fa sovente del resto.

— Che sono queste pazzie, Pietro? — esclamò lei che incominciava a credere davvero il vecchio avesse dato di volta.

— Pazzie? Le chiama pazzie! Io sono dunque un pazzo? Sì, sì, me lo dirà poi, saprà poi perchè e di che son pazzo! Son pazzo perchè sono savio, e non sono mai stato tanto savio quanto stasera in cui son pazzo!

Ella, un po’ infastidita, gli disse, tanto perchè non la importunasse più oltre:

— Non vo’ mai a letto prima di mezzanotte; potevi anche risparmiarti di dirmi il tuo voto.

Pietro la seguì con lo sguardo finchè ella disparve.

— L’ho fatta andare in collera! E veramente, poichè non sa, non posso darle torto. Ah, se sapesse, sarebbe pazza più di me, lei, povera creatura! Ora bisogna che vegga Carmine. Non dirò niente neanche a lui: io ho potuto resistere perchè son pur sempre Pietro il Toro; ma lui povero diavolo non reggerebbe alla gioia. Se io, al primo istante, intesi come se il cuore mi scoppiasse! Sfido... una sorpresa simile... vedermelo dinnanzi così di botto! Ed io che lo piangevo per morto! Non ne dicevo nulla per pietà di quella povera anima di Dio che si struggeva dal dolore! Ma ora non andrà più via; ora dopo tante traversie, dopo tante sciagure, dopo tante vicende sanguinose bisogna godersela la vita in pace e in gioia. O che forse non ne abbiamo diritto?

Di un tratto il viso del vecchio si abbuiò.

— Ah, se fosse qui con noi quella poveretta che giace, laggiù sotto quattro zolle di terra! È vero che... si era posta in capo una certa idea... Povera donna! La dicevano crudele, feroce, sanguinaria, ed era in fondo una buona creatura. Ma dovrà tornare qui... Lui lo vorrà, lo vorrà, onde quella sventurata sia vicino a coloro che amò tanto e pei quali morì!

Stette un istante pensoso.

— Orsù — disse poi, ridivenendo lieto — bando per stasera alle idee tristi. Ho promesso di pagar da bere a tutti... Dimani ne sapranno il perchè... Ah, dimani questo vecchio castello che ora mi sembra una sepoltura, sarà tutto una festa e...

Un pensiero gli troncò a mezzo le parole.

— E se lei si ostinasse?

Poi scoppiò a ridere come per darsi la baia.

— Che sciocco! Ma se lei si strugge, si strugge, povera figliuola, e ne sarebbe morta se lui avesse ancora tardato! Al vecchio Carmine, adesso. Che tiro gli vorrò fare, che tiro!

E prese la via delle stanze a pianterreno ove Carmine ogni sera a quell’ora faceva i conti con i lavoratori.

— Oh Pietro — disse Carmine al vederlo, interrompendosi per poco — ho da darti una nuova che ti farà piacere.

— Una nuova a me, tu? — gridò Pietro restando a bocca aperta per lo stupore.

— Sì, sì: aspetta che abbia finito... Delle nostre antiche conoscenze che son tornate... Le ho viste oggi... Poi, poi ti dirò:

E si rimise a discorrere coi contadini.

Pietro non si era riavuto dalla sorpresa. Quale nuova Carmine doveva dare a lui che ne custodivauna veramente sbalorditiva? E lui che era venuto col proposito di prendersi giuoco del suo vecchio amico, tenendolo sospeso con mezze parole! Si sentiva bene imbrogliato perchè stentava a credere che Carmine sapesse ciò che lui sapeva. Avrebbe continuato così tranquillamente a fare i suoi conti? Non avrebbe fatto echeggiare il castello dalle sue grida di gioia, come avrebbe fatto lui se non avesse promesso di tacere?

— Sbrigati, via sbrigati — disse a Carmine, non ne potendo più.

— Ho per massima di non rimandar mai le cose dell’oggi al domani.

— Sì, ma io intanto... Mi hai messo in tale incertezza...

— Ma che? Sei divenuto una donnicciuola? Non ti sapevo così curioso!... Aspetta, aspetta, che ora sarò con te...

E senza badargli più oltre continuò a far di conti.

Pietro si grattava la testa con un gesto a lui abituale quando era imbarazzato, e si rassegnò ad aspettare, rodendosi le unghie dall’impazienza.

— Ah, finalmente! — gridò quando vide che Carmine, essendo andati via i contadini, si accostava lui — Che ci è dunque, che ci è? Chi è tornato?

E stette perplesso ad aspettare la risposta. Ah, la gioia gli sarebbe stata assai avvelenata se Carmine avesse saputo ciò che lui sapeva!

— Il Ghiro ed il Magaro... ti ricordi? furono tuoi vecchi compagni d’armi... li ho incontrati luridi, laceri, affamati da far pietà, e li ho invitati a venir qui stasera.

Pietro il Toro s’intese come corbellato. In un altro momento avrebbe accolto con piacere quella nuova, chè era stato sinceramente affezionato aisuoi vecchi camerati; ma mentre egli ne aveva una di grande importanza sbalorditiva non poteva quasi perdonare neanche al vecchio Carmine il diritto di avere anche lui delle notizie.

— Bah — disse infine — mi fa piacere, sì, mi fa piacere; ma che cos’è questo in confronto di quello che so io?

— E che sai tu, che sai? — chiese Carmine.

— Che so? Nulla... Penso che il destino talvolta è ben curioso!... Dunque il Magaro e il Ghiro son tornati? Ne ho piacere, davvero, ne ho piacere. Ci siamo tutti i vecchi amici, i compagni di un tempo!

— Tutti no — rispose Carmine con un sospiro — manca il capo, manca l’aquila: son tornati solo gli sparvieri!

— Tutti, ti dico! — gridò Pietro.

Ma rimase confuso, imbarazzato, per quelle parole che non aveva potuto frenare.

Carmine lo guardò sorpreso; poi scrollò il capo, come se non avesse ben capito.

— Manca lui, manca capitan Riccardo! — mormorò con un sospiro.

— Sai, stasera ho invitato a bere i guardiani, festeggeremo il ritorno di... del Magaro e del Ghiro. Ti vogliamo con noi, hai inteso? Un po’ di allegria è necessaria di tanto in tanto. Se la cosa fosse durata più a lungo ne sarei morto.

— Quale cosa?

— La cosa... Dico così per dire. Ma tu hai avuto sempre il brutto vezzo di far delle domande che imbarazzano. Vo’ via perchè mi faresti andare in collera. Dunque ti aspetto nella mia stanza; faremo una partita e si starà allegri, hai inteso?

Detto ciò prese la via del cortile, lasciando Carmine alquanto incerto.

— Ha sempre avuto di queste bizzarie — mormorò il vecchio — Ma chi non ha difetti? E chi ha poi il cuore di Pietro?

Alma era salita nel suo appartamento in un angolo del castello. Presso la porta della sua camera incontrò una delle cameriere che le disse:

— Il signor duca ha chiesto di lei. Vuole che lo avvisi appena tornata.

Non aveva finito di dir queste parole che il duca comparve sull’uscio. Aveva in mano un giornale che leggeva attentamente. Nell’alzar gli occhi vide la figliuola.

— Ho una triste nuova da darti... dico triste perchè anche se nol meriti ci si affeziona con chi vivemmo per tanti anni in comunanza. La regina Maria Carolina è morta.

— Morta! — esclamò lei impallidendo.

— Un mese fa: l’ho letto ora in questo giornale che mi è pervenuto con un po’ di ritardo. Povera donna, il cielo, l’abbia nella sua misericordia. Però la cosa non sembra molto chiara: il giornale, un po’ liberalesco, lascia intendere tante cose a ben leggere tra le linee! Pare che avesse infastidito un po’ i sovrani che si erano riuniti a congresso. Bisogna convenire che è morta sulla breccia!

— Padre mio, sono stanca — disse Alma che mal si reggeva in piedi.

— Vai, vai, anche io andrò a letto. Questa notizia mi ha fatto male. E... e ho pensato subito a lui: ora è sciolto da ogni impegno... Perchè neanche ora si è fatto vivo? Avrebbe potuto scrivere! Infine, volere o non volere, sei pur sempre sua moglie!

Ella era rientrata nella sua camera col cervello sconvolto, col cuore in tumulto. Non avrebbe saputoben ridire quel che aveva inteso alla notizia che tutto ad un tratto le aveva dato suo padre. Ci era del dolore, ma ci era anche una vaga gioia, una vaga speranza; certo l’ostacolo maggiore al ritorno di lui era tolto!

Ella però aveva inteso rimorso di un tal pensiero, rimorso di aver pensato a lui prima che alla povera morta; ma indarno si rimproverava ciò che a lei pareva durezza di cuore: non sapeva far tacere l’intima voce che le parlava di sperare!

Come abbiamo detto, Alma in quei due anni aveva inteso quasi un sordo pentimento della sua severità verso l’uomo al quale il destino l’aveva unita con un nodo indissolubile. Accusava se stessa di aver sacrificato alla sua superbia la felicità sua e dell’uomo che l’amava.

A quale vita si era condannata e a quale vita aveva condannato colui al quale aveva giurato innanzi a Dio di appartenere con tutto il suo corpo e con tutta l’anima sua! Ella aveva impedito che prendesse possesso di ciò che gli spettava per legittimo diritto! Quel castello era suo, ed ella ne godeva, ella che lo aveva scacciato dalla camera nuziale! Ella continuava l’opera nefasta di suo padre a danno del figlio di colui che suo padre aveva costretto ad andar ramingo!

Quanto più nobile, più generoso era stato lui che era andato via rinunciando a tutti i suoi diritti! E se non le aveva dato in quei due anni notizia di sè, era segno che voleva umiliarla con la sua alterezza, che sdegnava di aver rapporti anche amichevoli con la donna che lo aveva scacciato!

Si era seduta sulladormeusea piè del suo letticciuolo e vi si era abbandonata come stanca.

— Vostra Eccellenza ha suonato? — chiese una delle cameriere entrando.

Ella, scossa da quella voce, alzò il capo.

— No — disse — anzi poichè è già tardi, potete andare a letto.

La cameriera salutò ed uscì.

Alma guardò l’orologio. Mancava mezz’ora alla mezzanotte.

Ebbe come un sussulto, una strana, stranissima idea le passò pel capo. Perchè Pietro si era fatto promettere che ella non sarebbe andata a letto prima della mezzanotte, perchè? Un voto? Ma che stupido e inconcludente voto era quello! Pietro, è vero, era di carattere e di umore bizzarri, ma non si sarebbe permesso con lei una burla così sciocca! E quella strana, prorompente allegria doveva pure avere una causa!

E rievocava i particolari di quell’ora trascorsa in chiesa. Nell’andare Pietro aveva il contegno consueto: era taciturno, pensoso, come per due anni lo aveva quasi sempre visto. Poi lei era uscita e lui era rimasto in chiesa mentre di solito la precedeva. Quella breve dimora era bastata per trasformarlo, per pervaderlo di gioia, per farlo divenir quasi folle. Che cosa era accaduto in chiesa in quei pochi istanti? Che aveva inteso? Chi aveva visto?

Chi aveva visto? Il cuore le diede un balzo per un sospetto, un sospetto così vago, così strano che era una follia. Una follia? E il duca non le aveva detto che la Regina era morta, da più di un mese? Dunqueluiera libero, e chissà non avesse inteso il bisogno di tornare a lei!

Ella, è vero, era stata inesorabile, gli aveva detto che sarebbe stata inesorabile: ma in quei due anni di raccoglimento in cui la vita le era apparsa nella sua realtà, in cui aveva compreso che se la donna è responsabile di tutto il suo passatoper i fini supremi della natura e dell’amore; se l’integrità del cuore non può scompagnarsi dall’integrità verginale nella donna che si dona all’amore di un uomo, ben folle e bene assurda è nella amante e nella sposa la gelosia fisica del passato. Le labbra di un uomo infrangono il bicchiere nel quale bevve la voluttà voluta dal sangue e non dal cuore; ma nessuna traccia ne resta alle sue labbra: il vino che assaporò non ha nome per lui, o se mai ne ebbe, è presto cancellato; dove l’anima non lascia parte di sè, ivi non resta la stigma dell’amore; e l’uomo anche se visse una lunga vita di vizi e di dissolutezze alle quali non partecipò l’anima, può, redento da un amore, l’unico, il vero, l’assoluto dell’esistenza sua, darsi puro alla donna che infine incontrò dopo averla cercata per lunghi anni, puro come la vergine che muove all’altare.

Ma aveva compreso lui che l’inesorabilità di lei sarebbe stata vinta non solo dalla maggiore maturanza del suo intelletto e del suo cuore, ma anche dalla passione che vince talvolta anche la gelosia? Se ancora l’amava come l’aveva sempre amata, non avrebbe inteso il bisogno di tornare sia pure per andar via per sempre se ella ancora si fosse ostinata in tanto assurda e disumana ripulsa?

E che avrebbe fatto lei se quel vago sospetto, quel vaneggiamento si fosse avverato?

La risposta era nei brividi che a tal pensiero le corsero per tutta la persona, nel subito divampare del sangue, nei battiti convulsi del cuore, in tutta l’anima sua fremente di passione.

Non era più la giovinetta il cui amore era stato un fluttuare di pensieri or tristi or lieti, ma vaghi e confusi sempre: era la donna che amava, che voleva con tutta la sua compagine, come se l’animaardente di amore si fosse sparsa per tutte le sue fibre, e tutto il corpo e tutte le visceri ne fossero pervasi.

Alzò gli occhi. L’orologio a pendolo segnava mezzanotte meno pochi minuti.

Fra pochi minuti dunque sarebbe giunta al bivio fatale della sua vita, fra pochi minuti si sarebbe compiuto il suo destino: o l’amore con tutte le gioie che in quei due anni aveva intravisto nei sogni, tormentatrici ed allettatrici insieme, o lo sconforto, la desolazione, il buio dell’anima, le torture logoranti dei desideri roventi e insoddisfatti.

Il suo sospetto era divenuto certezza. Per un misterioso fenomeno ella sentiva che Riccardo le era vicino; ella si sentiva nella visione di lui, sentiva il flusso del suo pensiero che tutta l’avvolgeva. L’indice dell’orologio lentamente si avvicinava all’ora fatale: ella aveva lo sguardo fisso sulla porta, l’orecchio teso, il cuore in tumulto.

E se s’ingannasse?

Nonpertanto aveva paura, paura di vederlo comparire là sulla soglia della porta, uscente dalle tenebre come un fantasma; paura di non vederlo pur sentendo che egli era in quelle tenebre!

Mezzanotte era per suonare!

Sussultò in tutta la persona: aveva sentito un lieve rumore nelle tenebre del corridoio.

— Dio mio — mormorò — Dio mio!

Il rumore di un lento calpestio, impercettibile per ogni altro orecchio, si faceva sempre più distinto e vicino.

Ella diede un grido, un grido che era di gioia e di spavento insieme, ma non ebbe la forza di alzarsi e si abbandonò sulladormeusecon gli occhi sbarrati e fissi alla porta.

Aveva visto un’ombra che si andava sempre delineando.Allorchè fu in piena luce ella riconobbe in quell’ombra colui che aspettava: Riccardo.

Si era fermato sulla soglia come in quella sera delle nozze. Era pallido, ma aveva negli occhi uno sguardo d’ineffabile tenerezza.

— Alma — disse Riccardo con voce dolce e triste — anche adesso non varcherò questa soglia senza il tuo invito.

L’aria ne era grave, l’aspetto severo. Nulla era più in lui dell’audace avventuriere nelle vesti signorili, nel signorile portamento.

— Dite una sola, una sola parola — continuò — ed io andrò via per immergermi di nuovo nel silenzio e nelle tenebre donde sono uscito.

Ella non aveva la forza nè di parlare nè di muoversi: tutta la sua passione come tutta l’anima sua erano nello sguardo. Infine si alzò a sedere, mandò indietro con un atto del capo la bionda capellatura che le si era disciolta, mosse le labbra per parlare; poi vinta da una profonda commozione scoppiò in un dirotto pianto.

Egli rimase lì a guardarla, con le braccia conserte, dominando l’angoscia, dominando l’impulso di tutto l’essere suo per non varcare quella soglia.

Infine anche ella si calmò e con voce rotta dai singhiozzi gli disse:

— Voi siete l’unico signore e padrone qui: voi siete l’atteso da due anni, nelle lacrime e nella solitudine!

Non aveva ancora finito di dire queste parole che già Riccardo era alle sue ginocchia, con gli occhi sfavillanti, col volto trasfigurato da una gioia sovrumana. Aveva preso tra le sue le mani di lei che baciava e ribaciava, tenendo pur sempre fissi gli occhi sulla leggiadra creatura che non si eraancora riavuta dall’orgasmo in cui l’aveva immersa quell’attesa, quella invocata apparizione.

— Ti dirò tutto — proruppe lui quando infine la parola che salendo dalle viscere moriva sulle labbra potè venir fuori — ti dirò tutto della mia vita di questi due anni.

— Tu sei qui, sei qui! — mormorò lei piegandosi su lui. — Che m’importa del resto?

— No, devi saper tutto: devi ripigliarmi come se tu meco avessi vissuto questi due anni, devi sapermi tuo, sentirmi tuo come fui sempre anche quando osavo alzar gli occhi per adorarti come il lurido bruco adora il sole che lo riscalda. Sai tu che quella povera donna che era nata come un astro si è spenta come un tizzo fra le ceneri, spenta forse dal veleno propinatole da coloro che ne temevano l’indomita energia, lo spirito impetuoso ed audace, la volontà inflessibile, spenta così di un tratto mentre i monarchi di Europa, caduto il gran soldato che li aveva divelti dai troni, discutevano del nuovo assetto da dare agli Stati ed ella difendeva il suo, tentando di rivendicare i propri diritti? Sola contro tutti fino agli ultimi istanti, sola contro tutti anche morendo, affermando anche morendo la vastità e la profondità di un genio reso infecondo dalle debolezze muliebri! In quei due anni ella fu la sovrana per me, unicamente la sovrana. Da quella notte in cui la mia vita fu legata alla tua innanzi a Dio e innanzi agli uomini, ella che non aveva potuto vincere gli altri, vinse se stessa e trovò l’oblio dei suoi disinganni di donna nella sua missione di regina e di madre che difende per sè e per i suoi figli i diritti che Dio le aveva concesso.

Alma, che a poco a poco si era ridestata alla realtà che pur le pareva un sogno, trasalì a queste parole: dal profondo del cuore le salì sulle labbraun sospiro di gioia ineffabile. Le sue mani strinsero convulsamente quelle del giovane nel mentre lo fissava con le pupille ebbre di felicità attraverso il velo delle lagrime.

No, non mentiva, ne era sicura: egli era stato suo sempre col cuore, suo sempre col pensiero fin da quando, fanciullo ancora, ella era per lui un’irraggiungibile deità, e in quei due anni era stato suo in tutto se stesso! No, non mentiva per pietà di lei, non mentiva perchè gli si abbandonasse. Sarebbe bastato un cenno della mano perchè egli andasse via per non tornare mai più!

Di quanta gioia profonda le sfolgorava il viso, di che gioia profonda le balenavano le pupille!

— Parla, parla — gli susurrò piegando il capo sull’omero di lui — parla, amor mio!

Egli diede un grido: prese fra le braccia quel corpo morbido e caldo: con un gemito di amore convulso, quasi folle, cercò con la bocca la bocca di lei.

— No — gli disse lei piano, pure abbandonandosi — parla, dimmi tutto... Già tutto mi hai detto col dirmi che fosti sempre mio. Parla: è una musica celeste la tua parola. Poi ti dirò quanto ho sofferto, come ti ho atteso, come ti ho invocato. Parla: io sento con la tua voce penetrare nella mia l’anima tua. Che dolce e buona cosa è la vita! Non è questo l’istesso mondo, non è vero? tanto triste, tanto triste in cui ho vissuto finora! È un’altra terra, un altro cielo... Come è dolce il vivere così, come è dolce!

— E dunque — rispose lui facendo uno sforzo per dominarsi, ma essendo sicuro ora, sicuro che ella era sua, che ella gli si dava, che ogni fibra di quel corpo che stringeva fra le braccia era vibrante di passione — e dunque perchè parlare piùoltre di quel mondo nel quale soffrimmo, soffrimmo per meritar questa ora di cui ciascuno istante è una gioia sovrumana? Basti il dirti che io fui il messaggero della Regina, che vedevo soltanto nei giorni di udienza. Ella mi affidava i più delicati incarichi, le più arrischiate imprese. Viaggiai molto, conobbi molta gente, ma l’anima mia era qui, dove tu mi aspettavi.

— Non una parola di te, di te per due anni, non una parola, ed io morivo lentamente cercando invano l’anima tua!

— Tu mi avevi scacciato — rispose Riccardo con voce teneramente soave — ed io avevo giurato di lasciarti libera, di non tornare a te che dopo lunghi anni solo per vederti anche una volta prima che io morissi. Pure alla Regina moribonda promisi che prima di partire, come avevo risoluto, per le lontane Americhe, sarei venuto qui perchè ogni dubbio dileguasse dall’anima mia. Ella prima che la crudele agonia le togliesse la parola mi aveva detto, come se al suo spirito in quell’ora solenne fosse balenato il vero: Va, che ella ti ama; va, che ella ti aspetta; ed io son venuto, disposto a partire per sempre se tu mi avessi imposto di andar via, perchè non ti si incolpasse, perchè nessuno si arrogasse il diritto di aver pietà di me e di censurarti. Solo a Pietro mi svelai nella chiesa ove ero andato per pregare sulla tomba di mio padre e di mia madre. E ecco perchè con la cooperazione di Pietro sono io ora qui, in quest’ora della notte, come un amante o... come un malfattore. Dì ora una parola, una sola parola ed io andrò via per sprofondar lontano nelle tenebre e nel silenzio.

In ciò dire si era alzato e si teneva immobile a lei dinanzi.

Ella si alzò alla sua volta, si strinse a lui e lotrasse con dolce violenza verso l’uscio. Ivi giunta si fermò e voltasi a Riccardo che era rimasto sul limitare gli disse con voce lenta e solenne:

— Tu sei il mio signore e padrone tu sei il mio sposo, tu sei il mio amante. Questo castello è tuo, queste terre son tue, questa povera donna che ti ha atteso per due anni è tua. Sono io che t’imploro perchè non mi punisca della crudeltà mia come sarebbe tuo diritto. Scacciami come una sera io ti scacciai, ma aprimi le braccia se credi che due anni di dolori, di rimorsi, di tormenti mi abbiano punito abbastanza!

Egli che era rimasto da prima sorpreso ne capì di un tratto tutto il pensiero delicato. La prese fra le braccia, la raccolse fra le braccia per sentirla in sè fremente di passione.

Ed ella gli si diede tutta, come in un sogno!

Il castello dormiva, dormivano le campagne sotto al blando raggio lunare. Pel cielo sereno ammiccavano scintillando le stelle. Un fremito di amore, di baci e di parole mormorate nei baci saliva da quella cameretta spandendosi su su pel cielo senza nubi.

E per la serenità del firmamento ammiccavano le stelle scintillando più vive.

Era già sorto il sole quando di un tratto echeggiarono voci festose e scoppi di fucilate, come è in uso per le feste. Tutte le finestre del castello si spalancarono, tutte le porte si aprirono. Innanzi al piazzale la folla dei contadini urlava ebbra di gioia. Il Magaro, il Ghiro, Carmine, Geltrude parevano invasati: Pietro il Toro piangeva come un fanciullo pur cercando di darsi un’aria grave.

La gran veranda del castello sulla quale eran fissi tutti gli sguardi si aprì. Alma e Riccardo apparvero sorridenti, e dietro a loro il duca ancora intontito per la lieta sorpresa.

La folla emise un sol grido che si ripercosse per la vallata, un grido di delirante esultanza.

Il sole in tutta la maestà, in tutto il fulgore avvolgeva nella sua porpora i giovani sposi stretti l’uno all’altra e che avevano nel cuore un sole assai più sfolgorante: quello dell’amore!

Fine.


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