X.

X.La Caterina se ne sta giacente sopra un lettuccio, con la faccia rivolta al cielo. La tengono assorta una folla di pensieri e d’immagini rotte, incoerenti, festose e increscevoli, giubbilanti e feroci, siccome avviene a coloro che per abuso di oppio o di betel istupidiscono.[21]— Bene era quella la sua florida sembianza; quella la fronte liscissima, di alabastro, ma da pochi giorni suquella fronte appariva un segno indelebile, e ve lo aveva lasciato il dolore, che l’anima e la fronte dell’uomo solca con istrumenti di fuoco. — Misera! Quanto può tentare creatura per liberarsi dalla ossessione era stato adoperato da lei. Aveva chiamato l’ira della vanità delusa, l’offesa del sofferto inganno, la religione, il rimorso: — nessuna cosa era stata obbliata; non le materne ammonizioni, la benevolenza del coniuge, e nè perfino il pensiero della duchessa infelice consorte, — madre sconsolata. — Tutti questi argomenti raccolti come una schiera ordinata furono opposti alla passione; e l’amore, sgomento dall’improvviso assalto, ridiveniva umile; in sembianza di povero derelitto implorava per carità di vivere di memorie, di nudrirsi di sospiri e di lacrime.Tal quale — l’Amore, che fanciullino mézzo di pioggia, assiderato dal freddo, domanda ricovero ad Anacreonte: — imperciocchè i Greci i concetti loro suolessero vestire con piacevoli immagini. La filosofia diceva alla poesia: rendimi amabile. La religione alla scoltura: fammi visibile, senza ch’io perda della mia divinità. Ed ecco Anacreonte traeva una freccia dalla faretra di Amore, e incideva le sue canzoni; e Fidia, raccolto oro ed avorio, effigiava ai mortali Giove olimpico. — Felici i Greci!Di lì a poco l’Amore ingrossava la voce, e prendeva a discutere. Nessuno pensi che i più celebrati sofisti abbiano mai saputo adunare tanta copia d’ingannevoli argomenti, quanti egli ne immaginava e adduceva. Dove quei discorsi si fossero potuti tradurre, avrebbero disgradato Cicerone e Demostene. Cresciuto in forza, l’Amore di sofista diventava atleta: non ragionava, combatteva, e stretti gli avversari nelle potenti braccia, li soffocava. Poi fatto gigante come il Nettuno di Virgilio, che col —Quos ego[22]— comprime i venti imperversati,egli domina col cenno, e regna sull’anima onnipotente tiranno.Ma l’anima e il cuore ov’era accaduta quella fiera battaglia, ne portavano impresse le tracce che Dio solo può cancellare, versandovi sopra la misericordia dell’obblio.Nè io già volli difendere la Caterina: — no; — ma soltanto riferire il motivo pel quale non le avrei gettato la prima pietra, e nè la seconda.La persona dalla maschera di velluto nero fu sopra alla Caterina con brama di falco: la contemplò fissa, ed immobile; poi cava ad un tratto un largo pugnale, e la feriva, se Margutte non l’avesse tenuta dicendo:“No, — diamole spazio per riconciliarsi con Dio.” — E posta una mano sopra la spalla di Caterina, la scosse leggermente, continuando: “Fate la pace con Dio, perchè i momenti della vostra vita sono contati...”Balzò in piedi Caterina, fregandosi gli occhi, aprendoli, e richiudendoli con mirabile celerità, temendo di allucinazione; ma Giomo con voce orribilmente pacata replicava:“Avete sentito? — vi avanzano a vivere cinque minuti...”“Finiamo!” la maschera nera prorompeva smaniando, e divincolandosi fra le mani di Margutte: “finiamo! — Allo inferno!”“No; — le dia tempo a recitare l’atto di contrizione. — Se a lei riesce andare in paradiso, Vossignoria si assicura di non incontrarla nell’altro mondo.”“Ma, e perchè volete uccidermi, signori? Io non vi conosco...”“Conosciamo voi...”“Signori, se volete le mie masserizie, le mie gioie, tutto quanto è in casa, prendetelo, non ne farò querela,non ne darò parte al Bargello, ve lo giuro per la morte del nostro Redentore...”“Noi non siamo ladri: e rammentatevi che due dei cinque minuti sono passati.”“Ma perchè macchiarvi le mani nel sangue di una misera donna che non vi conosce, e che voi non conoscete? — Non avete madre? — non moglie? — non figli? — Non credete voi in Dio?”“Pensate voi ad aggiustare i vostri conti con Dio: ai nostri penseremo noi, e soprattutto rammentatevi, — tre dei cinque minuti essere già passati...”“Ma io non sono preparata... ma io non posso morire... non sono mica inferma io! Mi sento piena di vita; io ho bisogno di vivere...”“E bisogna morire!”“Morire, eh! È una parola morire; ma non immaginate voi il dolore e il terrore di simile morte? — Consumata la vita, cadute tutte le illusioni che la fanno bella, riconciliati con Dio, confortati da un santo sacerdote, distrutti dalla malattia, accettiamo la morte come una necessità.... Ma io sento la primavera della mia vita... ho bagnato appena le labbra di esistenza... i fiori della mia ghirlanda sono tutti freschi; — io credo in Dio, — credo alla felicità, credo all’amore, e riamata amo... E voi mi volete uccidere? — Io sono contenta, — intendete? — contenta... e voi mi volete uccidere? — In che vi offesi?”“In che mi hai offeso?” grida la persona dalla maschera di velluto, staccandosela furiosamente dal volto: “io sono donna Veronica Cybo, moglie del duca di San Giuliano. Ora puoi tu domandare se mi hai offesa? Abbassa gli occhi, svergognata, e non ardire fissarmeli in faccia. — Io era la madre del povero; — io soccorrendo alle tapine donzelle le salvava dal disonore: — ora caccio via, imprecando, il mendico; nell’altrui obbrobriomi delizio; esulto nei dolori disperati, e quanto posso gl’inasprisco: — e chi altri n’è colpa, se non che tu? — Placidi furono una volta i miei pensieri, i sonni tranquilli; ora sul mio capezzale trovo la insonnia e il delitto; delirii di sangue sconvolgono il mio torbido cervello: — e di cui la colpa, se non di te? — Aveva un amante, e non l’ho più, — un consorte dilettissimo, e non l’ho più;... per te ho tutto perduto in questo mondo; — per te perderò la salute dell’anima mia; — per te ho percosso, fino a fargli grondare sangue, quello che per nove mesi portai nel mio fianco, — che per diciotto con questo seno allattai, — il mio unico; — il mio dolce figliuolo: — e mi domandi se mi hai offeso? — E perchè sei felice di tutta la mia miseria... tu vuoi vivere? — Tu devi morire, sciagurata, e per le mie mani, e subito...”All’aspetto di quella feroce, il freddo del coltello passò l’anima della Caterina. Diventò in viso del colore di morte, e concependo per istinto, come ogni scongiuro a lei rivolto sarebbe tornato invano, si prostrò abbracciando disperatamente le ginocchia di Giomo, esclamando:“Salvami pel sangue di Gesù crocifisso! — Salvami! — Anche alle condannate a morte per orribili misfatti... parricidii... ed altri che fanno fremere la natura, si concede spazio di vivere... quando... quando...” — e qui con ambedue le mani si copriva la faccia diventata di fuoco, — “quando sono incinte.... ed io ancora.... di lui... ho una creatura... qui... nel mio fianco... ed io non lo sapevo ad altra donna consorte... Pietà... perdono... la mia finalmente è colpa di amore...”Piangeva la desolata, e le ginocchia a Margutte in maniera così compassionevole abbracciava, che lo stesso Margutte sentì la prima volta una agitazione di stomaco, — non voglio dire di cuore. — Ond’è, che piegatosi all’orecchio della duchessa mormorava:“Essendo gravida...”“Tanto più muoia...”“Presto, salviamoci!” irrompendo nella stanza esclama un uomo intabarrato: “la Corte si avvicina: l’ho incontrata qui dagli Angioli, e vengo a gambe per darvene avviso.”“La Corte!” ripete Margutte; e volgendosi al sopravvenuto lascia il braccio della duchessa.La duchessa trovandosi la mano libera, abbassa lo sguardo, e vede il bel seno palpitante e bianco della genuflessa: — accompagnandolo col peso della persona, cieca di rabbia, vibra un colpo, che ferì la Caterina su la fossetta della gola, e penetrando il coltello nel tronco, le toglie la favella per sempre.Si alzò come molla che scatti; tese la infelice le mani, si provò a parlare, — ma la gola non aveva più voce, sebbene singulti, e ad ogni singulto prorompeva gorgogliando un fonte di sangue dalla immane ferita.Margutte, quando vide quel miserando spettacolo, ne sentì — a modo suo — pietà; cavò il coltello, e disse:“Ormai meglio è finirla!”E le passò il cuore!Caterina traballa un istante, come donna presa dal vino; due o tre passi indietreggia, e stramazzando cade sopra Bartolommeo, che da capo a piedi ricuopre di sangue.Bartolommeo, come Giuda, aveva venduto a donna Veronica cotest’anima, e come Giuda codardo gli mancano sotto le gambe, vacilla anch’egli, e trabocca svenuto sul cadavere della Caterina, sicchè male si distingue la tradita dal traditore.Di lui non curano i sicari: smorzati i lumi si pongono in salvo.Se non che Giomo udendo rovistare qualcheduno, si ferma con sospetto, e severamente comanda:“Fuori!”E la duchessa, poichè era ella che tardava, risponde:“Aspetta un poco, che vengo...”“Aspetta...? — E la Corte?”“Lasciala venire...”“E se ci trova, e impicca...”“A te la corda, villano... — Io sono duchessa...”“Sta bene. — Ma venite dunque, od io me ne vado... che cosa diavolo fate costà...?”“Eccomi.”“Che cosa diavolo avete fatto?”“Silenzio! — Andiamo.”

La Caterina se ne sta giacente sopra un lettuccio, con la faccia rivolta al cielo. La tengono assorta una folla di pensieri e d’immagini rotte, incoerenti, festose e increscevoli, giubbilanti e feroci, siccome avviene a coloro che per abuso di oppio o di betel istupidiscono.[21]— Bene era quella la sua florida sembianza; quella la fronte liscissima, di alabastro, ma da pochi giorni suquella fronte appariva un segno indelebile, e ve lo aveva lasciato il dolore, che l’anima e la fronte dell’uomo solca con istrumenti di fuoco. — Misera! Quanto può tentare creatura per liberarsi dalla ossessione era stato adoperato da lei. Aveva chiamato l’ira della vanità delusa, l’offesa del sofferto inganno, la religione, il rimorso: — nessuna cosa era stata obbliata; non le materne ammonizioni, la benevolenza del coniuge, e nè perfino il pensiero della duchessa infelice consorte, — madre sconsolata. — Tutti questi argomenti raccolti come una schiera ordinata furono opposti alla passione; e l’amore, sgomento dall’improvviso assalto, ridiveniva umile; in sembianza di povero derelitto implorava per carità di vivere di memorie, di nudrirsi di sospiri e di lacrime.

Tal quale — l’Amore, che fanciullino mézzo di pioggia, assiderato dal freddo, domanda ricovero ad Anacreonte: — imperciocchè i Greci i concetti loro suolessero vestire con piacevoli immagini. La filosofia diceva alla poesia: rendimi amabile. La religione alla scoltura: fammi visibile, senza ch’io perda della mia divinità. Ed ecco Anacreonte traeva una freccia dalla faretra di Amore, e incideva le sue canzoni; e Fidia, raccolto oro ed avorio, effigiava ai mortali Giove olimpico. — Felici i Greci!

Di lì a poco l’Amore ingrossava la voce, e prendeva a discutere. Nessuno pensi che i più celebrati sofisti abbiano mai saputo adunare tanta copia d’ingannevoli argomenti, quanti egli ne immaginava e adduceva. Dove quei discorsi si fossero potuti tradurre, avrebbero disgradato Cicerone e Demostene. Cresciuto in forza, l’Amore di sofista diventava atleta: non ragionava, combatteva, e stretti gli avversari nelle potenti braccia, li soffocava. Poi fatto gigante come il Nettuno di Virgilio, che col —Quos ego[22]— comprime i venti imperversati,egli domina col cenno, e regna sull’anima onnipotente tiranno.

Ma l’anima e il cuore ov’era accaduta quella fiera battaglia, ne portavano impresse le tracce che Dio solo può cancellare, versandovi sopra la misericordia dell’obblio.

Nè io già volli difendere la Caterina: — no; — ma soltanto riferire il motivo pel quale non le avrei gettato la prima pietra, e nè la seconda.

La persona dalla maschera di velluto nero fu sopra alla Caterina con brama di falco: la contemplò fissa, ed immobile; poi cava ad un tratto un largo pugnale, e la feriva, se Margutte non l’avesse tenuta dicendo:

“No, — diamole spazio per riconciliarsi con Dio.” — E posta una mano sopra la spalla di Caterina, la scosse leggermente, continuando: “Fate la pace con Dio, perchè i momenti della vostra vita sono contati...”

Balzò in piedi Caterina, fregandosi gli occhi, aprendoli, e richiudendoli con mirabile celerità, temendo di allucinazione; ma Giomo con voce orribilmente pacata replicava:

“Avete sentito? — vi avanzano a vivere cinque minuti...”

“Finiamo!” la maschera nera prorompeva smaniando, e divincolandosi fra le mani di Margutte: “finiamo! — Allo inferno!”

“No; — le dia tempo a recitare l’atto di contrizione. — Se a lei riesce andare in paradiso, Vossignoria si assicura di non incontrarla nell’altro mondo.”

“Ma, e perchè volete uccidermi, signori? Io non vi conosco...”

“Conosciamo voi...”

“Signori, se volete le mie masserizie, le mie gioie, tutto quanto è in casa, prendetelo, non ne farò querela,non ne darò parte al Bargello, ve lo giuro per la morte del nostro Redentore...”

“Noi non siamo ladri: e rammentatevi che due dei cinque minuti sono passati.”

“Ma perchè macchiarvi le mani nel sangue di una misera donna che non vi conosce, e che voi non conoscete? — Non avete madre? — non moglie? — non figli? — Non credete voi in Dio?”

“Pensate voi ad aggiustare i vostri conti con Dio: ai nostri penseremo noi, e soprattutto rammentatevi, — tre dei cinque minuti essere già passati...”

“Ma io non sono preparata... ma io non posso morire... non sono mica inferma io! Mi sento piena di vita; io ho bisogno di vivere...”

“E bisogna morire!”

“Morire, eh! È una parola morire; ma non immaginate voi il dolore e il terrore di simile morte? — Consumata la vita, cadute tutte le illusioni che la fanno bella, riconciliati con Dio, confortati da un santo sacerdote, distrutti dalla malattia, accettiamo la morte come una necessità.... Ma io sento la primavera della mia vita... ho bagnato appena le labbra di esistenza... i fiori della mia ghirlanda sono tutti freschi; — io credo in Dio, — credo alla felicità, credo all’amore, e riamata amo... E voi mi volete uccidere? — Io sono contenta, — intendete? — contenta... e voi mi volete uccidere? — In che vi offesi?”

“In che mi hai offeso?” grida la persona dalla maschera di velluto, staccandosela furiosamente dal volto: “io sono donna Veronica Cybo, moglie del duca di San Giuliano. Ora puoi tu domandare se mi hai offesa? Abbassa gli occhi, svergognata, e non ardire fissarmeli in faccia. — Io era la madre del povero; — io soccorrendo alle tapine donzelle le salvava dal disonore: — ora caccio via, imprecando, il mendico; nell’altrui obbrobriomi delizio; esulto nei dolori disperati, e quanto posso gl’inasprisco: — e chi altri n’è colpa, se non che tu? — Placidi furono una volta i miei pensieri, i sonni tranquilli; ora sul mio capezzale trovo la insonnia e il delitto; delirii di sangue sconvolgono il mio torbido cervello: — e di cui la colpa, se non di te? — Aveva un amante, e non l’ho più, — un consorte dilettissimo, e non l’ho più;... per te ho tutto perduto in questo mondo; — per te perderò la salute dell’anima mia; — per te ho percosso, fino a fargli grondare sangue, quello che per nove mesi portai nel mio fianco, — che per diciotto con questo seno allattai, — il mio unico; — il mio dolce figliuolo: — e mi domandi se mi hai offeso? — E perchè sei felice di tutta la mia miseria... tu vuoi vivere? — Tu devi morire, sciagurata, e per le mie mani, e subito...”

All’aspetto di quella feroce, il freddo del coltello passò l’anima della Caterina. Diventò in viso del colore di morte, e concependo per istinto, come ogni scongiuro a lei rivolto sarebbe tornato invano, si prostrò abbracciando disperatamente le ginocchia di Giomo, esclamando:

“Salvami pel sangue di Gesù crocifisso! — Salvami! — Anche alle condannate a morte per orribili misfatti... parricidii... ed altri che fanno fremere la natura, si concede spazio di vivere... quando... quando...” — e qui con ambedue le mani si copriva la faccia diventata di fuoco, — “quando sono incinte.... ed io ancora.... di lui... ho una creatura... qui... nel mio fianco... ed io non lo sapevo ad altra donna consorte... Pietà... perdono... la mia finalmente è colpa di amore...”

Piangeva la desolata, e le ginocchia a Margutte in maniera così compassionevole abbracciava, che lo stesso Margutte sentì la prima volta una agitazione di stomaco, — non voglio dire di cuore. — Ond’è, che piegatosi all’orecchio della duchessa mormorava:

“Essendo gravida...”

“Tanto più muoia...”

“Presto, salviamoci!” irrompendo nella stanza esclama un uomo intabarrato: “la Corte si avvicina: l’ho incontrata qui dagli Angioli, e vengo a gambe per darvene avviso.”

“La Corte!” ripete Margutte; e volgendosi al sopravvenuto lascia il braccio della duchessa.

La duchessa trovandosi la mano libera, abbassa lo sguardo, e vede il bel seno palpitante e bianco della genuflessa: — accompagnandolo col peso della persona, cieca di rabbia, vibra un colpo, che ferì la Caterina su la fossetta della gola, e penetrando il coltello nel tronco, le toglie la favella per sempre.

Si alzò come molla che scatti; tese la infelice le mani, si provò a parlare, — ma la gola non aveva più voce, sebbene singulti, e ad ogni singulto prorompeva gorgogliando un fonte di sangue dalla immane ferita.

Margutte, quando vide quel miserando spettacolo, ne sentì — a modo suo — pietà; cavò il coltello, e disse:

“Ormai meglio è finirla!”

E le passò il cuore!

Caterina traballa un istante, come donna presa dal vino; due o tre passi indietreggia, e stramazzando cade sopra Bartolommeo, che da capo a piedi ricuopre di sangue.

Bartolommeo, come Giuda, aveva venduto a donna Veronica cotest’anima, e come Giuda codardo gli mancano sotto le gambe, vacilla anch’egli, e trabocca svenuto sul cadavere della Caterina, sicchè male si distingue la tradita dal traditore.

Di lui non curano i sicari: smorzati i lumi si pongono in salvo.

Se non che Giomo udendo rovistare qualcheduno, si ferma con sospetto, e severamente comanda:

“Fuori!”

E la duchessa, poichè era ella che tardava, risponde:

“Aspetta un poco, che vengo...”

“Aspetta...? — E la Corte?”

“Lasciala venire...”

“E se ci trova, e impicca...”

“A te la corda, villano... — Io sono duchessa...”

“Sta bene. — Ma venite dunque, od io me ne vado... che cosa diavolo fate costà...?”

“Eccomi.”

“Che cosa diavolo avete fatto?”

“Silenzio! — Andiamo.”


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