Capitolo XVIII.Olimpia Marazzani.
Esaurito il proprio còmpito, mastro Pellegrino di Leuthen lasciò il castello e si affrettò a raggiungere l’aristocratica brigata de’ suoi ospiti, che — usciti di chiesa — erano già saliti al quartiere di Monte Aguzzo, per ivi assistere alla rappresentazione dell’Assiuolo.
Su sedie mobili e palchi e gradinate posticce, e’ si tenevano seduti all’aria aperta di fronte al baraccone di tele dipinte, inghirlandato di fiori, che i comedianti avevano eretto su la piazzuola di quel quartiere e che doveva servir di teatro.
Dietro i signori, si stipava in piedi la folla, cui si eran frammisti giocolieri e merciaiuoli, che il bruzzolo impediva dal continuare ne’ loro esercizi e ne’ loro commerci.
Alla comedia dettata dal suo autore in pretto volgar fiorentino e con assai maestria divisata, s’era fatto subire ogni sorta di varianti, di aggiunte e di mutilazioni. — L’un personaggio vi parlava il vernacolo napolitano, l’altro il bergamasco, un terzo un miscuglio di spagnuolo e francese tutto sproloqui e basse scurrilità ; le maschere dell’Arlecchino e del Dottore, comecchè nella loro infanzia, vi facevano già capolino:la comedia, insomma, era adimata al semplice uficio di tessera, su la quale ciascuno creava il dialogo a proprio capriccio, innestandovi quanti più proverbi, motteggi e castronerie sapesse.
E signori e vassalli a farne le grasse risa, e comentare e spiattellarsi chiare tra loro le più sfacciate allusioni, ed acclamare frenetici i recitanti.
Nè manco piacquero gl’intermezzi, nel primo dei quali era figurato Sansone, che spiccava i denti alla famosa mascella d’asino con la quale sterminò i filistei e da que’ denti rampollavano amorini a danzare una moresca; nel secondo, un Nettuno trascinato da mostri marini, che finivano a tramutarsi in altrettante vaghissime naiadi, che intrecciavano tra loro una lasciva carola; nel terzo il paradiso e l’inferno, con gli spiriti de’ beati e l’anime de’ dannati ed una grande fiamma al finale; e via, via. — E sempre fanciullini camuffati da angioletti, che — per via di cantari e riboboli — spiegavano l’argomento dell’atto cui s’era per dar principio.
Pellegrino giunse sul luogo poco dopo il cominciare della rappresentazione e — mercè il pretesto d’avere un’ambasciata pel signor duca di Castro — s’aperse un passaggio tra il fitto de’ spettatori e non si diè posa che non avesse tocco della mano lo schienale del seggiolone su cui sedeva Pierluigi al fianco di sua sorella Costanza.
Allora — curvandosi al suo orecchio:
— Fostre eccellensce serfite! — gli farfugliò nel suo bastardo linguaggio — gamere tonna Pianca, uldima gamere seconte biane gastelle ferse sedentrione... chiafistelle li tentre, ghiafe, tutto io bordate fia... niente più bossipile chiutere.... foi poterfi endrare senza bericole.... atesso racazze niente temere.... tormire profontamente come marmotta!
Pierluigi gli strinse la mano e lo ringraziò con uno de’ suoi più significanti sorrisi.
La donna dagli occhi di fuoco, quella istessa, la cui vista aveva prodotto una sì viva impressione su l’incognito dal nero mantello, trovavasi assisa a poca distanza dal Farnese. — Ella notò quello scambio di sorrisi e di confidenze e ne comprese forse il segreto, poichè corrugò la fronte sì fieramente che le sopracciglia le si congiunsero alla radice del naso tanto da non formare che una linea sola: e sotto quella linea nera i suoi due grandi occhi corruscarono di un lampo di luce sinistra.
Terminata la rappresentazione, feudatari e convitati, seguiti dal loro codazzo di valletti e di birri, rientrarono nel castello. — La folla, a poco a poco, si disperse.
Suonò il coprifuoco.
Prima di ritirarsi nel proprio quartiere, donna Costanza di Santafiora volle adempiere a’ doveri dell’ospitalità , salendo in persona a visitare la giovine della Staffa, che i vincoli di sincera amicizia ond’era già legata col vecchio signore di Camia le rendevano sommamente cara ed interessante.
La trovò che s’era da poco tolta di letto; s’informò della sua salute: la richiese se avesse d’uopo di ristorarsi e — avutane in risposta come altro non desiderasse che solitudine e riposo — le fece apportare una lampana da notte e una caraffa d’aqua di fonte e baciatala su le due gote — la lasciò sola, augurandole la buona notte.
Seguendo l’esempio della contessa, quant’altri trovavansi nel castello non tardarono a ritirarsi ciascuno ne’ rispettivi alloggi e a cacciarsi tra le lenzuola.
Anche Bianca si svestì interamente e tornò a coricarsi.
La poverina non dubitava, non temeva di nulla.
Ella non aveva veduto Pierluigi Farnese.
Ma costui vigilava a suo danno.
Simulando voler mettersi in letto, egli aveva licenziato il suo segretario ed i suoi due capitani d’arme. — Ma tale non era il suo intendimento. — Egli attendeva ansioso l’ora propizia in cui avrebbe potuto seguire, con securtà , l’itinerario che gli aveva tracciato Pellegrino di Leuthen.
Mentre si toglieva la sopraveste, il giustacuore e le brache, per rimanere semplicemente con le calze ed il farsetto, egli si anticipava col pensiero le gioie che, a suo credere, quella notte doveva apportargli ed eccitava la propria fantasia ed i propri sensi col figurarsi la sorpresa, lo spavento, la reluttanza, la disperazione della sua vittima.
Imperocchè sia mestieri lo ammettere vi abbiano nature sì fattamente perverse, o pervertite, per le quali gli stessi godimenti riescono freddi, sbiaditi, insignificanti, ove non si maritino all’altrui sofferenza; esseri così profondamente malvagi, che non sanno far scaturire il loro proprio bene se non dal male degli altri.
E di questo novero era Pierluigi Farnese.
Come riconobbe che le tenebre ed il silenzio regnavano nel castello e si ritenne certo che tutti fossero immersi nel sonno; uscì furtivo dalla sua stanza e — sovrattenendo ogni passo per non muovere il minimo scalpore — salì le due branche di scala, che congiungevano il primo al secondo piano, e s’indirizzò tastoni pel buio corritoio, che menava all’uscio della camera di Bianca.
Dal foro della toppa che Pellegrino di Leuthen aveva privato di chiave, trapelava un leggero e tremulofilo di luce. — Quel debole raggio gli giovò come di stella polare.
L’uscio — secondo le previsioni e le promesse dello astuto tedesco — non era minimamente sbarrato.
Il Farnese lo sospinse con garbo ed entrò guardingo, traendolo dietro.
La lampada ardeva sul tavolino.
La fanciulla, coricata, dormiva.
Misera Bianca!
Nondimeno, nel punto istesso in cui egli penetrava, alla maniera di un ladro, entro quella stanza indifesa; dall’uscio di un’altra quasi contigua erasi sporto inanzi un volto feminile che lo aveva seguito avidamente degli occhi.
Era la donna dagli sguardi di fuoco, che — non sì tosto l’ebbe visto sparire — si ritirò frettolosa e disparve a sua volta.
L’ambiente, d’onde aveva fatto capolino, era quel medesimo, che, pochi momenti prima, la vecchia camerista aveva designato al cavalier nero come la stanza di donna Olimpia.
Quella donna era, dunque, Olimpia Marazzani.
A nissuno de’ nostri lettori sarà , per certo, caduto di memoria l’omicidio perpetrato dal marchese Giovanni Anguissola su la persona dello abate commendatizio di San Savino; cagione del delitto lo avergli costui rifiutato in moglie e sottratto una giovine donna, ch’era tenuta in conto di sua sorella.
Rammenterà parimenti il lettore come — qualche tempo prima di tale tragedia — l’abate menasse segretamente quella fanciulla a Castell’Arquato per affidarla alla contessa Sforza e come dappoi non se ne sapesse più nulla.
Ora l’abate commendatizio di San Savino era ilGiambattista Marazzani e la sua pretesa sorella questa medesima Olimpia, che si fregiava del suo istesso casato.
A donna Costanza di Santafiora egli non aveva taciuto il grave motivo che lo consigliava ad allontanare Olimpia dal proprio fianco. — In un segreto colloquio, le aggiunse ancora che l’amore dell’Anguissola era un amore sacrilego, infame, e che s’ella gli avesse prestato ogni suo appoggio per salvare quella disgraziata, non se ne sarebbe mai dovuta pentire, poichè questa apparteneva, in qualche modo, alla di lei stessa famiglia.
La contessa di Santafiora avrebbe desiderato saperne da vantaggio e penetrare meglio addentro i misteri, che comprendeva nascosti in quelle mezze rivelazioni; ma — obiettandole la inviolabilità del confessionale — l’abate le mozzò le dimande sul labro.
Unica sua speranza egli diceva essere quella che la giovinetta potesse invaghirsi di qualcun altro e andare prestamente a marito. — Nè reputava la speranza troppo ardua a realizzarsi, dappoichè — sebbene fosse parsa dar retta alle smancerie ed alle calorose proteste dell’Anguissola — egli tenesse prove più che bastevoli a farlo certo che non lo amava punto.
Olimpia, aggiungeva, essere una fanciulla bisbetica, mutevole, di tempra ardente ed imperiosa, bisognevole di espandersi, vaga di emozioni, di affetti. — Un nonnulla tornar forse bastevole a dare un tutt’altro indirizzo alle apparenti aspirazioni del suo cuore.
Tale la pittura che l’abate aveva fatto della sua pretesa sirocchia in sul punto di lasciarla nella rôcca di Castell’Arquato, ignaro allora di non doverla rivedere mai più.
Nè la pittura potevasi tacciare di esagerazione. — Alcontrario. — Il colorito n’era piuttosto pallido e freddo, talchè — per conseguire una tanto maggior somiglianza con l’originale — sarebbe convenuto innalzarne le tinte ad una gamma assai più calda e smagliante; sarebbe, in altri termini convenuto dire apertamente che Olimpia non era solo capricciosa e versatile, ma incline addirittura alla dissolutezza, di quella identica tempra, onde — a diciott’anni — dovettero esser formate le Teodore, le Messaline, le Giulie.
Invanamente rattenute, le più perverse tendenze ribollivano minacciose entro il suo vergine cuore, impazienti di sfogo — sino da’ suoi primi anni, gli istinti predominanti del male s’erano in lei sviluppati con una spaventevole precocità . — Non l’età , tanto alla sua superiore, dello abate di San Savino, non il suo sacro carattere di sacerdote, non quello ancora più sacro di fratello, l’aveva impedita da laide concupiscenze sopra di lui; dal fargli scellerate, infami proposte, ch’egli inorridito respinse, cominciando da quell’ora a farla oggetto della più oculata e assidua vigilanza.
Moralmente, Olimpia potevasi considerare come fanciulla devoluta, predestinata alla colpa sin dal suo nascere e, se non era peranco materialmente caduta, lo doveva solo alla vigilanza fraterna, che glie ne aveva sempre fatto sfuggire le occasioni, ma, alla prima le si offerisse, non c’era a dubitare che dovesse affrettarsi di profittarne.
E l’occasione non le mancò.
Saremo brevi.
Ne’ primi tempi, dacchè trovavasi refugiata in Castell’Arquato e poco dopo che ebbe ricevuto il triste annunzio del tragico fine del suo supposto fratello;Pierluigi Farnese — che, insieme a Pellegrino di Leuthen, s’era recato ad esaminare le cave delle Ferriere — si condusse, nel retrocederne, a visitare la sorella Costanza.
Fu allora ch’egli vide Olimpia per la prima volta e — trovandola di suo gradimento — con la subitaneità di propositi ch’eragli tutta peculiare, formò sopra di lei uno iniquo pensiero, identico a quello, che adesso lo aveva sospinto nella stanza di Bianca.
Ed allora riuscì pienamente ne’ suoi progetti.
Per quel pudore, che sta alla vergine, qualunque ella sia, come il profumo a’ fiori di primavera; Olimpia — sorpresa in cotal modo, nel cuor della notte, senza una tutela, uno scampo — provò da principio un moto istintivo di repugnanza e paura; ma, cedendo bentosto alla propria natura ardente e sensuale, finì a lasciarsi agevolmente convincere ed a sminuire la responsabilità e la colpa del suo violatore col farsene complice quasi volontaria.
Era la opportunità già da sì lungo tempo avidamente sospirata, che le si affacciava di un tratto, sotto forma inattesa, in modo affatto imprevisto.
Ed ella l’afferrava con gioia.
Dieci giorni si trattenne Pierluigi a Castell’Arquato e furono per Olimpia dieci giorni di paradisiaca felicità . — Immemore del passato, noncurante dello avvenire, ella non viveva che per la inebriante fruizione di quel fuggiasco presente; — respirava a pieni polmoni la misteriosa atmosfera pregna di rischi, d’infamia e di soffocati rimorsi, per mezzo a cui si svolgevano i suoi primi e colpevoli amori.
Negli eccessi, ne’ raffinamenti del male, cui talvolta sa spingersi l’uomo, si riscontra una delle principali distinzioni fra la sua razza ragionevole e quella deibruti. — In questi l’istinto non presenta che un unico plasma per ogni genere: la tigre è più feroce del lupo, il lupo più rapace della volpe; ma non si dà tigre più feroce della tigre, non lupo più rapace del lupo: l’istinto bestiale è un livello. — L’uomo, per converso, trascende fino a’ più sconfinati estremi del mostruoso e porge esempi di sì completi pervertimenti del senso morale, che la ragione istessa non s’inchinerebbe ad ammettere possibili, se non coatta dalla irrefragabile evidenza de’ fatti.
Le più strane e ributtanti anomalie dello spirito umano si rivelano sovratutto nel senso voluttuario.
Si dà nno esseri così profondamente corrotti e disformi, cui non induce godimento e diletto chè la infrazione d’ogni più ovvia disciplina, i quali — nel soppeditare un dovere, nel ledere una legge di natura o di consuetudine — provano un piacere trionfante e supremo.
Olimpia Marazzani era di codesta tempra.
Se l’uomo, che l’aveva vituperata e perduta, fosse stato un giovine gentiluomo suo pari, padrone di sè e del proprio avvenire, che l’indomani avesse potuto proporle una riparazione con l’offerta del proprio nome e della propria mano; o che ella lo avrebbe mortalmente aborrito, se non vi si fosse prestato; o, quando sì, che lo avrebbe probabilmente preso in uggia il dì dopo, per correre in busca di altri amori, di altri piaceri, di altre emozioni. — Il saperlo, per contro, legato e per sempre ad altra donna, marito, padre e, per conseguenza, nella impossibilità di redimerla, attalchè egli pure, quando l’avvicinava, s’esponeva ad un rischio, sfidava la reprobazione del mondo, gittava, a sua volta, un guanto in faccia alla società ; le infondeva una passione esclusiva, infiammata,violenta; le figurava il suo seduttore come un arcangelo decaduto, ribelle al suo Dio; come uno sfolgorante genio del male, che fulmina desolazione e terrore ovunque passi e non dà gioie — gioie arcane, imperscrutate, terribili — che ai pochi eletti dal suo sacrilego amore. — Ed ella se ne sentiva rapita, affascinata ed insieme fieramente gelosa. — Non avendo diritti da far valere sopra di lui, dove si fosse vista derelitta e spregiata; non avendo speranze ch’egli potesse inalzarla sino al suo fianco; altro di meglio non sapeva che tenerselo stretto entro l’abisso nel quale erano insieme tracollati; se c’era fango nel fondo, affondarvisi insieme.
Il solo pensiero che la sgomentasse era quello di rimanervi sola.
Questo ne spiegherà al lettore il contegno, quando — parecchi mesi dopo il primo incontro con Pierluigi — ritornato egli a Castell’Arquato per lo sposalizio di suo nipote Sforza Sforza di Santafiora, lo vide adocchiare concupiscente la giovine della Staffa, al suo primo ingredire nel castello, e farla oggetto di segreti colloqui col tedesco di Leuthen.
Olimpia Marazzani era in preda ai morsi della gelosia.