Molti trattarono soggetti morali fuor della Chiesa, ma nulla di nuovo nè di sentito. Lodano iDialoghidel Tasso; ma il leggerli è fatica e inutilità . Chi conosce più che di nome laNobiltà delle donnedel Domenichi, laIstituzione delle donnedel Dolci, laMorale filosofiadi Antonio Bruciati, gliAvvertimenti moralidel Muzio, laGinipediadi Vincenzo Nolfi, e via là ? Argomenti comuni ne sono l’amore e l’onore; quello sottilizzato alla platonica, e perciò nè d’opportunità civile, nè di testimonio alla storia; questo stillato nei puntigli della scienza cavalleresca (pag. 271). ICostumi de’ giovanidel senese Orazio Lombardelli possono offrire utili confronti agli usi, al lusso, ai vizj d’allora, e sono esposti in candida lingua, sebbene non senza affettature. GiuseppePassi di Ravenna coiDifetti donneschiin trentacinque discorsi concitò l’ira femminile, come la maschile collaMostruosa officina delle sordidezze degli uomini: oltre l’esagerato e la stucchevole erudizione, ben poco vi si trova di particolare ai tempi e individuale all’autore. Il quale a quarant’anni, stanco de’ tedj provocatisi, andò nei Camaldolesi di Murano, e scrisse contro l’arte magica «piuttosto istoricamente che scientificamente, e ciò per la malvagità de’ tempi».
Gabriele Pascoli di Ravenna, dettò un romanzo, che comincia colla battaglia di Lépanto, dopo la quale alcuni combattenti vanno a diporto pel mondo, e uno capita a Genova, donde in Ispagna, e quivi in una selva trova un giovane italiano, scarno e vivente a modo di fiera, che gli racconta quanto soffrì per una bella ingrata. Il viaggiatore lo distoglie dal proposito di morire in quelle miserie, sicchè tornato alla Corte, beffa la beffatrice in modo di trarla a morte. Perciò condannato nel capo riesce a fuggire e rimpatriare. Lasciamo lodare questo romanzo dall’editore.
Sono romanzi del peggior genere molte delle biografie del Leti, e gliAmori di Bianca Capellodi Celio Malespini veronese, eppur divennero fonte a molti storici. Pierandrea Canoniero genovese stampò a RomaDiscorsi politici sui due primi libri di Tacito; fu soldato, legale, medico ad Anversa, ove pubblicòDe curiosa doctrina, ilPerfetto Cortigiano,Ricerche politiche,morali,teologiche, senza profondità . Ottavio Ferrari milanese, lettore d’eloquenza in patria e a Padova, la esercitava in lodare i principi che il compensavano. La patria lo stipendiò come storiografo; ma forse troppo timido per incarico siffatto, nulla finì, occupandosi piuttosto in gonfj complimenti accademici. Meglio valse nell’antiquaria, e investigò le origini della lingua italiana, sebbene mai non la adoperasse.
Lorenzo Magalotti romano (1637-1712), trattenuto in Toscana per ammirazione del suo limpido ingegno, scrisse di mille cose, relazioni di viaggi suoi e altrui, laStoria dell’Accademia del Cimento; tradusse il francese epicureo Saint-Evremond, di cui imitava la filosofia spiritosa, gioviale, tutta di mondo: pure scrisse contro gli atei e gl’indifferenti. Il canzoniereLa donna immaginaria(già lo mostra col titolo) ha voci di testa non di petto, e il Filicaja scriveagli: — Veggo ne’ vostri versi una tal profusione di bei concetti e di belle idee, che io non so come voi possiate scampare la taccia d’indegno scialacquatore, che non conosce moderazione, vuol sempre mettere in grande tutte le cose più piccole, e farle talmente crescere di statura, che di vane che erano diventino, gigantesche». Degli odori parlava e scriveva in estasi. Sfoggia da ambasciadore; poi richiamato a Firenze, tutto gli pare al dissotto del proprio merito; per iscontentezza si fa prete dell’Oratorio, subito se ne pente, e vergognoso si rintana in villa, finchè ritorna alla Corte.
Trajano Boccalini da Loreto (1566-1613), arguto ingegno e immaginazione focosa, fu meno stravagante nello stile che nelle invenzioni. Ne’Ragguagli di Parnasofinge che Apollo tenga corte, ascolti le querele e decida; invenzione spesso imitata, la cui monotonia è ricattata dall’interna varietà de’ giudizj sopra libri, uomini, casi. NellaPietra del paragone politicoe ne’Commentarj sopra Cornelio Tacitoinsegna i modi d’accorciar «la catena che gli Spagnuoli fabbricavano per la servitù italiana; e come non sarebbe difficile scuoterseli di dosso poichè essi non riusciranno mai a naturarsi». Preso Tacito per testo, come Tito Livio il Machiavelli, ne contrasse il veder fosco; pure in modo faceto, ferendo non lacerando, cercò rendere amena la politica, nella quale atteggiasi coi liberali d’allora, cioè nell’odioalla Spagna; declama contro la smania battagliera; loda la libertà , e ammira Venezia perchè sa «perpetuare nella florida libertà », congiungendo nel doge l’infinita venerazione colla limitata autorità , studiando alla pace mentre si prepara alla guerra, e col rigore degli Inquisitori «sepellendo vivo qualunque Cesare e qualsiasi Pompeo che si scoprisse»; col che otteneva una nobiltà inoffensiva, il non salire agli onori sommi se non per la scala de’ minori, il tornare da quelli alla modestia privata, continenza nel maneggio del danaro pubblico, tutti eguali in piazza, cara la libertà egualmente alla nobiltà che comandava e alla cittadinanza che obbediva. Pure il Boccalini non risparmia l’arroganza di que’ patrizj. Nemico de’ villani ricalzati, ai nobili raccomanda la tutela di quella poca libertà che ancora sopravvive. Non vorrebbe dispute religiose, non tirannicidj, non sommosse popolari che sempre riescono infelicissime perchè più saggio è tenuto chi più è temerario, e più zelante della patria chi consiglia cose più precipitose: ma se è bestiale ostinazione a chi è legato al carretto tirar de’ calci nelle ruote e così rovinarsi le gambe, non è a dimenticare che la pazienza degli asini fu sempre la calamita delle bastonate, e alla fin fine ogni popolo ha il governo che si merita; e che la disperazione entrata nei popoli, ancorchè disarmati, imbelli e ignoranti, fa trovare per ogni cantone armi, cuore e giudizio.
Avversissimo ai Protestanti e anche alla tolleranza religiosa; deride i riformatori, alcuni de’ quali erano moralisti puri, che davano per rimedio l’obbligare gli uomini alla carità e all’amor vicendevole; altri politici puri, che predicavano di non dare le dignità se non al merito e alla virtù, impedire le monarchie troppo grandi, frenare l’ambizione de’ principi, e la riforma e il governo affidare ai letterati; altri andavano allaradice, chi vedendo ogni male nelle donne e nel matrimonio, chi chiedendo una nuova partizione de’ possessi, chi di togliere affatto l’oro e l’argento, chi invece il ferro; chi di rompere ponti e strade, e proibire viaggi e navigazioni: e conchiude di vivere col mancomale, e far la difficile risoluzione di lasciare il mondo qual si è trovato. Neppure all’evocare il passato sulla scorta di Tacito ad esplicazione del presente e norma dell’avvenire, mostra egli vigore, celiando anzichè bestemmiare: pure eccitò l’indignazione, e una notte fu battuto di maniera che ne morì[218].
Secondo Lancellotti di Perugia (1565-1643), prete e di molte accademie, di stile gretto ma risoluto e con dottrina, tolse a provare che il mondo non era moralmente o intellettualmente deteriorato, nè soffriva traversie peggiori che per l’addietro; e composedisinganni, in ciascuno combattendo un pregiudizio con fatti e testi accumulati. Sovrattutto beffa costoro che parlando dell’Italia, ripetono sempre «una volta era, una volta fu»; e vuol mostrare che malanni ella ebbe sempre, sempre imperfezioni e vizj, sempre avversità e disgrazie, eppure sempre per mille titoli fu signora la più bella, la più nobile, la più degna dell’universo. Altrove rivela iFarfalloni degli antichi storici, precorrendo a molti moderni negli appunti contro la storia romana, non nella critica sensata che abbatte per riedificare.
Alessandro Tassoni modenese (1565-1635), da giovane avea sostenuto che i moderni non sono inferiori agli antichi,combattuto Aristotele retore, cuculiato coloro che credevano «non si possa scrivere dritto senza la falsariga del Petrarca»: e i contemporanei lo tacciavano di avverso a Omero e ai classici, perchè di essi vedeva anche i difetti, e diceva: — Io voglio dir delle novità ; chè questo è il mio scopo; e addimando parere agli amici, non perchè mi avvertiscano di quello che ho detto contro Aristotele, ma perchè mi ammendino se ho detto delle sciocchezze»[219]. Pensatore originale, carattere indipendente, grammatico sottile non pedante, serbò gusto e libero giudizio, malgrado l’erudizione; e la facile festività non contaminò coi concetti, benchè manchi della finezza e decenza che costituiscono la grazia. Il poema dellaSecchia rapitatrovò grandissima difficoltà a stamparsi, atteso il continuo suo satireggiare: pure Urbano VIII se n’invaghì; pel pizzicore poetico che aveva, indicò alquante correzioni al poeta, che lo secondò col ristampare i cartini ne’ pochi esemplari offerti al papa. Per vendicarsi del conte Brusantini, dal cui segretario dottor Majolino era stato offeso, lo ritrasse nel vanitoso e ribaldo conte di Culagna. Nè egli si propone che un esercizio letterario; della libertà italiana, delle guerricciuole fra le repubblichette non sa che ridere; e per far ridere s’intresca in sudicerie e lascivie. Il poeta che celia sui cadaveri, non può seriamente piacere: eppure di quei ringhi municipali egli provava le conseguenze, egli che contro gli Spagnuoli avventò leFilippiche, chiamandoli «stranieri imbarbariti da costumi africani e moreschi, intisichiti nell’ozio lungo d’Italia e nella febbre etica di Fiandra, come un elefante che ha l’anima d’un pulcino, un gigante che ha le braccia attaccate con un filo; che non reggono in Italia perchè vagliano più di noi, ma perchè abbiamoperduto l’arte del comandare; non ci tengono a freno perchè siamo vili e dappoco, ma perchè siamo disuniti e discordi; pagano la nobiltà italiana per poterla meglio strapazzare e schernire; stipendiano i forestieri per aver piede negli altrui Stati; avari e rapaci se il suddito è ricco, insolenti s’egli è povero, insaziabili in guisa che non basta loro nè l’oriente, nè l’occidente; infettano e sconvolgono tutta la terra cercando miniere d’oro; le rapine chiamano proveccio, la tirannide ragion di Stato; e saccheggiate e disertate che hanno le provincie, dicono d’averle tranquillate e pacificate». Tutta la forza loro consiste «in que’ soldati che, avvezzi a pascersi di pane cotto al sole, e di cipolle e radici, e a dormire al sereno con le scarpe di corda e la montiera da pecorajo, vengono a fare il duca nelle nostre città e a mettere paura, non perchè siano bravi, ma perchè non avendo mai provato gli agi della vita, non curano di perderla a stento: forti solo mentre stanno rinchiusi nelle fortezze, invitti contro i pidocchi, pusillanimi incontro al ferro, questi son quelli che spaventano l’Italia».
Non s’accorgea d’indicare appunto ove stava la superiorità degli Spagnuoli, l’abitudine alle armi e alla dura milizia. Così diceva e forse pensava egli quando gioiva de’ favori del duca di Savoja, al quale non cessava di raccomandare d’unirsi cogli altri principi d’Italia, e basterebbe a cacciare i nemici: ma «i satrapi della dottrina, e i più dotti che son sempre i più pusillanimi», diceano impossibile l’impresa; i nobili e i cavalieri spasimavano onori e croci «premj di patteggiata servitù».
Il Sozzino genovese, uno «di quegli infelici che godono o almeno non curano di essere dominati da popoli stranieri», scrisse a depressione dell’Italia e a favore della dominazione spagnuola e contro il duca diSavoja; e il Tassoni gli oppose un gran panegirico di questo. Il quale gli promettea pensioni ma non le diede, ond’egli se ne lamentò, e «M’accorsi che nè di pillole dorate nè di cortesi parole dei principi bisogna fidarsi... Al cane forestiero tutti quelli della contrada gli abbajano; i principi hanno sempre le mani lunghe, ma rare volte larghe». Per chetarlo, il cardinale Maurizio lo menò seco a Roma; ma poi vedendolo inviso alla Spagna, della quale ambiva farsi dichiarar protettore, lo scansò e rinviollo, pretendendo avesse pigliato l’oroscopo suo, e predetto indicasse un ipocrito; e per quanto egli si purgasse, disdicesse anche leFilippiche, non si lasciò più smuovere perchè «i principi per la loro riputazione vogliono sostenere anche le cose mal fatte».
«Questi (dic’egli) furono i guiderdoni e i successi della mia servitù colla casa di Savoja... E confesso che mancai di consiglio, perciocchè, avendo veduto il cavaliere Guarino uscir malissimo soddisfatto di quella Corte dopo dedicata la bellissima sua pastorale, e il Marino carcerato per tanti mesi dopo il merito del suo panegirico, e Obignì strozzato, e tanti altri che avevano fatto naufragio, dovea andar più cauto in avventurarmi in mare tempestoso, che finalmente non ha porto se non per vascelli di piccola capacità ». Ben si fece dipingere con un fico in mano, a significare l’unico premio venutogli dalle Corti; ma non le abbandonò, e ai servigi del cardinale Lodovisi e del duca di Modena consumò la restante vita.
Come il Tassoni de’ tempi che più non erano, così degli Dei cui più non si credeva volle prendersi burla Francesco Bracciolini da Pistoja (1566-1645). Si levò gran disputa qual di questi due inventasse il genere eroicomico: nè l’un nè l’altro dirà chi abbia letto ilMorgante, l’Orlando Furiosoe l’Innamorato. Il Bracciolini, ricchissimo di modi e franco di vena, compose altri poemi, fra cui laCroce riacquistata da Eracliodicono sia il migliore dopo il Tasso, e nessun lo legge; come non si legge il Graziani, che a ventidue anni fu applaudito per laCleopatrain sei canti; poi per laConquista di Granata, imitazione dello spagnuolo Mendoza; e molto più, attesa l’attualità , per la sua tragedia delCromwell. E di epopee fu poveramente ricco quel secolo, eroiche, morali, sacre, comiche, e tutte dimenticate. Lasciandole noverare dai bibliografi, noi mentoveremo uno da essi dimentico, Giulio Malmignati di Lendinara, di cui l’Enrico o Francia conquistata(1623) fu probabilmente conosciuto a Voltaire, che finisce il suo poema al modo stesso, che fa pure assumere Enrico IV in cielo a vedere le sedi dei principali illustri, ed esortare da san Luigi a farsi cattolico.
Il pittore Lorenzo Lippi (-1664) alla corte di Claudia di Baviera compose un poema, intitolandolo dal nome d’un castello in rovina che l’architetto Paris possedeva presso Firenze, e fingendolo capitale d’un regno, la cui signora è spossessata da una cortigiana, poi ristabilita colla guerra. Difficile sarebbe dire il contesto e tanto meno l’intento delMalmantile riacquistato; eppure si legge volentieri, al modo che s’ascolta un bel parlatore fiorentino. Giambattista Lalli da Norcia cantò laGerusalemme desolata; ma presto voltatosi al giocoso, fece i poemi delDomiziano moschicida, delMal francesee l’Eneide travestita.
Puro ma inelegante è ilRicciardettodi Nicolò Fortiguerra (-1735), scritto per iscommessa un canto al giorno, con pazzesche buffonerie, riproducendo in caricatura gli eroi dell’epopea romanzesca; sempre ridendo senza riflessione nè scopo[220], buttandosi all’osceno, e abusandodella facilità nel verseggiare. Francesco Redi di Arezzo (-1694), che di tutto seppe, scrisse perbene molti sonetti, e ilBacco in Toscana, brindisi imitato non raggiunto. Fulvio Testi modenese (-1646) di franca facilità e d’un far largo che somiglia a maestà , manca dell’aroma dello stile che eterna le opere, dà troppo nell’ingegnoso e fiorito, accumula sentenze, e verseggia una morale da prediche. Egli si lagnava della prostituzione delle Muse italiane[221]: ma l’ode a Carlo Emanuele (pag. 198), che gli valse una collana d’oro e la non ancora prostituita croce di San Maurizio e Lazzaro, il fece processare ad istanza del governatore di Milano. In contumacia condannato al bando e a ducento ducati, se ne redense con versi in senso opposto. Visse nelle Corti e ambascerie, onorato e invidiato, finchè un illustre personaggio credendosi adombrato nella sua canzone alRuscelletto orgoglioso, lo fece mal capitare.
— La poesia è obbligata a far inarcare la ciglia; come il mio concittadino Colombo, voglio o trovar nuovomondo o affogare»; così diceva Gabriele Chiabrera da Savona (1552-1637), il quale imputando i nostri di timidezza, cercò immagini grandi, espressioni figurate, parole composte, metri insoliti, ne’ quali mostrò squisito senso delle armonie convenevoli alla poesia italiana, mentre le costruzioni nuove date alla lingua non sempre sono acconce, nè desunte dalle popolari. Delle perpetue allusioni mitologiche non lo scusa neppur la necessità di lodare qualche oscuro ginnasta, e principi che non eccitavano entusiasmo. Fece un sobisso di poesie, discorsi devoti in prosa, drammi per musica, cinque poemi epici, e più poemetti senza la lode della regolarità nè il merito dell’ispirazione. I sermoni di genere medio sono tra i migliori nostri. Bellezze molte ha per certo; ma qual cosa di grande, di intimamente sentito? quale delle sue odi vive nelle memorie? Il Chiabrera «in patria incontrò, senza sua colpa, brighe, e rimase ferito; la sua mano fece le sue vendette, e molti mesi ebbe a stare in bando». Carlo Emanuele lo invitò alla Corte, il regalò d’una catena d’oro, lo fece accompagnare in carrozza di Corte a tiro a quattro, e ogni volta che tornasse a Torino gli dava trecento lire pel viaggio: altrettante gentilezze ottenne da Vincenzo Gonzaga, da Urbano VIII, dalla repubblica di Genova, fin di coprirsi quando ragionava a’ serenissimi collegi: e ad ottantacinque anni protrasse sana e placida la vita, non senza cetra.
Non mancava dunque favore ai letterati: i pontefici li proteggevano, e più di tutti Urbano VIII; i Medici carezzavano artisti e scrittori; Carlo Emanuele, fra tante brighe non li dimenticò, e spesso li metteva a disputare. Gianvincenzo Pinelli di Napoli faceasi a qualunque prezzo trasmettere quanti libri uscivano, e formò una biblioteca classificata per materie, oltre un museo di globi, carte, strumenti matematici, fossili, medaglie rare. Vendutaalla sua morte, il vascello che portavala è predato dai corsari, che buttano in mare o disperdono sulle coste la mal conosciuta merce, i pescatori raccolgono i fogli per ristoppar le barche e far impannate alle finestre; il rimanente è comprato tremila quattrocento scudi d’oro dal cardinale Federico Borromeo, che ne fece fondamento alla biblioteca Ambrosiana. La quale aperse egli al pubblico coll’insolita comodità di tavolini e carta e calamajo; e vi aggiunse un collegio di dottori, che esaudissero alle inchieste degli studiosi, e pubblicassero opere nuove. Andò disperso il museo che avea raccolto Giannantonio Soderini veneziano, il quale pellegrinò in Levante, lodato come dottissimo dallo Spon e dal Weler viaggiatori eruditi, dal Patin, dal Magni.
Angelo da Roccacontrata agostiniano (-1620), direttore della stamperia Vaticana, una preziosa libreria donò al suo convento in Roma, detta Angelica, a condizione che restasse aperta al pubblico. Il cardinale Girolamo Casanate napoletano (-1700) favorì i lavori dei dotti, e massime laCollectaneadello Zacagni; e la ricchissima sua libreria legò ai Domenicani della Minerva di Roma, con quattromila scudi di rendita. Un’amplissima ne raccolse pure Francesco Marucelli prelato fiorentino nel palazzo fabbricatosi a Roma, e lasciollo a Firenze. Domenico Molino (-1635), gentiluomo veneto, carteggiava coi principali dotti anche d’oltremonte, ajutava di consigli chi componeva, e di denaro chi stampava. Lorenzo di Federico Strozzi (-1634), massime dopo perduta la vista, nella casa sua a Firenze adunava ogni miglior dottrina; altrettanto a Napoli Giambattista Manso; e in Roma Cassiano dal Pozzo gentiluomo torinese, il quale fece disegnare dal Poussin e da Pietro Testa in ventiquattro volumi le antichità romane, e unì la sua biblioteca a quella di Clemente XI. Giuseppe Valletta (-1658), de’ suoi diciottomila volumi facea comodità a chiunque, perciò in corrispondenzacon tutti gli eruditi, e passava pel solo che in Napoli parlasse inglese.
I papi fin de’ primi tempi raccolsero carte e libri; san Clemente ordinò a notaj che scrivessero gli atti de’ martiri, alla cui collezione san Gelasio fece mettere qualche ordine, origine degli stupendi archivj del Vaticano. Per quanto piccola ci sia apparsa in altri tempi la Vaticana, rimaneva sempre la principale libreria del mondo cristiano; a Gregorio Magno scriveasi dalla Gallia per averne le opere di sant’Ireneo, e da Alessandria pel martirologio d’Eusebio[222]; sant’Amando vescovo di Tongres chiedeva libri a Martino I, e re Pepino alcuni manoscritti greci da donare alla badia di san Dionigi; Lupo abate di Ferrière a Benedetto XIII i commenti di san Girolamo sopra Geremia, quei di Donato su Terenzio e l’Oratoredi Cicerone[223]. Ciò nel più fosco medioevo. Andò poi ampliandosi al risorgimento; e Calisto III spese quarantamila scudi d’oro per salvare libri dai Turchi quando devastavano la Grecia; altrettanto Nicola V alla presa di Costantinopoli, e spediva dotti per tutta Europa a cercarne; Pio IV adoprò ad egual uso il Panvinio e l’Avanzati; più fecero Sisto IV e Leone X; poi Paolo V, spintovi dal Baronio. Quando il duca di Baviera nella guerra dei Trent’anni saccheggiò l’ammirata biblioteca di Eidelberga, Urbano VIII, coll’opera di Leone Allacci, ne raccolse il più che potè, e quattrocentrentun manoscritti greci, mille novecencinquantotto latini, ottocenquarantasette tedeschi ne furono portati alla Vaticana[224]. Alessandro VIIe l’VIII v’aggiunsero mille novecento manoscritti varj di Cristina di Svezia e della biblioteca ducale d’Urbino. Difettavasi di manoscritti ebraici, siriaci, armeni, egizj, etiopi, malabarici e simili: ma Gabriele Eva maronita, dalla Propaganda spedito in Egitto, avendovi osservato biblioteche ricche e mal tenute, fu spedito il maronita Elia Assemani a raccorne per la Vaticana; altri le furono regalati o lasciati; poi di nuovi andò a cercarne Simone Assemani, il quale compilò laBiblioteca orientalea imitazione della greca di Fabricio, che è ancora il miglior catalogo che s’abbia in tal fatto.
Caterina e Maria de’ Medici regine apersero la Corte di Francia a molti begli ingegni italiani; poi Luigi XIV, che ambiva anche la gloria d’Augusto, molti de’ nostri regalò e stipendiò; Filippo IV, poeta e pittore egli stesso, comprava da Palermo lo Spasimo, da altri la Sacra Famiglia e la Madonna della Tenda, i lavori più insigni di Rafaello, l’Adone addormentato sulle ginocchia di Venere del Veronese, per rivaleggiare col soggetto stesso del Tiziano; al Domenichino diede commissioni, come a Guido, al Guercino, all’Albani, che con tele del Caravaggio, del Cambiaso, d’altri nostri fanno ammirate le gallerie dell’Alcazar e di Aranjuez; e volle più di trecento gessi delle migliori statue d’Italia.
Più solenne ricordo lasciò Cristina di Svezia. Uomo d’apparenza e d’atti, negletta nel vestire, semplice nel mangiare, insensibile a freddo, a caldo, a sonno, cavalcatrice instancabile, volubile amante, ereditando il regno e la gloria del gran Gustavo Adolfo, sentì difficile il sostenerla; e desiderando farsi cattolica, essa figlia di quel che in Germania avea dato trionfo alla Riforma, abdicò e venne in Italia (1654). Festeggiata quanto richiedevasi a sì segnalata conversione, alla santa casa di Loretoofferse votivi lo scettro e il diadema; e postasi a Roma nel più bel palazzo del mondo, vi si divise fra studio, divertimenti, onori, quali a pochi principi del suo tempo. Non sapea dimenticarsi d’essere stata regina; e come in Francia fece privatamente giustizia del Monaldeschi suo famigliare, così a Roma essendosi ricoverati nel suo palazzo alcuni malfattori, essa negò concederli alla giustizia, e poco poi s’andò a comunicare menandosi dietro colla sua livrea quegli scampaforca. Il papa le comportava queste ed altre stranianze; tardando la pensione che s’era riservata dalla Svezia, le assegnò dodicimila scudi romani. Ed essa largheggiava a letterati e artisti; fece sterrare le terme di Diocleziano; al Borelli dava i mezzi di pubblicar l’opera sul moto degli animali; al Bernini commise una testa del Salvatore, e la vita di lui fece scrivere dal Baldinucci; tenne per secretario Michele Capellari bellunese, che la lodò in un poema latino; per matematico Vitale Giordano da Bitonto; a Ottavio Ferrari per un elogio regalò una collana da mille zecchini; dal Soldani fece fare in cento medaglie la propria storia. All’Accademia istituita nel suo palazzo intervenivano il Noris che fu poi cardinale, Angelo della Noce arcivescovo di Rossano, Giuseppe Maria Suares vescovo di Vaisons, Gianfrancesco Albano che poi divenne Clemente XI, Manuello Schelestrate, vescovi e monsignori molti, Stefano Gradi bibliotecario della Vaticana, Ottavio Falconieri antiquario, il Dati, il Borelli, il Menzini, il Guidi, il Filicaja che celebrava «La gran Cristina, dal cui cenno pende E per cui vive e si sostien la fama; Lei che suo regno chiama Quanto pensa, quant’opra e quanto intende». Aggiungete il meschino poeta Gian Mario Crescimbeni da Macerata (-1728), che raccolse laStoria della vulgare poesia, materia scompigliata esposta prolissamente e con gusto vacillante, pregevole solo per molte cose nuove tratte in luce.Disperando parlare di tutti i poeti celeberrimi del suo tempo, e temendo disgustar quelli che ometterebbe, il Crescimbeni ne imbussolò tutti i nomi, e cavò a sorte quelli di cui parlare; tutto ciò in presenza di testimonj, e prendendone legale protocollo.
Morta Cristina[225], egli pensò conservare uniti quei valenti, istituendo l’Arcadia, che divenne l’accademia più famosa d’Italia per meriti e per ridicolo. I quattordici fondatori s’adunarono primamente il 5 ottobre 1690 a San Pietro Montorio, poi negli Orti Farnesi sul Palatino; finchè Giovanni V di Portogallo diè di che comprarsi una stanza propria, che fu il Bosco Parrasio sul Gianicolo. Cresciuti di numero e di corrispondenti, ebbero colonie in ogni parte d’Italia; e doveano fingere un’Arcadia rinnovata, assegnando a ciascuno nomi pastorali e possessi, e conforme a ciò mescendo dappertutto idee campestri e pastorali: emblema la siringa di Pan, serbatojo l’archivio, custode il presidente, contare gli anni per olimpiadi, e gli statuti ne furono scritti dal Gravina nello stile delle XII Tavole[226]: insomma un’idealità senza riscontri, sformata viepiù dallo scegliersi a patrono Gesù nel presepio. Si prefiggevano di purgare il mal gusto; ma se di questo era causa lo scompagnare le cose dalle parole, come sperarlo corretto da gente che s’adunava per recitar versi, versi fatti per recitare? Emendavasi l’enfasi, ma rimanendo nell’artefatto anzichè ricorrere alla natura; e Vincenzo Leonio spoletino, un de’ primi in Arcadia, combattè i traslati e rimise in onore il Petrarca, sicchè andavasi fuor di porta Angelica a leggerlo e gustarlo.
Alle convulsioni dunque sottentrava il languore: ma intanto si piegava a correggersi, e i migliori tra quei che nominammo introdussero una maniera diversa e più originale di quella de’ Cinquecentisti. Vincenzo Filicaja fiorentino (1642-1707), per nobile pensare, vigorosa immaginativa, sentimento di religione e di patria sorvola ai contemporanei, e mostra parlar col cuore deplorando l’assedio di Vienna[227], esultando alle vittorie di Sobieski sui Turchi, e gemendo sui mali d’Italia, straziata dalla guerra di successione, e troppo bella o troppo poco forte: pure col ripetere certe formole e certi passaggi rivela la mancanza d’ispirazione, affetta soverchiamente la sonorità , e ancora si pompeggia nei cenci del Seicento; si tiene sulle generali, quasi tema disgustare o i popoli o i re, interi non esprimendo nè la gloria de’ trionfi nè il tripudio della speranza. Visse modestissimo; tardi fu fatto senatore dal granduca; Cristina di Svezia fece educare due figli di esso, raccomandando il segreto, perchè, dicea, vergognavasi di far sì poco per un tanto uomo.
Il pavese Alessandro Guidi (1650-1712) cominciò colle solite ampolle[228], poi per consiglio d’amici a Roma si volsea Pindaro, al Petrarca, al Chiabrera; è più immaginoso di questo e del Filicaja, e meglio sostenuto e felice nel maneggio della lingua e nell’onda armonica, professa, dove gli appaja grandezza, scoccare gliinni dell’alma sua prole immortale. Comincia magnifico, ma non trattando soggetti di reale interesse, nè con veracità o attualità di sentimento, finisce freddo malgrado il ditirambico disordine, e la troppo apparente cura di reggersi sempre in punta di piedi; a tacere la scipita idealità della vita pastorale anche quando canta sul colle di Quirino, «ove i duci altieri dentro ai loro pensieri fabbricavano i freni ed i servili affanni ai duri Daci e ai tumidi Britanni». Poeta di immagini, sovente le esagera; orna ed amplifica quanto il Chiabrera, profondendo epiteti non, come questo, appropriati al senso ma all’armonia. All’Endimione, favola pastorale da lui composta per Cristina, acquistarono fama il credersi v’abbia posto mano ella medesima, e l’averne fatto un commento il Gravina, scegliendola a modello delle regole che prescriveva. Parafrasò in versi sei omelie del cardinale Gianfrancesco Albano; ma anche i santi si atteggiano d’Arcadia.
E coll’Arcadia e colla mitologia ristucca Benedetto Menzini fiorentino (1646-1704). Alle satire trae nerbo dall’ira, benchè de’ vizj non gli si affaccino che i più appariscenti, e spéttori invettive da trivio, giudicando che «ai poeti satirici le parole tolte di mezzo alla plebe vagliono altrettanto che le nobili agli eroici; ma non seppefondere lo stile degli antichi col vivo. Nell’Arte poeticaflagella il gusto cattivo, più che non ne insegni un buono. Menò vita agitata, finchè ricoverato sotto il manto papale, strimpellò pastorellerie come è l’Accademia tusculana.
Giambattista Zappi imolese (1667-1709), dottorato a tredici anni, avvicendò i trionfi del fôro e del Parnaso, ma senza uscire dalla povertà , che divise con Faustina Maratti,arcades ambo. Corretto ed elegante, ma senza la divina favilla, fa versi per far versi, non per bisogno d’espandere il sentimento, e sottiglia in arguzie.
Carlo Maggi (1630-99), segretario del senato di Milano, molti epigrammi tradusse dal greco, appicciandovi arguzie, come gli scultori d’allora ammanieravano le copie di statue antiche. Componeva felicemente in milanese satire di coraggioso intento e commedie, nelle quali creò i tipi del Meneghino, buon pastricciano, servitore curioso e credenzone, e di donna Quinzia, vecchia dama orgogliosa del suo blasone; e molti suoi motti rimasero proverbiali. Ne’ drammi per l’arrivo de’ nuovi governatori non risparmiava le salacità , che non so come si conciliassero colla grande devozione d’allora, e «coll’aureo irreprensibil costume», di cui lo loda il Maffei. Qualche suo sonetto vigorosamente rimbrotta l’Italia, addormentata in sorda bonaccia, e dove se alcuno provvede ai mali imminenti, non cerca che il proprio scampo, senza curare i danni altrui.
Alessandro Marchetti da Pistoja (1633-1711) variò studj, di nessuno soddisfatto finchè il Borelli nol pose alla geometria, di cui fu maestro in Pisa, e dove estese le dottrine di Galileo sulla resistenza dei solidi, troppo però inferiore ai grandi che presumeva emulare. Le sue liriche sono mediocri, come la versione d’Anacreonte; peggio quella di Lucrezio, qualunque sia il parere più vulgato o più vulgare.
E più che nel secolo precedente sentivasi il bisogno di fare del nuovo, benchè si cercasse per false vie. Quindi molti cantarono i guaj o le speranze della patria; il Guidi introdusse le canzoni libere, il Tassoni i poemi eroicomici, il Redi la varietà del ditirambo, il Chiabrera metri al modo latino o greco. Pier Jacopo Martelli bolognese (1665-1727), che, oltre sette satire, tre poemi e un profluvio di liriche, fece ventisei drammi col proposito d’innovare l’insulso teatro, acciocchè non fosse mestieri ricorrere a versioni dal francese, ai Francesi s’accostava perfin nella testura del verso, che da lui nominammomartelliano. Già monotono a declamare, egli per giunta lo rigonfiò con immagini liriche, similitudini artifiziose, tutto insomma ciò che meno s’addice alla tragedia.
E molte tragedie si fecero di quel tempo; molte commedie, fra le quali solo mentoverò quelle del Fagiuoli (1660-1724), fatte per l’Accademia degli Apatisti, che si adunava a Firenze in casa di Agostino Bollettini, e dove intervenivano il Filicaja, il Salvini, il Magliabechi, altri. Condotto dal cardinale Santa Croce in Polonia, come secretario, mostrò abilità agli affari, e da quel punto continuò a notare ogni sera quanto avea visto e riflettuto nella giornata. Reduce in Italia, poveramente visse fin a tarda vecchiaja, e ne’ capitoli berneschi evitò le sudicerie che ne pajono inseparabili.
Il teatro, sorvegliato dai vescovi, scemò se non abbandonò le scurrilità del Cinquecento, ma originalità non ebbe. La commedia italiana, nel 1577 introdottasi a Parigi, traeva tanto concorso, che ne ingelosirono gli altri teatri; ma rappresentavansi per lo più burlette da figurarvi gli attori, anzichè i compositori. Nel 1645, per protezione del Mazarino, vi fu recata l’opera italiana. Ma a que’ sommi contemporanei francesi, Corneille, Racine, Molière, nulla abbiamo da contrapporre.Titolo di Sofocle italiano pretendeva Gian Vincenzo Gravina di Rogliano (1664-1718) per cinque infelici tragedie. NellaRagion poetica, trattato che non si disgradirebbe un secolo più tardi, sostiene con lungo raziocinio consistere la poesia nella convenevole imitazione; ma neppure da questo principio sa dedurre tutte le conseguenze. Borioso, mordace, si avversò l’Arcadia coll’arrogarsene tutto il merito, e fu accannitamente percosso da Quinto Settano. Ascondevasi sotto questo nome Lodovico Sergardi senese gesuita, che con satire velenosissime ed eleganti, e diffuse in tutta Europa perchè latine, azzannò i vizj del secolo[229]e gli uomini, fra cui il Guidi, che altri credeva gigante, egli intitolavapumilio.
Tommaso Ceva milanese (1648-1756) la matematica unì colla poesia latina, agevole coloritore ma di tocco; irresoluto s’adagia negli antichi errori, come più poetici; attribuisce all’abbandono d’Aristotele le eresie di Lutero e Calvino; ribatte i vortici di Cartesio e gli atomi di Gassendi, ma anche il sistema copernicano, come avversi alla fede; e sostiene l’attrazione col nome di simpatia. Meglio procede allorchè si appaga d’essere poeta, come nelleSelvee nelGesù infante; ma si trastulla sempre nell’epigramma: anche volendo fare un quadro grande lo tessella di quadrettini, graziosi sì, ma senza insieme, e tutti immaginuccie di fanciulli, pastorelli, agnelletti;non mai sapendo staccarne la mano o accorgersi delle sconvenienze, tanto meno elevarsi; e per far amare Gesù e aborrire il diavolo non altre vie conosce che le riverenze, il rosario, le orazioni. Alquante vite, di dettatura buona e temperata come il suo spirito, diresse a pio intento; e in quella del Leméne ascende a buone ragioni di arte poetica.
Aggiungiamo ai latinisti Publio Fontana di Palusco bergamasco, l’Averani fiorentino, il Capellari, lo Strozzi che cantò la cioccolata; il gesuita Carlo d’Aquino che, oltre unAnacreon recantatusdi sentimento devoto, fece unLexicon militare, spiegando i termini di guerra con osservazioni eccellenti ed erudite discussioni. Sotto gli auspicj di Alessandro VII si stamparono a Roma nel 1656 iPoemata septem illustrium virorum, detti talvoltaPlejas alexandrinae che fu poi ristampata dagli Elzevir nel 1672. Sono Alessandro Pollini, Natale Rondinini, Virginio Cesarini, Agostino Favoriti, Stefano Gradi, e gli stranieri Ruggero Torck e Ferdinando Fürstenberg, il quale ultimo pubblicò ad Anversa le poesie di papa Alessandro col titoloPhilomati musæ juveniles(1654). Molti Gesuiti adoprarono il latino, principalmente nelle controversie, ma in generale danno nel declamatorio; colpa forse il cominciare giovanissimi a fare il maestro. E moltissimi libri d’istruzione diedero fuori, certo i migliori di quell’età .
Qui pure s’introdussero le difficili puerilità di acrostici, d’enigmi, di versi correlativi o ricorrenti, di poemi figurati[230]; e Baldassarre Bonifazio pubblicò a Venezia ilMusarum liber ad Dominicum Molinum, che sono ventisei faccie stampate e ventidue incise, rappresentantii seguenti oggetti:Turris, clypeus, columna, calaria, clepsydra, fusus, organum, securis, scala, cor, tripus, cochlea, pileus, spathalion, rastrum, amphora, calix, cubus, serra, ara. Più ampia è la raccolta del Caramuel a Roma nel 1663, intitolataPrimus calamus ad oculos ponens metametricum, quæ variis currentium, recurrentium, adscendentium, descendentium, nec non circumvolitantium versuum ductibus, aut æri incisos, aut busso insculptos, aut plumbo infusos multiformes labyrintos exornat; e sono ottocentrentaquattro pagine, di cui ventiquattro intagliate, divise in otto parti, cioèProdromus, Apollo arithmeticus, Apollo cetricus, anagrammaticus, analexius, centonarius, polyglottus, sepulchralis. Smisurata fatica d’insaccar vento.
Anche qui dunque languidezza o vanità ; e la ciarla, al solito, ornava i funerali del pensiero e della nazione. Prolissità e confusione nei più, persino in quelli che raccontano: scarsezza di pensieri, e perciò abbondanza di parole: coloro stessi che si stomacavano delle bizzarie correnti, non cercavano schivarle innalzandosi al sentimento, ma rifuggendo ai Cinquecentisti, al Petrarca, al Boccaccio: — e v’era passata di mezzo la Riforma.
I nostri vecchi erano divenuti modelli ai Francesi, agli Inglesi, agli Spagnuoli, perchè erano stati nazionali, cioè aveano svolto il pensiero in modo conveniente a coloro cui si dirigevano: adesso la spontaneità facea schifo, s’imitava, si contraffacea. Alcune menti severe s’approfondirono negli studj, e proclamarono verità che prevenivano i tempi: ma quando l’erudizione vendicatrice venne a dar loro ragione, dove le cercò? in libri non curati dai contemporanei, dimentichi dai posteri; non nella memoria del popolo, non nell’attualità degli affari e delle applicazioni.
Non che l’Italia fosse più guardata come la stella polare,i forestieri presero in beffa la nostra maniera: Shakspeare contraffece i concettini degli Italiani; Boileau rese proverbiale l’orpello del Tasso; il gesuita Bouhours, nellaManiera di ben pensare nelle opere d’ingegno, bersagliò i poeti nostri e i concettini; il marchese Gian Gioseffo Orsi di Bologna, gran dittatore di scienza cavalleresca, tolse a confutarlo, donde un litigio dentro o fuori, senza però che alcuno si elevasse a liberali pensamenti; e il pesarese Prospero Montani si meravigliava che tutti costoro, invece di stabilire canoni ragionevoli di gusto, volessero appoggiarsi unicamente ad Aristotele, ad Ermogene, a Falereo, dicendola «prostrazione di mente, genio tapino e illiberale, vilissima frenolatria». In fatto l’attenzione volgevasi ai grandi scrittori, ai grandi pensatori di Francia, dell’Inghilterra, della Germania; e sul merito loro, sulle loro opinioni foggiavansi il gusto e il raziocinio, pel bene e pel male; e si pensò tradurli, mentre i nostri cessavano di passar le Alpi. Fin nelle arti del disegno fummo superati; e nella musica si contendeva il primato ai nostri compositori, ai nostri cantanti.
Il sapere zoppica quando non sia appoggiato all’azione. Ora in Francia, in Olanda, principalmente in Inghilterra non si troverebbe letterato di grido che non abbia preso parte alle vicende della sua patria, se non altro cogli scritti. Gl’Italiani rimasero sequestrati dal gran movimento politico e religioso. Nella ricchissima letteratura francese vive e spira la storia di quella nazione, perfino ne’ romanzieri, nelle tragedie, nelle commedie; tanto che si potrebbe scriverla, non dico fedelmente, ma interamente sopra di essi. Ma in Italia? la frase non era arma d’attacco o difesa, ma vanità e ozio: ciarla prosastica o poetica, senza serietà nè passione nè grandezza, non favellava al cuore, sì bene alla voluttà materiale o ai vulgari capricci: non si acuiva lo stileper farsi intendere dai partiti, per animar la parola col sentimento comune: a che si aspirava? a destar meraviglia; che cosa si bramava? l’applauso delle accademie; non ascoltando il cuore, non interrogando i profondi misteri della vita, i bisogni della nazione, il suo passato, il suo avvenire.