LV. Per quanto fossero acri le parole del Re, lo erano meno di quelle che profferì dopo che i Vescovi si furono dalla sua presenza partiti. Disse dʼavere già fatto troppo sperando di gratificarsi un popolo irreverente ed ingrato; avere sempre abborrito dalla idea di fare concessioni; ma vi sʼera lasciato indurre; e adesso, come il padre suo, vedeva per prova che le concessioni rendono i sudditi più esigenti. Quinci innanzi non cederebbe in nulla, nè anche dʼun atomo; e secondo suo costume ripetè più volte e con forza: «Nè anche dʼun atomo.» Non solo non farebbe proposte agli invasori, ma non ne accetterebbe nessuna. Se gli Olandesi mandassero a chiedere tregua, il primo messaggiero sarebbe rimandato senza risposta, il secondo impiccato.[525]In tale umore Giacomo partì per Salisbury. Il suo ultimo atto, avanti di partirsi, fu di nominare un Consiglio di cinque Lordi, perchè lo rappresentassero durante la sua assenza. Deʼ cinque, due erano papisti, e per virtù della legge inabili ad occupare gli uffici. Jeffreys era con essi, ma la nazione detestavalo più dei papisti. A Preston e Godolphin, che erano gli altri due membri, non si potevanulla obiettare. Il dì, in che il Re partì da Londra, il Principe di Galles fu mandato a Portsmouth. Questa fortezza aveva uno strenuo presidio sotto il comando di Berwick. Era lì presso la flotta comandata da Dartmouth; e supponevasi, che ove le cose procedessero male, il regio infante si sarebbe senza ostacolo potuto condurre in Francia.[526]LVI. Il dì 19, Giacomo giunse a Salisbury, e pose il suo quartiere generale nel palazzo del Vescovo. Da ogni parte gli arrivavano sinistre nuove. Le Contee occidentali alla perfine erano insorte. Appena si seppe la diserzione di Cornbury, molti ricchi possidenti presero animo ed accorsero ad Exeter. Era fra essi Sir Guglielmo Portman di Bryanstone, uno deʼ più grandi uomini della Contea di Dorset, e Sir Francesco Warre di Hestercombe che aveva somma riputazione nella Contea di Somerset.[527]Ma il più cospicuo deʼ nuovi venuti era Seymour, che aveva di recente ereditato il titolo di baronetto,—titolo che aggiungeva poco alla sua dignità ,—e per nascita, per influenza politica e per abilità parlamentare primeggiava oltre ogni paragone fraʼ gentiluomini Tory dʼInghilterra. Dicesi che nella prima udienza porgesse tale argomento dellʼaltera indole sua, che recò maraviglia e sollazzo al Principe. «Io credo, Sir Eduardo,» disse Guglielmo per usargli una cortesia «che voi siate della famiglia del Duca di Somerset.»—«Altezza, chiedo scusa,» rispose Sir Eduardo che non dimenticava mai dʼessere il capo del ramo maggiore deʼ Seymours, «il Duca di Somerset è della mia famiglia.[528]»Il quartiere generale di Guglielmo allora cominciò a prendere la sembianza dʼuna corte. Sessanta e più personaggi cospicui per grado ed opulenza trovavansi in Exeter; e la mostra quotidiana delle ricche livree e deʼ cocchi a sei cavalli nel ricinto della Cattedrale rendeva in alcun modo immagine della magnificenza e gaiezza di Whitehall. Il basso popolo anelavadi correre alle armi, sì che sarebbe stato agevole formare molti battaglioni di fanti. Ma Schomberg, che faceva poco conto di soldati novellamente tolti allo aratro, sosteneva che ove la impresa non avesse prospero successo senza siffatto aiuto, non sarebbe riuscita affatto: e Guglielmo, che quanto Schomberg bene intendevasi dʼarte militare, era del medesimo parere. E però difficilmente concedeva commissioni di reclutare nuovi reggimenti, non accettando altri che uomini scelti.Desideravasi che il Principe ricevesse pubblicamente in corpo tutti i nobili e i gentiluomini che sʼerano raccolti in Exeter. Rivolse loro brevi, caute e dignitose parole. Disse che sebbene non conoscesse di aspetto tutti coloro che gli stavano dinanzi, pure ne aveva notati i nomi, e sapeva quale insigne reputazione godessero nel paese loro. Dolcemente li rimproverò di lentezza ad accorrere, ma espresse la ferma speranza che non sarebbe stato troppo tardi per salvare il reame. «Adunque, o gentiluomini, amici, e confratelli protestanti,» soggiunse egli «noi con tutto il cuore diciamo a tutti voi e ai seguaci vostri, siate ben venuti alla nostra corte ed al nostro campo.»[529]Seymour, accorto uomo politico, per la sua lunga esperienza nella tattica delle fazioni, tosto conobbe che il partito che sʼandava raccogliendo sotto il vessillo del Principe aveva mestieri dʼessere organizzato. Lo chiamava una corda di sabbia: non vʼera scopo comune o formalmente determinato; nessuno sʼera impegnato a nulla. Appena si sciolse lʼassemblea tenuta da Guglielmo nel Decanato, Seymour fece chiamare Burnet, e gli suggerì il pensiero di formare unʼassociazione, e dʼobbligare tutti glʼInglesi aderenti al Principe ad apporre le loro firme ad un documento, in cui si dichiarassero fedeli al loro condottiero e si vincolassero vicendevolmente. Burnet riferì la cosa al Principe ed a Shrewsbury, i quali lʼassentirono. Fu convocata unʼadunanza nella Cattedrale, dove fu letto, approvato, e firmato un breve documento scritto da Burnet. I soscrittori promettevano di eseguire concordementele cose contenute nel Manifesto di Guglielmo; difendere lui, ed a vicenda difendersi; fare segnalata vendetta di chi attentasse alla vita di lui, ed anche, ove siffatto attentato sventuratamente avesse effetto, persistere nella impresa finchè le libertà e la religione del paese fossero pienamente assicurate.[530]Verso quel tempo arrivò ad Exeter un messaggiero del Conte di Bath, il quale aveva il comando di Plymouth. Bath poneva sè, le sue truppe e la fortezza da lui governata a disposizione del Principe. Glʼinvasori quindi non avevano più un solo nemico alle spalle.[531]LVII. Mentre le contrade occidentali in tal guisa insorgevano ad affrontare il Re, le settentrionali gli divampavano dietro. Il dì 16, Delamere corse alle armi nella Contea di Chester. Convocò i suoi fittajuoli, gli esortò a seguirlo, promise loro che, ove cadessero in battaglia, ei rinnoverebbe il fitto ai loro figli, ed ammonì chiunque avesse un buon cavallo di andare al campo, o mandarvi altri in sua vece.[532]Comparve a Manchester con cinquanta armati a cavallo, il quale numero si triplicò innanzi chʼegli giungesse a Boaden Downs.Le circostanti contrade erano in somma agitazione. Era stato provveduto che Danby prendesse York, e Devonshire si mostrasse in Nottingham. Quivi non si temeva alcuna resistenza. Ma in York trovavasi un piccolo presidio sotto il comando di Sir Giovanni Reresby. Danby agì con rara destrezza. Era stata convocata pel dì 22 novembre una ragunanza deʼ gentiluomini e deʼ possidenti della Contea di York per fare un indirizzo al Re sullo stato delle cose. Tutti i Luogotenenti deputati dei tre Ridings, vari nobili, e una folla di ricchi scudieri e di pingui possidenti erano andati alla capitale della provincia. Quattro distaccamenti di milizia civica erano sotto le armi per mantenere la pubblica tranquillità . Il palazzo comunitativo era pieno di liberi possidenti, ed era appena cominciata la discussione, allorquando levossi repentinamente il grido che i Papisti,corsi alle armi, facevano strage deʼ protestanti. I Papisti di York più verisimilmente studiavansi a cercare dove nascondersi che ad aggredire i nemici, i quali per numero li superavano in proporzione di cento ad uno. Ma in quel tempo non vi era storiella orrenda o maravigliosa delle atrocità dei Papisti, alle quali il popolo non prestasse fede. La ragunanza sgomentata si disciolse. La intera città fu in iscompiglio. In quel mentre Danby con circa cento uomini a cavallo corse dinanzi alla milizia civica gridando: «Giù il Papismo! Viva il libero Parlamento! Viva la religione protestante!» Le milizie risposero al grido. Sorpresero tosto e disarmarono il presidio. Il governatore venne arrestato; le porte furono chiuse, e in ogni dove poste sentinelle. Lasciarono che la infuriata plebe atterrasse una cappella cattolica, ma pare che non seguisse altro danno. Il dì seguente il palazzo comunitativo era pieno deʼ più notabili gentiluomini della Contea, e dei principali magistrati della città . Il Lord Gonfaloniere teneva il seggio. Danby propose di scrivere una dichiarazione nella quale fossero espresse le ragioni che inducevano gli amici della Costituzione e della religione protestante a correre alle armi. Questa dichiarazione fu calorosamente approvata, e in poche ore munita delle firme di sei Pari, di cinque baronetti, di sei cavalieri, e di molti gentiluomini di gran conto.[533]Infrattanto Devonshire, capitanando una grossa legione di amici e dipendenti suoi, partitosi dal palagio chʼegli stava erigendo in Chatsworth, comparve armato in Derby. Quivi consegnò formalmente alle autorità municipali uno scritto in cui erano esposte le ragioni che lo avevano spinto alla impresa. Ne andò quindi a Nottingham, che tosto divenne il centro della insurrezione delle contrade settentrionali. Promulgò un proclama scritto con forti e ardite parole. Vi si diceva che il vocabolo ribellione era uno spauracchio che non poteva spaventare alcun uomo ragionevole. Era ella ribellione difendere quelle leggi e quella religione che ogni Re dʼInghilterra era tenuto per sacramento a tutelare? In che modo siffatto giuramento fosse stato osservato, era questione la quale, comesperavasi, un libero Parlamento tra breve scioglierebbe. Nel tempo stesso glʼinsorti dichiaravano di non considerare qual ribellione, ma quale legittima difesa, il resistere ad un tiranno, che, tranne la propria volontà , non conosceva legge veruna. La insurrezione del paese settentrionale diventava ogni giorno più formidabile. Quattro potenti e ricchi Conti, cioè Manchester, Stamford, Rutland, Chesterfield giunsero a Nottingham, e furono seguiti da Lord Cholmondley e da Lord Grey di Ruthyn.[534]Intanto le due armate nel mezzogiorno facevansi lʼuna allʼaltra sempre più presso. Il Principe dʼOrange, saputo lo arrivo del Re a Salisbury, pensò essere tempo di partirsi da Exeter. Pose la città e il paese circostante sotto il governo di Sir Eduardo Seymour, e il mercoledì 21 novembre, scortato da molti deʼ più notevoli gentiluomini delle contrade occidentali, si avviò ad Axminster, dove rimase vari giorni.Il Re ardeva di venire alle mani; ed era naturale chʼegli così bramasse. Ogni ora che passava, scemava le sue forze, ed accresceva quelle del nemico. Inoltre era importantissimo che le sue truppe venissero allo spargimento del sangue: imperciochè una grande battaglia, qualunque ne fosse lʼesito, non poteva altro che nuocere alla popolarità del Principe. Guglielmo intendeva profondamente tutto ciò, ed era deliberato di evitare, quanto più potesse, un combattimento. Dicesi che quando a Schomberg fu riferito che i nemici si appressavano deliberatissimi a combattere, rispondesse col contegno di capitano espertissimo nellʼarte sua: «Sarà come vorremo noi.» Era, nondimeno, impossibile scansare qualunque scaramuccia tra le vanguardie dei due eserciti. Guglielmo desiderava che in siffatte piccole fazioni non accadesse nulla che potesse offendere lʼorgoglio o destare il sentimento di vendetta della nazione di cui sʼera fatto liberatore. E però con ammirevole prudenza pose i suoi reggimenti inglesi in quei luoghi dove maggiore era il rischio dʼuna collisione. E perchè gli avamposti dellʼarmata regia erano Irlandesi, nei piccoli combattimenti di questa breve campagna glʼinvasori avevano seco la cordiale simpatia di tutti glʼInglesi.LVIII. Il primo di cotesti scontri ebbe luogo in Wincanton. Il reggimento di Mackay, composto di soldati inglesi, era presso a un corpo di regie truppe irlandesi, capitanate dal valoroso Sarsfield loro concittadino. Mackay mandò un piccolo drappello deʼ suoi sotto il comando dʼun luogotenente chiamato Campbell, in cerca di cavalli pel bagaglio. Campbell li trovò in Wincanton, e già allontanavasi dalla città per ritornare al campo, allorquando vide avvicinarsi un forte distaccamento delle truppe di Sarsfield. GlʼIrlandesi erano in proporzione di quattro contro uno: ma Campbell deliberò di combattere fino allʼultimo sangue. Con una mano di coraggiosissimi uomini si appostò sul cammino. Gli altri suoi soldati si posero lungo le siepi che fiancheggiavano da ambe le parti lo stradale. Giunti glʼinimici, Campbell gridò: «Alto! Per chi siete voi?»—«Io sono pel re Giacomo,» rispose il condottiero delle milizie regie. «Ed io pel Principe dʼOrange,» esclamò Campbell. «E noi vʼimprinciperemobene,» rispose imprecando lʼIrlandese. «Fuoco!» gridò Campbell: ed una grandine di fuoco piovve allʼistante da ambe le siepi. I soldati del Re riceverono tre bene aggiustate scariche innanzi che potessero far fuoco. In fine venne loro fatto di superare una delle siepi, ed avrebbero oppressa la piccola banda deglʼinimici, se i campagnuoli che portavano odio mortale aglʼIrlandesi non avessero sparsa la falsa nuova dello appressarsi dʼaltre truppe del Principe. Sarsfield suonò a raccolta e ritirossi; Campbell seguitò il cammino senza molestia, seco recando i cavalli da bagaglio. Questo fatto, onorevole, senza dubbio, al valore ed alla disciplina dellʼarmata del Principe, fu dalla voce pubblica esagerato come una vittoria che i protestanti inglesi avevano riportata contro un numero grandemente maggiore di barbari papisti, venuti da Connaught ad opprimere lʼisola nostra.[535]Poche ore dopo la narrata scaramuccia seguì un evento che pose fine ad ogni pericolo di più grave conflitto tra i due eserciti. Churchill ed alcuni deʼ suoi principali complici erano in Salisbury. Due deʼ congiurati, cioè Kirke e Trelawney, se nʼerano andati a Warminster dove i reggimenti loro stanziavano.Tutto era maturo per eseguire la lungamente meditata tradigione.Churchill consigliò il Re a visitare Warminster, onde ispezionarvi le truppe. Giacomo assentì; ed il suo cocchio stavasi alla porta del palagio vescovile, quando ei cominciò a versare abbondantemente sangue dalle narici. Fu quindi costretto a differire la sua gita, e porsi in mano deʼ medici. La emorragia non gli cessò se non dopo tre giorni; e intanto gli giungevano funestissime nuove.Non era possibile che una congiura la quale aveva sì sparse le fila come quella di cui Churchill era capo, si tenesse strettamente secreta. Non vʼera prova che potesse farlo tradurre dinanzi ai Giurati o ad una corte marziale: ma strani bisbigli correvano per tutto il campo. Feversham, il quale era comandante supremo, riferì che regnavano sinistri umori nellʼarmata. Fu fatto intendere al Re che alcuni i quali gli stavano da presso non gli erano amici, e che sarebbe stata saggia cautela mandare Churchill e Grafton sotto buona guardia a Portsmouth. Giacomo respinse il consiglio; dacchè fra i suoi vizi non era la inclinazione a sospettare. A vero dire la fiducia chʼegli poneva nelle proteste di fedeltà e dʼaffetto, era quanta ne avrebbe potuto avere più presto un fanciullo di buon cuore e privo dʼesperienza, che un politico molto provetto negli anni, il quale aveva praticato assai il mondo, aveva molto sofferto dalle arti degli scellerati, e il cui carattere non faceva punto onore alla specie umana. Sarebbe difficile additare un altro uomo, il quale, così poco scrupoloso a rompere la fede, fosse così restio a credere che altri volesse contro di lui tradirla. Nondimeno le nuove ricevute intorno le condizioni della sua armata lo conturbarono molto. Adesso non più mostravasi impaziente di venire a battaglia: pensava anzi di ritirarsi. Nella sera del sabato 24 novembre convocò un consiglio di guerra. Alla ragunanza convennero quegli ufficiali contro cui era stato caldamente ammonito a tenersi cauto. Feversham opinò per la ritirata. Churchill manifestò contrario parere. Il consiglio durò fino a mezza notte. Finalmente il Re dichiarò essere deliberato a ritirarsi. Churchill vide o sʼimmaginò dʼessere sospettato, e comunque sapesse perfettamente governarei moti dello animo, non valse a nascondere la propria inquietudine. Innanzi lʼalba, accompagnato da Grafton, fuggì al quartiere generale del Principe.[536]LIX. Churchill, partendo, lasciò una lettera a spiegare il suo intendimento. Era scritta con quel decoro chʼegli non mancò mai di serbare fra mezzo alla colpa e al disonore. Riconobbe dʼandar debitore dʼogni sua cosa alla regia benevolenza. Lo interesse e la gratitudine, diceva egli, lo persuadevano a mantenersi fido al proprio Sovrano. Sotto nessun altro governo poteva sperare la grandezza e prosperità chʼegli allora godeva, ma tutti cotesti argomenti dovevano cedere al primissimo deʼ doveri. Egli era protestante, e non poteva in coscienza snudare la spada contro la causa del Protestantismo. Quanto al resto, era pronto a porre a repentaglio vita ed averi per difendere la sacra persona e i diritti del suo amatissimo signore.[537]Alla dimane il campo era sossopra. Gli amici del Re percossi da spavento; i suoi nemici non potevano nascondere la gioia deʼ loro cuori. La costernazione di Giacomo sʼaccrebbe alle nuove che giunsero il dì medesimo da Warminster. Kirke che ivi comandava, aveva ricusato di obbedire ad ordini giunti da Salisbury. Non era più dubbio che anche egli fosse in lega col Principe dʼOrange. Dicevasi inoltre chʼegli fosse già passato con le sue milizie al campo del nemico; e tale voce, comechè falsa, fu per alcune ore pienamente creduta.[538]Un nuovo raggio di luce lampeggiò alla mente dello sciagurato Re. Gli parve dʼintendere il perchè pochi giorni innanzi era stato esortato a visitare Warminster. Ivi si sarebbe trovato privo di soccorso, in balìa deʼ congiurati, e presso agli avamposti nemici. Coloro che sarebbero stati disposti a difenderlo avrebbero agevolmente ceduto agli aggressori. Egli sarebbe stato condotto prigioniero al quartiere generale deglʼinvasori.Forse sarebbe stato commesso qualche più nero tradimento; imperocchè chi una volta ha posto il piede in una via di malvagità e di periglio non è più padrone di fermarsi, e spesso una fatalità , che gli è di giusta pena, lo spinge a delitti, dalla idea dei quali egli avrebbe dapprima rifuggito con raccapriccio. E davvero era visibile la mano di qualche Santo protettore in ciò, che un Re sì devoto alla Chiesa Cattolica, nel momento medesimo in cui correva a gran passi alla cattività , e forse alla morte, fosse stato improvvisamente impedito da quella chʼegli aveva giudicata pericolosa infermità .LX. Tutte coteste cose raffermarono lʼanimo del Re nel pensiero chʼegli aveva fatto la sera antecedente. Ordinò una sùbita ritirata. Salisbury fu tutta in subuglio. Il campo levossi con tal confusione che rendeva immagine dʼuna fuga. Niuno sapeva di chi fidarsi, e a cui obbedire. La forza materiale dello esercito era di poco scemata; ma la morale non era più. Molti, che la vergogna frenava dal correre al quartiere generale del Principe, affrettaronsi a seguire lo esempio dal quale avrebbero ognora aborrito; e molti che avrebbero difeso il Re mentre pareva risolutamente correre incontro aglʼinvasori, non si sentirono inchinevoli a seguire un vessillo che fuggiva.[539]Giacomo quel giorno giunse ad Andover. Lo accompagnavano il Principe Giorgio suo genero, e il Duca dʼOrmond. Entrambi erano fraʼ cospiratori, e avrebbero forse tenuto dietro a Churchill, ove questi, a cagione di ciò che seguì nel consiglio di guerra, non avesse reputato più utile partirsi allo improvviso. La impenetrabile stupidità del Principe Giorgio in questa occasione gli fu più utile di ciò che sarebbe stata lʼastuzia. Ogni qualvolta udiva alcun che di nuovo, egli aveva il vezzo di esclamare in francese: «Est-il possible?» Questo ritornello adesso gli fu di grande utilità . «Est-il possible?» gridò egli come seppe che Churchill e Grafton se nʼerano andati. Ed appena giunte le sinistre nuove di Warminster, esclamò nuovamente: «Est-il possible?»LXI. Il Principe Giorgio ed Ormond in Andover furono invitati a cenare col Re. Tristissima cena! Il Re gemeva sottola soma delle sue sciagure. Il suo genero gli teneva stupidissima compagnia. «Io ho saggiato il Principe Giorgio mentre era sobrio,» diceva Carlo II, «e lʼho saggiato mentre era ubriaco; e o briaco o sobrio non val nulla.»[540]Ormond, che per indole era timido e taciturno, non era verosimile che fosse dʼallegro umore in quel momento. Alla perfine la cena terminò. Il Re si ritrasse a riposare. Il Principe ed Ormond, appena Giacomo sorse da mensa, montando sui cavalli che erano lì pronti, partironsi, accompagnati dal Conte di Drumlanrig, figlio primogenito del Duca di Queensberry. La defezione di questo giovine Nobile non era cosa di poca importanza; imperocchè Queensberry era il capo dei protestanti episcopali di Scozia, setta al cui paragone i più esagerati Tory inglesi potevano considerarsi pressochè Whig; e lo stesso Drumlanrig era luogotenente colonnello del reggimento di Dundee, banda dai Whig detestata più degli Agnelli di Kirke. La mattina appresso fu recato al Re lo annunzio di questa nuova sciagura, e se ne mostrò meno dolente di quel che si sarebbe supposto. Il colpo da lui ricevuto ventiquattro ore innanzi lo aveva apparecchiato quasi a qualunque disastro, e non poteva seriamente adirarsi del Principe Giorgio,—il quale era uomo da non farsene nessun conto,—per avere ceduto alle arti dʼun tentatore quale era Churchill. «E che!Est-il possiblese ne è andato anche egli?» disse Giacomo. «Al postutto sarebbe stata maggiore la perdita di un buon soldato.»[541]Per dir vero, eʼ sembra che in quel tempo tutta la collera del Re fosse accentrata, e non senza cagione, sopra un solo uomo. Prese la via di Londra, ardendo di vendetta contro Churchill, ed appena giuntovi seppe che lʼarcingannatore aveva commesso un nuovo delitto. La Principessa Anna da parecchie ore era sparita.LXII. Anna, la quale altra volontà non aveva che quella dei Churchill, una settimana innanzi era stata da loro persuasa a scrivere di propria mano a Guglielmo, significandogli che approvava la impresa. Assicuravalo chʼella trovavasi interamentenelle mani deʼ suoi amici, e che sarebbe rimasta in palazzo o sarebbesi rifugiata nella Città a seconda del loro consiglio.[542]La domenica, 25 novembre, ella e coloro che per lei pensavano, trovaronsi nella necessità di prendere una improvvisa deliberazione. Nel pomeriggio di quel dì stesso un corriere da Salisbury recò la nuova che Churchill era scomparso, chʼera stato accompagnato da Grafton, che Kirke aveva tradito, e che le milizie regie frettolosamente ritiravansi. Quella sera le sale di Whitehall erano affollate da immenso numero di persone come usualmente avveniva quando una grave notizia buona o cattiva giungeva alla città . La curiosità e lʼansietà erano dipinte nel viso di ciascuno. La Regina proruppe naturalmente in parole di sdegno contro il capo deʼ traditori, e non risparmiò la sua troppo compiacente protettrice. Nella parte del palazzo abitata da Anna furono raddoppiate le sentinelle. La Principessa era atterrita. Tra poche ore il padre sarebbe giunto a Westminster. Non era verosimile che lʼavrebbe personalmente trattata con severità ; ma non era da sperarsi chʼegli le permetterebbe di godere più a lungo della compagnia della sua diletta amica. Mal poteva dubitarsi che Sara verrebbe arrestata e sottoposta al rigoroso esame di astuti e crudi inquisitori. Le sue carte sarebbero sequestrate. Forse si scoprirebbe qualche documento che mettesse in pericolo la sua vita. Ed ove ciò fosse, vʼera da temere di peggio. La vendetta dello implacabile Re non conosceva distinzione di sesso. Per delitti molto più lievi di quelli che probabilmente verrebbero imputati a Lady Churchill, aveva mandate donne alle forche e al ceppo. La forza dello affetto infiammò lʼanimo debole della Principessa. Non vʼera vincolo chʼella non fosse pronta a rompere, non rischio a correre per lʼoggetto del suo immenso amore. «Mi getterò giù dalla finestra» gridò ella «piuttosto che lasciarmi trovare qui da mio padre.» Lady Churchill sʼincaricò di apparecchiare la fuga. Si pose frettolosamente in comunicazione con alcuni capi della congiura. In poche ore ogni cosa fu pronta. Quella sera Anna si ritrasse, secondo il consueto modo, alle sue stanze. Sul cadere della notte levossi, ed accompagnata dallʼamicaSara e da due altre donne discese per le secrete scale in veste da camera e in pianelle. Le fuggenti giunsero nella strada senza ostacolo, dove le attendeva una carrozza dʼaffitto, dinanzi al cui sportello stavano due uomini. Uno era Compton Vescovo di Londra, vecchio ajo della Principessa; lʼaltro era il magnifico e squisito Dorset, che vedendo la grandezza del pubblico pericolo erasi destato dal suo voluttuoso far niente. La carrozza tosto si diresse ad Aldersgate Street, dove allora sorgeva lʼabitazione di città deʼ Vescovi di Londra, accanto alla Cattedrale. Ivi la Principessa passò la notte. Il dì seguente partì per Epping Forest. In queʼ selvaggi luoghi Dorset possedeva una veneranda magione, oggimai da lungo tempo distrutta. Sotto il suo tetto ospitale che da molti anni era il favorito ritrovo deʼ begli spiriti e deʼ poeti, i fuggitivi fecero breve soggiorno. Non potevano sperare di giungere in sicurtà al campo di Guglielmo, perocchè il cammino era occupato dalle regie milizie. Fu quindi deliberato che Anna riparasse fra mezzo agli insorti delle contrade settentrionali. Compton per allora dismesse al tutto il suo carattere sacerdotale. Il pericolo e il conflitto gli avevano riacceso nel cuore tutto il fuoco guerriero onde era pieno ventotto anni innanzi, allorquando cavalcava fra le Guardie del Corpo. Ei precedeva il cocchio della Principessa, vestito dʼun giustacore di cuojo di bufalo, grandi stivali, spada a fianco, e pistole allʼarcione. Innanzi di giungere a Nottingham trovossi circondata da un drappello di gentiluomini che volontariamente erano corsi a scortarla. Costoro invitarono il Vescovo a farsi loro colonnello; ed egli vi consentì con alacrità tale da scandalizzarne i rigidi Anglicani, e da non acquistargli grande reputazione agli occhi deʼ Whig.[543]LXIII. Allorquando la mattina del dì 26 lo appartamento di Anna fu trovato vuoto, nacque grande costernazione in Whitehall. Mentre le sue cameriste correvano su e giù peʼ cortilidel palazzo strillando e torcendosi le mani, mentre Lord Craven comandante delle Guardie a piedi interrogava le sentinelle della galleria, mentre il Cancelliere poneva i suggelli alle carte deʼ Churchill, la nudrice della Principessa negli appartamenti del Re piangeva gridando che la sua diletta signora era stata assassinata dai papisti. La nuova volò a Westminster Hall. Ivi si disse che Sua Altezza era stata trascinata a forza e in qualche luogo imprigionata. Quando non fu più possibile negare che la sua fuga era stata volontaria, sʼinventarono mille ciarle a spiegarne la cagione. Era stata villanamente insultata e minacciata; anzi, quantunque si trovasse in quella condizione in cui la donna merita peculiarmente lʼaltrui tenerezza, era stata battuta dalla sua crudele madrigna. La plebe, da molti anni di pessimo governo resa sospettosa e irritabile, venne in tanto concitamento per queste calunnie, che la Regina non si teneva sicura. Molti Tory cattolici e alcuni protestanti, la cui lealtà era incrollabile, corsero alla reggia pronti a difenderla ove seguisse uno scoppio dʼira popolare. Fra mezzo a tanta perturbazione e a tanto terrore giunse la nuova della fuga del Principe Giorgio. Poco dopo verso sera arrivò il Re, al quale fu annunziato la sua figlia essere scomparsa. Dopo tanti patimenti questʼultima afflizione gli strappò dalle labbra un doloroso grido: «Dio mi soccorra, anche i miei figli mi hanno abbandonato!»[544]Quella sera fino a tardi sedè in consiglio coʼ suoi principali ministri. Fu deliberato di intimare a tutti i Lordi spirituali e secolari che allora trovavansi in Londra, che comparissero la dimane al suo cospetto, onde richiederli solennemente di consiglio. Per la qual cosa, il pomeriggio del martedì 27, i Lordi adunaronsi nella sala da pranzo del palazzo. Lʼassemblea era composta di nove prelati e fra trenta e quaranta Nobili secolari, tutti protestanti. I due Segretari di Stato, Middleton e Preston, quantunque non fossero Pari dʼInghilterra, erano presenti. Il Re presedeva in persona. Gli si leggeva sul viso e nello atteggiamento chʼegli soffriva dʼanima edi corpo. Aperse la ragunanza facendo capo dalla petizione che gli era stata presentata poco innanzi la sua partenza per Salisbury. In quella petizione veniva pregato a convocare un libero Parlamento. Disse che nelle condizioni in cui egli allora trovavasi, non aveva reputato opportuno acconsentire. Ma nel tempo della sua assenza da Londra erano seguiti gravissimi mutamenti. Aveva parimente notato che il suo popolo dappertutto mostrava bramosia di vedere adunate le Camere. Per tutte queste cose egli chiamava a consiglio i suoi Pari fedeli, perchè gli manifestassero il loro parere.Per qualche tempo eʼ fu silenzio, finchè Oxford, la cui famiglia, per antichità e magnificenza superiore a tutte, gli dava una specie di primato nella ragunanza, disse che secondo la sua opinione queʼ Lordi i quali avevano sottoscritta la petizione, cui la Maestà Sua accennava, erano in debito di manifestare i loro pensieri.Queste parole mossero Rochester a favellare. Difese la petizione e dichiarò di non vedere altra speranza per il trono e il paese che la convocazione dʼun libero Parlamento. Disse non volere rischiarsi ad affermare che in tanto grave estremità , anche quel rimedio potesse tornare efficace: ma non ne aveva altro da proporre. Aggiunse parergli sano partito aprire pratiche col Principe dʼOrange. Jeffreys e Godolphin parlarono dopo, ed entrambi dichiararono essere della medesima opinione di Rochester.Allora sorse Clarendon, e, con somma maraviglia di quanti rammentavano le sue proteste di lealtà , e i suoi disperati affanni e il rossore cui si era abbandonato, solo pochi giorni innanzi, per la diserzione del proprio figliuolo, proruppe in virulenti invettive contro la tirannide e il papismo. «Anche adesso» disse egli «Sua Maestà in Londra fa leva dʼun reggimento al quale non è ammesso nessun protestante.»—«Non è vero!» gridò dal seggio Giacomo grandemente agitato. Clarendon insisteva, e lasciò da parte questo offensivo subietto per passare ad un altro maggiormente offensivo. Accusò lo sventurato Re di pusillanimità . Perchè ritirarsi da Salisbury? Perchè non tentare le sorti dʼuna battaglia? Era forse da biasimarsi il popolo se cedeva ad un invasorementre vedeva il proprio Re fuggire insieme con la sua armata? Giacomo sentì amaramente cotesti insulti, e ne serbò lunga ricordanza. E davvero gli stessi Whig reputarono indecenti e poco generose le parole di Clarendon. Halifax parlò in modo diverso. Per molti anni di pericolo aveva con ammirevole abilità difeso la costituzione civile ed ecclesiastica del paese contro la regia prerogativa. Ma il suo lucido intendimento, singolarmente nemico dʼogni entusiasmo, ed avverso agli estremi, cominciò a pendere verso la causa del Sovrano nel momento stesso nel quale queʼ romorosi realisti, che poco innanzi avevano esecrato i Barcamenanti quasi fossero ribelli, alzavano il vessillo della ribellione. Egli ambiva, in quella congiuntura, a farsi paciere fra il trono e la nazione. A ciò lo rendevano adatto lo ingegno e il carattere; e se non vi riuscì, deve attribuirsi a certe cagioni, a vincere le quali non era destrezza che bastasse, e precipuamente alla follia, slealtà , ed ostinatezza del Principe chʼegli si studiava di salvare.Halifax disse non poche verità spiacevoli a Giacomo, ma con tal delicatezza da meritargli la taccia dʼadulatore da parte di quegli abietti spiriti, i quali non sanno intendere come ciò che giustamente merita il nome di adulazione quando è diretto al potente, sia debito dʼumanità quando si rivolge al caduto. Con mille espressioni di simpatia e deferenza, dichiarò essere dʼavviso che il Re dovesse oggimai apparecchiarsi a fare grandi sacrifici. Non bastava convocare un libero Parlamento o iniziare pratiche dʼaccordo col Principe dʼOrange. Era necessario fare ragione almeno ad alcuni deʼ torti di cui moveva lamento la nazione, senza attendere che lo esigessero le Camere o il Capitano dello esercito nemico. Nottingham con parole egualmente rispettose fece eco a quelle di Halifax. Le principali concessioni che i Lordi volevano che il Re facesse erano queste: cacciare dagli uffici tutti i Cattolici Romani; separarsi interamente dalla Francia; e concedere illimitata amnistia a tutti coloro che avevano prese le armi contro lui. Pareva che intorno allʼultima di coteste concessioni non fosse da disputare. Imperocchè, quantunque coloro che pugnavano contro il Re avessero agito in modo da suscitargli in cuore,non senza ragione, il più acre risentimento, era più verosimile chʼegli si trovasse tra breve in loro balìa, che essi nella sua. Sarebbe stata cosa puerile iniziare pratiche dʼaccordo con Guglielmo, e nello stesso tempo riserbarsi il diritto di vendetta contro coloro che Guglielmo non poteva senza infamia lasciare in abbandono. Ma lo intenebrato intendimento e lʼindole implacabile di Giacomo resisterono lungamente alle ragioni addotte da coloro che affaticavansi a convincerlo essere opera da savio perdonare delitti chʼegli non poteva punire. «Non posso acconsentire,» esclamò egli. «È mestieri chʼio dia degli esempi: Churchill sopra tutti, Churchill, quel desso chʼio inalzai tanto. Egli è la sola cagione di tanto male. Egli ha corrotta la mia armata. Egli ha corrotta la mia figliuola. Egli mi avrebbe dato in mano al Principe dʼOrange, se non mi avesse soccorso la mano di Dio. Milordi, voi siete stranamente ansiosi per la salvezza deʼ traditori, e nessuno di voi si dà il minimo pensiero della mia.» In risposta a questo scoppio dʼira impotente, coloro i quali lo avevano esortato a concedere lʼamnistia, gli mostrarono con profondo rispetto, ma con fermezza, che un Principe aggredito da potenti nemici non può trovare scampo se non nella vittoria o nella riconciliazione. «Se la Maestà Vostra, dopo ciò che è accaduto, vede tuttavia speranza alcuna di salvezza nelle armi, lʼopera nostra è finita: ma se non ha questa speranza, non le resta altra à ncora di salute che il riacquistare lo affetto del popolo.» Dopo una lunga e calorosa discussione, il Re sciolse la ragunanza dicendo: «Milordi, voi avete usata meco gran libertà di parole; ma non me ne ho per male. Oramai mi son messo in capo una cosa, e vi rimango irremovibile, cioè, convocherò il Parlamento. Gli altri consigli che mi avete pôrti sono di grave momento: nè vi dee far meraviglia se innanzi di decidere, io prendo tempo una notte a pensarvi sopra.»[545]LXIV. Primamente Giacomo parve disposto a bene giovarsi del tempo da lui preso a riflettere. Al Cancelliere fu fatto comandamento di scrivere il decreto a convocare il Parlamento pel dì 13 gennaio. Halifax fu chiamato al palazzo, ed ebbe una lunga udienza, e parlò molto più liberamente di quello che egli aveva reputato decoroso di fare al cospetto dʼuna numerosa assemblea. Gli fu detto dʼessere stato nominato commissario per trattare col Principe dʼOrange. In questo ufficio gli furono dati a compagni Nottingham e Godolphin. Il Re dichiarò dʼessere parato a fare grandi sacrifici per amore della pace. Halifax rispose chʼera dʼuopo farli pur troppo. «Vostra Maestà » disse egli «non deve aspettarsi che coloro i quali hanno in mano il potere, consentano a patti che lascino le leggi in balìa della regia prerogativa.» Con questa distinta dichiarazione delle sue mire, egli accettò la commissione che il Re desiderava affidargli.[546]Le concessioni che poche ore innanzi erano state ostinatissimamente respinte, adesso furono fatte in modo liberalissimo. Fu pubblicato un proclama nel quale il Re non solo concedeva pieno perdono a tutti i ribelli, ma li dichiarò elegibili al prossimo Parlamento. Nè anche si richiedeva come condizione dʼelegibilità che dovessero porre giù le armi. La medesima Gazzetta che annunziava la prossima ragunanza delle Camere, conteneva la notificazione che Sir Eduardo Hales, il quale, come papista, rinnegato e precipuo campione della potestà di dispensare, ecome duro carceriere deʼ Vescovi, era uno degli uomini più impopolari del Regno, aveva cessato di essere Luogotenente della Torre, e gli aveva succeduto Bevil Skelton, dianzi suo prigione, il quale quantunque avesse poca riputazione presso i suoi concittadini, almeno non difettava dei necessari requisiti ad occupare un pubblico ufficio.[547]LXV. Se non che coteste concessioni erano dirette solo ad abbacinare i Lordi e la nazione per nascondere i veri disegni del Re. Egli aveva secretamente deliberato, anche in quellʼora di pericolo, di non voler cedere in nulla. Nel giorno medesimo, in cui pubblicò il proclama dʼamnistia, spiegò pienamente le proprie intenzioni a Barillon. «Queste pratiche dʼaccordo» disse Giacomo «sono una pretta finzione. È mestieri chʼio mandi commissari a mio nipote, affinchè io acquisti tempo ad imbarcare la mia moglie e il Principe di Galles. Voi conoscete gli umori delle mie truppe. Di nessuno altro che deglʼIrlandesi io potrei fidarmi; e glʼIrlandesi non sono in numero bastevole a resistere allʼinimico. Il Parlamento mʼimporrebbe patti chʼio non potrei sopportare. Sarei forzato a disfare ciò che ho già fatto a pro deʼ Cattolici, ed a romperla col Re di Francia. E però, appena la Regina e mio figlio saranno in salvo, partirò dalla Inghilterra e cercherò rifugio in Irlanda, in Iscozia, o presso il vostro signore.»[548]E già il Re aveva fatti i preparamenti bisognevoli a mandare questo disegno ad esecuzione. Dover era stato spedito a Portsmouth con ordine di aver cura del Principe di Galles; e a Dartmouth, che ivi comandava la flotta, era stato ingiunto dʼobbedire a Dover in tutto ciò che concernesse il regio infante, e di tenere prontissimo a far vela per la Francia, appena ricevutone lʼavviso, un naviglio equipaggiato da marinaj fedeli.[549]Il Re quindi mandò ordini positivi perchè lo infante fosse subito condotto al più vicino porto del continente.[550]Dopoil Principe di Galles, il primo pensiero del Re era il Gran Sigillo. A questo simbolo della regia autorità i nostri giureconsulti hanno sempre attribuito una quasi misteriosa importanza. Ammettono che se il Cancelliere, senza licenza del Re, lo apponga ad un diploma di parìa o a un decreto di grazia, quantunque ei si renda colpevole di grave delitto, il documento non può essere posto in questione da nessuna Corte di legge, e può essere annullato solo da un atto parlamentare. Eʼ sembra che Giacomo paventasse che questo strumento della sua volontà potesse cadere nelle mani deʼ suoi nemici, i quali con esso potrebbero dare validità legale ad atti che lo avrebbero potuto gravemente danneggiare. Nè i suoi timori sono da reputarsi irragionevoli sempre che si rammenti che appunto cento anni più tardi il Gran Sigillo di un Re fu adoperato, con lo assenso deʼ Lordi e deʼ Comuni, e con lʼapprovazione di molti incliti statisti e giureconsulti, a fine di trasferire al figliuolo le prerogative di lui. Perchè non si facesse abuso del talismano che aveva tanto formidabile potenza, Giacomo deliberò di tenerlo a brevissima distanza dal suo gabinetto. Per la qual cosa ingiunse a Jeffreys di sloggiare dalla casa da lui di recente edificata in Duke Street, e di risedere in un piccolo appartamento di Whitehall.[551]LXVI. Il Re aveva fatto ogni apparecchio a fuggire, allorquando un inatteso ostacolo lo costrinse a differire la esecuzione del proprio disegno. I suoi agenti in Portsmouth cominciarono a scrupoleggiare. Lo stesso Dover, ancorchè fosse uno della cabala gesuitica, mostrò segni di titubanza. Dartmouth era anche meno inchinevole ad obbedire alle voglie del Re. Fino allora sʼera mantenuto fedele al trono, ed aveva fatto il possibile, con una flotta disaffezionata e col vento contrario, per impedire che gli Olandesi sbarcassero in Inghilterra; ma era membro zelante della Chiesa stabilita, e in nessuna maniera partigiano della politica di quel governo chʼegli si reputava tenuto, per debito e per onore, a difendere. I torbidi umori degli ufficiali e degli altri uomini a lui sottoposti gli recavano non poca ansietà ; ed era giunta opportuna ad alleggiargli lʼanimo la nuova della convocazione dʼun libero Parlamento,e della nomina deʼ commissari a trattare col Principe dʼOrange. La flotta ne fece clamoroso tripudio. Un indirizzo onde ringraziare il Re per queste generose concessioni fatte allʼopinione pubblica fu scritto sul bordo della nave capitana. Lo ammiraglio fu il primo a firmare. Trentotto capitani, dopo lui, vi apposero i loro nomi. Mentre questo documento era recato a Whitehall, giunse a Portsmouth il messo che recava lʼordine di condurre in sullʼistante il Principe di Galles in Francia. Dartmouth seppe, e ne provò amaro dolore e risentimento, il libero Parlamento, la generale amnistia, le pratiche collʼinimico, altro non essere che parte dʼun grande inganno ordito contro la nazione, del quale inganno egli doveva essere complice. In una patetica ed animosa lettera dichiarò dʼavere ormai obbedito fino al punto oltre il quale ad un protestante e ad un Inglese non era lecito andare. Porre lo erede presuntivo della corona britannica nelle mani di Luigi sarebbe stato niente meno che tradimento contro la monarchia; lo che avrebbe resa furibonda la nazione della quale il Sovrano aveva pur troppo perduto lo affetto. Il Principe di Galles non sarebbe mai più ritornato, o ritornerebbe condotto in Inghilterra da unʼarmata francese. Ove Sua Altezza rimanesse nellʼisola, il peggio che sarebbe potuto accadere era di vederlo educare in seno alla Chiesa nazionale; e chʼegli fosse siffattamente educato doveva essere il desiderio dʼogni suddito leale. Dartmouth concludeva dichiarandosi pronto a rischiare la propria vita per la difesa del trono, ma protestava di non volere partecipare al trasferimento del Principe in Francia.[552]Questa lettera sconcertò tutti i disegni di Giacomo. Sʼaccôrse, inoltre, di non potere in questa circostanza aspettarsi obbedienza passiva dal suo ammiraglio: imperocchè Dartmouth era giunto fino a porre parecchie scialuppe alla bocca del porto di Portsmouth con ordine di non lasciar passare nessunlegno senza prima esaminarlo. Era quindi necessario fare altri provvedimenti; era mestieri condurre il bambino a Londra, e da quivi mandarlo in Francia. A far ciò bisognava passassero alcuni giorni. Frattanto era dʼuopo lusingare il popolo con la speranza dʼun libero Parlamento e con la simulazione di trattare col Principe dʼOrange. Furono quindi spediti i decreti per le elezioni. I trombetti andavano e venivano dalla metropoli al quartiere generale degli Olandesi. Infine giunsero i salvocondotti pei tre Commissari regi, i quali partirono pel campo nemico.LXVII. Lasciarono Londra tremendamente agitata. Le passioni che pel corso di tre anni di perturbazioni, sʼerano gradualmente rinvigorite, adesso, libere da ogni freno di timore, e stimolate dalla vittoria e dalla simpatia, mostravansi senza maschera perfino dentro la reggia. I Gran Giurati di Middlessex pronunciarono un atto dʼaccusa contro il Conte di Salisbury per avere abbracciato il papismo.[553]Il Lord Gonfaloniere ordinò che le case deʼ cattolici romani nella Città venissero perquisite onde vedere se contenessero armi. La plebaglia irruppe nellʼabitazione di un rispettabile mercatante cattolico, per sincerarsi sʼegli avesse scavata una mina dalla sua cantina fino alla chiesa parrocchiale onde far saltare in aria il parroco e i congregati.[554]I merciaioli per le vie gridavano vendendo satire contro Padre Petre, il quale sʼera sottratto, e non quando era ancor tempo, dal suo appartamento in palazzo.[555]La celebre canzone di Wharton con molti versi aggiunti cantavasi più che mai ad alta voce in tutte le strade della metropoli. Le stesse sentinelle che guardavano il palazzo cantavano sotto voce: «GlʼInglesi bevono a confusione del Papismo,Lillibullero bullen a la.» Le tipografie clandestine di Londra lavoravano senza posa. Molti fogli correvano giornalmente per la città , nè i magistrati avevano modo o non volevano scoprire per quali mezzi.LXVIII. Uno di questi scritti hanno salvato dallʼobliola singolare audacia onde era composto e lo immenso effetto che produsse. Simulava dʼessere un supplemento al Manifesto del Principe dʼOrange, scritto di suo pugno e munito del suo sigillo: ma lo stile era molto diverso da quello del Manifesto vero. Minacciava vendetta, senza riguardo alle costumanze deʼ popoli inciviliti e cristiani, contro tutti quei papisti che osassero parteggiare pel Re. Verrebbero trattati non come soldati o gentiluomini, ma come predoni. La ferocia e licenza dellʼarmata degli invasori che una vigorosa mano aveva fino allora rattenuti, sarebbe lasciata senza freno contro i papisti. I buoni protestanti, e in ispecie coloro che abitavano nella metropoli, venivano esortati, a nome di quanto avevano di più caro al mondo, e comandati, sotto pena dello sdegno del Principe, a prendere, disarmare e condurre in carcere i Cattolici loro vicini. Dicesi che questo documento una mattina fosse trovato da un libraio Whig allʼuscio della sua bottega. Affrettossi a stamparlo. Molti esemplari ne furono spediti per la posta e corsero rapidamente per le mani di tutti. Gli uomini savi non esitarono a reputarlo scrittura foggiata da qualche irrequieto e immorale avventuriere della razza di coloro che nei tempi torbidi sono sempre pronti ad eseguire i più vili e tenebrosi uffici delle fazioni. Ma la moltitudine restò presa allʼamo. E veramente a tal punto era stato concitato il sentimento nazionale e religioso contro i papisti irlandesi, che la maggior parte di coloro, i quali non reputavano autentico quello scritto spurio, inclinavano ad applaudirlo come opportuno esempio di energia. Come si seppe che Guglielmo non ne era lo autore, tutti interrogavansi a vicenda chi fosse lo impostore che con tanta audacia e tanto effetto aveva presa la maschera di Sua Altezza. Alcuni sospettarono di Ferguson, altri di Johnson. Finalmente dopo ventisette anni Ugo Speke confessò dʼaverlo egli composto, e chiese alla Casa di Brunswick una rimunerazione per avere reso alla religione protestante un così segnalato servigio. Asserì, col tono di chi creda avere fatto cosa eminentemente virtuosa ed onorevole, che quando la invasione olandese aveva gettato Whitehall nella costernazione, egli sʼera profferto alla Corte, e simulando rottura coʼ Whig, aveva promesso dispiarne i passi; che con tale mezzo era stato ammesso al cospetto del Re, aveva giurato fedeltà , gli era stata promessa pecunia in gran copia, e sʼera procurato deʼ segnali con che poteva andare e venire nel campo nemico. Protestò di avere fatte tutte coteste cose col solo scopo di avventare senza sospetto un colpo mortale al Governo, e far nascere nel popolo un violento scoppio di sdegno contro i Cattolici Romani. Disse che il falso Manifesto era uno deʼ mezzi da lui divisati: ma è da dubitare se le sue pretensioni fossero bene fondate. Imperocchè indugiò tanto a dirlo da farci ragionevolmente sospettare chʼegli aspettasse la morte di chi poteva contradirgli; oltrechè non addusse altra testimonianza che la propria asserzione.[556]LXIX. Mentre le cose sopra narrate succedevano in Londra, ogni corriere postale da tutte le parti del Regno recava la notizia di qualche novella insurrezione. Lumley aveva presa Newcastle. Gli abitatori lo avevano accolto con gioia. La statua del Re, che sorgeva sopra un alto piedistallo di marmo, era stata rovesciata e gettata nel Tyne. Fu lungamente serbata in Hull la memoria del 3 dicembre, come giorno della presa della città . Vʼera un presidio sotto il comando di Lord Langdale cattolico romano. Gli ufficiali protestanti concertarono colla magistratura un piano dʼinsurrezione: Langdale e i suoi fautori furono arrestati; e i soldati e i cittadini si congiunsero a favore della religione protestante e dʼun libero Parlamento.[557]Le contrade orientali erano anche esse insorte. Il Duca di Norfolk, seguito da trecento gentiluomini bene armati a cavallo, comparve nella vasta piazza di mercato in Norwich. Il Gonfaloniere e gli Aldermanni corsero a lui e promisero di collegarsi con lui contro il papismo e la tirannide.[558]Lord Herbert di Cherbury e Sir Eduardo Harley presero le armi nellaContea di Worchester.[559]Bristol, seconda città del reame, aprì le sue porte a Shrewsbury. Il Vescovo Trelawney, il quale nella Torre aveva disimparato affatto la dottrina della non resistenza, fu il primo a far plauso alla venuta delle truppe del Principe. Siffatti erano gli umori degli abitanti, che non sʼera creduto necessario lasciare fra loro una guarnigione.[560]La popolazione di Gloucester insorse e liberò di prigione Lovelace, il quale si vide tosto raccogliere dintorno unʼarmata irregolare. Alcuni deʼ suoi cavalieri avevano semplici cavezze invece di briglie. Molti deʼ suoi fanti per tuttʼarme avevano bastoni. Ma queste schiere, comunque si fossero, marciarono senza contrasto traverso alle Contee già sì fide alla Casa Stuarda, e infine entrarono trionfanti in Oxford. Corsero loro incontro solennemente i magistrati. La stessa Università , esasperata dagli oltraggi dianzi sostenuti, era poco inchinevole a disapprovare la ribellione. Già alcuni deʼ capi dei Collegi avevano spedito un loro rappresentante per riferire al Principe dʼOrange che essi di tutto cuore erano per lui, e pronti a fondere, ove bisognasse, le loro argenterie. Per lo che il condottiero Whig cavalcò per la città principale deʼ Tory fra le acclamazioni universali. Lo precedevano i tamburi sonando il Lillibullero. Gli teneva dietro una vasta onda di cavalli e di fanti. Tutta High Street era parata con drappi color dʼarancio, imperocchè questo colore aveva già il doppio significato, che dopo centosessanta anni serba tuttavia, voglio dire per lo Inglese protestante era emblema di libertà civile e religiosa, pel Celta cattolico era simbolo di persecuzione e servaggio.[561]LXX. Mentre da ogni lato sorgevano nemici attorno al Re, gli amici sollecitamente lo abbandonavano. La idea della resistenza era divenuta famigliare a ciascuno. Molti che mostraronsi inorriditi allorchè ebbero la nuova delle prime diserzioni, adesso rimproveravano sè stessi dʼessere stati così lenti a conoscereil tempo. Non vʼera più ostacolo o periglio ad accorrere a Guglielmo. Il Re, chiamando la nazione ad eleggere i rappresentanti al Parlamento, aveva implicitamente autorizzato ognuno a recarsi dove avesse voti o interessi; e molti di queʼ luoghi erano già occupati daglʼinvasori o dagli insorti. Clarendon ardentemente colse il destro di abbandonare il già cadente Sovrano. Sapeva dʼaverlo mortalmente offeso col suo discorso in Consiglio: e si sentì mortificato non vedendosi nominare per uno deʼ tre regii Commissari. Egli aveva deʼ possessi nel Wiltshire. Deliberò di portare candidato per quella Contea il proprio figlio, quel desso della cui condotta egli aveva dianzi sentito dolore ed orrore; e sotto pretesto di badare alla elezione partì per il paese occidentale. Tosto gli tennero dietro il Conte dʼOxford, ed altri i quali fino allora avevano protestato di non avere nissuna relazione con la intrapresa del Principe.[562]Verso questo tempo glʼinvasori, regolarmente, comechè con lentezza, procedendo, trovavansi a settanta miglia da Londra. Quantunque il verno fosse quasi a mezzo, il tempo era bello, il cammino piacevole; e i piani di Salisbury sembravano prati amenissimi a loro che sʼerano affannati traverso alle fangose rotaje degli stradali di Devonshire e di Somersetshire. Lʼarmata procedeva accanto a Stonehenge, e i reggimenti, lʼuno dopo lʼaltro, stavansi a contemplare quelle misteriose rovine, famose per tutto il continente, come la più grande maraviglia della nostra isola. Guglielmo entrò in Salisbury con la stessa pompa militare con cui era entrato in Exeter, ed alloggiò nel palazzo, pochi giorni innanzi occupato dal Re.[563]Quivi al suo corteo si aggiunsero i Conti di Clarendon e dʼOxford ed altri cospicui personaggi, i quali fino a pochi giorni avanti erano considerati zelanti realisti. Van Citters arrivò anche egli al quartiere generale degli Olandesi. Per parecchie settimane egli era stato quasi prigione nella sua casa presso Whitehall, di continuo sorvegliato da spie che sʼavvicendavano senza perderlo dʼocchio un istante. Nondimeno,malgrado le spie, o forse per mezzo loro, gli era venuto fatto di sapere esattamente ciò che succedeva in palazzo; e adesso bene e copiosamente edotto degli uomini e delle cose, giunse al campo a giovare le deliberazioni di Guglielmo.[564]Fino a questo punto la impresa del Principe era proceduta prosperamente oltre le speranze deʼ più ardenti suoi fautori. E adesso, secondo la legge universale che governa le cose umane, la prosperità cominciò a produrre la disunione. GlʼInglesi raccolti in Salisbury si scissero in due partiti. Lʼuno era composto di Whig, i quali avevano sempre considerato le dottrine della obbedienza passiva e dello incancellabile diritto ereditario come superstizioni servili. Molti di loro avevano passato degli anni in esilio; tutti erano stati esclusi daʼ favori della Corona. Adesso esultavano vagheggiando vicinissimo il giorno della grandezza e della vendetta. Ardenti di sdegno, inebriati di vittoria e di speranza, non volevano udire a parlare di patti. Nullʼaltro fuorchè la detronizzazione del loro nemico gli avrebbe contentati: nè può negarsi che, ciò volendo, fossero a sè medesimi perfettamente coerenti. Nove anni innanzi avevano fatto ogni sforzo per escluderlo dal trono, perchè credevano chʼegli sarebbe verosimilmente stato cattivo Re. E però non era da sperarsi che lo lascerebbero volentieri sul trono dopo che lo avevano sperimentato Re oltre ogni ragionevole preveggenza cattivissimo.Dallʼaltro canto non pochi deʼ fautori di Guglielmo erano Tory zelanti, i quali fino allora avevano professata la dottrina della non resistenza nella forma più assoluta, ma la cui fede in cotesta dottrina per un istante aveva ceduto alle irruenti passioni eccitate dalla ingratitudine del Re e dal pericolo della Chiesa. Per un vecchio Cavaliere non vʼera condizione più tormentosa che quella di impugnare le armi contro il trono. Gli scrupoli che non gli avevano impedito dallo accorrere al campo degli Olandesi cominciarono, appena vi giunse, a straziargli crudelmente la coscienza, la quale lo faceva dubitare di avere commesso un delitto. In ogni evento sʼera reso meritevole di rimprovero operando in diretta opposizione ai principii di tutta la sua vita. Sentiva invincibile avversione pei suoinuovi collegati, gente, per quanto egli potesse rammentarsi, da lui sempre ingiuriata e perseguitata, cioè Presbiteriani, Indipendenti, Anabattisti, vecchi soldati di Cromwell, bravi di Shaftsbury, congiurati di Rye House, capitani della Insurrezione delle contrade occidentali. Naturalmente desiderava trovare qualche scusa che gli ponesse in pace la coscienza, lo liberasse dalla taccia dʼincoerenza, e stabilisse una distinzione tra lui e la folla deʼ ribelli scismatici, da lui sempre spregiati e aborriti, ma coi quali egli adesso correva pericolo dʼessere confuso. Per le quali cose protestava fervidamente contro ogni pensiero di strappare la corona da quella cervice resa sacra dal volere di Dio e dalle leggi del Regno. Il suo più caldo desiderio era di vedere una riconciliazione a patti non indecorosi alla dignità regia. Egli non era traditore; e a dir vero non opponeva resistenza allʼautorità del Sovrano. Era corso alle armi perchè egli era convinto che il miglior servizio che si potesse rendere al trono era quello di redimere con una lievissima coercizione la Maestà Sua dalle mani deʼ pessimi consiglieri.I mali, che la vicendevole animosità di queste fazioni tendeva a far nascere, furono in gran parte scansati per lʼautorità e saggezza del Principe. Circuito da ardenti disputatori, officiosi consiglieri, abietti adulatori, spie vigilanti, maligni ciarlieri, rimaneva sempre tranquillo senza che altri potesse leggergli nel cuore. Potendo, taceva; costretto a parlare, il tono serio e imperioso con che significava le sue bene ponderate opinioni, faceva tosto ammutolire chiunque. Qualsivoglia cosa dicessero i suoi troppo zelanti fautori, ei non profferì mai verbo che desse il minimo sospetto di ambire alla corona dʼInghilterra. Senza dubbio ben si accorgeva che fra lui e quella corona esistevano tuttavia parecchi ostacoli, i quali nessuna prudenza avrebbe potuto vincere, e potevano ad un solo passo falso diventare insormontabili. La sola probabilità chʼegli avesse di ottenere quello splendido premio non istava nello impossessarsene ruvidamente, ma nello aspettare fino a tanto che senza la minima apparenza di sforzo e dʼastuzia lo conducessero al suo arcano scopo la forza delle circostanze, gli errori deʼ suoi avversari, e la libera elezione dei tre Stati del reame. Coloro che provaronsi dʼinterrogarlo,non riuscirono a saper nulla, e nondimeno non poterono accusarlo di simulazione. Egli tranquillamente li rimandava al suo Manifesto, assicurandoli che le sue mire non erano cangiate da poi che era stato scritto quel documento. Con tanta espertezza governava gli animi dei suoi partigiani, che pare la loro discordia gli rafforzasse, anzichè indebolirgli il braccio: ma la discordia scoppiava violentissima appena sottraevansi al freno di lui, sturbava lʼarmonia deʼ conviti, e non rispettava nè anche la santità della casa di Dio. Clarendon, il quale si studiava di nascondersi agli occhi altrui e a quelli della propria coscienza, affettando con ostentazione sentimenti di lealtà —prova manifesta della sua ribellione—raccapricciò vedendo alcuni deʼ suoi colleghi col bicchiere in mano schernire lʼamnistia che il Re generosamente aveva offerta loro. Dicevano non aver bisogno di perdono: ma innanzi di finire, volevano ridurre il Re a domandare perdono a loro. Anche maggiormente impaurì e disgustò ogni buon Tory un fatto che accadde nella cattedrale di Salisbury. Appena il ministro che officiava cominciò a leggere la preghiera pel Re, Burnet, il quale fra i molti suoi pregi non annoverava la facoltà di sapere frenarsi e il senso delicato delle convenevolezze, essendo in ginocchioni, si alzò, si assise nel proprio stallo, e profferì alcune sprezzanti parole che sturbarono le divozioni degli astanti.[565]In breve le fazioni, onde era diviso il campo regio, ebbero occasione a misurare le proprie forze. I Commissari del Re erano già in viaggio. Erano corsi vari giorni dopo la loro nomina; e reputavasi strano che in un caso cotanto urgente indugiassero sì lungamente ad arrivare. Ma in verità nè Giacomo nè Guglielmo desideravano che le pratiche speditamente sʼiniziassero; imperocchè lʼuno bramava solo di acquistare il tempo bastevole a mandare in Francia la moglie e il figliuolo; e la posizione dellʼaltro si faceva ognora più vantaggiosa. Infine il Principe fece annunziare ai Commissari che gli avrebbe ricevuti in Hungerford. Probabilmente scelse questo luogo, perchè, ad uguale distanza da Salisbury e da Oxford, era bene adattato per un convegno deʼ suoi più importanti fautori. InSalisbury erano quei nobili e gentiluomini che lo avevano accompagnato da Olanda od erano corsi a trovarlo nelle contrade occidentali; ed in Oxford erano molti deʼ capi della insurrezione del paese settentrionale.LXXI. In sul tardi, giovedì 6 dicembre, giunse a Hungerford. La piccola città fu tosto ripiena di persone dʼalto grado e notevoli che vi accorrevano da diverse parti. Il Principe era scortato da un forte corpo di truppe. I Lordi del settentrione conducevano seco centinaia di cavalieri irregolari, il cui equipaggio e modo di cavalcare moveva a riso coloro chʼerano assuefatti allo splendido aspetto ed agli esatti movimenti delle armate regolari.[566]Mentre il Principe rimaneva in Hungerford ebbe luogo un accanito scontro tra dugentocinquanta deʼ suoi e seicento Irlandesi che erano appostati in Reading. Glʼinvasori in questo fatto fecero bella prova della superiorità della loro disciplina. Comechè fossero molto inferiori di numero, essi al primo assalto sgominarono le regie milizie, le quali corsero giù per le strade fino alla piazza di mercato. Quivi glʼIrlandesi tentarono di riordinarsi; ma vigorosamente aggrediti di fronte, mentre gli abitanti facevano fuoco dalle finestre delle case circostanti, tosto scoraronsi, e fuggirono perdendo la bandiera e cinquanta uomini. Dei vincitori solo cinque caddero morti. Ne gioirono tutti ugualmente i Lordi e i Gentiluomini che seguivano Guglielmo; perocchè in quel fatto non accadde nulla che offendesse il sentimento nazionale. Gli Olandesi non avevano vinto glʼInglesi, ma avevano soccorsa una città inglese a liberarsi dalla insopportabile dominazione deglʼIrlandesi.[567]La mattina del sabato, 8 dicembre, i commissari del Re giunsero a Hungerford. Le Guardie del Corpo del Principe schieraronsi a riceverli con gli onori militari. Bentinck li accolse e propose loro di condurli immediatamente al cospetto del suo signore. Manifestarono la speranza che il Principe volesse accordar loro una udienza privata; ma fu lororisposto chʼegli era deliberato di ascoltarli e rispondere in pubblico. Furono introdotti nella sua camera da letto, dove lo trovarono fra mezzo a una folla di nobili e di gentiluomini. Halifax, cui il grado, la età , lʼabilità davano il diritto di precedenza, prese a favellare. La proposta che i Commissari avevano ordine di fare era, che i punti di controversia fossero portati dinanzi al Parlamento, a convocare il quale già si stavano suggellando i decreti, e che in quel mentre lʼarmata del Principe si fermasse a trenta o quaranta miglia lontano da Londra. Halifax dopo dʼaver detto che questa era la base sopra cui egli e i suoi colleghi erano apparecchiati a trattare, pose nelle mani di Guglielmo una lettera del Re, e prese commiato. Guglielmo, schiusa la lettera, parve oltre lʼusato commuoversi. Era la prima che ricevesse dal suocero dopo che erano in aperta rottura. Un tempo erano stati in buone relazioni e familiarmente carteggiavano; nè anco dopo che entrambi avevano cominciato a sospettarsi ed aborrirsi vicendevolmente sʼerano astenuti nelle loro lettere da quelle forme di cortesia che comunemente adoperano le persone strettamente congiunte coʼ vincoli del sangue e del matrimonio. La lettera recata daʼ Commissari era scritta da un segretario in forma diplomatica e in lingua francese. «Ho avute molte lettere del Re,» disse Guglielmo, «ma tutte sempre in inglese e scritte di suo pugno.» Favellò con una sensibilità chʼegli era poco assuefatto a mostrare. Forse in quello istante pensava quanto rimprovero dovesse arrecare a lui e alla consorte, così a lui affettuosa, la sua intrapresa, comechè fosse giusta, benefica e necessaria. Forse rammaricavasi della durezza del destino, il quale lo aveva ridotto a una condizione tale chʼei non poteva adempiere ai suoi doveri pubblici senza frangere i domestici vincoli, e invidiava lo avventuroso stato di coloro che non sono responsabili della salvezza delle nazioni e delle Chiese. Ma siffatti pensieri, se pure gli sorsero in mente, ei fermamente represse. Esortò i Lordi e i Gentiluomini, da lui convocati in questa occasione, a consultare insieme, senza lo impaccio della sua presenza, intorno alla risposta da farsi al Re. Riserbossi non per tanto la potestà della decisione finale dopo avere ascoltati i loro consigli. Quindi lasciolli, e si ritiròa Littlecote Hall, magione rurale giacente a circa due miglia di distanza, e famosa fino ai tempi nostri non tanto per la sua veneranda architettura e i suoi begli arredi, quanto per un orribile e misterioso delitto ivi commesso neʼ tempi dei Tudor.[568]Innanzi che si allontanasse da Hungerford gli fu detto che Halifax aveva desiderato di abboccarsi con Burnet. In questo desiderio non era nulla di strano; imperocchè Halifax e Burnet avevano da lungo tempo avuto relazioni dʼamicizia. E per vero dire non vʼerano due uomini che così poco si rassomigliassero. Burnet era estremamente privo di delicatezza e di tatto. Halifax aveva delicatissimo gusto, e fortissima tendenza al dileggio. Burnet mirava ogni azione ed ogni carattere traverso a uno strumento scontorto e colorato dallo spirito di parte. La mente di Halifax inchinava a scoprire i falli deʼ suoi colleghi più presto che quelli degli avversari. Burnet, non ostante le sue debolezze e le vicissitudini dʼuna vita passata in circostanze non molto favorevoli alla pietà , era uomo sinceramente pio. Lo scettico e satirico Halifax aveva taccia dʼincredulo. Halifax quindi aveva spesso provocato la sdegnosa censura di Burnet; e Burnet era spesso lo zimbello deʼ pungenti e gentili scherzi di Halifax. Nondimeno lʼuno sentivasi vicendevolmente attirato verso lʼaltro, ne amava il conversare, ne pregiava lʼabilità , liberamente ricambiava le opinioni e i buoni uffici in tempi pericolosi. Nondimeno Halifax adesso non desiderava rivedere il suo vecchio conoscente soltanto per riguardi personali. I Commissari erano di necessità ansiosi di sapere quale fosse il vero scopo del Principe. Aveva loro ricusato un colloquio privato; e poco poteva raccogliersi da ciò chʼegli potesse dire in una pubblica udienza. Quasi tutti i suoi confidenti erano uomini al pari di lui taciturni e impenetrabili. Il solo Burnet era ciarliero e indiscreto. E nondimeno le circostanze avevano fatto nascere il bisogno di fidarsi di lui; e Halifax con la sua squisita destrezza gli avrebbe indubitatamente tratto dalla bocca i secreti, agevolmente come le parole. Guglielmo sapeva tutto questo, e come gli fu detto che Halifax andava in cerca del dottore, non potè frenarsi dallo esclamare:«Se si uniranno insieme, eʼ vi sarà un bel pettegolezzo.» A Burnet fu inibito di vedere i Commissari in privato; ma con parole cortesissime gli fu detto che il Principe non aveva il più lieve sospetto della fedeltà di lui; e perchè non vi fosse cagione a dolersene, la inibizione fu generale.LXXII. Quel dì i nobili e i gentiluomini, ai quali Guglielmo aveva chiesto consiglio, adunaronsi nella gran sala del principale albergo di Hungerford. Oxford presedeva, e le proposte del Re furono prese in considerazione. Tosto si conobbe che lʼassemblea era divisa in due partiti, lʼuno deʼ quali era bramoso di venire a patti col Re, lʼaltro ne voleva la piena rovina; ed erano i più. Ma fu notato che Shrewsbury, il quale a preferenza di tutti i Nobili dʼInghilterra supponevasi godere la confidenza di Guglielmo, quantunque fosse Whig, in questa occasione era coi Tory. Dopo molto contendere fu formulata la questione. La maggioranza opinò doversi rigettare le proposte che i regii Commissari avevano ordine di fare. La deliberazione dellʼassemblea fu recata al Principe in Littlecote. In nessunʼaltra circostanza per tutto il corso della sua fortunosa vita egli mostrò maggiore prudenza e ritegno. Non poteva volere la buona riuscita dello accordo. Ma era tanto savio da conoscere, che ove le pratiche andassero a vuoto per cagione delle sue irragionevoli pretese, ei perderebbe il pubblico favore. E però, vinta la opinione deʼ suoi ardenti fautori, si dichiarò deliberatissimo a trattare sopra le basi proposte dal Re. Molti dei Lordi e dei Gentiluomini radunati in Hungerford rimostrarono: litigarono un intero giorno: ma Guglielmo rimase incrollabile nel suo proposito. Dichiarò di volere porre ogni questione nelle mani del Parlamento pur allora convocato, e di non procedere oltre a quaranta miglia da Londra. Dal canto suo fece certe domande che anche i meno inchinevoli a lodarlo reputarono moderate. Insistè perchè gli statuti vigenti rimanessero in vigore finchè venissero riformati dallʼautorità competente, e perchè chiunque occupasse un ufficio senza i requisiti legali fosse quinci innanzi destituito. Dirittamente pensava che le deliberazioni del Parlamento non potevano procedere libere, se dovesse aprirsi circondato dai reggimenti irlandesi, mentre egli e la sua armatarimanevano lontani di parecchie miglia. Per lo che reputava necessario che, dovendo le sue truppe rimanersi a quaranta miglia da Londra dalla parte occidentale, le truppe del Re si dovessero ritirare ad uguale distanza dalla parte orientale. In tal guisa rimaneva attorno al luogo, dove le Camere dovevano adunarsi, un ampio cerchio di terreno neutrale, dentro cui erano due fortezze di grande importanza per la popolazione della metropoli; la Torre cioè, che signoreggiava le abitazioni, e Tilbury Fort che signoreggiava il commercio marittimo. Era impossibile lasciare questi due luoghi senza presidio. Guglielmo quindi propose che temporaneamente venissero affidati alla Città di Londra. Sarebbe forse convenevole, che il Re, apertosi il Parlamento, se ne andasse a Westminster con un corpo di guardie. In questo caso il Principe voleva il diritto di andarvi anchʼegli con un eguale numero di soldati. Parevagli giusto, che, mentre rimanevano sospese le operazioni militari, ambedue le armate si considerassero come ai servigi della nazione inglese, e fossero pagate dallʼentrate dellʼInghilterra. Da ultimo richiese alcune guarentigie perchè il Re non si giovasse dello armistizio per introdurre forze francesi nellʼisola. Il punto di maggior pericolo era Portsmouth. Il Principe non insisteva che gli venisse data nelle mani questa importante fortezza, ma propose che, durante la tregua, fosse affidata al comando dʼun ufficiale meritevole della fiducia sua e di Giacomo.
LV. Per quanto fossero acri le parole del Re, lo erano meno di quelle che profferì dopo che i Vescovi si furono dalla sua presenza partiti. Disse dʼavere già fatto troppo sperando di gratificarsi un popolo irreverente ed ingrato; avere sempre abborrito dalla idea di fare concessioni; ma vi sʼera lasciato indurre; e adesso, come il padre suo, vedeva per prova che le concessioni rendono i sudditi più esigenti. Quinci innanzi non cederebbe in nulla, nè anche dʼun atomo; e secondo suo costume ripetè più volte e con forza: «Nè anche dʼun atomo.» Non solo non farebbe proposte agli invasori, ma non ne accetterebbe nessuna. Se gli Olandesi mandassero a chiedere tregua, il primo messaggiero sarebbe rimandato senza risposta, il secondo impiccato.[525]In tale umore Giacomo partì per Salisbury. Il suo ultimo atto, avanti di partirsi, fu di nominare un Consiglio di cinque Lordi, perchè lo rappresentassero durante la sua assenza. Deʼ cinque, due erano papisti, e per virtù della legge inabili ad occupare gli uffici. Jeffreys era con essi, ma la nazione detestavalo più dei papisti. A Preston e Godolphin, che erano gli altri due membri, non si potevanulla obiettare. Il dì, in che il Re partì da Londra, il Principe di Galles fu mandato a Portsmouth. Questa fortezza aveva uno strenuo presidio sotto il comando di Berwick. Era lì presso la flotta comandata da Dartmouth; e supponevasi, che ove le cose procedessero male, il regio infante si sarebbe senza ostacolo potuto condurre in Francia.[526]LVI. Il dì 19, Giacomo giunse a Salisbury, e pose il suo quartiere generale nel palazzo del Vescovo. Da ogni parte gli arrivavano sinistre nuove. Le Contee occidentali alla perfine erano insorte. Appena si seppe la diserzione di Cornbury, molti ricchi possidenti presero animo ed accorsero ad Exeter. Era fra essi Sir Guglielmo Portman di Bryanstone, uno deʼ più grandi uomini della Contea di Dorset, e Sir Francesco Warre di Hestercombe che aveva somma riputazione nella Contea di Somerset.[527]Ma il più cospicuo deʼ nuovi venuti era Seymour, che aveva di recente ereditato il titolo di baronetto,—titolo che aggiungeva poco alla sua dignità ,—e per nascita, per influenza politica e per abilità parlamentare primeggiava oltre ogni paragone fraʼ gentiluomini Tory dʼInghilterra. Dicesi che nella prima udienza porgesse tale argomento dellʼaltera indole sua, che recò maraviglia e sollazzo al Principe. «Io credo, Sir Eduardo,» disse Guglielmo per usargli una cortesia «che voi siate della famiglia del Duca di Somerset.»—«Altezza, chiedo scusa,» rispose Sir Eduardo che non dimenticava mai dʼessere il capo del ramo maggiore deʼ Seymours, «il Duca di Somerset è della mia famiglia.[528]»Il quartiere generale di Guglielmo allora cominciò a prendere la sembianza dʼuna corte. Sessanta e più personaggi cospicui per grado ed opulenza trovavansi in Exeter; e la mostra quotidiana delle ricche livree e deʼ cocchi a sei cavalli nel ricinto della Cattedrale rendeva in alcun modo immagine della magnificenza e gaiezza di Whitehall. Il basso popolo anelavadi correre alle armi, sì che sarebbe stato agevole formare molti battaglioni di fanti. Ma Schomberg, che faceva poco conto di soldati novellamente tolti allo aratro, sosteneva che ove la impresa non avesse prospero successo senza siffatto aiuto, non sarebbe riuscita affatto: e Guglielmo, che quanto Schomberg bene intendevasi dʼarte militare, era del medesimo parere. E però difficilmente concedeva commissioni di reclutare nuovi reggimenti, non accettando altri che uomini scelti.Desideravasi che il Principe ricevesse pubblicamente in corpo tutti i nobili e i gentiluomini che sʼerano raccolti in Exeter. Rivolse loro brevi, caute e dignitose parole. Disse che sebbene non conoscesse di aspetto tutti coloro che gli stavano dinanzi, pure ne aveva notati i nomi, e sapeva quale insigne reputazione godessero nel paese loro. Dolcemente li rimproverò di lentezza ad accorrere, ma espresse la ferma speranza che non sarebbe stato troppo tardi per salvare il reame. «Adunque, o gentiluomini, amici, e confratelli protestanti,» soggiunse egli «noi con tutto il cuore diciamo a tutti voi e ai seguaci vostri, siate ben venuti alla nostra corte ed al nostro campo.»[529]Seymour, accorto uomo politico, per la sua lunga esperienza nella tattica delle fazioni, tosto conobbe che il partito che sʼandava raccogliendo sotto il vessillo del Principe aveva mestieri dʼessere organizzato. Lo chiamava una corda di sabbia: non vʼera scopo comune o formalmente determinato; nessuno sʼera impegnato a nulla. Appena si sciolse lʼassemblea tenuta da Guglielmo nel Decanato, Seymour fece chiamare Burnet, e gli suggerì il pensiero di formare unʼassociazione, e dʼobbligare tutti glʼInglesi aderenti al Principe ad apporre le loro firme ad un documento, in cui si dichiarassero fedeli al loro condottiero e si vincolassero vicendevolmente. Burnet riferì la cosa al Principe ed a Shrewsbury, i quali lʼassentirono. Fu convocata unʼadunanza nella Cattedrale, dove fu letto, approvato, e firmato un breve documento scritto da Burnet. I soscrittori promettevano di eseguire concordementele cose contenute nel Manifesto di Guglielmo; difendere lui, ed a vicenda difendersi; fare segnalata vendetta di chi attentasse alla vita di lui, ed anche, ove siffatto attentato sventuratamente avesse effetto, persistere nella impresa finchè le libertà e la religione del paese fossero pienamente assicurate.[530]Verso quel tempo arrivò ad Exeter un messaggiero del Conte di Bath, il quale aveva il comando di Plymouth. Bath poneva sè, le sue truppe e la fortezza da lui governata a disposizione del Principe. Glʼinvasori quindi non avevano più un solo nemico alle spalle.[531]LVII. Mentre le contrade occidentali in tal guisa insorgevano ad affrontare il Re, le settentrionali gli divampavano dietro. Il dì 16, Delamere corse alle armi nella Contea di Chester. Convocò i suoi fittajuoli, gli esortò a seguirlo, promise loro che, ove cadessero in battaglia, ei rinnoverebbe il fitto ai loro figli, ed ammonì chiunque avesse un buon cavallo di andare al campo, o mandarvi altri in sua vece.[532]Comparve a Manchester con cinquanta armati a cavallo, il quale numero si triplicò innanzi chʼegli giungesse a Boaden Downs.Le circostanti contrade erano in somma agitazione. Era stato provveduto che Danby prendesse York, e Devonshire si mostrasse in Nottingham. Quivi non si temeva alcuna resistenza. Ma in York trovavasi un piccolo presidio sotto il comando di Sir Giovanni Reresby. Danby agì con rara destrezza. Era stata convocata pel dì 22 novembre una ragunanza deʼ gentiluomini e deʼ possidenti della Contea di York per fare un indirizzo al Re sullo stato delle cose. Tutti i Luogotenenti deputati dei tre Ridings, vari nobili, e una folla di ricchi scudieri e di pingui possidenti erano andati alla capitale della provincia. Quattro distaccamenti di milizia civica erano sotto le armi per mantenere la pubblica tranquillità . Il palazzo comunitativo era pieno di liberi possidenti, ed era appena cominciata la discussione, allorquando levossi repentinamente il grido che i Papisti,corsi alle armi, facevano strage deʼ protestanti. I Papisti di York più verisimilmente studiavansi a cercare dove nascondersi che ad aggredire i nemici, i quali per numero li superavano in proporzione di cento ad uno. Ma in quel tempo non vi era storiella orrenda o maravigliosa delle atrocità dei Papisti, alle quali il popolo non prestasse fede. La ragunanza sgomentata si disciolse. La intera città fu in iscompiglio. In quel mentre Danby con circa cento uomini a cavallo corse dinanzi alla milizia civica gridando: «Giù il Papismo! Viva il libero Parlamento! Viva la religione protestante!» Le milizie risposero al grido. Sorpresero tosto e disarmarono il presidio. Il governatore venne arrestato; le porte furono chiuse, e in ogni dove poste sentinelle. Lasciarono che la infuriata plebe atterrasse una cappella cattolica, ma pare che non seguisse altro danno. Il dì seguente il palazzo comunitativo era pieno deʼ più notabili gentiluomini della Contea, e dei principali magistrati della città . Il Lord Gonfaloniere teneva il seggio. Danby propose di scrivere una dichiarazione nella quale fossero espresse le ragioni che inducevano gli amici della Costituzione e della religione protestante a correre alle armi. Questa dichiarazione fu calorosamente approvata, e in poche ore munita delle firme di sei Pari, di cinque baronetti, di sei cavalieri, e di molti gentiluomini di gran conto.[533]Infrattanto Devonshire, capitanando una grossa legione di amici e dipendenti suoi, partitosi dal palagio chʼegli stava erigendo in Chatsworth, comparve armato in Derby. Quivi consegnò formalmente alle autorità municipali uno scritto in cui erano esposte le ragioni che lo avevano spinto alla impresa. Ne andò quindi a Nottingham, che tosto divenne il centro della insurrezione delle contrade settentrionali. Promulgò un proclama scritto con forti e ardite parole. Vi si diceva che il vocabolo ribellione era uno spauracchio che non poteva spaventare alcun uomo ragionevole. Era ella ribellione difendere quelle leggi e quella religione che ogni Re dʼInghilterra era tenuto per sacramento a tutelare? In che modo siffatto giuramento fosse stato osservato, era questione la quale, comesperavasi, un libero Parlamento tra breve scioglierebbe. Nel tempo stesso glʼinsorti dichiaravano di non considerare qual ribellione, ma quale legittima difesa, il resistere ad un tiranno, che, tranne la propria volontà , non conosceva legge veruna. La insurrezione del paese settentrionale diventava ogni giorno più formidabile. Quattro potenti e ricchi Conti, cioè Manchester, Stamford, Rutland, Chesterfield giunsero a Nottingham, e furono seguiti da Lord Cholmondley e da Lord Grey di Ruthyn.[534]Intanto le due armate nel mezzogiorno facevansi lʼuna allʼaltra sempre più presso. Il Principe dʼOrange, saputo lo arrivo del Re a Salisbury, pensò essere tempo di partirsi da Exeter. Pose la città e il paese circostante sotto il governo di Sir Eduardo Seymour, e il mercoledì 21 novembre, scortato da molti deʼ più notevoli gentiluomini delle contrade occidentali, si avviò ad Axminster, dove rimase vari giorni.Il Re ardeva di venire alle mani; ed era naturale chʼegli così bramasse. Ogni ora che passava, scemava le sue forze, ed accresceva quelle del nemico. Inoltre era importantissimo che le sue truppe venissero allo spargimento del sangue: imperciochè una grande battaglia, qualunque ne fosse lʼesito, non poteva altro che nuocere alla popolarità del Principe. Guglielmo intendeva profondamente tutto ciò, ed era deliberato di evitare, quanto più potesse, un combattimento. Dicesi che quando a Schomberg fu riferito che i nemici si appressavano deliberatissimi a combattere, rispondesse col contegno di capitano espertissimo nellʼarte sua: «Sarà come vorremo noi.» Era, nondimeno, impossibile scansare qualunque scaramuccia tra le vanguardie dei due eserciti. Guglielmo desiderava che in siffatte piccole fazioni non accadesse nulla che potesse offendere lʼorgoglio o destare il sentimento di vendetta della nazione di cui sʼera fatto liberatore. E però con ammirevole prudenza pose i suoi reggimenti inglesi in quei luoghi dove maggiore era il rischio dʼuna collisione. E perchè gli avamposti dellʼarmata regia erano Irlandesi, nei piccoli combattimenti di questa breve campagna glʼinvasori avevano seco la cordiale simpatia di tutti glʼInglesi.LVIII. Il primo di cotesti scontri ebbe luogo in Wincanton. Il reggimento di Mackay, composto di soldati inglesi, era presso a un corpo di regie truppe irlandesi, capitanate dal valoroso Sarsfield loro concittadino. Mackay mandò un piccolo drappello deʼ suoi sotto il comando dʼun luogotenente chiamato Campbell, in cerca di cavalli pel bagaglio. Campbell li trovò in Wincanton, e già allontanavasi dalla città per ritornare al campo, allorquando vide avvicinarsi un forte distaccamento delle truppe di Sarsfield. GlʼIrlandesi erano in proporzione di quattro contro uno: ma Campbell deliberò di combattere fino allʼultimo sangue. Con una mano di coraggiosissimi uomini si appostò sul cammino. Gli altri suoi soldati si posero lungo le siepi che fiancheggiavano da ambe le parti lo stradale. Giunti glʼinimici, Campbell gridò: «Alto! Per chi siete voi?»—«Io sono pel re Giacomo,» rispose il condottiero delle milizie regie. «Ed io pel Principe dʼOrange,» esclamò Campbell. «E noi vʼimprinciperemobene,» rispose imprecando lʼIrlandese. «Fuoco!» gridò Campbell: ed una grandine di fuoco piovve allʼistante da ambe le siepi. I soldati del Re riceverono tre bene aggiustate scariche innanzi che potessero far fuoco. In fine venne loro fatto di superare una delle siepi, ed avrebbero oppressa la piccola banda deglʼinimici, se i campagnuoli che portavano odio mortale aglʼIrlandesi non avessero sparsa la falsa nuova dello appressarsi dʼaltre truppe del Principe. Sarsfield suonò a raccolta e ritirossi; Campbell seguitò il cammino senza molestia, seco recando i cavalli da bagaglio. Questo fatto, onorevole, senza dubbio, al valore ed alla disciplina dellʼarmata del Principe, fu dalla voce pubblica esagerato come una vittoria che i protestanti inglesi avevano riportata contro un numero grandemente maggiore di barbari papisti, venuti da Connaught ad opprimere lʼisola nostra.[535]Poche ore dopo la narrata scaramuccia seguì un evento che pose fine ad ogni pericolo di più grave conflitto tra i due eserciti. Churchill ed alcuni deʼ suoi principali complici erano in Salisbury. Due deʼ congiurati, cioè Kirke e Trelawney, se nʼerano andati a Warminster dove i reggimenti loro stanziavano.Tutto era maturo per eseguire la lungamente meditata tradigione.Churchill consigliò il Re a visitare Warminster, onde ispezionarvi le truppe. Giacomo assentì; ed il suo cocchio stavasi alla porta del palagio vescovile, quando ei cominciò a versare abbondantemente sangue dalle narici. Fu quindi costretto a differire la sua gita, e porsi in mano deʼ medici. La emorragia non gli cessò se non dopo tre giorni; e intanto gli giungevano funestissime nuove.Non era possibile che una congiura la quale aveva sì sparse le fila come quella di cui Churchill era capo, si tenesse strettamente secreta. Non vʼera prova che potesse farlo tradurre dinanzi ai Giurati o ad una corte marziale: ma strani bisbigli correvano per tutto il campo. Feversham, il quale era comandante supremo, riferì che regnavano sinistri umori nellʼarmata. Fu fatto intendere al Re che alcuni i quali gli stavano da presso non gli erano amici, e che sarebbe stata saggia cautela mandare Churchill e Grafton sotto buona guardia a Portsmouth. Giacomo respinse il consiglio; dacchè fra i suoi vizi non era la inclinazione a sospettare. A vero dire la fiducia chʼegli poneva nelle proteste di fedeltà e dʼaffetto, era quanta ne avrebbe potuto avere più presto un fanciullo di buon cuore e privo dʼesperienza, che un politico molto provetto negli anni, il quale aveva praticato assai il mondo, aveva molto sofferto dalle arti degli scellerati, e il cui carattere non faceva punto onore alla specie umana. Sarebbe difficile additare un altro uomo, il quale, così poco scrupoloso a rompere la fede, fosse così restio a credere che altri volesse contro di lui tradirla. Nondimeno le nuove ricevute intorno le condizioni della sua armata lo conturbarono molto. Adesso non più mostravasi impaziente di venire a battaglia: pensava anzi di ritirarsi. Nella sera del sabato 24 novembre convocò un consiglio di guerra. Alla ragunanza convennero quegli ufficiali contro cui era stato caldamente ammonito a tenersi cauto. Feversham opinò per la ritirata. Churchill manifestò contrario parere. Il consiglio durò fino a mezza notte. Finalmente il Re dichiarò essere deliberato a ritirarsi. Churchill vide o sʼimmaginò dʼessere sospettato, e comunque sapesse perfettamente governarei moti dello animo, non valse a nascondere la propria inquietudine. Innanzi lʼalba, accompagnato da Grafton, fuggì al quartiere generale del Principe.[536]LIX. Churchill, partendo, lasciò una lettera a spiegare il suo intendimento. Era scritta con quel decoro chʼegli non mancò mai di serbare fra mezzo alla colpa e al disonore. Riconobbe dʼandar debitore dʼogni sua cosa alla regia benevolenza. Lo interesse e la gratitudine, diceva egli, lo persuadevano a mantenersi fido al proprio Sovrano. Sotto nessun altro governo poteva sperare la grandezza e prosperità chʼegli allora godeva, ma tutti cotesti argomenti dovevano cedere al primissimo deʼ doveri. Egli era protestante, e non poteva in coscienza snudare la spada contro la causa del Protestantismo. Quanto al resto, era pronto a porre a repentaglio vita ed averi per difendere la sacra persona e i diritti del suo amatissimo signore.[537]Alla dimane il campo era sossopra. Gli amici del Re percossi da spavento; i suoi nemici non potevano nascondere la gioia deʼ loro cuori. La costernazione di Giacomo sʼaccrebbe alle nuove che giunsero il dì medesimo da Warminster. Kirke che ivi comandava, aveva ricusato di obbedire ad ordini giunti da Salisbury. Non era più dubbio che anche egli fosse in lega col Principe dʼOrange. Dicevasi inoltre chʼegli fosse già passato con le sue milizie al campo del nemico; e tale voce, comechè falsa, fu per alcune ore pienamente creduta.[538]Un nuovo raggio di luce lampeggiò alla mente dello sciagurato Re. Gli parve dʼintendere il perchè pochi giorni innanzi era stato esortato a visitare Warminster. Ivi si sarebbe trovato privo di soccorso, in balìa deʼ congiurati, e presso agli avamposti nemici. Coloro che sarebbero stati disposti a difenderlo avrebbero agevolmente ceduto agli aggressori. Egli sarebbe stato condotto prigioniero al quartiere generale deglʼinvasori.Forse sarebbe stato commesso qualche più nero tradimento; imperocchè chi una volta ha posto il piede in una via di malvagità e di periglio non è più padrone di fermarsi, e spesso una fatalità , che gli è di giusta pena, lo spinge a delitti, dalla idea dei quali egli avrebbe dapprima rifuggito con raccapriccio. E davvero era visibile la mano di qualche Santo protettore in ciò, che un Re sì devoto alla Chiesa Cattolica, nel momento medesimo in cui correva a gran passi alla cattività , e forse alla morte, fosse stato improvvisamente impedito da quella chʼegli aveva giudicata pericolosa infermità .LX. Tutte coteste cose raffermarono lʼanimo del Re nel pensiero chʼegli aveva fatto la sera antecedente. Ordinò una sùbita ritirata. Salisbury fu tutta in subuglio. Il campo levossi con tal confusione che rendeva immagine dʼuna fuga. Niuno sapeva di chi fidarsi, e a cui obbedire. La forza materiale dello esercito era di poco scemata; ma la morale non era più. Molti, che la vergogna frenava dal correre al quartiere generale del Principe, affrettaronsi a seguire lo esempio dal quale avrebbero ognora aborrito; e molti che avrebbero difeso il Re mentre pareva risolutamente correre incontro aglʼinvasori, non si sentirono inchinevoli a seguire un vessillo che fuggiva.[539]Giacomo quel giorno giunse ad Andover. Lo accompagnavano il Principe Giorgio suo genero, e il Duca dʼOrmond. Entrambi erano fraʼ cospiratori, e avrebbero forse tenuto dietro a Churchill, ove questi, a cagione di ciò che seguì nel consiglio di guerra, non avesse reputato più utile partirsi allo improvviso. La impenetrabile stupidità del Principe Giorgio in questa occasione gli fu più utile di ciò che sarebbe stata lʼastuzia. Ogni qualvolta udiva alcun che di nuovo, egli aveva il vezzo di esclamare in francese: «Est-il possible?» Questo ritornello adesso gli fu di grande utilità . «Est-il possible?» gridò egli come seppe che Churchill e Grafton se nʼerano andati. Ed appena giunte le sinistre nuove di Warminster, esclamò nuovamente: «Est-il possible?»LXI. Il Principe Giorgio ed Ormond in Andover furono invitati a cenare col Re. Tristissima cena! Il Re gemeva sottola soma delle sue sciagure. Il suo genero gli teneva stupidissima compagnia. «Io ho saggiato il Principe Giorgio mentre era sobrio,» diceva Carlo II, «e lʼho saggiato mentre era ubriaco; e o briaco o sobrio non val nulla.»[540]Ormond, che per indole era timido e taciturno, non era verosimile che fosse dʼallegro umore in quel momento. Alla perfine la cena terminò. Il Re si ritrasse a riposare. Il Principe ed Ormond, appena Giacomo sorse da mensa, montando sui cavalli che erano lì pronti, partironsi, accompagnati dal Conte di Drumlanrig, figlio primogenito del Duca di Queensberry. La defezione di questo giovine Nobile non era cosa di poca importanza; imperocchè Queensberry era il capo dei protestanti episcopali di Scozia, setta al cui paragone i più esagerati Tory inglesi potevano considerarsi pressochè Whig; e lo stesso Drumlanrig era luogotenente colonnello del reggimento di Dundee, banda dai Whig detestata più degli Agnelli di Kirke. La mattina appresso fu recato al Re lo annunzio di questa nuova sciagura, e se ne mostrò meno dolente di quel che si sarebbe supposto. Il colpo da lui ricevuto ventiquattro ore innanzi lo aveva apparecchiato quasi a qualunque disastro, e non poteva seriamente adirarsi del Principe Giorgio,—il quale era uomo da non farsene nessun conto,—per avere ceduto alle arti dʼun tentatore quale era Churchill. «E che!Est-il possiblese ne è andato anche egli?» disse Giacomo. «Al postutto sarebbe stata maggiore la perdita di un buon soldato.»[541]Per dir vero, eʼ sembra che in quel tempo tutta la collera del Re fosse accentrata, e non senza cagione, sopra un solo uomo. Prese la via di Londra, ardendo di vendetta contro Churchill, ed appena giuntovi seppe che lʼarcingannatore aveva commesso un nuovo delitto. La Principessa Anna da parecchie ore era sparita.LXII. Anna, la quale altra volontà non aveva che quella dei Churchill, una settimana innanzi era stata da loro persuasa a scrivere di propria mano a Guglielmo, significandogli che approvava la impresa. Assicuravalo chʼella trovavasi interamentenelle mani deʼ suoi amici, e che sarebbe rimasta in palazzo o sarebbesi rifugiata nella Città a seconda del loro consiglio.[542]La domenica, 25 novembre, ella e coloro che per lei pensavano, trovaronsi nella necessità di prendere una improvvisa deliberazione. Nel pomeriggio di quel dì stesso un corriere da Salisbury recò la nuova che Churchill era scomparso, chʼera stato accompagnato da Grafton, che Kirke aveva tradito, e che le milizie regie frettolosamente ritiravansi. Quella sera le sale di Whitehall erano affollate da immenso numero di persone come usualmente avveniva quando una grave notizia buona o cattiva giungeva alla città . La curiosità e lʼansietà erano dipinte nel viso di ciascuno. La Regina proruppe naturalmente in parole di sdegno contro il capo deʼ traditori, e non risparmiò la sua troppo compiacente protettrice. Nella parte del palazzo abitata da Anna furono raddoppiate le sentinelle. La Principessa era atterrita. Tra poche ore il padre sarebbe giunto a Westminster. Non era verosimile che lʼavrebbe personalmente trattata con severità ; ma non era da sperarsi chʼegli le permetterebbe di godere più a lungo della compagnia della sua diletta amica. Mal poteva dubitarsi che Sara verrebbe arrestata e sottoposta al rigoroso esame di astuti e crudi inquisitori. Le sue carte sarebbero sequestrate. Forse si scoprirebbe qualche documento che mettesse in pericolo la sua vita. Ed ove ciò fosse, vʼera da temere di peggio. La vendetta dello implacabile Re non conosceva distinzione di sesso. Per delitti molto più lievi di quelli che probabilmente verrebbero imputati a Lady Churchill, aveva mandate donne alle forche e al ceppo. La forza dello affetto infiammò lʼanimo debole della Principessa. Non vʼera vincolo chʼella non fosse pronta a rompere, non rischio a correre per lʼoggetto del suo immenso amore. «Mi getterò giù dalla finestra» gridò ella «piuttosto che lasciarmi trovare qui da mio padre.» Lady Churchill sʼincaricò di apparecchiare la fuga. Si pose frettolosamente in comunicazione con alcuni capi della congiura. In poche ore ogni cosa fu pronta. Quella sera Anna si ritrasse, secondo il consueto modo, alle sue stanze. Sul cadere della notte levossi, ed accompagnata dallʼamicaSara e da due altre donne discese per le secrete scale in veste da camera e in pianelle. Le fuggenti giunsero nella strada senza ostacolo, dove le attendeva una carrozza dʼaffitto, dinanzi al cui sportello stavano due uomini. Uno era Compton Vescovo di Londra, vecchio ajo della Principessa; lʼaltro era il magnifico e squisito Dorset, che vedendo la grandezza del pubblico pericolo erasi destato dal suo voluttuoso far niente. La carrozza tosto si diresse ad Aldersgate Street, dove allora sorgeva lʼabitazione di città deʼ Vescovi di Londra, accanto alla Cattedrale. Ivi la Principessa passò la notte. Il dì seguente partì per Epping Forest. In queʼ selvaggi luoghi Dorset possedeva una veneranda magione, oggimai da lungo tempo distrutta. Sotto il suo tetto ospitale che da molti anni era il favorito ritrovo deʼ begli spiriti e deʼ poeti, i fuggitivi fecero breve soggiorno. Non potevano sperare di giungere in sicurtà al campo di Guglielmo, perocchè il cammino era occupato dalle regie milizie. Fu quindi deliberato che Anna riparasse fra mezzo agli insorti delle contrade settentrionali. Compton per allora dismesse al tutto il suo carattere sacerdotale. Il pericolo e il conflitto gli avevano riacceso nel cuore tutto il fuoco guerriero onde era pieno ventotto anni innanzi, allorquando cavalcava fra le Guardie del Corpo. Ei precedeva il cocchio della Principessa, vestito dʼun giustacore di cuojo di bufalo, grandi stivali, spada a fianco, e pistole allʼarcione. Innanzi di giungere a Nottingham trovossi circondata da un drappello di gentiluomini che volontariamente erano corsi a scortarla. Costoro invitarono il Vescovo a farsi loro colonnello; ed egli vi consentì con alacrità tale da scandalizzarne i rigidi Anglicani, e da non acquistargli grande reputazione agli occhi deʼ Whig.[543]LXIII. Allorquando la mattina del dì 26 lo appartamento di Anna fu trovato vuoto, nacque grande costernazione in Whitehall. Mentre le sue cameriste correvano su e giù peʼ cortilidel palazzo strillando e torcendosi le mani, mentre Lord Craven comandante delle Guardie a piedi interrogava le sentinelle della galleria, mentre il Cancelliere poneva i suggelli alle carte deʼ Churchill, la nudrice della Principessa negli appartamenti del Re piangeva gridando che la sua diletta signora era stata assassinata dai papisti. La nuova volò a Westminster Hall. Ivi si disse che Sua Altezza era stata trascinata a forza e in qualche luogo imprigionata. Quando non fu più possibile negare che la sua fuga era stata volontaria, sʼinventarono mille ciarle a spiegarne la cagione. Era stata villanamente insultata e minacciata; anzi, quantunque si trovasse in quella condizione in cui la donna merita peculiarmente lʼaltrui tenerezza, era stata battuta dalla sua crudele madrigna. La plebe, da molti anni di pessimo governo resa sospettosa e irritabile, venne in tanto concitamento per queste calunnie, che la Regina non si teneva sicura. Molti Tory cattolici e alcuni protestanti, la cui lealtà era incrollabile, corsero alla reggia pronti a difenderla ove seguisse uno scoppio dʼira popolare. Fra mezzo a tanta perturbazione e a tanto terrore giunse la nuova della fuga del Principe Giorgio. Poco dopo verso sera arrivò il Re, al quale fu annunziato la sua figlia essere scomparsa. Dopo tanti patimenti questʼultima afflizione gli strappò dalle labbra un doloroso grido: «Dio mi soccorra, anche i miei figli mi hanno abbandonato!»[544]Quella sera fino a tardi sedè in consiglio coʼ suoi principali ministri. Fu deliberato di intimare a tutti i Lordi spirituali e secolari che allora trovavansi in Londra, che comparissero la dimane al suo cospetto, onde richiederli solennemente di consiglio. Per la qual cosa, il pomeriggio del martedì 27, i Lordi adunaronsi nella sala da pranzo del palazzo. Lʼassemblea era composta di nove prelati e fra trenta e quaranta Nobili secolari, tutti protestanti. I due Segretari di Stato, Middleton e Preston, quantunque non fossero Pari dʼInghilterra, erano presenti. Il Re presedeva in persona. Gli si leggeva sul viso e nello atteggiamento chʼegli soffriva dʼanima edi corpo. Aperse la ragunanza facendo capo dalla petizione che gli era stata presentata poco innanzi la sua partenza per Salisbury. In quella petizione veniva pregato a convocare un libero Parlamento. Disse che nelle condizioni in cui egli allora trovavasi, non aveva reputato opportuno acconsentire. Ma nel tempo della sua assenza da Londra erano seguiti gravissimi mutamenti. Aveva parimente notato che il suo popolo dappertutto mostrava bramosia di vedere adunate le Camere. Per tutte queste cose egli chiamava a consiglio i suoi Pari fedeli, perchè gli manifestassero il loro parere.Per qualche tempo eʼ fu silenzio, finchè Oxford, la cui famiglia, per antichità e magnificenza superiore a tutte, gli dava una specie di primato nella ragunanza, disse che secondo la sua opinione queʼ Lordi i quali avevano sottoscritta la petizione, cui la Maestà Sua accennava, erano in debito di manifestare i loro pensieri.Queste parole mossero Rochester a favellare. Difese la petizione e dichiarò di non vedere altra speranza per il trono e il paese che la convocazione dʼun libero Parlamento. Disse non volere rischiarsi ad affermare che in tanto grave estremità , anche quel rimedio potesse tornare efficace: ma non ne aveva altro da proporre. Aggiunse parergli sano partito aprire pratiche col Principe dʼOrange. Jeffreys e Godolphin parlarono dopo, ed entrambi dichiararono essere della medesima opinione di Rochester.Allora sorse Clarendon, e, con somma maraviglia di quanti rammentavano le sue proteste di lealtà , e i suoi disperati affanni e il rossore cui si era abbandonato, solo pochi giorni innanzi, per la diserzione del proprio figliuolo, proruppe in virulenti invettive contro la tirannide e il papismo. «Anche adesso» disse egli «Sua Maestà in Londra fa leva dʼun reggimento al quale non è ammesso nessun protestante.»—«Non è vero!» gridò dal seggio Giacomo grandemente agitato. Clarendon insisteva, e lasciò da parte questo offensivo subietto per passare ad un altro maggiormente offensivo. Accusò lo sventurato Re di pusillanimità . Perchè ritirarsi da Salisbury? Perchè non tentare le sorti dʼuna battaglia? Era forse da biasimarsi il popolo se cedeva ad un invasorementre vedeva il proprio Re fuggire insieme con la sua armata? Giacomo sentì amaramente cotesti insulti, e ne serbò lunga ricordanza. E davvero gli stessi Whig reputarono indecenti e poco generose le parole di Clarendon. Halifax parlò in modo diverso. Per molti anni di pericolo aveva con ammirevole abilità difeso la costituzione civile ed ecclesiastica del paese contro la regia prerogativa. Ma il suo lucido intendimento, singolarmente nemico dʼogni entusiasmo, ed avverso agli estremi, cominciò a pendere verso la causa del Sovrano nel momento stesso nel quale queʼ romorosi realisti, che poco innanzi avevano esecrato i Barcamenanti quasi fossero ribelli, alzavano il vessillo della ribellione. Egli ambiva, in quella congiuntura, a farsi paciere fra il trono e la nazione. A ciò lo rendevano adatto lo ingegno e il carattere; e se non vi riuscì, deve attribuirsi a certe cagioni, a vincere le quali non era destrezza che bastasse, e precipuamente alla follia, slealtà , ed ostinatezza del Principe chʼegli si studiava di salvare.Halifax disse non poche verità spiacevoli a Giacomo, ma con tal delicatezza da meritargli la taccia dʼadulatore da parte di quegli abietti spiriti, i quali non sanno intendere come ciò che giustamente merita il nome di adulazione quando è diretto al potente, sia debito dʼumanità quando si rivolge al caduto. Con mille espressioni di simpatia e deferenza, dichiarò essere dʼavviso che il Re dovesse oggimai apparecchiarsi a fare grandi sacrifici. Non bastava convocare un libero Parlamento o iniziare pratiche dʼaccordo col Principe dʼOrange. Era necessario fare ragione almeno ad alcuni deʼ torti di cui moveva lamento la nazione, senza attendere che lo esigessero le Camere o il Capitano dello esercito nemico. Nottingham con parole egualmente rispettose fece eco a quelle di Halifax. Le principali concessioni che i Lordi volevano che il Re facesse erano queste: cacciare dagli uffici tutti i Cattolici Romani; separarsi interamente dalla Francia; e concedere illimitata amnistia a tutti coloro che avevano prese le armi contro lui. Pareva che intorno allʼultima di coteste concessioni non fosse da disputare. Imperocchè, quantunque coloro che pugnavano contro il Re avessero agito in modo da suscitargli in cuore,non senza ragione, il più acre risentimento, era più verosimile chʼegli si trovasse tra breve in loro balìa, che essi nella sua. Sarebbe stata cosa puerile iniziare pratiche dʼaccordo con Guglielmo, e nello stesso tempo riserbarsi il diritto di vendetta contro coloro che Guglielmo non poteva senza infamia lasciare in abbandono. Ma lo intenebrato intendimento e lʼindole implacabile di Giacomo resisterono lungamente alle ragioni addotte da coloro che affaticavansi a convincerlo essere opera da savio perdonare delitti chʼegli non poteva punire. «Non posso acconsentire,» esclamò egli. «È mestieri chʼio dia degli esempi: Churchill sopra tutti, Churchill, quel desso chʼio inalzai tanto. Egli è la sola cagione di tanto male. Egli ha corrotta la mia armata. Egli ha corrotta la mia figliuola. Egli mi avrebbe dato in mano al Principe dʼOrange, se non mi avesse soccorso la mano di Dio. Milordi, voi siete stranamente ansiosi per la salvezza deʼ traditori, e nessuno di voi si dà il minimo pensiero della mia.» In risposta a questo scoppio dʼira impotente, coloro i quali lo avevano esortato a concedere lʼamnistia, gli mostrarono con profondo rispetto, ma con fermezza, che un Principe aggredito da potenti nemici non può trovare scampo se non nella vittoria o nella riconciliazione. «Se la Maestà Vostra, dopo ciò che è accaduto, vede tuttavia speranza alcuna di salvezza nelle armi, lʼopera nostra è finita: ma se non ha questa speranza, non le resta altra à ncora di salute che il riacquistare lo affetto del popolo.» Dopo una lunga e calorosa discussione, il Re sciolse la ragunanza dicendo: «Milordi, voi avete usata meco gran libertà di parole; ma non me ne ho per male. Oramai mi son messo in capo una cosa, e vi rimango irremovibile, cioè, convocherò il Parlamento. Gli altri consigli che mi avete pôrti sono di grave momento: nè vi dee far meraviglia se innanzi di decidere, io prendo tempo una notte a pensarvi sopra.»[545]LXIV. Primamente Giacomo parve disposto a bene giovarsi del tempo da lui preso a riflettere. Al Cancelliere fu fatto comandamento di scrivere il decreto a convocare il Parlamento pel dì 13 gennaio. Halifax fu chiamato al palazzo, ed ebbe una lunga udienza, e parlò molto più liberamente di quello che egli aveva reputato decoroso di fare al cospetto dʼuna numerosa assemblea. Gli fu detto dʼessere stato nominato commissario per trattare col Principe dʼOrange. In questo ufficio gli furono dati a compagni Nottingham e Godolphin. Il Re dichiarò dʼessere parato a fare grandi sacrifici per amore della pace. Halifax rispose chʼera dʼuopo farli pur troppo. «Vostra Maestà » disse egli «non deve aspettarsi che coloro i quali hanno in mano il potere, consentano a patti che lascino le leggi in balìa della regia prerogativa.» Con questa distinta dichiarazione delle sue mire, egli accettò la commissione che il Re desiderava affidargli.[546]Le concessioni che poche ore innanzi erano state ostinatissimamente respinte, adesso furono fatte in modo liberalissimo. Fu pubblicato un proclama nel quale il Re non solo concedeva pieno perdono a tutti i ribelli, ma li dichiarò elegibili al prossimo Parlamento. Nè anche si richiedeva come condizione dʼelegibilità che dovessero porre giù le armi. La medesima Gazzetta che annunziava la prossima ragunanza delle Camere, conteneva la notificazione che Sir Eduardo Hales, il quale, come papista, rinnegato e precipuo campione della potestà di dispensare, ecome duro carceriere deʼ Vescovi, era uno degli uomini più impopolari del Regno, aveva cessato di essere Luogotenente della Torre, e gli aveva succeduto Bevil Skelton, dianzi suo prigione, il quale quantunque avesse poca riputazione presso i suoi concittadini, almeno non difettava dei necessari requisiti ad occupare un pubblico ufficio.[547]LXV. Se non che coteste concessioni erano dirette solo ad abbacinare i Lordi e la nazione per nascondere i veri disegni del Re. Egli aveva secretamente deliberato, anche in quellʼora di pericolo, di non voler cedere in nulla. Nel giorno medesimo, in cui pubblicò il proclama dʼamnistia, spiegò pienamente le proprie intenzioni a Barillon. «Queste pratiche dʼaccordo» disse Giacomo «sono una pretta finzione. È mestieri chʼio mandi commissari a mio nipote, affinchè io acquisti tempo ad imbarcare la mia moglie e il Principe di Galles. Voi conoscete gli umori delle mie truppe. Di nessuno altro che deglʼIrlandesi io potrei fidarmi; e glʼIrlandesi non sono in numero bastevole a resistere allʼinimico. Il Parlamento mʼimporrebbe patti chʼio non potrei sopportare. Sarei forzato a disfare ciò che ho già fatto a pro deʼ Cattolici, ed a romperla col Re di Francia. E però, appena la Regina e mio figlio saranno in salvo, partirò dalla Inghilterra e cercherò rifugio in Irlanda, in Iscozia, o presso il vostro signore.»[548]E già il Re aveva fatti i preparamenti bisognevoli a mandare questo disegno ad esecuzione. Dover era stato spedito a Portsmouth con ordine di aver cura del Principe di Galles; e a Dartmouth, che ivi comandava la flotta, era stato ingiunto dʼobbedire a Dover in tutto ciò che concernesse il regio infante, e di tenere prontissimo a far vela per la Francia, appena ricevutone lʼavviso, un naviglio equipaggiato da marinaj fedeli.[549]Il Re quindi mandò ordini positivi perchè lo infante fosse subito condotto al più vicino porto del continente.[550]Dopoil Principe di Galles, il primo pensiero del Re era il Gran Sigillo. A questo simbolo della regia autorità i nostri giureconsulti hanno sempre attribuito una quasi misteriosa importanza. Ammettono che se il Cancelliere, senza licenza del Re, lo apponga ad un diploma di parìa o a un decreto di grazia, quantunque ei si renda colpevole di grave delitto, il documento non può essere posto in questione da nessuna Corte di legge, e può essere annullato solo da un atto parlamentare. Eʼ sembra che Giacomo paventasse che questo strumento della sua volontà potesse cadere nelle mani deʼ suoi nemici, i quali con esso potrebbero dare validità legale ad atti che lo avrebbero potuto gravemente danneggiare. Nè i suoi timori sono da reputarsi irragionevoli sempre che si rammenti che appunto cento anni più tardi il Gran Sigillo di un Re fu adoperato, con lo assenso deʼ Lordi e deʼ Comuni, e con lʼapprovazione di molti incliti statisti e giureconsulti, a fine di trasferire al figliuolo le prerogative di lui. Perchè non si facesse abuso del talismano che aveva tanto formidabile potenza, Giacomo deliberò di tenerlo a brevissima distanza dal suo gabinetto. Per la qual cosa ingiunse a Jeffreys di sloggiare dalla casa da lui di recente edificata in Duke Street, e di risedere in un piccolo appartamento di Whitehall.[551]LXVI. Il Re aveva fatto ogni apparecchio a fuggire, allorquando un inatteso ostacolo lo costrinse a differire la esecuzione del proprio disegno. I suoi agenti in Portsmouth cominciarono a scrupoleggiare. Lo stesso Dover, ancorchè fosse uno della cabala gesuitica, mostrò segni di titubanza. Dartmouth era anche meno inchinevole ad obbedire alle voglie del Re. Fino allora sʼera mantenuto fedele al trono, ed aveva fatto il possibile, con una flotta disaffezionata e col vento contrario, per impedire che gli Olandesi sbarcassero in Inghilterra; ma era membro zelante della Chiesa stabilita, e in nessuna maniera partigiano della politica di quel governo chʼegli si reputava tenuto, per debito e per onore, a difendere. I torbidi umori degli ufficiali e degli altri uomini a lui sottoposti gli recavano non poca ansietà ; ed era giunta opportuna ad alleggiargli lʼanimo la nuova della convocazione dʼun libero Parlamento,e della nomina deʼ commissari a trattare col Principe dʼOrange. La flotta ne fece clamoroso tripudio. Un indirizzo onde ringraziare il Re per queste generose concessioni fatte allʼopinione pubblica fu scritto sul bordo della nave capitana. Lo ammiraglio fu il primo a firmare. Trentotto capitani, dopo lui, vi apposero i loro nomi. Mentre questo documento era recato a Whitehall, giunse a Portsmouth il messo che recava lʼordine di condurre in sullʼistante il Principe di Galles in Francia. Dartmouth seppe, e ne provò amaro dolore e risentimento, il libero Parlamento, la generale amnistia, le pratiche collʼinimico, altro non essere che parte dʼun grande inganno ordito contro la nazione, del quale inganno egli doveva essere complice. In una patetica ed animosa lettera dichiarò dʼavere ormai obbedito fino al punto oltre il quale ad un protestante e ad un Inglese non era lecito andare. Porre lo erede presuntivo della corona britannica nelle mani di Luigi sarebbe stato niente meno che tradimento contro la monarchia; lo che avrebbe resa furibonda la nazione della quale il Sovrano aveva pur troppo perduto lo affetto. Il Principe di Galles non sarebbe mai più ritornato, o ritornerebbe condotto in Inghilterra da unʼarmata francese. Ove Sua Altezza rimanesse nellʼisola, il peggio che sarebbe potuto accadere era di vederlo educare in seno alla Chiesa nazionale; e chʼegli fosse siffattamente educato doveva essere il desiderio dʼogni suddito leale. Dartmouth concludeva dichiarandosi pronto a rischiare la propria vita per la difesa del trono, ma protestava di non volere partecipare al trasferimento del Principe in Francia.[552]Questa lettera sconcertò tutti i disegni di Giacomo. Sʼaccôrse, inoltre, di non potere in questa circostanza aspettarsi obbedienza passiva dal suo ammiraglio: imperocchè Dartmouth era giunto fino a porre parecchie scialuppe alla bocca del porto di Portsmouth con ordine di non lasciar passare nessunlegno senza prima esaminarlo. Era quindi necessario fare altri provvedimenti; era mestieri condurre il bambino a Londra, e da quivi mandarlo in Francia. A far ciò bisognava passassero alcuni giorni. Frattanto era dʼuopo lusingare il popolo con la speranza dʼun libero Parlamento e con la simulazione di trattare col Principe dʼOrange. Furono quindi spediti i decreti per le elezioni. I trombetti andavano e venivano dalla metropoli al quartiere generale degli Olandesi. Infine giunsero i salvocondotti pei tre Commissari regi, i quali partirono pel campo nemico.LXVII. Lasciarono Londra tremendamente agitata. Le passioni che pel corso di tre anni di perturbazioni, sʼerano gradualmente rinvigorite, adesso, libere da ogni freno di timore, e stimolate dalla vittoria e dalla simpatia, mostravansi senza maschera perfino dentro la reggia. I Gran Giurati di Middlessex pronunciarono un atto dʼaccusa contro il Conte di Salisbury per avere abbracciato il papismo.[553]Il Lord Gonfaloniere ordinò che le case deʼ cattolici romani nella Città venissero perquisite onde vedere se contenessero armi. La plebaglia irruppe nellʼabitazione di un rispettabile mercatante cattolico, per sincerarsi sʼegli avesse scavata una mina dalla sua cantina fino alla chiesa parrocchiale onde far saltare in aria il parroco e i congregati.[554]I merciaioli per le vie gridavano vendendo satire contro Padre Petre, il quale sʼera sottratto, e non quando era ancor tempo, dal suo appartamento in palazzo.[555]La celebre canzone di Wharton con molti versi aggiunti cantavasi più che mai ad alta voce in tutte le strade della metropoli. Le stesse sentinelle che guardavano il palazzo cantavano sotto voce: «GlʼInglesi bevono a confusione del Papismo,Lillibullero bullen a la.» Le tipografie clandestine di Londra lavoravano senza posa. Molti fogli correvano giornalmente per la città , nè i magistrati avevano modo o non volevano scoprire per quali mezzi.LXVIII. Uno di questi scritti hanno salvato dallʼobliola singolare audacia onde era composto e lo immenso effetto che produsse. Simulava dʼessere un supplemento al Manifesto del Principe dʼOrange, scritto di suo pugno e munito del suo sigillo: ma lo stile era molto diverso da quello del Manifesto vero. Minacciava vendetta, senza riguardo alle costumanze deʼ popoli inciviliti e cristiani, contro tutti quei papisti che osassero parteggiare pel Re. Verrebbero trattati non come soldati o gentiluomini, ma come predoni. La ferocia e licenza dellʼarmata degli invasori che una vigorosa mano aveva fino allora rattenuti, sarebbe lasciata senza freno contro i papisti. I buoni protestanti, e in ispecie coloro che abitavano nella metropoli, venivano esortati, a nome di quanto avevano di più caro al mondo, e comandati, sotto pena dello sdegno del Principe, a prendere, disarmare e condurre in carcere i Cattolici loro vicini. Dicesi che questo documento una mattina fosse trovato da un libraio Whig allʼuscio della sua bottega. Affrettossi a stamparlo. Molti esemplari ne furono spediti per la posta e corsero rapidamente per le mani di tutti. Gli uomini savi non esitarono a reputarlo scrittura foggiata da qualche irrequieto e immorale avventuriere della razza di coloro che nei tempi torbidi sono sempre pronti ad eseguire i più vili e tenebrosi uffici delle fazioni. Ma la moltitudine restò presa allʼamo. E veramente a tal punto era stato concitato il sentimento nazionale e religioso contro i papisti irlandesi, che la maggior parte di coloro, i quali non reputavano autentico quello scritto spurio, inclinavano ad applaudirlo come opportuno esempio di energia. Come si seppe che Guglielmo non ne era lo autore, tutti interrogavansi a vicenda chi fosse lo impostore che con tanta audacia e tanto effetto aveva presa la maschera di Sua Altezza. Alcuni sospettarono di Ferguson, altri di Johnson. Finalmente dopo ventisette anni Ugo Speke confessò dʼaverlo egli composto, e chiese alla Casa di Brunswick una rimunerazione per avere reso alla religione protestante un così segnalato servigio. Asserì, col tono di chi creda avere fatto cosa eminentemente virtuosa ed onorevole, che quando la invasione olandese aveva gettato Whitehall nella costernazione, egli sʼera profferto alla Corte, e simulando rottura coʼ Whig, aveva promesso dispiarne i passi; che con tale mezzo era stato ammesso al cospetto del Re, aveva giurato fedeltà , gli era stata promessa pecunia in gran copia, e sʼera procurato deʼ segnali con che poteva andare e venire nel campo nemico. Protestò di avere fatte tutte coteste cose col solo scopo di avventare senza sospetto un colpo mortale al Governo, e far nascere nel popolo un violento scoppio di sdegno contro i Cattolici Romani. Disse che il falso Manifesto era uno deʼ mezzi da lui divisati: ma è da dubitare se le sue pretensioni fossero bene fondate. Imperocchè indugiò tanto a dirlo da farci ragionevolmente sospettare chʼegli aspettasse la morte di chi poteva contradirgli; oltrechè non addusse altra testimonianza che la propria asserzione.[556]LXIX. Mentre le cose sopra narrate succedevano in Londra, ogni corriere postale da tutte le parti del Regno recava la notizia di qualche novella insurrezione. Lumley aveva presa Newcastle. Gli abitatori lo avevano accolto con gioia. La statua del Re, che sorgeva sopra un alto piedistallo di marmo, era stata rovesciata e gettata nel Tyne. Fu lungamente serbata in Hull la memoria del 3 dicembre, come giorno della presa della città . Vʼera un presidio sotto il comando di Lord Langdale cattolico romano. Gli ufficiali protestanti concertarono colla magistratura un piano dʼinsurrezione: Langdale e i suoi fautori furono arrestati; e i soldati e i cittadini si congiunsero a favore della religione protestante e dʼun libero Parlamento.[557]Le contrade orientali erano anche esse insorte. Il Duca di Norfolk, seguito da trecento gentiluomini bene armati a cavallo, comparve nella vasta piazza di mercato in Norwich. Il Gonfaloniere e gli Aldermanni corsero a lui e promisero di collegarsi con lui contro il papismo e la tirannide.[558]Lord Herbert di Cherbury e Sir Eduardo Harley presero le armi nellaContea di Worchester.[559]Bristol, seconda città del reame, aprì le sue porte a Shrewsbury. Il Vescovo Trelawney, il quale nella Torre aveva disimparato affatto la dottrina della non resistenza, fu il primo a far plauso alla venuta delle truppe del Principe. Siffatti erano gli umori degli abitanti, che non sʼera creduto necessario lasciare fra loro una guarnigione.[560]La popolazione di Gloucester insorse e liberò di prigione Lovelace, il quale si vide tosto raccogliere dintorno unʼarmata irregolare. Alcuni deʼ suoi cavalieri avevano semplici cavezze invece di briglie. Molti deʼ suoi fanti per tuttʼarme avevano bastoni. Ma queste schiere, comunque si fossero, marciarono senza contrasto traverso alle Contee già sì fide alla Casa Stuarda, e infine entrarono trionfanti in Oxford. Corsero loro incontro solennemente i magistrati. La stessa Università , esasperata dagli oltraggi dianzi sostenuti, era poco inchinevole a disapprovare la ribellione. Già alcuni deʼ capi dei Collegi avevano spedito un loro rappresentante per riferire al Principe dʼOrange che essi di tutto cuore erano per lui, e pronti a fondere, ove bisognasse, le loro argenterie. Per lo che il condottiero Whig cavalcò per la città principale deʼ Tory fra le acclamazioni universali. Lo precedevano i tamburi sonando il Lillibullero. Gli teneva dietro una vasta onda di cavalli e di fanti. Tutta High Street era parata con drappi color dʼarancio, imperocchè questo colore aveva già il doppio significato, che dopo centosessanta anni serba tuttavia, voglio dire per lo Inglese protestante era emblema di libertà civile e religiosa, pel Celta cattolico era simbolo di persecuzione e servaggio.[561]LXX. Mentre da ogni lato sorgevano nemici attorno al Re, gli amici sollecitamente lo abbandonavano. La idea della resistenza era divenuta famigliare a ciascuno. Molti che mostraronsi inorriditi allorchè ebbero la nuova delle prime diserzioni, adesso rimproveravano sè stessi dʼessere stati così lenti a conoscereil tempo. Non vʼera più ostacolo o periglio ad accorrere a Guglielmo. Il Re, chiamando la nazione ad eleggere i rappresentanti al Parlamento, aveva implicitamente autorizzato ognuno a recarsi dove avesse voti o interessi; e molti di queʼ luoghi erano già occupati daglʼinvasori o dagli insorti. Clarendon ardentemente colse il destro di abbandonare il già cadente Sovrano. Sapeva dʼaverlo mortalmente offeso col suo discorso in Consiglio: e si sentì mortificato non vedendosi nominare per uno deʼ tre regii Commissari. Egli aveva deʼ possessi nel Wiltshire. Deliberò di portare candidato per quella Contea il proprio figlio, quel desso della cui condotta egli aveva dianzi sentito dolore ed orrore; e sotto pretesto di badare alla elezione partì per il paese occidentale. Tosto gli tennero dietro il Conte dʼOxford, ed altri i quali fino allora avevano protestato di non avere nissuna relazione con la intrapresa del Principe.[562]Verso questo tempo glʼinvasori, regolarmente, comechè con lentezza, procedendo, trovavansi a settanta miglia da Londra. Quantunque il verno fosse quasi a mezzo, il tempo era bello, il cammino piacevole; e i piani di Salisbury sembravano prati amenissimi a loro che sʼerano affannati traverso alle fangose rotaje degli stradali di Devonshire e di Somersetshire. Lʼarmata procedeva accanto a Stonehenge, e i reggimenti, lʼuno dopo lʼaltro, stavansi a contemplare quelle misteriose rovine, famose per tutto il continente, come la più grande maraviglia della nostra isola. Guglielmo entrò in Salisbury con la stessa pompa militare con cui era entrato in Exeter, ed alloggiò nel palazzo, pochi giorni innanzi occupato dal Re.[563]Quivi al suo corteo si aggiunsero i Conti di Clarendon e dʼOxford ed altri cospicui personaggi, i quali fino a pochi giorni avanti erano considerati zelanti realisti. Van Citters arrivò anche egli al quartiere generale degli Olandesi. Per parecchie settimane egli era stato quasi prigione nella sua casa presso Whitehall, di continuo sorvegliato da spie che sʼavvicendavano senza perderlo dʼocchio un istante. Nondimeno,malgrado le spie, o forse per mezzo loro, gli era venuto fatto di sapere esattamente ciò che succedeva in palazzo; e adesso bene e copiosamente edotto degli uomini e delle cose, giunse al campo a giovare le deliberazioni di Guglielmo.[564]Fino a questo punto la impresa del Principe era proceduta prosperamente oltre le speranze deʼ più ardenti suoi fautori. E adesso, secondo la legge universale che governa le cose umane, la prosperità cominciò a produrre la disunione. GlʼInglesi raccolti in Salisbury si scissero in due partiti. Lʼuno era composto di Whig, i quali avevano sempre considerato le dottrine della obbedienza passiva e dello incancellabile diritto ereditario come superstizioni servili. Molti di loro avevano passato degli anni in esilio; tutti erano stati esclusi daʼ favori della Corona. Adesso esultavano vagheggiando vicinissimo il giorno della grandezza e della vendetta. Ardenti di sdegno, inebriati di vittoria e di speranza, non volevano udire a parlare di patti. Nullʼaltro fuorchè la detronizzazione del loro nemico gli avrebbe contentati: nè può negarsi che, ciò volendo, fossero a sè medesimi perfettamente coerenti. Nove anni innanzi avevano fatto ogni sforzo per escluderlo dal trono, perchè credevano chʼegli sarebbe verosimilmente stato cattivo Re. E però non era da sperarsi che lo lascerebbero volentieri sul trono dopo che lo avevano sperimentato Re oltre ogni ragionevole preveggenza cattivissimo.Dallʼaltro canto non pochi deʼ fautori di Guglielmo erano Tory zelanti, i quali fino allora avevano professata la dottrina della non resistenza nella forma più assoluta, ma la cui fede in cotesta dottrina per un istante aveva ceduto alle irruenti passioni eccitate dalla ingratitudine del Re e dal pericolo della Chiesa. Per un vecchio Cavaliere non vʼera condizione più tormentosa che quella di impugnare le armi contro il trono. Gli scrupoli che non gli avevano impedito dallo accorrere al campo degli Olandesi cominciarono, appena vi giunse, a straziargli crudelmente la coscienza, la quale lo faceva dubitare di avere commesso un delitto. In ogni evento sʼera reso meritevole di rimprovero operando in diretta opposizione ai principii di tutta la sua vita. Sentiva invincibile avversione pei suoinuovi collegati, gente, per quanto egli potesse rammentarsi, da lui sempre ingiuriata e perseguitata, cioè Presbiteriani, Indipendenti, Anabattisti, vecchi soldati di Cromwell, bravi di Shaftsbury, congiurati di Rye House, capitani della Insurrezione delle contrade occidentali. Naturalmente desiderava trovare qualche scusa che gli ponesse in pace la coscienza, lo liberasse dalla taccia dʼincoerenza, e stabilisse una distinzione tra lui e la folla deʼ ribelli scismatici, da lui sempre spregiati e aborriti, ma coi quali egli adesso correva pericolo dʼessere confuso. Per le quali cose protestava fervidamente contro ogni pensiero di strappare la corona da quella cervice resa sacra dal volere di Dio e dalle leggi del Regno. Il suo più caldo desiderio era di vedere una riconciliazione a patti non indecorosi alla dignità regia. Egli non era traditore; e a dir vero non opponeva resistenza allʼautorità del Sovrano. Era corso alle armi perchè egli era convinto che il miglior servizio che si potesse rendere al trono era quello di redimere con una lievissima coercizione la Maestà Sua dalle mani deʼ pessimi consiglieri.I mali, che la vicendevole animosità di queste fazioni tendeva a far nascere, furono in gran parte scansati per lʼautorità e saggezza del Principe. Circuito da ardenti disputatori, officiosi consiglieri, abietti adulatori, spie vigilanti, maligni ciarlieri, rimaneva sempre tranquillo senza che altri potesse leggergli nel cuore. Potendo, taceva; costretto a parlare, il tono serio e imperioso con che significava le sue bene ponderate opinioni, faceva tosto ammutolire chiunque. Qualsivoglia cosa dicessero i suoi troppo zelanti fautori, ei non profferì mai verbo che desse il minimo sospetto di ambire alla corona dʼInghilterra. Senza dubbio ben si accorgeva che fra lui e quella corona esistevano tuttavia parecchi ostacoli, i quali nessuna prudenza avrebbe potuto vincere, e potevano ad un solo passo falso diventare insormontabili. La sola probabilità chʼegli avesse di ottenere quello splendido premio non istava nello impossessarsene ruvidamente, ma nello aspettare fino a tanto che senza la minima apparenza di sforzo e dʼastuzia lo conducessero al suo arcano scopo la forza delle circostanze, gli errori deʼ suoi avversari, e la libera elezione dei tre Stati del reame. Coloro che provaronsi dʼinterrogarlo,non riuscirono a saper nulla, e nondimeno non poterono accusarlo di simulazione. Egli tranquillamente li rimandava al suo Manifesto, assicurandoli che le sue mire non erano cangiate da poi che era stato scritto quel documento. Con tanta espertezza governava gli animi dei suoi partigiani, che pare la loro discordia gli rafforzasse, anzichè indebolirgli il braccio: ma la discordia scoppiava violentissima appena sottraevansi al freno di lui, sturbava lʼarmonia deʼ conviti, e non rispettava nè anche la santità della casa di Dio. Clarendon, il quale si studiava di nascondersi agli occhi altrui e a quelli della propria coscienza, affettando con ostentazione sentimenti di lealtà —prova manifesta della sua ribellione—raccapricciò vedendo alcuni deʼ suoi colleghi col bicchiere in mano schernire lʼamnistia che il Re generosamente aveva offerta loro. Dicevano non aver bisogno di perdono: ma innanzi di finire, volevano ridurre il Re a domandare perdono a loro. Anche maggiormente impaurì e disgustò ogni buon Tory un fatto che accadde nella cattedrale di Salisbury. Appena il ministro che officiava cominciò a leggere la preghiera pel Re, Burnet, il quale fra i molti suoi pregi non annoverava la facoltà di sapere frenarsi e il senso delicato delle convenevolezze, essendo in ginocchioni, si alzò, si assise nel proprio stallo, e profferì alcune sprezzanti parole che sturbarono le divozioni degli astanti.[565]In breve le fazioni, onde era diviso il campo regio, ebbero occasione a misurare le proprie forze. I Commissari del Re erano già in viaggio. Erano corsi vari giorni dopo la loro nomina; e reputavasi strano che in un caso cotanto urgente indugiassero sì lungamente ad arrivare. Ma in verità nè Giacomo nè Guglielmo desideravano che le pratiche speditamente sʼiniziassero; imperocchè lʼuno bramava solo di acquistare il tempo bastevole a mandare in Francia la moglie e il figliuolo; e la posizione dellʼaltro si faceva ognora più vantaggiosa. Infine il Principe fece annunziare ai Commissari che gli avrebbe ricevuti in Hungerford. Probabilmente scelse questo luogo, perchè, ad uguale distanza da Salisbury e da Oxford, era bene adattato per un convegno deʼ suoi più importanti fautori. InSalisbury erano quei nobili e gentiluomini che lo avevano accompagnato da Olanda od erano corsi a trovarlo nelle contrade occidentali; ed in Oxford erano molti deʼ capi della insurrezione del paese settentrionale.LXXI. In sul tardi, giovedì 6 dicembre, giunse a Hungerford. La piccola città fu tosto ripiena di persone dʼalto grado e notevoli che vi accorrevano da diverse parti. Il Principe era scortato da un forte corpo di truppe. I Lordi del settentrione conducevano seco centinaia di cavalieri irregolari, il cui equipaggio e modo di cavalcare moveva a riso coloro chʼerano assuefatti allo splendido aspetto ed agli esatti movimenti delle armate regolari.[566]Mentre il Principe rimaneva in Hungerford ebbe luogo un accanito scontro tra dugentocinquanta deʼ suoi e seicento Irlandesi che erano appostati in Reading. Glʼinvasori in questo fatto fecero bella prova della superiorità della loro disciplina. Comechè fossero molto inferiori di numero, essi al primo assalto sgominarono le regie milizie, le quali corsero giù per le strade fino alla piazza di mercato. Quivi glʼIrlandesi tentarono di riordinarsi; ma vigorosamente aggrediti di fronte, mentre gli abitanti facevano fuoco dalle finestre delle case circostanti, tosto scoraronsi, e fuggirono perdendo la bandiera e cinquanta uomini. Dei vincitori solo cinque caddero morti. Ne gioirono tutti ugualmente i Lordi e i Gentiluomini che seguivano Guglielmo; perocchè in quel fatto non accadde nulla che offendesse il sentimento nazionale. Gli Olandesi non avevano vinto glʼInglesi, ma avevano soccorsa una città inglese a liberarsi dalla insopportabile dominazione deglʼIrlandesi.[567]La mattina del sabato, 8 dicembre, i commissari del Re giunsero a Hungerford. Le Guardie del Corpo del Principe schieraronsi a riceverli con gli onori militari. Bentinck li accolse e propose loro di condurli immediatamente al cospetto del suo signore. Manifestarono la speranza che il Principe volesse accordar loro una udienza privata; ma fu lororisposto chʼegli era deliberato di ascoltarli e rispondere in pubblico. Furono introdotti nella sua camera da letto, dove lo trovarono fra mezzo a una folla di nobili e di gentiluomini. Halifax, cui il grado, la età , lʼabilità davano il diritto di precedenza, prese a favellare. La proposta che i Commissari avevano ordine di fare era, che i punti di controversia fossero portati dinanzi al Parlamento, a convocare il quale già si stavano suggellando i decreti, e che in quel mentre lʼarmata del Principe si fermasse a trenta o quaranta miglia lontano da Londra. Halifax dopo dʼaver detto che questa era la base sopra cui egli e i suoi colleghi erano apparecchiati a trattare, pose nelle mani di Guglielmo una lettera del Re, e prese commiato. Guglielmo, schiusa la lettera, parve oltre lʼusato commuoversi. Era la prima che ricevesse dal suocero dopo che erano in aperta rottura. Un tempo erano stati in buone relazioni e familiarmente carteggiavano; nè anco dopo che entrambi avevano cominciato a sospettarsi ed aborrirsi vicendevolmente sʼerano astenuti nelle loro lettere da quelle forme di cortesia che comunemente adoperano le persone strettamente congiunte coʼ vincoli del sangue e del matrimonio. La lettera recata daʼ Commissari era scritta da un segretario in forma diplomatica e in lingua francese. «Ho avute molte lettere del Re,» disse Guglielmo, «ma tutte sempre in inglese e scritte di suo pugno.» Favellò con una sensibilità chʼegli era poco assuefatto a mostrare. Forse in quello istante pensava quanto rimprovero dovesse arrecare a lui e alla consorte, così a lui affettuosa, la sua intrapresa, comechè fosse giusta, benefica e necessaria. Forse rammaricavasi della durezza del destino, il quale lo aveva ridotto a una condizione tale chʼei non poteva adempiere ai suoi doveri pubblici senza frangere i domestici vincoli, e invidiava lo avventuroso stato di coloro che non sono responsabili della salvezza delle nazioni e delle Chiese. Ma siffatti pensieri, se pure gli sorsero in mente, ei fermamente represse. Esortò i Lordi e i Gentiluomini, da lui convocati in questa occasione, a consultare insieme, senza lo impaccio della sua presenza, intorno alla risposta da farsi al Re. Riserbossi non per tanto la potestà della decisione finale dopo avere ascoltati i loro consigli. Quindi lasciolli, e si ritiròa Littlecote Hall, magione rurale giacente a circa due miglia di distanza, e famosa fino ai tempi nostri non tanto per la sua veneranda architettura e i suoi begli arredi, quanto per un orribile e misterioso delitto ivi commesso neʼ tempi dei Tudor.[568]Innanzi che si allontanasse da Hungerford gli fu detto che Halifax aveva desiderato di abboccarsi con Burnet. In questo desiderio non era nulla di strano; imperocchè Halifax e Burnet avevano da lungo tempo avuto relazioni dʼamicizia. E per vero dire non vʼerano due uomini che così poco si rassomigliassero. Burnet era estremamente privo di delicatezza e di tatto. Halifax aveva delicatissimo gusto, e fortissima tendenza al dileggio. Burnet mirava ogni azione ed ogni carattere traverso a uno strumento scontorto e colorato dallo spirito di parte. La mente di Halifax inchinava a scoprire i falli deʼ suoi colleghi più presto che quelli degli avversari. Burnet, non ostante le sue debolezze e le vicissitudini dʼuna vita passata in circostanze non molto favorevoli alla pietà , era uomo sinceramente pio. Lo scettico e satirico Halifax aveva taccia dʼincredulo. Halifax quindi aveva spesso provocato la sdegnosa censura di Burnet; e Burnet era spesso lo zimbello deʼ pungenti e gentili scherzi di Halifax. Nondimeno lʼuno sentivasi vicendevolmente attirato verso lʼaltro, ne amava il conversare, ne pregiava lʼabilità , liberamente ricambiava le opinioni e i buoni uffici in tempi pericolosi. Nondimeno Halifax adesso non desiderava rivedere il suo vecchio conoscente soltanto per riguardi personali. I Commissari erano di necessità ansiosi di sapere quale fosse il vero scopo del Principe. Aveva loro ricusato un colloquio privato; e poco poteva raccogliersi da ciò chʼegli potesse dire in una pubblica udienza. Quasi tutti i suoi confidenti erano uomini al pari di lui taciturni e impenetrabili. Il solo Burnet era ciarliero e indiscreto. E nondimeno le circostanze avevano fatto nascere il bisogno di fidarsi di lui; e Halifax con la sua squisita destrezza gli avrebbe indubitatamente tratto dalla bocca i secreti, agevolmente come le parole. Guglielmo sapeva tutto questo, e come gli fu detto che Halifax andava in cerca del dottore, non potè frenarsi dallo esclamare:«Se si uniranno insieme, eʼ vi sarà un bel pettegolezzo.» A Burnet fu inibito di vedere i Commissari in privato; ma con parole cortesissime gli fu detto che il Principe non aveva il più lieve sospetto della fedeltà di lui; e perchè non vi fosse cagione a dolersene, la inibizione fu generale.LXXII. Quel dì i nobili e i gentiluomini, ai quali Guglielmo aveva chiesto consiglio, adunaronsi nella gran sala del principale albergo di Hungerford. Oxford presedeva, e le proposte del Re furono prese in considerazione. Tosto si conobbe che lʼassemblea era divisa in due partiti, lʼuno deʼ quali era bramoso di venire a patti col Re, lʼaltro ne voleva la piena rovina; ed erano i più. Ma fu notato che Shrewsbury, il quale a preferenza di tutti i Nobili dʼInghilterra supponevasi godere la confidenza di Guglielmo, quantunque fosse Whig, in questa occasione era coi Tory. Dopo molto contendere fu formulata la questione. La maggioranza opinò doversi rigettare le proposte che i regii Commissari avevano ordine di fare. La deliberazione dellʼassemblea fu recata al Principe in Littlecote. In nessunʼaltra circostanza per tutto il corso della sua fortunosa vita egli mostrò maggiore prudenza e ritegno. Non poteva volere la buona riuscita dello accordo. Ma era tanto savio da conoscere, che ove le pratiche andassero a vuoto per cagione delle sue irragionevoli pretese, ei perderebbe il pubblico favore. E però, vinta la opinione deʼ suoi ardenti fautori, si dichiarò deliberatissimo a trattare sopra le basi proposte dal Re. Molti dei Lordi e dei Gentiluomini radunati in Hungerford rimostrarono: litigarono un intero giorno: ma Guglielmo rimase incrollabile nel suo proposito. Dichiarò di volere porre ogni questione nelle mani del Parlamento pur allora convocato, e di non procedere oltre a quaranta miglia da Londra. Dal canto suo fece certe domande che anche i meno inchinevoli a lodarlo reputarono moderate. Insistè perchè gli statuti vigenti rimanessero in vigore finchè venissero riformati dallʼautorità competente, e perchè chiunque occupasse un ufficio senza i requisiti legali fosse quinci innanzi destituito. Dirittamente pensava che le deliberazioni del Parlamento non potevano procedere libere, se dovesse aprirsi circondato dai reggimenti irlandesi, mentre egli e la sua armatarimanevano lontani di parecchie miglia. Per lo che reputava necessario che, dovendo le sue truppe rimanersi a quaranta miglia da Londra dalla parte occidentale, le truppe del Re si dovessero ritirare ad uguale distanza dalla parte orientale. In tal guisa rimaneva attorno al luogo, dove le Camere dovevano adunarsi, un ampio cerchio di terreno neutrale, dentro cui erano due fortezze di grande importanza per la popolazione della metropoli; la Torre cioè, che signoreggiava le abitazioni, e Tilbury Fort che signoreggiava il commercio marittimo. Era impossibile lasciare questi due luoghi senza presidio. Guglielmo quindi propose che temporaneamente venissero affidati alla Città di Londra. Sarebbe forse convenevole, che il Re, apertosi il Parlamento, se ne andasse a Westminster con un corpo di guardie. In questo caso il Principe voleva il diritto di andarvi anchʼegli con un eguale numero di soldati. Parevagli giusto, che, mentre rimanevano sospese le operazioni militari, ambedue le armate si considerassero come ai servigi della nazione inglese, e fossero pagate dallʼentrate dellʼInghilterra. Da ultimo richiese alcune guarentigie perchè il Re non si giovasse dello armistizio per introdurre forze francesi nellʼisola. Il punto di maggior pericolo era Portsmouth. Il Principe non insisteva che gli venisse data nelle mani questa importante fortezza, ma propose che, durante la tregua, fosse affidata al comando dʼun ufficiale meritevole della fiducia sua e di Giacomo.
LV. Per quanto fossero acri le parole del Re, lo erano meno di quelle che profferì dopo che i Vescovi si furono dalla sua presenza partiti. Disse dʼavere già fatto troppo sperando di gratificarsi un popolo irreverente ed ingrato; avere sempre abborrito dalla idea di fare concessioni; ma vi sʼera lasciato indurre; e adesso, come il padre suo, vedeva per prova che le concessioni rendono i sudditi più esigenti. Quinci innanzi non cederebbe in nulla, nè anche dʼun atomo; e secondo suo costume ripetè più volte e con forza: «Nè anche dʼun atomo.» Non solo non farebbe proposte agli invasori, ma non ne accetterebbe nessuna. Se gli Olandesi mandassero a chiedere tregua, il primo messaggiero sarebbe rimandato senza risposta, il secondo impiccato.[525]In tale umore Giacomo partì per Salisbury. Il suo ultimo atto, avanti di partirsi, fu di nominare un Consiglio di cinque Lordi, perchè lo rappresentassero durante la sua assenza. Deʼ cinque, due erano papisti, e per virtù della legge inabili ad occupare gli uffici. Jeffreys era con essi, ma la nazione detestavalo più dei papisti. A Preston e Godolphin, che erano gli altri due membri, non si potevanulla obiettare. Il dì, in che il Re partì da Londra, il Principe di Galles fu mandato a Portsmouth. Questa fortezza aveva uno strenuo presidio sotto il comando di Berwick. Era lì presso la flotta comandata da Dartmouth; e supponevasi, che ove le cose procedessero male, il regio infante si sarebbe senza ostacolo potuto condurre in Francia.[526]
LVI. Il dì 19, Giacomo giunse a Salisbury, e pose il suo quartiere generale nel palazzo del Vescovo. Da ogni parte gli arrivavano sinistre nuove. Le Contee occidentali alla perfine erano insorte. Appena si seppe la diserzione di Cornbury, molti ricchi possidenti presero animo ed accorsero ad Exeter. Era fra essi Sir Guglielmo Portman di Bryanstone, uno deʼ più grandi uomini della Contea di Dorset, e Sir Francesco Warre di Hestercombe che aveva somma riputazione nella Contea di Somerset.[527]Ma il più cospicuo deʼ nuovi venuti era Seymour, che aveva di recente ereditato il titolo di baronetto,—titolo che aggiungeva poco alla sua dignità ,—e per nascita, per influenza politica e per abilità parlamentare primeggiava oltre ogni paragone fraʼ gentiluomini Tory dʼInghilterra. Dicesi che nella prima udienza porgesse tale argomento dellʼaltera indole sua, che recò maraviglia e sollazzo al Principe. «Io credo, Sir Eduardo,» disse Guglielmo per usargli una cortesia «che voi siate della famiglia del Duca di Somerset.»—«Altezza, chiedo scusa,» rispose Sir Eduardo che non dimenticava mai dʼessere il capo del ramo maggiore deʼ Seymours, «il Duca di Somerset è della mia famiglia.[528]»
Il quartiere generale di Guglielmo allora cominciò a prendere la sembianza dʼuna corte. Sessanta e più personaggi cospicui per grado ed opulenza trovavansi in Exeter; e la mostra quotidiana delle ricche livree e deʼ cocchi a sei cavalli nel ricinto della Cattedrale rendeva in alcun modo immagine della magnificenza e gaiezza di Whitehall. Il basso popolo anelavadi correre alle armi, sì che sarebbe stato agevole formare molti battaglioni di fanti. Ma Schomberg, che faceva poco conto di soldati novellamente tolti allo aratro, sosteneva che ove la impresa non avesse prospero successo senza siffatto aiuto, non sarebbe riuscita affatto: e Guglielmo, che quanto Schomberg bene intendevasi dʼarte militare, era del medesimo parere. E però difficilmente concedeva commissioni di reclutare nuovi reggimenti, non accettando altri che uomini scelti.
Desideravasi che il Principe ricevesse pubblicamente in corpo tutti i nobili e i gentiluomini che sʼerano raccolti in Exeter. Rivolse loro brevi, caute e dignitose parole. Disse che sebbene non conoscesse di aspetto tutti coloro che gli stavano dinanzi, pure ne aveva notati i nomi, e sapeva quale insigne reputazione godessero nel paese loro. Dolcemente li rimproverò di lentezza ad accorrere, ma espresse la ferma speranza che non sarebbe stato troppo tardi per salvare il reame. «Adunque, o gentiluomini, amici, e confratelli protestanti,» soggiunse egli «noi con tutto il cuore diciamo a tutti voi e ai seguaci vostri, siate ben venuti alla nostra corte ed al nostro campo.»[529]
Seymour, accorto uomo politico, per la sua lunga esperienza nella tattica delle fazioni, tosto conobbe che il partito che sʼandava raccogliendo sotto il vessillo del Principe aveva mestieri dʼessere organizzato. Lo chiamava una corda di sabbia: non vʼera scopo comune o formalmente determinato; nessuno sʼera impegnato a nulla. Appena si sciolse lʼassemblea tenuta da Guglielmo nel Decanato, Seymour fece chiamare Burnet, e gli suggerì il pensiero di formare unʼassociazione, e dʼobbligare tutti glʼInglesi aderenti al Principe ad apporre le loro firme ad un documento, in cui si dichiarassero fedeli al loro condottiero e si vincolassero vicendevolmente. Burnet riferì la cosa al Principe ed a Shrewsbury, i quali lʼassentirono. Fu convocata unʼadunanza nella Cattedrale, dove fu letto, approvato, e firmato un breve documento scritto da Burnet. I soscrittori promettevano di eseguire concordementele cose contenute nel Manifesto di Guglielmo; difendere lui, ed a vicenda difendersi; fare segnalata vendetta di chi attentasse alla vita di lui, ed anche, ove siffatto attentato sventuratamente avesse effetto, persistere nella impresa finchè le libertà e la religione del paese fossero pienamente assicurate.[530]
Verso quel tempo arrivò ad Exeter un messaggiero del Conte di Bath, il quale aveva il comando di Plymouth. Bath poneva sè, le sue truppe e la fortezza da lui governata a disposizione del Principe. Glʼinvasori quindi non avevano più un solo nemico alle spalle.[531]
LVII. Mentre le contrade occidentali in tal guisa insorgevano ad affrontare il Re, le settentrionali gli divampavano dietro. Il dì 16, Delamere corse alle armi nella Contea di Chester. Convocò i suoi fittajuoli, gli esortò a seguirlo, promise loro che, ove cadessero in battaglia, ei rinnoverebbe il fitto ai loro figli, ed ammonì chiunque avesse un buon cavallo di andare al campo, o mandarvi altri in sua vece.[532]Comparve a Manchester con cinquanta armati a cavallo, il quale numero si triplicò innanzi chʼegli giungesse a Boaden Downs.
Le circostanti contrade erano in somma agitazione. Era stato provveduto che Danby prendesse York, e Devonshire si mostrasse in Nottingham. Quivi non si temeva alcuna resistenza. Ma in York trovavasi un piccolo presidio sotto il comando di Sir Giovanni Reresby. Danby agì con rara destrezza. Era stata convocata pel dì 22 novembre una ragunanza deʼ gentiluomini e deʼ possidenti della Contea di York per fare un indirizzo al Re sullo stato delle cose. Tutti i Luogotenenti deputati dei tre Ridings, vari nobili, e una folla di ricchi scudieri e di pingui possidenti erano andati alla capitale della provincia. Quattro distaccamenti di milizia civica erano sotto le armi per mantenere la pubblica tranquillità . Il palazzo comunitativo era pieno di liberi possidenti, ed era appena cominciata la discussione, allorquando levossi repentinamente il grido che i Papisti,corsi alle armi, facevano strage deʼ protestanti. I Papisti di York più verisimilmente studiavansi a cercare dove nascondersi che ad aggredire i nemici, i quali per numero li superavano in proporzione di cento ad uno. Ma in quel tempo non vi era storiella orrenda o maravigliosa delle atrocità dei Papisti, alle quali il popolo non prestasse fede. La ragunanza sgomentata si disciolse. La intera città fu in iscompiglio. In quel mentre Danby con circa cento uomini a cavallo corse dinanzi alla milizia civica gridando: «Giù il Papismo! Viva il libero Parlamento! Viva la religione protestante!» Le milizie risposero al grido. Sorpresero tosto e disarmarono il presidio. Il governatore venne arrestato; le porte furono chiuse, e in ogni dove poste sentinelle. Lasciarono che la infuriata plebe atterrasse una cappella cattolica, ma pare che non seguisse altro danno. Il dì seguente il palazzo comunitativo era pieno deʼ più notabili gentiluomini della Contea, e dei principali magistrati della città . Il Lord Gonfaloniere teneva il seggio. Danby propose di scrivere una dichiarazione nella quale fossero espresse le ragioni che inducevano gli amici della Costituzione e della religione protestante a correre alle armi. Questa dichiarazione fu calorosamente approvata, e in poche ore munita delle firme di sei Pari, di cinque baronetti, di sei cavalieri, e di molti gentiluomini di gran conto.[533]
Infrattanto Devonshire, capitanando una grossa legione di amici e dipendenti suoi, partitosi dal palagio chʼegli stava erigendo in Chatsworth, comparve armato in Derby. Quivi consegnò formalmente alle autorità municipali uno scritto in cui erano esposte le ragioni che lo avevano spinto alla impresa. Ne andò quindi a Nottingham, che tosto divenne il centro della insurrezione delle contrade settentrionali. Promulgò un proclama scritto con forti e ardite parole. Vi si diceva che il vocabolo ribellione era uno spauracchio che non poteva spaventare alcun uomo ragionevole. Era ella ribellione difendere quelle leggi e quella religione che ogni Re dʼInghilterra era tenuto per sacramento a tutelare? In che modo siffatto giuramento fosse stato osservato, era questione la quale, comesperavasi, un libero Parlamento tra breve scioglierebbe. Nel tempo stesso glʼinsorti dichiaravano di non considerare qual ribellione, ma quale legittima difesa, il resistere ad un tiranno, che, tranne la propria volontà , non conosceva legge veruna. La insurrezione del paese settentrionale diventava ogni giorno più formidabile. Quattro potenti e ricchi Conti, cioè Manchester, Stamford, Rutland, Chesterfield giunsero a Nottingham, e furono seguiti da Lord Cholmondley e da Lord Grey di Ruthyn.[534]
Intanto le due armate nel mezzogiorno facevansi lʼuna allʼaltra sempre più presso. Il Principe dʼOrange, saputo lo arrivo del Re a Salisbury, pensò essere tempo di partirsi da Exeter. Pose la città e il paese circostante sotto il governo di Sir Eduardo Seymour, e il mercoledì 21 novembre, scortato da molti deʼ più notevoli gentiluomini delle contrade occidentali, si avviò ad Axminster, dove rimase vari giorni.
Il Re ardeva di venire alle mani; ed era naturale chʼegli così bramasse. Ogni ora che passava, scemava le sue forze, ed accresceva quelle del nemico. Inoltre era importantissimo che le sue truppe venissero allo spargimento del sangue: imperciochè una grande battaglia, qualunque ne fosse lʼesito, non poteva altro che nuocere alla popolarità del Principe. Guglielmo intendeva profondamente tutto ciò, ed era deliberato di evitare, quanto più potesse, un combattimento. Dicesi che quando a Schomberg fu riferito che i nemici si appressavano deliberatissimi a combattere, rispondesse col contegno di capitano espertissimo nellʼarte sua: «Sarà come vorremo noi.» Era, nondimeno, impossibile scansare qualunque scaramuccia tra le vanguardie dei due eserciti. Guglielmo desiderava che in siffatte piccole fazioni non accadesse nulla che potesse offendere lʼorgoglio o destare il sentimento di vendetta della nazione di cui sʼera fatto liberatore. E però con ammirevole prudenza pose i suoi reggimenti inglesi in quei luoghi dove maggiore era il rischio dʼuna collisione. E perchè gli avamposti dellʼarmata regia erano Irlandesi, nei piccoli combattimenti di questa breve campagna glʼinvasori avevano seco la cordiale simpatia di tutti glʼInglesi.
LVIII. Il primo di cotesti scontri ebbe luogo in Wincanton. Il reggimento di Mackay, composto di soldati inglesi, era presso a un corpo di regie truppe irlandesi, capitanate dal valoroso Sarsfield loro concittadino. Mackay mandò un piccolo drappello deʼ suoi sotto il comando dʼun luogotenente chiamato Campbell, in cerca di cavalli pel bagaglio. Campbell li trovò in Wincanton, e già allontanavasi dalla città per ritornare al campo, allorquando vide avvicinarsi un forte distaccamento delle truppe di Sarsfield. GlʼIrlandesi erano in proporzione di quattro contro uno: ma Campbell deliberò di combattere fino allʼultimo sangue. Con una mano di coraggiosissimi uomini si appostò sul cammino. Gli altri suoi soldati si posero lungo le siepi che fiancheggiavano da ambe le parti lo stradale. Giunti glʼinimici, Campbell gridò: «Alto! Per chi siete voi?»—«Io sono pel re Giacomo,» rispose il condottiero delle milizie regie. «Ed io pel Principe dʼOrange,» esclamò Campbell. «E noi vʼimprinciperemobene,» rispose imprecando lʼIrlandese. «Fuoco!» gridò Campbell: ed una grandine di fuoco piovve allʼistante da ambe le siepi. I soldati del Re riceverono tre bene aggiustate scariche innanzi che potessero far fuoco. In fine venne loro fatto di superare una delle siepi, ed avrebbero oppressa la piccola banda deglʼinimici, se i campagnuoli che portavano odio mortale aglʼIrlandesi non avessero sparsa la falsa nuova dello appressarsi dʼaltre truppe del Principe. Sarsfield suonò a raccolta e ritirossi; Campbell seguitò il cammino senza molestia, seco recando i cavalli da bagaglio. Questo fatto, onorevole, senza dubbio, al valore ed alla disciplina dellʼarmata del Principe, fu dalla voce pubblica esagerato come una vittoria che i protestanti inglesi avevano riportata contro un numero grandemente maggiore di barbari papisti, venuti da Connaught ad opprimere lʼisola nostra.[535]
Poche ore dopo la narrata scaramuccia seguì un evento che pose fine ad ogni pericolo di più grave conflitto tra i due eserciti. Churchill ed alcuni deʼ suoi principali complici erano in Salisbury. Due deʼ congiurati, cioè Kirke e Trelawney, se nʼerano andati a Warminster dove i reggimenti loro stanziavano.Tutto era maturo per eseguire la lungamente meditata tradigione.
Churchill consigliò il Re a visitare Warminster, onde ispezionarvi le truppe. Giacomo assentì; ed il suo cocchio stavasi alla porta del palagio vescovile, quando ei cominciò a versare abbondantemente sangue dalle narici. Fu quindi costretto a differire la sua gita, e porsi in mano deʼ medici. La emorragia non gli cessò se non dopo tre giorni; e intanto gli giungevano funestissime nuove.
Non era possibile che una congiura la quale aveva sì sparse le fila come quella di cui Churchill era capo, si tenesse strettamente secreta. Non vʼera prova che potesse farlo tradurre dinanzi ai Giurati o ad una corte marziale: ma strani bisbigli correvano per tutto il campo. Feversham, il quale era comandante supremo, riferì che regnavano sinistri umori nellʼarmata. Fu fatto intendere al Re che alcuni i quali gli stavano da presso non gli erano amici, e che sarebbe stata saggia cautela mandare Churchill e Grafton sotto buona guardia a Portsmouth. Giacomo respinse il consiglio; dacchè fra i suoi vizi non era la inclinazione a sospettare. A vero dire la fiducia chʼegli poneva nelle proteste di fedeltà e dʼaffetto, era quanta ne avrebbe potuto avere più presto un fanciullo di buon cuore e privo dʼesperienza, che un politico molto provetto negli anni, il quale aveva praticato assai il mondo, aveva molto sofferto dalle arti degli scellerati, e il cui carattere non faceva punto onore alla specie umana. Sarebbe difficile additare un altro uomo, il quale, così poco scrupoloso a rompere la fede, fosse così restio a credere che altri volesse contro di lui tradirla. Nondimeno le nuove ricevute intorno le condizioni della sua armata lo conturbarono molto. Adesso non più mostravasi impaziente di venire a battaglia: pensava anzi di ritirarsi. Nella sera del sabato 24 novembre convocò un consiglio di guerra. Alla ragunanza convennero quegli ufficiali contro cui era stato caldamente ammonito a tenersi cauto. Feversham opinò per la ritirata. Churchill manifestò contrario parere. Il consiglio durò fino a mezza notte. Finalmente il Re dichiarò essere deliberato a ritirarsi. Churchill vide o sʼimmaginò dʼessere sospettato, e comunque sapesse perfettamente governarei moti dello animo, non valse a nascondere la propria inquietudine. Innanzi lʼalba, accompagnato da Grafton, fuggì al quartiere generale del Principe.[536]
LIX. Churchill, partendo, lasciò una lettera a spiegare il suo intendimento. Era scritta con quel decoro chʼegli non mancò mai di serbare fra mezzo alla colpa e al disonore. Riconobbe dʼandar debitore dʼogni sua cosa alla regia benevolenza. Lo interesse e la gratitudine, diceva egli, lo persuadevano a mantenersi fido al proprio Sovrano. Sotto nessun altro governo poteva sperare la grandezza e prosperità chʼegli allora godeva, ma tutti cotesti argomenti dovevano cedere al primissimo deʼ doveri. Egli era protestante, e non poteva in coscienza snudare la spada contro la causa del Protestantismo. Quanto al resto, era pronto a porre a repentaglio vita ed averi per difendere la sacra persona e i diritti del suo amatissimo signore.[537]
Alla dimane il campo era sossopra. Gli amici del Re percossi da spavento; i suoi nemici non potevano nascondere la gioia deʼ loro cuori. La costernazione di Giacomo sʼaccrebbe alle nuove che giunsero il dì medesimo da Warminster. Kirke che ivi comandava, aveva ricusato di obbedire ad ordini giunti da Salisbury. Non era più dubbio che anche egli fosse in lega col Principe dʼOrange. Dicevasi inoltre chʼegli fosse già passato con le sue milizie al campo del nemico; e tale voce, comechè falsa, fu per alcune ore pienamente creduta.[538]Un nuovo raggio di luce lampeggiò alla mente dello sciagurato Re. Gli parve dʼintendere il perchè pochi giorni innanzi era stato esortato a visitare Warminster. Ivi si sarebbe trovato privo di soccorso, in balìa deʼ congiurati, e presso agli avamposti nemici. Coloro che sarebbero stati disposti a difenderlo avrebbero agevolmente ceduto agli aggressori. Egli sarebbe stato condotto prigioniero al quartiere generale deglʼinvasori.Forse sarebbe stato commesso qualche più nero tradimento; imperocchè chi una volta ha posto il piede in una via di malvagità e di periglio non è più padrone di fermarsi, e spesso una fatalità , che gli è di giusta pena, lo spinge a delitti, dalla idea dei quali egli avrebbe dapprima rifuggito con raccapriccio. E davvero era visibile la mano di qualche Santo protettore in ciò, che un Re sì devoto alla Chiesa Cattolica, nel momento medesimo in cui correva a gran passi alla cattività , e forse alla morte, fosse stato improvvisamente impedito da quella chʼegli aveva giudicata pericolosa infermità .
LX. Tutte coteste cose raffermarono lʼanimo del Re nel pensiero chʼegli aveva fatto la sera antecedente. Ordinò una sùbita ritirata. Salisbury fu tutta in subuglio. Il campo levossi con tal confusione che rendeva immagine dʼuna fuga. Niuno sapeva di chi fidarsi, e a cui obbedire. La forza materiale dello esercito era di poco scemata; ma la morale non era più. Molti, che la vergogna frenava dal correre al quartiere generale del Principe, affrettaronsi a seguire lo esempio dal quale avrebbero ognora aborrito; e molti che avrebbero difeso il Re mentre pareva risolutamente correre incontro aglʼinvasori, non si sentirono inchinevoli a seguire un vessillo che fuggiva.[539]
Giacomo quel giorno giunse ad Andover. Lo accompagnavano il Principe Giorgio suo genero, e il Duca dʼOrmond. Entrambi erano fraʼ cospiratori, e avrebbero forse tenuto dietro a Churchill, ove questi, a cagione di ciò che seguì nel consiglio di guerra, non avesse reputato più utile partirsi allo improvviso. La impenetrabile stupidità del Principe Giorgio in questa occasione gli fu più utile di ciò che sarebbe stata lʼastuzia. Ogni qualvolta udiva alcun che di nuovo, egli aveva il vezzo di esclamare in francese: «Est-il possible?» Questo ritornello adesso gli fu di grande utilità . «Est-il possible?» gridò egli come seppe che Churchill e Grafton se nʼerano andati. Ed appena giunte le sinistre nuove di Warminster, esclamò nuovamente: «Est-il possible?»
LXI. Il Principe Giorgio ed Ormond in Andover furono invitati a cenare col Re. Tristissima cena! Il Re gemeva sottola soma delle sue sciagure. Il suo genero gli teneva stupidissima compagnia. «Io ho saggiato il Principe Giorgio mentre era sobrio,» diceva Carlo II, «e lʼho saggiato mentre era ubriaco; e o briaco o sobrio non val nulla.»[540]Ormond, che per indole era timido e taciturno, non era verosimile che fosse dʼallegro umore in quel momento. Alla perfine la cena terminò. Il Re si ritrasse a riposare. Il Principe ed Ormond, appena Giacomo sorse da mensa, montando sui cavalli che erano lì pronti, partironsi, accompagnati dal Conte di Drumlanrig, figlio primogenito del Duca di Queensberry. La defezione di questo giovine Nobile non era cosa di poca importanza; imperocchè Queensberry era il capo dei protestanti episcopali di Scozia, setta al cui paragone i più esagerati Tory inglesi potevano considerarsi pressochè Whig; e lo stesso Drumlanrig era luogotenente colonnello del reggimento di Dundee, banda dai Whig detestata più degli Agnelli di Kirke. La mattina appresso fu recato al Re lo annunzio di questa nuova sciagura, e se ne mostrò meno dolente di quel che si sarebbe supposto. Il colpo da lui ricevuto ventiquattro ore innanzi lo aveva apparecchiato quasi a qualunque disastro, e non poteva seriamente adirarsi del Principe Giorgio,—il quale era uomo da non farsene nessun conto,—per avere ceduto alle arti dʼun tentatore quale era Churchill. «E che!Est-il possiblese ne è andato anche egli?» disse Giacomo. «Al postutto sarebbe stata maggiore la perdita di un buon soldato.»[541]Per dir vero, eʼ sembra che in quel tempo tutta la collera del Re fosse accentrata, e non senza cagione, sopra un solo uomo. Prese la via di Londra, ardendo di vendetta contro Churchill, ed appena giuntovi seppe che lʼarcingannatore aveva commesso un nuovo delitto. La Principessa Anna da parecchie ore era sparita.
LXII. Anna, la quale altra volontà non aveva che quella dei Churchill, una settimana innanzi era stata da loro persuasa a scrivere di propria mano a Guglielmo, significandogli che approvava la impresa. Assicuravalo chʼella trovavasi interamentenelle mani deʼ suoi amici, e che sarebbe rimasta in palazzo o sarebbesi rifugiata nella Città a seconda del loro consiglio.[542]La domenica, 25 novembre, ella e coloro che per lei pensavano, trovaronsi nella necessità di prendere una improvvisa deliberazione. Nel pomeriggio di quel dì stesso un corriere da Salisbury recò la nuova che Churchill era scomparso, chʼera stato accompagnato da Grafton, che Kirke aveva tradito, e che le milizie regie frettolosamente ritiravansi. Quella sera le sale di Whitehall erano affollate da immenso numero di persone come usualmente avveniva quando una grave notizia buona o cattiva giungeva alla città . La curiosità e lʼansietà erano dipinte nel viso di ciascuno. La Regina proruppe naturalmente in parole di sdegno contro il capo deʼ traditori, e non risparmiò la sua troppo compiacente protettrice. Nella parte del palazzo abitata da Anna furono raddoppiate le sentinelle. La Principessa era atterrita. Tra poche ore il padre sarebbe giunto a Westminster. Non era verosimile che lʼavrebbe personalmente trattata con severità ; ma non era da sperarsi chʼegli le permetterebbe di godere più a lungo della compagnia della sua diletta amica. Mal poteva dubitarsi che Sara verrebbe arrestata e sottoposta al rigoroso esame di astuti e crudi inquisitori. Le sue carte sarebbero sequestrate. Forse si scoprirebbe qualche documento che mettesse in pericolo la sua vita. Ed ove ciò fosse, vʼera da temere di peggio. La vendetta dello implacabile Re non conosceva distinzione di sesso. Per delitti molto più lievi di quelli che probabilmente verrebbero imputati a Lady Churchill, aveva mandate donne alle forche e al ceppo. La forza dello affetto infiammò lʼanimo debole della Principessa. Non vʼera vincolo chʼella non fosse pronta a rompere, non rischio a correre per lʼoggetto del suo immenso amore. «Mi getterò giù dalla finestra» gridò ella «piuttosto che lasciarmi trovare qui da mio padre.» Lady Churchill sʼincaricò di apparecchiare la fuga. Si pose frettolosamente in comunicazione con alcuni capi della congiura. In poche ore ogni cosa fu pronta. Quella sera Anna si ritrasse, secondo il consueto modo, alle sue stanze. Sul cadere della notte levossi, ed accompagnata dallʼamicaSara e da due altre donne discese per le secrete scale in veste da camera e in pianelle. Le fuggenti giunsero nella strada senza ostacolo, dove le attendeva una carrozza dʼaffitto, dinanzi al cui sportello stavano due uomini. Uno era Compton Vescovo di Londra, vecchio ajo della Principessa; lʼaltro era il magnifico e squisito Dorset, che vedendo la grandezza del pubblico pericolo erasi destato dal suo voluttuoso far niente. La carrozza tosto si diresse ad Aldersgate Street, dove allora sorgeva lʼabitazione di città deʼ Vescovi di Londra, accanto alla Cattedrale. Ivi la Principessa passò la notte. Il dì seguente partì per Epping Forest. In queʼ selvaggi luoghi Dorset possedeva una veneranda magione, oggimai da lungo tempo distrutta. Sotto il suo tetto ospitale che da molti anni era il favorito ritrovo deʼ begli spiriti e deʼ poeti, i fuggitivi fecero breve soggiorno. Non potevano sperare di giungere in sicurtà al campo di Guglielmo, perocchè il cammino era occupato dalle regie milizie. Fu quindi deliberato che Anna riparasse fra mezzo agli insorti delle contrade settentrionali. Compton per allora dismesse al tutto il suo carattere sacerdotale. Il pericolo e il conflitto gli avevano riacceso nel cuore tutto il fuoco guerriero onde era pieno ventotto anni innanzi, allorquando cavalcava fra le Guardie del Corpo. Ei precedeva il cocchio della Principessa, vestito dʼun giustacore di cuojo di bufalo, grandi stivali, spada a fianco, e pistole allʼarcione. Innanzi di giungere a Nottingham trovossi circondata da un drappello di gentiluomini che volontariamente erano corsi a scortarla. Costoro invitarono il Vescovo a farsi loro colonnello; ed egli vi consentì con alacrità tale da scandalizzarne i rigidi Anglicani, e da non acquistargli grande reputazione agli occhi deʼ Whig.[543]
LXIII. Allorquando la mattina del dì 26 lo appartamento di Anna fu trovato vuoto, nacque grande costernazione in Whitehall. Mentre le sue cameriste correvano su e giù peʼ cortilidel palazzo strillando e torcendosi le mani, mentre Lord Craven comandante delle Guardie a piedi interrogava le sentinelle della galleria, mentre il Cancelliere poneva i suggelli alle carte deʼ Churchill, la nudrice della Principessa negli appartamenti del Re piangeva gridando che la sua diletta signora era stata assassinata dai papisti. La nuova volò a Westminster Hall. Ivi si disse che Sua Altezza era stata trascinata a forza e in qualche luogo imprigionata. Quando non fu più possibile negare che la sua fuga era stata volontaria, sʼinventarono mille ciarle a spiegarne la cagione. Era stata villanamente insultata e minacciata; anzi, quantunque si trovasse in quella condizione in cui la donna merita peculiarmente lʼaltrui tenerezza, era stata battuta dalla sua crudele madrigna. La plebe, da molti anni di pessimo governo resa sospettosa e irritabile, venne in tanto concitamento per queste calunnie, che la Regina non si teneva sicura. Molti Tory cattolici e alcuni protestanti, la cui lealtà era incrollabile, corsero alla reggia pronti a difenderla ove seguisse uno scoppio dʼira popolare. Fra mezzo a tanta perturbazione e a tanto terrore giunse la nuova della fuga del Principe Giorgio. Poco dopo verso sera arrivò il Re, al quale fu annunziato la sua figlia essere scomparsa. Dopo tanti patimenti questʼultima afflizione gli strappò dalle labbra un doloroso grido: «Dio mi soccorra, anche i miei figli mi hanno abbandonato!»[544]
Quella sera fino a tardi sedè in consiglio coʼ suoi principali ministri. Fu deliberato di intimare a tutti i Lordi spirituali e secolari che allora trovavansi in Londra, che comparissero la dimane al suo cospetto, onde richiederli solennemente di consiglio. Per la qual cosa, il pomeriggio del martedì 27, i Lordi adunaronsi nella sala da pranzo del palazzo. Lʼassemblea era composta di nove prelati e fra trenta e quaranta Nobili secolari, tutti protestanti. I due Segretari di Stato, Middleton e Preston, quantunque non fossero Pari dʼInghilterra, erano presenti. Il Re presedeva in persona. Gli si leggeva sul viso e nello atteggiamento chʼegli soffriva dʼanima edi corpo. Aperse la ragunanza facendo capo dalla petizione che gli era stata presentata poco innanzi la sua partenza per Salisbury. In quella petizione veniva pregato a convocare un libero Parlamento. Disse che nelle condizioni in cui egli allora trovavasi, non aveva reputato opportuno acconsentire. Ma nel tempo della sua assenza da Londra erano seguiti gravissimi mutamenti. Aveva parimente notato che il suo popolo dappertutto mostrava bramosia di vedere adunate le Camere. Per tutte queste cose egli chiamava a consiglio i suoi Pari fedeli, perchè gli manifestassero il loro parere.
Per qualche tempo eʼ fu silenzio, finchè Oxford, la cui famiglia, per antichità e magnificenza superiore a tutte, gli dava una specie di primato nella ragunanza, disse che secondo la sua opinione queʼ Lordi i quali avevano sottoscritta la petizione, cui la Maestà Sua accennava, erano in debito di manifestare i loro pensieri.
Queste parole mossero Rochester a favellare. Difese la petizione e dichiarò di non vedere altra speranza per il trono e il paese che la convocazione dʼun libero Parlamento. Disse non volere rischiarsi ad affermare che in tanto grave estremità , anche quel rimedio potesse tornare efficace: ma non ne aveva altro da proporre. Aggiunse parergli sano partito aprire pratiche col Principe dʼOrange. Jeffreys e Godolphin parlarono dopo, ed entrambi dichiararono essere della medesima opinione di Rochester.
Allora sorse Clarendon, e, con somma maraviglia di quanti rammentavano le sue proteste di lealtà , e i suoi disperati affanni e il rossore cui si era abbandonato, solo pochi giorni innanzi, per la diserzione del proprio figliuolo, proruppe in virulenti invettive contro la tirannide e il papismo. «Anche adesso» disse egli «Sua Maestà in Londra fa leva dʼun reggimento al quale non è ammesso nessun protestante.»—«Non è vero!» gridò dal seggio Giacomo grandemente agitato. Clarendon insisteva, e lasciò da parte questo offensivo subietto per passare ad un altro maggiormente offensivo. Accusò lo sventurato Re di pusillanimità . Perchè ritirarsi da Salisbury? Perchè non tentare le sorti dʼuna battaglia? Era forse da biasimarsi il popolo se cedeva ad un invasorementre vedeva il proprio Re fuggire insieme con la sua armata? Giacomo sentì amaramente cotesti insulti, e ne serbò lunga ricordanza. E davvero gli stessi Whig reputarono indecenti e poco generose le parole di Clarendon. Halifax parlò in modo diverso. Per molti anni di pericolo aveva con ammirevole abilità difeso la costituzione civile ed ecclesiastica del paese contro la regia prerogativa. Ma il suo lucido intendimento, singolarmente nemico dʼogni entusiasmo, ed avverso agli estremi, cominciò a pendere verso la causa del Sovrano nel momento stesso nel quale queʼ romorosi realisti, che poco innanzi avevano esecrato i Barcamenanti quasi fossero ribelli, alzavano il vessillo della ribellione. Egli ambiva, in quella congiuntura, a farsi paciere fra il trono e la nazione. A ciò lo rendevano adatto lo ingegno e il carattere; e se non vi riuscì, deve attribuirsi a certe cagioni, a vincere le quali non era destrezza che bastasse, e precipuamente alla follia, slealtà , ed ostinatezza del Principe chʼegli si studiava di salvare.
Halifax disse non poche verità spiacevoli a Giacomo, ma con tal delicatezza da meritargli la taccia dʼadulatore da parte di quegli abietti spiriti, i quali non sanno intendere come ciò che giustamente merita il nome di adulazione quando è diretto al potente, sia debito dʼumanità quando si rivolge al caduto. Con mille espressioni di simpatia e deferenza, dichiarò essere dʼavviso che il Re dovesse oggimai apparecchiarsi a fare grandi sacrifici. Non bastava convocare un libero Parlamento o iniziare pratiche dʼaccordo col Principe dʼOrange. Era necessario fare ragione almeno ad alcuni deʼ torti di cui moveva lamento la nazione, senza attendere che lo esigessero le Camere o il Capitano dello esercito nemico. Nottingham con parole egualmente rispettose fece eco a quelle di Halifax. Le principali concessioni che i Lordi volevano che il Re facesse erano queste: cacciare dagli uffici tutti i Cattolici Romani; separarsi interamente dalla Francia; e concedere illimitata amnistia a tutti coloro che avevano prese le armi contro lui. Pareva che intorno allʼultima di coteste concessioni non fosse da disputare. Imperocchè, quantunque coloro che pugnavano contro il Re avessero agito in modo da suscitargli in cuore,non senza ragione, il più acre risentimento, era più verosimile chʼegli si trovasse tra breve in loro balìa, che essi nella sua. Sarebbe stata cosa puerile iniziare pratiche dʼaccordo con Guglielmo, e nello stesso tempo riserbarsi il diritto di vendetta contro coloro che Guglielmo non poteva senza infamia lasciare in abbandono. Ma lo intenebrato intendimento e lʼindole implacabile di Giacomo resisterono lungamente alle ragioni addotte da coloro che affaticavansi a convincerlo essere opera da savio perdonare delitti chʼegli non poteva punire. «Non posso acconsentire,» esclamò egli. «È mestieri chʼio dia degli esempi: Churchill sopra tutti, Churchill, quel desso chʼio inalzai tanto. Egli è la sola cagione di tanto male. Egli ha corrotta la mia armata. Egli ha corrotta la mia figliuola. Egli mi avrebbe dato in mano al Principe dʼOrange, se non mi avesse soccorso la mano di Dio. Milordi, voi siete stranamente ansiosi per la salvezza deʼ traditori, e nessuno di voi si dà il minimo pensiero della mia.» In risposta a questo scoppio dʼira impotente, coloro i quali lo avevano esortato a concedere lʼamnistia, gli mostrarono con profondo rispetto, ma con fermezza, che un Principe aggredito da potenti nemici non può trovare scampo se non nella vittoria o nella riconciliazione. «Se la Maestà Vostra, dopo ciò che è accaduto, vede tuttavia speranza alcuna di salvezza nelle armi, lʼopera nostra è finita: ma se non ha questa speranza, non le resta altra à ncora di salute che il riacquistare lo affetto del popolo.» Dopo una lunga e calorosa discussione, il Re sciolse la ragunanza dicendo: «Milordi, voi avete usata meco gran libertà di parole; ma non me ne ho per male. Oramai mi son messo in capo una cosa, e vi rimango irremovibile, cioè, convocherò il Parlamento. Gli altri consigli che mi avete pôrti sono di grave momento: nè vi dee far meraviglia se innanzi di decidere, io prendo tempo una notte a pensarvi sopra.»[545]
LXIV. Primamente Giacomo parve disposto a bene giovarsi del tempo da lui preso a riflettere. Al Cancelliere fu fatto comandamento di scrivere il decreto a convocare il Parlamento pel dì 13 gennaio. Halifax fu chiamato al palazzo, ed ebbe una lunga udienza, e parlò molto più liberamente di quello che egli aveva reputato decoroso di fare al cospetto dʼuna numerosa assemblea. Gli fu detto dʼessere stato nominato commissario per trattare col Principe dʼOrange. In questo ufficio gli furono dati a compagni Nottingham e Godolphin. Il Re dichiarò dʼessere parato a fare grandi sacrifici per amore della pace. Halifax rispose chʼera dʼuopo farli pur troppo. «Vostra Maestà » disse egli «non deve aspettarsi che coloro i quali hanno in mano il potere, consentano a patti che lascino le leggi in balìa della regia prerogativa.» Con questa distinta dichiarazione delle sue mire, egli accettò la commissione che il Re desiderava affidargli.[546]Le concessioni che poche ore innanzi erano state ostinatissimamente respinte, adesso furono fatte in modo liberalissimo. Fu pubblicato un proclama nel quale il Re non solo concedeva pieno perdono a tutti i ribelli, ma li dichiarò elegibili al prossimo Parlamento. Nè anche si richiedeva come condizione dʼelegibilità che dovessero porre giù le armi. La medesima Gazzetta che annunziava la prossima ragunanza delle Camere, conteneva la notificazione che Sir Eduardo Hales, il quale, come papista, rinnegato e precipuo campione della potestà di dispensare, ecome duro carceriere deʼ Vescovi, era uno degli uomini più impopolari del Regno, aveva cessato di essere Luogotenente della Torre, e gli aveva succeduto Bevil Skelton, dianzi suo prigione, il quale quantunque avesse poca riputazione presso i suoi concittadini, almeno non difettava dei necessari requisiti ad occupare un pubblico ufficio.[547]
LXV. Se non che coteste concessioni erano dirette solo ad abbacinare i Lordi e la nazione per nascondere i veri disegni del Re. Egli aveva secretamente deliberato, anche in quellʼora di pericolo, di non voler cedere in nulla. Nel giorno medesimo, in cui pubblicò il proclama dʼamnistia, spiegò pienamente le proprie intenzioni a Barillon. «Queste pratiche dʼaccordo» disse Giacomo «sono una pretta finzione. È mestieri chʼio mandi commissari a mio nipote, affinchè io acquisti tempo ad imbarcare la mia moglie e il Principe di Galles. Voi conoscete gli umori delle mie truppe. Di nessuno altro che deglʼIrlandesi io potrei fidarmi; e glʼIrlandesi non sono in numero bastevole a resistere allʼinimico. Il Parlamento mʼimporrebbe patti chʼio non potrei sopportare. Sarei forzato a disfare ciò che ho già fatto a pro deʼ Cattolici, ed a romperla col Re di Francia. E però, appena la Regina e mio figlio saranno in salvo, partirò dalla Inghilterra e cercherò rifugio in Irlanda, in Iscozia, o presso il vostro signore.»[548]
E già il Re aveva fatti i preparamenti bisognevoli a mandare questo disegno ad esecuzione. Dover era stato spedito a Portsmouth con ordine di aver cura del Principe di Galles; e a Dartmouth, che ivi comandava la flotta, era stato ingiunto dʼobbedire a Dover in tutto ciò che concernesse il regio infante, e di tenere prontissimo a far vela per la Francia, appena ricevutone lʼavviso, un naviglio equipaggiato da marinaj fedeli.[549]Il Re quindi mandò ordini positivi perchè lo infante fosse subito condotto al più vicino porto del continente.[550]Dopoil Principe di Galles, il primo pensiero del Re era il Gran Sigillo. A questo simbolo della regia autorità i nostri giureconsulti hanno sempre attribuito una quasi misteriosa importanza. Ammettono che se il Cancelliere, senza licenza del Re, lo apponga ad un diploma di parìa o a un decreto di grazia, quantunque ei si renda colpevole di grave delitto, il documento non può essere posto in questione da nessuna Corte di legge, e può essere annullato solo da un atto parlamentare. Eʼ sembra che Giacomo paventasse che questo strumento della sua volontà potesse cadere nelle mani deʼ suoi nemici, i quali con esso potrebbero dare validità legale ad atti che lo avrebbero potuto gravemente danneggiare. Nè i suoi timori sono da reputarsi irragionevoli sempre che si rammenti che appunto cento anni più tardi il Gran Sigillo di un Re fu adoperato, con lo assenso deʼ Lordi e deʼ Comuni, e con lʼapprovazione di molti incliti statisti e giureconsulti, a fine di trasferire al figliuolo le prerogative di lui. Perchè non si facesse abuso del talismano che aveva tanto formidabile potenza, Giacomo deliberò di tenerlo a brevissima distanza dal suo gabinetto. Per la qual cosa ingiunse a Jeffreys di sloggiare dalla casa da lui di recente edificata in Duke Street, e di risedere in un piccolo appartamento di Whitehall.[551]
LXVI. Il Re aveva fatto ogni apparecchio a fuggire, allorquando un inatteso ostacolo lo costrinse a differire la esecuzione del proprio disegno. I suoi agenti in Portsmouth cominciarono a scrupoleggiare. Lo stesso Dover, ancorchè fosse uno della cabala gesuitica, mostrò segni di titubanza. Dartmouth era anche meno inchinevole ad obbedire alle voglie del Re. Fino allora sʼera mantenuto fedele al trono, ed aveva fatto il possibile, con una flotta disaffezionata e col vento contrario, per impedire che gli Olandesi sbarcassero in Inghilterra; ma era membro zelante della Chiesa stabilita, e in nessuna maniera partigiano della politica di quel governo chʼegli si reputava tenuto, per debito e per onore, a difendere. I torbidi umori degli ufficiali e degli altri uomini a lui sottoposti gli recavano non poca ansietà ; ed era giunta opportuna ad alleggiargli lʼanimo la nuova della convocazione dʼun libero Parlamento,e della nomina deʼ commissari a trattare col Principe dʼOrange. La flotta ne fece clamoroso tripudio. Un indirizzo onde ringraziare il Re per queste generose concessioni fatte allʼopinione pubblica fu scritto sul bordo della nave capitana. Lo ammiraglio fu il primo a firmare. Trentotto capitani, dopo lui, vi apposero i loro nomi. Mentre questo documento era recato a Whitehall, giunse a Portsmouth il messo che recava lʼordine di condurre in sullʼistante il Principe di Galles in Francia. Dartmouth seppe, e ne provò amaro dolore e risentimento, il libero Parlamento, la generale amnistia, le pratiche collʼinimico, altro non essere che parte dʼun grande inganno ordito contro la nazione, del quale inganno egli doveva essere complice. In una patetica ed animosa lettera dichiarò dʼavere ormai obbedito fino al punto oltre il quale ad un protestante e ad un Inglese non era lecito andare. Porre lo erede presuntivo della corona britannica nelle mani di Luigi sarebbe stato niente meno che tradimento contro la monarchia; lo che avrebbe resa furibonda la nazione della quale il Sovrano aveva pur troppo perduto lo affetto. Il Principe di Galles non sarebbe mai più ritornato, o ritornerebbe condotto in Inghilterra da unʼarmata francese. Ove Sua Altezza rimanesse nellʼisola, il peggio che sarebbe potuto accadere era di vederlo educare in seno alla Chiesa nazionale; e chʼegli fosse siffattamente educato doveva essere il desiderio dʼogni suddito leale. Dartmouth concludeva dichiarandosi pronto a rischiare la propria vita per la difesa del trono, ma protestava di non volere partecipare al trasferimento del Principe in Francia.[552]
Questa lettera sconcertò tutti i disegni di Giacomo. Sʼaccôrse, inoltre, di non potere in questa circostanza aspettarsi obbedienza passiva dal suo ammiraglio: imperocchè Dartmouth era giunto fino a porre parecchie scialuppe alla bocca del porto di Portsmouth con ordine di non lasciar passare nessunlegno senza prima esaminarlo. Era quindi necessario fare altri provvedimenti; era mestieri condurre il bambino a Londra, e da quivi mandarlo in Francia. A far ciò bisognava passassero alcuni giorni. Frattanto era dʼuopo lusingare il popolo con la speranza dʼun libero Parlamento e con la simulazione di trattare col Principe dʼOrange. Furono quindi spediti i decreti per le elezioni. I trombetti andavano e venivano dalla metropoli al quartiere generale degli Olandesi. Infine giunsero i salvocondotti pei tre Commissari regi, i quali partirono pel campo nemico.
LXVII. Lasciarono Londra tremendamente agitata. Le passioni che pel corso di tre anni di perturbazioni, sʼerano gradualmente rinvigorite, adesso, libere da ogni freno di timore, e stimolate dalla vittoria e dalla simpatia, mostravansi senza maschera perfino dentro la reggia. I Gran Giurati di Middlessex pronunciarono un atto dʼaccusa contro il Conte di Salisbury per avere abbracciato il papismo.[553]Il Lord Gonfaloniere ordinò che le case deʼ cattolici romani nella Città venissero perquisite onde vedere se contenessero armi. La plebaglia irruppe nellʼabitazione di un rispettabile mercatante cattolico, per sincerarsi sʼegli avesse scavata una mina dalla sua cantina fino alla chiesa parrocchiale onde far saltare in aria il parroco e i congregati.[554]I merciaioli per le vie gridavano vendendo satire contro Padre Petre, il quale sʼera sottratto, e non quando era ancor tempo, dal suo appartamento in palazzo.[555]La celebre canzone di Wharton con molti versi aggiunti cantavasi più che mai ad alta voce in tutte le strade della metropoli. Le stesse sentinelle che guardavano il palazzo cantavano sotto voce: «GlʼInglesi bevono a confusione del Papismo,Lillibullero bullen a la.» Le tipografie clandestine di Londra lavoravano senza posa. Molti fogli correvano giornalmente per la città , nè i magistrati avevano modo o non volevano scoprire per quali mezzi.
LXVIII. Uno di questi scritti hanno salvato dallʼobliola singolare audacia onde era composto e lo immenso effetto che produsse. Simulava dʼessere un supplemento al Manifesto del Principe dʼOrange, scritto di suo pugno e munito del suo sigillo: ma lo stile era molto diverso da quello del Manifesto vero. Minacciava vendetta, senza riguardo alle costumanze deʼ popoli inciviliti e cristiani, contro tutti quei papisti che osassero parteggiare pel Re. Verrebbero trattati non come soldati o gentiluomini, ma come predoni. La ferocia e licenza dellʼarmata degli invasori che una vigorosa mano aveva fino allora rattenuti, sarebbe lasciata senza freno contro i papisti. I buoni protestanti, e in ispecie coloro che abitavano nella metropoli, venivano esortati, a nome di quanto avevano di più caro al mondo, e comandati, sotto pena dello sdegno del Principe, a prendere, disarmare e condurre in carcere i Cattolici loro vicini. Dicesi che questo documento una mattina fosse trovato da un libraio Whig allʼuscio della sua bottega. Affrettossi a stamparlo. Molti esemplari ne furono spediti per la posta e corsero rapidamente per le mani di tutti. Gli uomini savi non esitarono a reputarlo scrittura foggiata da qualche irrequieto e immorale avventuriere della razza di coloro che nei tempi torbidi sono sempre pronti ad eseguire i più vili e tenebrosi uffici delle fazioni. Ma la moltitudine restò presa allʼamo. E veramente a tal punto era stato concitato il sentimento nazionale e religioso contro i papisti irlandesi, che la maggior parte di coloro, i quali non reputavano autentico quello scritto spurio, inclinavano ad applaudirlo come opportuno esempio di energia. Come si seppe che Guglielmo non ne era lo autore, tutti interrogavansi a vicenda chi fosse lo impostore che con tanta audacia e tanto effetto aveva presa la maschera di Sua Altezza. Alcuni sospettarono di Ferguson, altri di Johnson. Finalmente dopo ventisette anni Ugo Speke confessò dʼaverlo egli composto, e chiese alla Casa di Brunswick una rimunerazione per avere reso alla religione protestante un così segnalato servigio. Asserì, col tono di chi creda avere fatto cosa eminentemente virtuosa ed onorevole, che quando la invasione olandese aveva gettato Whitehall nella costernazione, egli sʼera profferto alla Corte, e simulando rottura coʼ Whig, aveva promesso dispiarne i passi; che con tale mezzo era stato ammesso al cospetto del Re, aveva giurato fedeltà , gli era stata promessa pecunia in gran copia, e sʼera procurato deʼ segnali con che poteva andare e venire nel campo nemico. Protestò di avere fatte tutte coteste cose col solo scopo di avventare senza sospetto un colpo mortale al Governo, e far nascere nel popolo un violento scoppio di sdegno contro i Cattolici Romani. Disse che il falso Manifesto era uno deʼ mezzi da lui divisati: ma è da dubitare se le sue pretensioni fossero bene fondate. Imperocchè indugiò tanto a dirlo da farci ragionevolmente sospettare chʼegli aspettasse la morte di chi poteva contradirgli; oltrechè non addusse altra testimonianza che la propria asserzione.[556]
LXIX. Mentre le cose sopra narrate succedevano in Londra, ogni corriere postale da tutte le parti del Regno recava la notizia di qualche novella insurrezione. Lumley aveva presa Newcastle. Gli abitatori lo avevano accolto con gioia. La statua del Re, che sorgeva sopra un alto piedistallo di marmo, era stata rovesciata e gettata nel Tyne. Fu lungamente serbata in Hull la memoria del 3 dicembre, come giorno della presa della città . Vʼera un presidio sotto il comando di Lord Langdale cattolico romano. Gli ufficiali protestanti concertarono colla magistratura un piano dʼinsurrezione: Langdale e i suoi fautori furono arrestati; e i soldati e i cittadini si congiunsero a favore della religione protestante e dʼun libero Parlamento.[557]
Le contrade orientali erano anche esse insorte. Il Duca di Norfolk, seguito da trecento gentiluomini bene armati a cavallo, comparve nella vasta piazza di mercato in Norwich. Il Gonfaloniere e gli Aldermanni corsero a lui e promisero di collegarsi con lui contro il papismo e la tirannide.[558]Lord Herbert di Cherbury e Sir Eduardo Harley presero le armi nellaContea di Worchester.[559]Bristol, seconda città del reame, aprì le sue porte a Shrewsbury. Il Vescovo Trelawney, il quale nella Torre aveva disimparato affatto la dottrina della non resistenza, fu il primo a far plauso alla venuta delle truppe del Principe. Siffatti erano gli umori degli abitanti, che non sʼera creduto necessario lasciare fra loro una guarnigione.[560]La popolazione di Gloucester insorse e liberò di prigione Lovelace, il quale si vide tosto raccogliere dintorno unʼarmata irregolare. Alcuni deʼ suoi cavalieri avevano semplici cavezze invece di briglie. Molti deʼ suoi fanti per tuttʼarme avevano bastoni. Ma queste schiere, comunque si fossero, marciarono senza contrasto traverso alle Contee già sì fide alla Casa Stuarda, e infine entrarono trionfanti in Oxford. Corsero loro incontro solennemente i magistrati. La stessa Università , esasperata dagli oltraggi dianzi sostenuti, era poco inchinevole a disapprovare la ribellione. Già alcuni deʼ capi dei Collegi avevano spedito un loro rappresentante per riferire al Principe dʼOrange che essi di tutto cuore erano per lui, e pronti a fondere, ove bisognasse, le loro argenterie. Per lo che il condottiero Whig cavalcò per la città principale deʼ Tory fra le acclamazioni universali. Lo precedevano i tamburi sonando il Lillibullero. Gli teneva dietro una vasta onda di cavalli e di fanti. Tutta High Street era parata con drappi color dʼarancio, imperocchè questo colore aveva già il doppio significato, che dopo centosessanta anni serba tuttavia, voglio dire per lo Inglese protestante era emblema di libertà civile e religiosa, pel Celta cattolico era simbolo di persecuzione e servaggio.[561]
LXX. Mentre da ogni lato sorgevano nemici attorno al Re, gli amici sollecitamente lo abbandonavano. La idea della resistenza era divenuta famigliare a ciascuno. Molti che mostraronsi inorriditi allorchè ebbero la nuova delle prime diserzioni, adesso rimproveravano sè stessi dʼessere stati così lenti a conoscereil tempo. Non vʼera più ostacolo o periglio ad accorrere a Guglielmo. Il Re, chiamando la nazione ad eleggere i rappresentanti al Parlamento, aveva implicitamente autorizzato ognuno a recarsi dove avesse voti o interessi; e molti di queʼ luoghi erano già occupati daglʼinvasori o dagli insorti. Clarendon ardentemente colse il destro di abbandonare il già cadente Sovrano. Sapeva dʼaverlo mortalmente offeso col suo discorso in Consiglio: e si sentì mortificato non vedendosi nominare per uno deʼ tre regii Commissari. Egli aveva deʼ possessi nel Wiltshire. Deliberò di portare candidato per quella Contea il proprio figlio, quel desso della cui condotta egli aveva dianzi sentito dolore ed orrore; e sotto pretesto di badare alla elezione partì per il paese occidentale. Tosto gli tennero dietro il Conte dʼOxford, ed altri i quali fino allora avevano protestato di non avere nissuna relazione con la intrapresa del Principe.[562]
Verso questo tempo glʼinvasori, regolarmente, comechè con lentezza, procedendo, trovavansi a settanta miglia da Londra. Quantunque il verno fosse quasi a mezzo, il tempo era bello, il cammino piacevole; e i piani di Salisbury sembravano prati amenissimi a loro che sʼerano affannati traverso alle fangose rotaje degli stradali di Devonshire e di Somersetshire. Lʼarmata procedeva accanto a Stonehenge, e i reggimenti, lʼuno dopo lʼaltro, stavansi a contemplare quelle misteriose rovine, famose per tutto il continente, come la più grande maraviglia della nostra isola. Guglielmo entrò in Salisbury con la stessa pompa militare con cui era entrato in Exeter, ed alloggiò nel palazzo, pochi giorni innanzi occupato dal Re.[563]
Quivi al suo corteo si aggiunsero i Conti di Clarendon e dʼOxford ed altri cospicui personaggi, i quali fino a pochi giorni avanti erano considerati zelanti realisti. Van Citters arrivò anche egli al quartiere generale degli Olandesi. Per parecchie settimane egli era stato quasi prigione nella sua casa presso Whitehall, di continuo sorvegliato da spie che sʼavvicendavano senza perderlo dʼocchio un istante. Nondimeno,malgrado le spie, o forse per mezzo loro, gli era venuto fatto di sapere esattamente ciò che succedeva in palazzo; e adesso bene e copiosamente edotto degli uomini e delle cose, giunse al campo a giovare le deliberazioni di Guglielmo.[564]
Fino a questo punto la impresa del Principe era proceduta prosperamente oltre le speranze deʼ più ardenti suoi fautori. E adesso, secondo la legge universale che governa le cose umane, la prosperità cominciò a produrre la disunione. GlʼInglesi raccolti in Salisbury si scissero in due partiti. Lʼuno era composto di Whig, i quali avevano sempre considerato le dottrine della obbedienza passiva e dello incancellabile diritto ereditario come superstizioni servili. Molti di loro avevano passato degli anni in esilio; tutti erano stati esclusi daʼ favori della Corona. Adesso esultavano vagheggiando vicinissimo il giorno della grandezza e della vendetta. Ardenti di sdegno, inebriati di vittoria e di speranza, non volevano udire a parlare di patti. Nullʼaltro fuorchè la detronizzazione del loro nemico gli avrebbe contentati: nè può negarsi che, ciò volendo, fossero a sè medesimi perfettamente coerenti. Nove anni innanzi avevano fatto ogni sforzo per escluderlo dal trono, perchè credevano chʼegli sarebbe verosimilmente stato cattivo Re. E però non era da sperarsi che lo lascerebbero volentieri sul trono dopo che lo avevano sperimentato Re oltre ogni ragionevole preveggenza cattivissimo.
Dallʼaltro canto non pochi deʼ fautori di Guglielmo erano Tory zelanti, i quali fino allora avevano professata la dottrina della non resistenza nella forma più assoluta, ma la cui fede in cotesta dottrina per un istante aveva ceduto alle irruenti passioni eccitate dalla ingratitudine del Re e dal pericolo della Chiesa. Per un vecchio Cavaliere non vʼera condizione più tormentosa che quella di impugnare le armi contro il trono. Gli scrupoli che non gli avevano impedito dallo accorrere al campo degli Olandesi cominciarono, appena vi giunse, a straziargli crudelmente la coscienza, la quale lo faceva dubitare di avere commesso un delitto. In ogni evento sʼera reso meritevole di rimprovero operando in diretta opposizione ai principii di tutta la sua vita. Sentiva invincibile avversione pei suoinuovi collegati, gente, per quanto egli potesse rammentarsi, da lui sempre ingiuriata e perseguitata, cioè Presbiteriani, Indipendenti, Anabattisti, vecchi soldati di Cromwell, bravi di Shaftsbury, congiurati di Rye House, capitani della Insurrezione delle contrade occidentali. Naturalmente desiderava trovare qualche scusa che gli ponesse in pace la coscienza, lo liberasse dalla taccia dʼincoerenza, e stabilisse una distinzione tra lui e la folla deʼ ribelli scismatici, da lui sempre spregiati e aborriti, ma coi quali egli adesso correva pericolo dʼessere confuso. Per le quali cose protestava fervidamente contro ogni pensiero di strappare la corona da quella cervice resa sacra dal volere di Dio e dalle leggi del Regno. Il suo più caldo desiderio era di vedere una riconciliazione a patti non indecorosi alla dignità regia. Egli non era traditore; e a dir vero non opponeva resistenza allʼautorità del Sovrano. Era corso alle armi perchè egli era convinto che il miglior servizio che si potesse rendere al trono era quello di redimere con una lievissima coercizione la Maestà Sua dalle mani deʼ pessimi consiglieri.
I mali, che la vicendevole animosità di queste fazioni tendeva a far nascere, furono in gran parte scansati per lʼautorità e saggezza del Principe. Circuito da ardenti disputatori, officiosi consiglieri, abietti adulatori, spie vigilanti, maligni ciarlieri, rimaneva sempre tranquillo senza che altri potesse leggergli nel cuore. Potendo, taceva; costretto a parlare, il tono serio e imperioso con che significava le sue bene ponderate opinioni, faceva tosto ammutolire chiunque. Qualsivoglia cosa dicessero i suoi troppo zelanti fautori, ei non profferì mai verbo che desse il minimo sospetto di ambire alla corona dʼInghilterra. Senza dubbio ben si accorgeva che fra lui e quella corona esistevano tuttavia parecchi ostacoli, i quali nessuna prudenza avrebbe potuto vincere, e potevano ad un solo passo falso diventare insormontabili. La sola probabilità chʼegli avesse di ottenere quello splendido premio non istava nello impossessarsene ruvidamente, ma nello aspettare fino a tanto che senza la minima apparenza di sforzo e dʼastuzia lo conducessero al suo arcano scopo la forza delle circostanze, gli errori deʼ suoi avversari, e la libera elezione dei tre Stati del reame. Coloro che provaronsi dʼinterrogarlo,non riuscirono a saper nulla, e nondimeno non poterono accusarlo di simulazione. Egli tranquillamente li rimandava al suo Manifesto, assicurandoli che le sue mire non erano cangiate da poi che era stato scritto quel documento. Con tanta espertezza governava gli animi dei suoi partigiani, che pare la loro discordia gli rafforzasse, anzichè indebolirgli il braccio: ma la discordia scoppiava violentissima appena sottraevansi al freno di lui, sturbava lʼarmonia deʼ conviti, e non rispettava nè anche la santità della casa di Dio. Clarendon, il quale si studiava di nascondersi agli occhi altrui e a quelli della propria coscienza, affettando con ostentazione sentimenti di lealtà —prova manifesta della sua ribellione—raccapricciò vedendo alcuni deʼ suoi colleghi col bicchiere in mano schernire lʼamnistia che il Re generosamente aveva offerta loro. Dicevano non aver bisogno di perdono: ma innanzi di finire, volevano ridurre il Re a domandare perdono a loro. Anche maggiormente impaurì e disgustò ogni buon Tory un fatto che accadde nella cattedrale di Salisbury. Appena il ministro che officiava cominciò a leggere la preghiera pel Re, Burnet, il quale fra i molti suoi pregi non annoverava la facoltà di sapere frenarsi e il senso delicato delle convenevolezze, essendo in ginocchioni, si alzò, si assise nel proprio stallo, e profferì alcune sprezzanti parole che sturbarono le divozioni degli astanti.[565]
In breve le fazioni, onde era diviso il campo regio, ebbero occasione a misurare le proprie forze. I Commissari del Re erano già in viaggio. Erano corsi vari giorni dopo la loro nomina; e reputavasi strano che in un caso cotanto urgente indugiassero sì lungamente ad arrivare. Ma in verità nè Giacomo nè Guglielmo desideravano che le pratiche speditamente sʼiniziassero; imperocchè lʼuno bramava solo di acquistare il tempo bastevole a mandare in Francia la moglie e il figliuolo; e la posizione dellʼaltro si faceva ognora più vantaggiosa. Infine il Principe fece annunziare ai Commissari che gli avrebbe ricevuti in Hungerford. Probabilmente scelse questo luogo, perchè, ad uguale distanza da Salisbury e da Oxford, era bene adattato per un convegno deʼ suoi più importanti fautori. InSalisbury erano quei nobili e gentiluomini che lo avevano accompagnato da Olanda od erano corsi a trovarlo nelle contrade occidentali; ed in Oxford erano molti deʼ capi della insurrezione del paese settentrionale.
LXXI. In sul tardi, giovedì 6 dicembre, giunse a Hungerford. La piccola città fu tosto ripiena di persone dʼalto grado e notevoli che vi accorrevano da diverse parti. Il Principe era scortato da un forte corpo di truppe. I Lordi del settentrione conducevano seco centinaia di cavalieri irregolari, il cui equipaggio e modo di cavalcare moveva a riso coloro chʼerano assuefatti allo splendido aspetto ed agli esatti movimenti delle armate regolari.[566]
Mentre il Principe rimaneva in Hungerford ebbe luogo un accanito scontro tra dugentocinquanta deʼ suoi e seicento Irlandesi che erano appostati in Reading. Glʼinvasori in questo fatto fecero bella prova della superiorità della loro disciplina. Comechè fossero molto inferiori di numero, essi al primo assalto sgominarono le regie milizie, le quali corsero giù per le strade fino alla piazza di mercato. Quivi glʼIrlandesi tentarono di riordinarsi; ma vigorosamente aggrediti di fronte, mentre gli abitanti facevano fuoco dalle finestre delle case circostanti, tosto scoraronsi, e fuggirono perdendo la bandiera e cinquanta uomini. Dei vincitori solo cinque caddero morti. Ne gioirono tutti ugualmente i Lordi e i Gentiluomini che seguivano Guglielmo; perocchè in quel fatto non accadde nulla che offendesse il sentimento nazionale. Gli Olandesi non avevano vinto glʼInglesi, ma avevano soccorsa una città inglese a liberarsi dalla insopportabile dominazione deglʼIrlandesi.[567]
La mattina del sabato, 8 dicembre, i commissari del Re giunsero a Hungerford. Le Guardie del Corpo del Principe schieraronsi a riceverli con gli onori militari. Bentinck li accolse e propose loro di condurli immediatamente al cospetto del suo signore. Manifestarono la speranza che il Principe volesse accordar loro una udienza privata; ma fu lororisposto chʼegli era deliberato di ascoltarli e rispondere in pubblico. Furono introdotti nella sua camera da letto, dove lo trovarono fra mezzo a una folla di nobili e di gentiluomini. Halifax, cui il grado, la età , lʼabilità davano il diritto di precedenza, prese a favellare. La proposta che i Commissari avevano ordine di fare era, che i punti di controversia fossero portati dinanzi al Parlamento, a convocare il quale già si stavano suggellando i decreti, e che in quel mentre lʼarmata del Principe si fermasse a trenta o quaranta miglia lontano da Londra. Halifax dopo dʼaver detto che questa era la base sopra cui egli e i suoi colleghi erano apparecchiati a trattare, pose nelle mani di Guglielmo una lettera del Re, e prese commiato. Guglielmo, schiusa la lettera, parve oltre lʼusato commuoversi. Era la prima che ricevesse dal suocero dopo che erano in aperta rottura. Un tempo erano stati in buone relazioni e familiarmente carteggiavano; nè anco dopo che entrambi avevano cominciato a sospettarsi ed aborrirsi vicendevolmente sʼerano astenuti nelle loro lettere da quelle forme di cortesia che comunemente adoperano le persone strettamente congiunte coʼ vincoli del sangue e del matrimonio. La lettera recata daʼ Commissari era scritta da un segretario in forma diplomatica e in lingua francese. «Ho avute molte lettere del Re,» disse Guglielmo, «ma tutte sempre in inglese e scritte di suo pugno.» Favellò con una sensibilità chʼegli era poco assuefatto a mostrare. Forse in quello istante pensava quanto rimprovero dovesse arrecare a lui e alla consorte, così a lui affettuosa, la sua intrapresa, comechè fosse giusta, benefica e necessaria. Forse rammaricavasi della durezza del destino, il quale lo aveva ridotto a una condizione tale chʼei non poteva adempiere ai suoi doveri pubblici senza frangere i domestici vincoli, e invidiava lo avventuroso stato di coloro che non sono responsabili della salvezza delle nazioni e delle Chiese. Ma siffatti pensieri, se pure gli sorsero in mente, ei fermamente represse. Esortò i Lordi e i Gentiluomini, da lui convocati in questa occasione, a consultare insieme, senza lo impaccio della sua presenza, intorno alla risposta da farsi al Re. Riserbossi non per tanto la potestà della decisione finale dopo avere ascoltati i loro consigli. Quindi lasciolli, e si ritiròa Littlecote Hall, magione rurale giacente a circa due miglia di distanza, e famosa fino ai tempi nostri non tanto per la sua veneranda architettura e i suoi begli arredi, quanto per un orribile e misterioso delitto ivi commesso neʼ tempi dei Tudor.[568]
Innanzi che si allontanasse da Hungerford gli fu detto che Halifax aveva desiderato di abboccarsi con Burnet. In questo desiderio non era nulla di strano; imperocchè Halifax e Burnet avevano da lungo tempo avuto relazioni dʼamicizia. E per vero dire non vʼerano due uomini che così poco si rassomigliassero. Burnet era estremamente privo di delicatezza e di tatto. Halifax aveva delicatissimo gusto, e fortissima tendenza al dileggio. Burnet mirava ogni azione ed ogni carattere traverso a uno strumento scontorto e colorato dallo spirito di parte. La mente di Halifax inchinava a scoprire i falli deʼ suoi colleghi più presto che quelli degli avversari. Burnet, non ostante le sue debolezze e le vicissitudini dʼuna vita passata in circostanze non molto favorevoli alla pietà , era uomo sinceramente pio. Lo scettico e satirico Halifax aveva taccia dʼincredulo. Halifax quindi aveva spesso provocato la sdegnosa censura di Burnet; e Burnet era spesso lo zimbello deʼ pungenti e gentili scherzi di Halifax. Nondimeno lʼuno sentivasi vicendevolmente attirato verso lʼaltro, ne amava il conversare, ne pregiava lʼabilità , liberamente ricambiava le opinioni e i buoni uffici in tempi pericolosi. Nondimeno Halifax adesso non desiderava rivedere il suo vecchio conoscente soltanto per riguardi personali. I Commissari erano di necessità ansiosi di sapere quale fosse il vero scopo del Principe. Aveva loro ricusato un colloquio privato; e poco poteva raccogliersi da ciò chʼegli potesse dire in una pubblica udienza. Quasi tutti i suoi confidenti erano uomini al pari di lui taciturni e impenetrabili. Il solo Burnet era ciarliero e indiscreto. E nondimeno le circostanze avevano fatto nascere il bisogno di fidarsi di lui; e Halifax con la sua squisita destrezza gli avrebbe indubitatamente tratto dalla bocca i secreti, agevolmente come le parole. Guglielmo sapeva tutto questo, e come gli fu detto che Halifax andava in cerca del dottore, non potè frenarsi dallo esclamare:«Se si uniranno insieme, eʼ vi sarà un bel pettegolezzo.» A Burnet fu inibito di vedere i Commissari in privato; ma con parole cortesissime gli fu detto che il Principe non aveva il più lieve sospetto della fedeltà di lui; e perchè non vi fosse cagione a dolersene, la inibizione fu generale.
LXXII. Quel dì i nobili e i gentiluomini, ai quali Guglielmo aveva chiesto consiglio, adunaronsi nella gran sala del principale albergo di Hungerford. Oxford presedeva, e le proposte del Re furono prese in considerazione. Tosto si conobbe che lʼassemblea era divisa in due partiti, lʼuno deʼ quali era bramoso di venire a patti col Re, lʼaltro ne voleva la piena rovina; ed erano i più. Ma fu notato che Shrewsbury, il quale a preferenza di tutti i Nobili dʼInghilterra supponevasi godere la confidenza di Guglielmo, quantunque fosse Whig, in questa occasione era coi Tory. Dopo molto contendere fu formulata la questione. La maggioranza opinò doversi rigettare le proposte che i regii Commissari avevano ordine di fare. La deliberazione dellʼassemblea fu recata al Principe in Littlecote. In nessunʼaltra circostanza per tutto il corso della sua fortunosa vita egli mostrò maggiore prudenza e ritegno. Non poteva volere la buona riuscita dello accordo. Ma era tanto savio da conoscere, che ove le pratiche andassero a vuoto per cagione delle sue irragionevoli pretese, ei perderebbe il pubblico favore. E però, vinta la opinione deʼ suoi ardenti fautori, si dichiarò deliberatissimo a trattare sopra le basi proposte dal Re. Molti dei Lordi e dei Gentiluomini radunati in Hungerford rimostrarono: litigarono un intero giorno: ma Guglielmo rimase incrollabile nel suo proposito. Dichiarò di volere porre ogni questione nelle mani del Parlamento pur allora convocato, e di non procedere oltre a quaranta miglia da Londra. Dal canto suo fece certe domande che anche i meno inchinevoli a lodarlo reputarono moderate. Insistè perchè gli statuti vigenti rimanessero in vigore finchè venissero riformati dallʼautorità competente, e perchè chiunque occupasse un ufficio senza i requisiti legali fosse quinci innanzi destituito. Dirittamente pensava che le deliberazioni del Parlamento non potevano procedere libere, se dovesse aprirsi circondato dai reggimenti irlandesi, mentre egli e la sua armatarimanevano lontani di parecchie miglia. Per lo che reputava necessario che, dovendo le sue truppe rimanersi a quaranta miglia da Londra dalla parte occidentale, le truppe del Re si dovessero ritirare ad uguale distanza dalla parte orientale. In tal guisa rimaneva attorno al luogo, dove le Camere dovevano adunarsi, un ampio cerchio di terreno neutrale, dentro cui erano due fortezze di grande importanza per la popolazione della metropoli; la Torre cioè, che signoreggiava le abitazioni, e Tilbury Fort che signoreggiava il commercio marittimo. Era impossibile lasciare questi due luoghi senza presidio. Guglielmo quindi propose che temporaneamente venissero affidati alla Città di Londra. Sarebbe forse convenevole, che il Re, apertosi il Parlamento, se ne andasse a Westminster con un corpo di guardie. In questo caso il Principe voleva il diritto di andarvi anchʼegli con un eguale numero di soldati. Parevagli giusto, che, mentre rimanevano sospese le operazioni militari, ambedue le armate si considerassero come ai servigi della nazione inglese, e fossero pagate dallʼentrate dellʼInghilterra. Da ultimo richiese alcune guarentigie perchè il Re non si giovasse dello armistizio per introdurre forze francesi nellʼisola. Il punto di maggior pericolo era Portsmouth. Il Principe non insisteva che gli venisse data nelle mani questa importante fortezza, ma propose che, durante la tregua, fosse affidata al comando dʼun ufficiale meritevole della fiducia sua e di Giacomo.