CAPITOLO X.

Il nostro accampamento a Debra-TaborIl nostro accampamento presso Re Giovanni, a Debra-Tabor

Il nostro accampamento presso Re Giovanni, a Debra-Tabor

Il nostro trattamento offerto dal re.—Gli schiavi.—Presentazione dei doni al re.—Risposta arguta.—Debra-Tabor.—Corsa di cavalli.—Ritratto del re.—Una refezione da Sua Maestà.—Partenza pel lago Tzana.—Corata.—Accoglienza poco cordiale.—Il lago.—Il Nilo Azzurro.—Ponte portoghese.—Ritorno al campo reale.—Un tribunale presieduto dal re.—Decisioni pel ritorno.

Martedì 21.Giornata di riposo dalle fatiche e dalle emozioni di ieri. Naretti è ricevuto dal re che si mostra piuttosto ben disposto a nostro riguardo e fissa a domani il nostro ricevimento ufficiale con presentazione dei doni. Nella giornata è un continuo andirivieni di visite, delle quali parecchie sono seguite da doni per Naretti, di vasi di tecc o vacche. Abbiamo già una massa di queste bestie che da noi rappresenterebbero un capitale. La razione fissata per noi dal re, consiste ogni giorno in due o tre vacche, 300 pani, tre vasi di tecc, tre di miele, di burro, di berberia, trenta candeline, pelli piene di farina, di grano, di biade per le mule, fieno, fasci di legna. E tutto questo portato da una sequela di miserabili schiavi maschi e femmine, che lavorano pel servizio del re e del suo seguito e ricevono nutrimento e qualche cencio di quando in quando per coprirsi.

Sono poco meno che nudi e i pochi panni che li coprono sucidi e cenciosi da far ribrezzo, nerissimi, perchè provenienti dai paesi gallas, e forse fatti schiavi da questi all'interno, e generalmente scarni e avviliti. In Abissinia non è permessa la schiavitù,ma sono tollerati gli schiavi; questi, ad esempio, sono regalati dai vassalli dello Scioa e del Goggiam; il re li tiene come servi che attendono ai più bassi mestieri e non sono ammessi in sua presenza. Questa lunga fila di miserabili che con passo grave entrano portando ognuno sulla testa il proprio fardello coperto da panno rosso, lo depongono al suolo, e, mentre il loro capo fa la consegna, stanno avidi aspettando il pane che ad ognuno di loro si regala, formano uno di quei quadri, imponenti quando riprodotti sulle scene di certi teatri, e che qui ha la grandezza e la vita della realtà. Grandi chiacchiere faccio con Maderakal, il dragomano del re, suo segretario e sedicentesi ministro degli affari esteri. Quando Lefèvre viaggiava l'Abissinia, Ubiè che allora era re gli diede questo giovane per guida, e gli permise poi di portarselo in Europa, dove visse parecchi anni in Francia e in Inghilterra. Tornato al suo paese, parlando passabilmente il francese e un pochino l'inglese, fu addetto alla Corte di Teodoro, ed uno dei dodici fatti prigionieri a Magdala a fianco al cadavere del suo Sovrano; poi passò al servizio di re Giovanni.

Giovedì 22.Verso le nove siamo chiamati a Corte e ricevuti, dove lo fummo anche l'altra volta; il re stava ancora seduto sul suo divano, e nella capanna erano una diecina dei suoi fidi e dipendenti. Entrati, facciamo un inchino, ci porge ancora la mano, ci fa dare ilbuon giorno, poi cominciamo la presentazione dei doni che il comitato milanese gli invia: un fucile della nostra armata con cartucce, due revolvers, un letto da campo in ferro, cuscino in seta rossa con corona reale ricamata, veluti, damaschi, panno di vario colore, fazzoletti di seta, saponi variati, candele, fiammiferi, diversi oggetti in gomma, briglia con striglia e spazzole pei cavalli, bottiglie di cristallo lavorato, alcune piene di liquori che ci invitò ad assaggiare noi, perchèfidarsi è bene e non fidarsi è meglio. Durante tutta la presentazione, con Maderakalche faceva da interprete per le spiegazioni necessarie, il re stette freddo e impassibile, e sempre con mezzo viso coperto dallo scemma; solo mostrò un po' di sorpresa e forse anche di soddisfazione allo spiegare il letto da campo e il cuscino che si gonfiava soffiandovi. Con poche parole ci ringraziò e licenziò per far entrare i due svedesi protestanti, che regalarono una pendola e un ombrello di seta rossa, privilegio del re in questo paese. Maderakal mi tradusse il dialogo che ebbe luogo e che qui riporto, perchè mostra il tatto e la finezza di re Giovanni. «Cosa veniste a fare, o signori, in queste terre?» così fece loro domandare.

«A spiegare il Vangelo,» risposero.

«Il Vangelo è uno, Dio è uno, la fede è una; io ho chiese, io ho vescovi, io ho preti, e questi sanno benissimo insegnare da loro il Vangelo al mio popolo. E a chi dunque vorreste più propriamente insegnare il Vangelo?»

«Agli ebrei, ai musulmani...»

«E non avete ebrei nel vostro paese?... e venendo qui non vi siete accorti di attraversare un paese tutto di mussulmani?... come mai non pensaste di fermarvi fra loro a spiegare il Vangelo? Io accetto volontieri negozianti, viaggiatori, lavoranti in tappeti, in sete, in armi, operai che lavorano il legno, ma non gente che vuole immischiarsi nella religione del mio popolo...»

Non so quale effetto avrà loro fatto questo dialogo, ma credo ne devono esser rimasti poco soddisfatti.

Il villaggio di Debra-Tabor è a poca distanza dal campo reale, che assunse questo nome come quello del più vicino paese, ma il nome propriamente del colle sul quale è piantato il reale accampamento è Gafat, e si eleva 2700 metri sul mare.

Il re Ali fu quegli che scelse questa posizione quasi a capitale del regno, come il punto più centrale delle tre provincie principali, dell'Amara, dello Scioa e del Goggiam.

Non vi fu mai fatto per altro nessun edificio che possa in certo modo materialmente stabilirla come capitale del regno, la quale credo che il giorno che la pace parrà dominare in Abissinia, se pure quel giorno verrà, tornerà a stabilirsi a Gondar.

Vediamo un giorno in un punto della pianura una massa di gente e di cavalli, un insolito movimento; è il re che sta facendo le corse, per cui scendiamo subito. L'ambiente è molto pittoresco; una massa di spettatori delineano come il contorno dell'arena; sulla sinistra, sotto alcune acacie, diversi gruppi digrandiartisticamente avvolti nei loro manti e circondati da servi e seguaci armati; rimpetto a questi il re, all'ombra di un ombrello rosso con frange d'oro sorretto da un servo, e seguito dal numeroso suo stato maggiore; un paesaggio vasto, incantevole, un sole splendido, un cielo del più puro azzurro.

Le corse consistono in sfide parziali di cinque, sei, sette o più cavalieri che galoppano contro una schiera di altrettanti nemici, e giunti all'altezza opportuna, gettano con meravigliosa destrezza un bastone che tien luogo di lancia, e rivoltano precipitosamente il cavallo in ritirata; la parte avversaria cogli scudi si difende dalla grandinata di lance, che vede venire in sua direzione, e quindi insegue il nemico che a sua volta fuggendo è obbligato con destri movimenti del cavallo o collo scudo suo a difendersi dagli attacchi.

È veramente ammirabile la destrezza colla quale girano il cavallo a corsa sfrenata, e intanto si difendono col rivolgersi a vedere da qual parte sopraggiunge il nemico, portando lo scudo da destra a sinistra, dall'avanti all'indietro, dal basso alla testa.

Il re di quando in quando monta a cavallo e fa un giro gettando la sua lancia che molti si fanno premura di raccogliere, cui però nessuno osa rispondere. Belli i cavalli, belli i cavalieri, belle le manovre, pittoreschi quanto mai questi scemma elegantemente gittati sulle spalle e che svolazzano correndo, questi scudiornati da placche d'argento, queste camicie o manti di distinzione in seta a colori diversi e vivaci, queste bardature ornate con pelli, stoffe o metalli, questi collari a fettucce scendenti in pelle di leone, di leopardo o d'altro, a seconda del grado di distinzione, queste teste brune e ardite, cui aggiunge ancora maggior tipo la pettinatura propria ai guerrieri. Un misto di selvaggio, d'orientale e di medioevale, qualcosa che ricorda la descrizione della sfida di Barletta e il quadro che ad illustrazione ne fece lo stesso d'Azeglio. Scene grandiose che volendole descrivere portano confusione, ma che lasciano un'impressione indelebile.

Alla partenza fu pure fantastico il seguito del re di centinaia di cavalieri e di migliaia di soldati che confusamente lo seguivano galoppando, correndo, gridando. Salutammo S. M. che gentilmente ci rispose portando la mano al fronte.

Le distinzioni concesse dal re ai suoi soldati per fatti militari, consistono in collari con lunghe fettucce scendenti, oppure larghe strisce che si portano unite allo scudo, in pelli d'animali diversi, e dalla qualità di queste dipende il grado di distinzione. Così primo è il leopardo nero, riservato alle teste coronate, poi il leone, il leopardo comune, la capra bianca o nera.

I giorni passano presto e interessanti, chè girando l'accampamento, ad ogni passo si entra a far visita a qualchegrandeo capo religioso o militare, e sempre vi sono quadri nuovi, sempre nuovi costumi ad osservare. Anche noi riceviamo spesso visite e queste sono piuttosto monotone e noiose, chè tutti vogliono medicine o regali di qualche camicia od oggetto qualunque, e sempre bisogna fare esposizione di tutto quanto abbiamo. Quello che desta maggior interesse e ammirazione sono le armi e fra queste una bella carabina americana, semplice ed elegante, a ripetizione, sistema Winchester, che avevo portato per mio uso. Ne fu parlato al re e fui pregato mostrargliela, anzi, mi si fece capire che avrei dovuto fargliene dono. Mi doleva privarmene,ma bisognava rassegnarsi, d'altronde il dolore del distacco era mitigato dalla compiacenza di presentarla a chi m'aveva ispirato un certo senso di simpatia. Aggiunsi allora al dono un revolver molto bello che tenevo appunto per una simile occasione, e la mattina della domenica 25 fummo invitati a presentarci a Sua Maestà. Ci riceve nella capanna grande; rimpetto all'entrata, a sinistra, sta il re sul suo solito divano posto davanti al trono; a pochi metri su un tripode quadrangolare di ferro ardono legne odorose; a destra, lungo la parete, colle teste rivolte al centro, sono i cavalli e le mule di S. M.; attorno tutti quanti i dignitari di Corte e i grandi ufficiali; il suolo è tutto sparso di erbe fresche.

Si fa la presentazione delle mie armi che parvero molto gradite; presa la carabina fui invitato a mostrarne i movimenti che il re ammirò e subito comprese; la caricò e mi pregò andare sulla porta e sparare il primo colpo; vedendo il revolver disse: questo è lavoro italiano, perchè, come mostrò, ne teneva un altro dello stesso sistema donatogli da re Menelik che lo aveva avuto dal nostro capitano Martini. Dissi una bugia, ma lasciai che ritenesse questa buona opinione delle industrie nostre.

Il re era questa volta più animato del solito e ne potemmo distinguere tutti i lineamenti; la testa pettinata a trecce in cui è conficcato uno spillone d'argento; pochi baffi corti e poca barba sotto il mento, fronte molto fuggente, occhio penetrante, naso leggermente aquilino, sorriso benevolo, ma serio; zigomi assai pronunciati; in complesso i tratti piuttosto caratteristici e fisonomia cordiale, ma severa; ha 44 anni ed apparentemente tanti ne mostra.

Fra i suoi fidi spiccavano la simpatica figura dirasAlula, governatore in capo del Tigré, e quella di Woldi Michael, il famoso rivoltoso che per tre anni tenne la rivoluzione nell'Amassena, ed ora da pochi mesi si è sottomesso al suo sovrano.

È vecchietto, affabile, apparentemente aperto di modi, ma l'occhio tradisce in lui la coscienza di meditare quello che non confessa. Quando re Giovanni se ne impossessò, invece di castigarlo volle essere generoso, gli perdonò il passato per le promesse di un avvenire di fedeltà e di devozione, e lo nominò governatore della provincia che lui stesso tenne sollevata e in armi per tanto tempo, ma lo confidò alla sorveglianza dirasAlula, e come pegno della sua sincerità ne tenne il figlio addetto alla Corte.

Il re ci fece sedere a fianco al suo divano, e sparsi nella capanna si disposero a gruppi tutti gli altri presenti. Entrò una sequela di servi con grandi panieri di pani, vasi di tecc, bottiglie, e ad ogni gruppo fu destinato un paniere e distribuito ad ogni individuo un coltello; col solito sistema servirono poi la pasta di berberia, una prima portata di carne cruda e una seconda di bue abbrustolito, e di abbondanti libazioni di tecc, usandoci il riguardo di servirlo a noi nelle bottiglie che noi stessi avevamo regalate. Ognuno colle proprie mani principiò a staccare i pezzi di carne che meglio gli confacevano, e una massa di servi intanto andava e veniva rinnovando sempre bibite e portate. Il re non mangiò, ma continuò a discorrere coll'uno e coll'altro, esaminando e compiacendosi delle nuove armi.

Era bella la scena e stupendo il contrasto di questo ricevimento in una capanna di paglia, reggia del re dei re che con un cenno tutto può nel suo regno, misti alle sue mule e ai suoi cavalli, seduti a terra su dell'erba o dei tappeti europei, mangiando colle mani della carne cruda, ai piedi di un trono coperto con sete, damaschi, e ricami in argento, in presenza dei più grandi dignitari di Corte e del paese, frammischiati ad una massa di servi tutti quanti scalzi, tutti quanti coperti dal semplice scemma, spesso piuttosto sdruscito, sempre molto sudicio.

Si mangiò, e la conversazione proseguì ancora dopo che icesti dei pani furono levati, e si continuò a servire tecc, finchè un usciere gridò alcune parole che fecero sortire tutti quanti, e per ultimi noi che con un inchino ci licenziammo da questo interessante e cordiale banchetto.

Le piogge hanno incominciato, e prima che il forte ci sorprenda vorremmo vedere quanto ancora ci interessa, per poi metterci sulla via del ritorno. Si stabilisce quindi che chi deve interessarsi di affari commerciali vi attenda per proprio conto, mentre Ferrari ed io andremo a visitare il lago Tzana, e il Nilo Azzurro; Legnani ci sarà compagno, e tutti ci riuniremo a Debra-Tabor ancora, per tornare dal Galabat visitando sulla strada il Gondar.

La mattina del martedì 27 il re ci manda a chiamare, e tenendosi al fianco uno dei capi della chiesa, ci riceve insieme ai protestanti: vuole la presentazione di quelli fra noi che partono per affari commerciali per la via del Goggiam, e di quelli che se ne vanno alle rive del lago Tzana, ci augura il buon viaggio, aggiungendo che tutto già pensò per le guide che ci devono accompagnare. Fa poi dire ai protestanti che non mutò consiglio dalla prima udienza che loro concesse, ed ingiunge che in giornata partano per raggiungere Massaua al più presto possibile, con una fermata di non più di tre giorni in Adua, assicurandoli che lungo tutta la via godranno della maggiore sicurezza. Saputo da Naretti che gli oggetti che gli avevano regalati potevano valere da cinquanta a sessanta talleri, ne diede loro cento, dicendo non se ne offendessero, che non intendeva con questo pagare i loro doni, ma solo compensarli delle spese di un viaggio fatto inutilmente.

Alle due, il cerimoniere di corte ci presenta la nostra guida assicurandoci che provvederà a tutto quanto ci sarà necessario, e ci raccomanda pazienza colle popolazioni se alle volte vorranno insultarci dandoci delturco. Ferrari, Legnani ed io volgiamo asud-ovest, attraversiamo per lungo tratto l'accampamento, passiamo ai piedi dell'altura sulla quale sta la chiesa del Salvatore con gran sfarzo cominciata da Teodoro, proseguiamo, discendendo entro un vallone, più ad ovest, ed alle cinque la guida ci consiglia fermarci presso alcune capanne, dicendo essere lontani altri villaggi. La sera ci portano pani, burro, uova, birra e una gallina.

Mercoledì 28.Discendiamo per vallate assai popolate e coltivate, verdeggianti di pascoli e di folta vegetazione. Predominano acacie, lauri, gelsomini, rose, muse e cento altre varietà che non so qualificare. In molti punti il sentiero è cattivo sia per la ripidità, sia per le pietre e i rami che lo ingombrano e non permettono di passarvi sotto a cavallo. Alle due, in un punto ove la vallata si allarga, vediamo molta gente radunata ad un mercato: ci fermiamo per comperare del caffè, ma la nostra apparizione produce un tal panico che tutti i venditori raccolgono le loro merci e se le portano via lasciandoci pienamente padroni del terreno.

Mezz'ora ancora, e facciamo sosta al villaggio diDoraa circa 2100 metri. Il capo ci si mostra cordialissimo e vuole che accettiamo una capanna per la notte, amabilità troppo spinta, chè preferiamo la tenda, ma il rifiuto sarebbe offesa. Notte infernale: abbiamo a compagni una raccolta di donne, uomini, bambini, cani, gatti, galline, e una miriade di insetti d'ogni specie che non ci lasciano chiudere occhio; io per di più soffro immensamente all'indice della mano destra, che da qualche giorno ha cominciato a tormentarmi.

La mattina seguente il capo del villaggio viene a complimentarci, e dichiara di volerci accompagnare qualche poco: sarà in parte effetto di cortesia, ma si deve un pochino anche attribuirlo al desiderio che ci espresse d'avere della polvere da fucile. Dopo un'ora di discesa vuole ci fermiamo all'ombra diun gruppo di palme per prendere del latte che fa portare da pastori suoi dipendenti. Attraversiamo quindi una vasta pianura, discendiamo per vallate attraversando diversi torrenti che mandano le loro acque al lago; abbiamo buona caccia di oche e gazzelle. Verso le quattro ci fermiamo presso alcune meschine capanne che non ebbero forse mai neppur l'onore del battesimo.

Venerdì 30.Larghe vallate con moltissima vegetazione:ficusgiganteschi, sempre le eleganti acacie, tornano gli alberi di gardenie. Scorgiamo il lago vastissimo, con qualche isola, attraversiamo fittissime boscaglie, e poco dopo mezzogiorno ci si presenta Corata, la capitale, per così dire, del lago Tzana. Essendo questa una città tenuta in conto di mezza santità, per le etichette usate ci fanno scendere da cavallo, consegnare i fucili ai servi ed aprire i nostri ombrelli, ciò che pare accresca la grandezza e la dignità, e così avanziamo verso il villaggio che si presenta grande, ben disposto fra folta verdura, su una altura che quasi a penisola si protende nel lago e ne delinea un piccolo golfo. Peccato che sia per bassi fondi, sia per le piogge del Goggiam, da dove vi scolano le acque, queste non appaiono troppo limpide. Il lago è assai vasto e sparso di parecchie isole fra cui alcune popolate e tenute in conto di sacre. La sua lunghezza è di quasi cento chilometri, per circa cinquanta di larghezza e quasi trecento di circonferenza. Il villaggio è originalissimo: ogni capanna è rinserrata in un cortile e circondata da folte boscaglie, e le viuzze tutte fiancheggiate da mura o da verdi siepi e ombreggiate da alberi giganteschi: crescono spontanei il caffè, la musa, le palme, il limone, il ricino che raggiunge grandissime proporzioni, parecchie dracene, gli aranci e mille altre varietà di piante rare per noi e che ben coltivate potrebbero esser fonte di grandi ricchezze e benessere. L'elevazione è di 1900 metri sul mare. Andiamo dal capo del villaggio che ci fa aspettare una buona mezz'ora fuori la porta, poi ci riceve nelsuo cortile, seduto con grande importanza su una pelle da gazzella.

Corata—Lago TzanaCorata—Lago Tzana

Corata—Lago Tzana

Accoglienza fredda; non vuol riconoscere l'autorità della nostra guida. Lo riduciamo però a miglior consiglio, e come noi pensavamo stabilire qui il quartier generale per fare delle escursioni sul lago, domandiamo d'avere untucul, disposti a pagarne l'affitto. Pareva le cose si disponessero per bene, quando arrivano un paio di preti a mettere dei bastoni nelle ruote; ci fanno perdere del gran tempo in discussioni, poi ci invitano di seguirli alla chiesa dove si deciderà. Vi suonano le campane e arriva una ventina di sacerdoti che cominciano a questionare fra loro e colla nostra guida. Le cose vanno per le lunghe e la pazienza scappa anche ai santi, per cui in modo risoluto faccio capire che sono disposto a pagare, ma voglio e subito una casa, altrimenti farò le mie lagnanze al re. Per tutta risposta mi dicono d'andarcene al lago a cacciare l'ippopotamo, che nel frattempo loro decideranno. Siamo stanchi, rispondo, e vogliamo riposare e non cacciare per ora, e pretendo mi diate una casa. Ci fanno allora accompagnare ad una capanna che ci dicono destinata, ma alcune donne strillano e non vogliono permetterci d'entrare: c'era un morto. Indispettiti torniamo alla casa del capo, piantiamo la nostra tenda nel suo cortile e dichiariamo che non ci muoveremo se non ci sarà data una buona abitazione.

I preti tornano e gridano; ma noi gridiamo più di loro, e ci mostriamo risoluti, finchè ci destinano untucul, al quale andiamo senza fare alcun saluto a nessuno dei presenti.

Il capo, forse intimorito, viene subito a farci una visita e ci porta del pesce, galline, birra, pane e miele.

Sabato 31.Tanto antipatica e scortese è la popolazione, altrettanto simpatico ed originale è il villaggio, nel quale si incontrano frequenti avanzi di muraglie costrutte con grossi blocchi,ciò che mi fa supporre siano resti di una piazza forte dei Portoghesi. Il lago aggiunge maggior vita al paesaggio, e non possiamo abbastanza bearci della sua vista e della sua frescura, dopo tanti mesi che l'occhio nostro non trova più a riposare su una massa di questo simpatico elemento. Sono strane le barche usate, a forma di pantofola ricurva alla punta, e costrutte con grosse canne palustri strettamente legate fra loro con scorze d'alberi. Dalla spiaggia si vedono frequenti ippopotami che sollevano le loro enormi teste fuori dall'acqua per respirare.

Tutti si mostrano così inospitali e nel trattarci e nel provvederci di quanto fu loro ordinato dalla guida nostra, che decidiamo la partenza per domani, risoluti di fare al re un rapporto che guadagni il meritato castigo a questi scortesi sacerdoti.

Quando il giorno dopo videro la nostra decisione di partire, temendo le conseguenze del nostro malcontento, vennero in processione a dichiararci la più profonda simpatia ed amicizia e prometterci che se restavamo, ci avrebbero mandato ogni sorta di viveri, ma noi ci mostrammo fermi, e caricate le mule, proseguimmo verso sud, lungo il lago, e piantammo le tende in riva a questo, dopo due ore di cammino, presso alcune meschinissime capanne basse, ristrette e totalmente coniche, costrutte con erba e canne palustri e abitate da pochi miserabili pastori. La natura è grandiosa, il paesaggio bello, ma le sofferenze pel dito malato mi tolgono gran parte del piacere che proverei. Da parecchie notti mi è impossibile dormire, si è terribilmente ingrossato, non sono più dolori, ma spasimi; la natura stessa mi fa sentire il bisogno di aprire una via al male che internamente corrode.

La farmacia e i pochi ferri chirurgici li lasciammo a Debra-Tabor, dovendo tornarvi, quindi con un coltellaccio qualunque tento fare quanto l'istinto mi suggerisce, ma la mano malata,ridotta doppiamente sensibile dall'infiammazione, cede sotto l'altra, e solo dopo parecchi tentativi mi riesce aprire un piccolo taglio.

Nilo AzzurroDove il Nilo Azzurro sorte dal lago Tzana

Dove il Nilo Azzurro sorte dal lago Tzana

Lunedì 2 giugno.In direzione sud marciamo per quattro ore e piantiamo le tende in un magnifico altipiano, precisamente all'altezza dove il Nilo Azzurro esce dal lago. Questo comincia già un pochino a ristringersi poco sotto Corata, e dove accampammo ieri principia a fare imbuto, sparso di isolotti e lingue di terra che dalla spiaggia, basse si protendono all'interno. Il cammino percorso oggi è sempre parallelo al lago e in qualche punto lambe le sue acque. È sempre alternato fra basse pianure a pascoli popolate da bestiame, ed alture che si stendono lunghe verso il lago, quasi come radici della catena che ci sta sulla sinistra. Attraversando queste la natura è selvaggia e grandiosa, e popolata solo da fiere che nonosanomostrarcisi e da una massa di caccia, specialmente faraone e gazzelle; alberi secolari d'ogni forma ed altezza, tronchi caduti per vecchiaia o per forza di bufere ed artisticamente rovesciati gli uni sugli altri, liane che tutte avvingono fra loro le diverse varietà, fiori che coprono il suolo: la mano dell'uomo non entrò certo mai a togliere nulla alle bellezze che natura ha prodigato a questo cantuccio. Il capo del villaggio è cordialissimo e ci manda ogni ben di Dio.

Martedì 3.Restiamo qui per la caccia all'ippopotamo cui prende parte Ferrari: io non lo posso pel mio dito che va di male in peggio: non un istante di riposo nella notte. Con un rasoio prestatomi dai servi tento ancora di farmi da chirurgo, ma di poco riesco ad approfondire il taglio già fatto. Nella notte abbiamo per due volte invasione di grosse formiche nella tenda, che ci obbligano di trasportarla; mi sento sfinito dalla stanchezza, provo necessità assoluta del riposo, sento la sofferenza del bisogno di sonno, mi par di perdere la ragione, gliocchi vorrebbero chiudersi, ma gli spasimi superano tutto e assolutamente m'è proibito ogni riposo. Ora poi si aggiunge anche questo trambusto. La mattina giunge, e davvero non avrei creduto di poter sopportare tante sì terribili pene.

Mercoledì 4.Per un quarto d'ora ci andiamo innalzando per poi scendere in una vastissima pianura poco più elevata del lago, che tutta attraversiamo: durante la discesa seguiamo coll'occhio il corso del Nilo che dal lato sud-ovest, in fondo alla pianura, va serpeggiando fiancheggiato da due strisce di folta verdura, frutto delle terre che egli lambe e fertilizza.

Appena abbiamo messa la tenda, siamo raggiunti dal fratello del capo del villaggio di ieri, che giunge seguito da gran corteo di servi ed armati: è tanto cordiale con noi, che subito sospettiamo, abituati come ormai siamo che in questo paese c'è ben poca cordialità e spontaneità, e se qualcuno ne mostra è per raggiungere altro fine che si è prefisso. Poco dopo infatti ci fa chiedere delle munizioni.

Continuiamo ilgiovedì 5col solito alternarsi di pianure e di alture; attraversiamo diversi corsi d'acqua che vanno a portare il loro obolo a papà Nilo; saliamo un'erta collina, e ridiscesi dall'altro versante ci troviamo al ponte che i Portoghesi costrussero per unire il Goggiam all'Amara, e che oggi potrebbe essere scuola ed invece è onta a questo popolo.

Ponte portogheseAntico ponte portoghese sul Nilo Azzurro

Antico ponte portoghese sul Nilo Azzurro

La posizione è delle più tetre che si possano immaginare. Giace questo testimonio dell'antico potere incassato fra alture dai profili quasi orizzontali, sulle quali la vegetazione cessa a metà dell'altezza per dar luogo a pareti di rocce nude e nerastre, in fondo alle quali il fiume scorre accompagnato da un monotono rumoreggiare, che unito al cielo bigio e all'atmosfera cupa del momento per minaccia di temporale, aveva del sepolcrale. Il ponte poggia su roccie di diversa altezza: l'arco maggiore sovrasta la maggiore profondità, quindi sempre viscorre acqua: i secondarii servono nei casi di grandi piene. Dal lato dell'Amara è l'abitazione di un guardiano che non ne permette il passaggio a chi non è munito di speciale permesso del re. Non volle lasciarci piantare la tenda, per cui ripassammo l'ultima altura per andarci ad accampare ad un paio d'ore di distanza.

Il venerdì restiamo qui fermi, e Ferrari in un giro di caccia trova ad ammirare una stupenda cascata del Nilo poco superiormente al ponte. Io non mi sento la forza d'andarvi, e tento invece un rimedio preparatomi da un soldato con radici essicate e polverizzate, quindi impastate con burro. Copertane la parte ammalata, dopo un paio d'ore mi cessano i dolori, posso riposare la notte, e in poco tempo il taglio da me fatto si è di molto allargato e due nuove aperture laterali si sono formate. Il povero dito è spaventoso, rassomiglia un cavolfiore, ma io sento sollievo, non penso tanto all'avvenire, e mi par rinascere per ora a nuova vita.

Per qualche giorno proseguiamo a piccole tappe, per non stancarmi troppo, e senza notevoli incidenti, tranne fortissimi acquazzoni contro i quali non ci sono coperture nè tende che tengano, e una gherminella delle guide che invece di farci tenere la via più breve come era nostro desiderio, ci fanno deviare per passare da un capo villaggio che aveva loro promesso abbondantetecc. Si percorrono sentieri impossibili attraverso campi e boschi: la natura abbastanza grandiosa e selvaggia: spesso alture coronate da folto verde fra cui giganteggiano le tuje, indizio che vi nascondono qualche chiesa in cui i preti si beano nel far niente, vivendo alle spalle dei poveri contadini. Al famoso villaggio cui tanto tenevano le nostre guide troviamo il capo assente, ma l'invisibile consorte ci usa ogni cordialità, destinandoci un buontucule regalandoci ditecc, uova, latte, galline.

Si credeva arrivare a Debra-Tabor il martedì, ma dopo cinque ore di cammino le guide ci consigliano fermarci, pretendendo esservi ancora parecchie ore e non essere conveniente arrivare verso sera e presentarsi al re, come di prammatica.

Mercoledì 11.Per accorciatoio ci fanno fare un'ertissima salita per un sentiero a grossi ciottoli e fra tali boscaglie, che le mule per poco non si accoppano e noi siamo forzati andare a piedi. Attraversiamo così un'altura che determina la vallata in cui dormimmo la prima notte di questa escursione, e ridiscesi per poco dal versante opposto, ci troviamo presso la chiesa del Salvatore. Ai piedi del colle sul quale si trova, stanno parecchi avanzi di edificii che sentono della mano civile, e sono infatti i resti delle abitazioni e officine degli Europei chiamati da Teodoro a portare la civiltà in paese. Da qui per la strada già percorsa siamo in poco più di un'ora a Debra-Tabor, dove il bravo signor Giacomo Naretti e gli altri compagni mi spaventano col loro spavento nel vedere la mia mano, e subito s'accingono ad applicarmi i rimedii necessari.

Giovedì 12.Andiamo dal re per augurargli il buon giorno, frase sacramentale in Abissinia, dargli rapporto della nostra escursione e ringraziarlo delle guide forniteci, ma lo incontriamo che esce per tenere pubblico tribunale. Sulla piattaforma avanti la porta d'ingresso è improvvisata come una gradinata con quattro o cinqueangarebdi diversa altezza, tutti coperti con stoffe e tappeti: S. M. è accovacciato sul più alto, ai suoi fianchi stanno in piedi i più fidi della corte, dietro lui qualche soldato custodisce una bandiera regalata un tempo dalla regina d'Inghilterra. Sul davanti la collina scende fino alla piazza del mercato dove stanno migliaia di curiosi, e in prima linea tutti i giudicandi che avanzano man mano che i pretesi uscieri li chiamano. Si fanno salire sul versante dell'altura fino ad una ventina di metri dal palco reale, e qui trovano i loro avvocatielegantemente vestiti con camice rosse, depongono a terra alcuni vasi che portavano, espongono la loro querela. Gli avvocati fanno la loro controscena, il re ascolta, si consulta qualche volta coi suoi vicini, poi emette un giudizio che è inappellabile e trasmesso ad alta voce in modo che possa essere inteso da tutto quanto il numeroso uditorio. Non si trattano qui che cause civili, e i vasi deposti contengono miele, tributo dovuto pel trattamento della causa, che in parte è devoluto al re ed in parte agli avvocati. Ben considerata la cosa per se è ridicola, se si pensa al profondo sapere e alla serietà di questi giudici e all'equità delle sentenze che possono emettere, ma come scena non potrebbe essere più grandiosa, e l'immensità dell'ambiente, e la folla degli uditori, e il loro silenzio sepolcrale, l'enfasi delle difese degli avvocati, la parola calma e incisiva del re che col suo volere, con un suo cenno, poteva in quel momento decidere fra la libertà e le catene, la vita o la morte di quei disgraziati che gli si presentavano, tutto concorreva a dare un tal carattere di imponenza che mi lasciò profonda impressione, come certamente non ne può aver lasciata nessuna aula dei nostri tribunali.

L'organizzazione della casa reale o di un gran capo qualunque, è in questo paese affare grandioso e complicato, ma certo ridicolo più che serio per chi pretendesse che avesse a corrispondere alla parola organizzazione nel suo stretto senso. Presa dal lato apparato e importanza, merita per altro qualche considerazione od almeno due parole di descrizione. Comincio dal notare che nessuno fra tutti questi alti dignitari ha fatto studii speciali od ha acquisita esperienza che gli possa meritamente attribuire il grado che occupa: tutto è questione di favoritismo, d'occasione, di spigliatezza più che di ingegno, e spesso di intrigo riuscito. Tutti però occupano il loro posto e disimpegnano le loro funzioni con una serietà, una importanza ed un affacendarsi, come tenessero le redini della politica europea.

Nel costume abituale nessuna distinzione, solo nelle grandi occasioni sono vestiti di camicie in seta con ornati tessuti o ricamati a diversi colori, e questo generalmente è dono particolare del re. I gradi di tutta la coorte, per non dire baraonda, che segue la corte sono così distribuiti: comandante l'avanguardia, gran mastro di cerimonie, gran sorvegliante l'andamento di casa o maggiordomo, tesoriere, segretario particolare per le corrispondenze, dragomanno e ministro per gli affari esteri, scrivani, custode al tesoro, custode alle guardarobe reali, scudiere o sorvegliante i cavalli e le mule, sorveglianti alla carne, alla farina, al pane, altecc, ecc. Fra le donne, le direttrici alle cucine, alle panattiere, alle fabbricatrici ditecce di birra, alle portatrici dei vasi per queste bevande.

Ogni dignitario segue il re, forma parte del suo stato maggiore e comanda un certo numero di soldati. In marcia seguono poi come addetti alla corte, una massa infinita di portatori delle tende, del tesoro, delle provvigioni, ecc.

Il re detta le corrispondenze o le fa scrivere dando a svolgere il suo concetto, poi le rilegge e allora vi applica il sigillo reale etiope.

Si passa ancora qualche giorno al campo reale e intanto si fanno tutti i progetti e i preparativi per la partenza, quantunque le piogge abbiano già cominciato giornaliere e forti. Si tratta di decidersi freddamente a passare due o tre mesi di inazione sotto una capanna, atrofizzando persino il cervello, chè, non essendovi preparati, non abbiamo neppur libri da leggere con noi, o partire, disposti a vivere nell'umido tutto quanto il viaggio, e confidare nella buona stella sia per la salute, sia per la possibilità di guadare i torrenti che scendono impetuosi. Se fossimo stati guidati da un po' più di esperienza nel fare i preparativi di questo viaggio, la cosa non si sarebbe presentata tanto disastrosa, ma equipaggiati come eravamo noi, che mancavamopersino dello stretto necessario, pareva quasi temerità l'intraprendere in questa stagione il viaggio del ritorno. Ma tanto si volle tentare, e si decide di prendere la via di Galabat, Kassala, Suakin. Il re ci prega però di tornare da Massaua, dicendo essere l'altra via pericolosissima in questa epoca per le febbri, ed assicurando che almeno un paio di noi vi avrebbe lasciata la vita.

Dovendo noi andarcene all'estremità nord del lago Tzana a visitare uno zio del re, malato, e desiderando nel ritorno percorrere la via del Semien, per vedere paesi nuovi, facciamo partire subito la carovana del bagaglio che percorrerà la strada fatta nel venire, più lunga ma comoda per le mule, e noi decidiamo che partiremo con pochi servi e nessun carico per esser lesti a superare certi passi rocciosi che ci dipingono orrendi.

L'incontro delle due carovane è deciso sarà in Adua.

Fissato il giorno della partenza andiamo a congedarci dal re che ci saluta colla solita freddezza, nella quale bisogna leggere la cordialità, sapendo essere effetto del carattere.

In Abissinia questo re è generalmente piuttosto amato, se si può ammettere che questo popolo ami un sovrano od un capo qualunque. Io credo che in questo paese si ama il re in generale perchè si ha l'abitudine di temerlo, e si ama re Giovanni per l'ammirazione che si ha per la sua abilità e fortuna colle armi. Ma se domani un altro individuo qualunque sorgesse, trovasse proseliti, bandisse una crociata, fosse tanto abile e fortunato da vincere le truppe reali e si proclamasse re, tutto il popolo dimentica chi è caduto in disgrazia e plaude e fanatizza pel nuovo che li guida alla vittoria e cinge la corona del re dei re.

Il gran merito che in generale si fa a re Giovanni è quello della serietà, del non essere crudele, e dell'imparzialità, avendodato prova che quando un castigo è meritato non usa riguardo nè ad amici nè a parenti: sono qualità che non dovrebbero essere meriti in nessuno queste, ma fra un popolo come l'abissino, fresco ancora delle memorie di Teodoro e delle più vecchie tradizioni, è permesso che se ne faccia gran conto.

Doni del re.—Partenza dal campo reale.—Compagni di viaggio.—Villaggio poco ospitaliero.—Accoglienza poco cordiale di ras Area.—Gondar.—Traccia di strada.—Re Teodoro.—Le piogge.—Il Semien.—Emozioni.—Passaggio del Taccazé.—Arrivo in Adua.

Il re volle consegnarci una sua lettera da presentare al nostro sovrano ed inviargli in dono due piccoli leoni che aveva ricevuti dal Goggiam e stava addomesticando per tenerli a fianco al suo trono, come altre volte faceva e come è tradizione dei re d'Etiopia, e desiderando dare a noi una sua memoria, ed esserci utili nel nostro viaggio di ritorno, ci mandò in regalo tre mule elegantemente bardate con selle di distinzione che non si possono portare in paese se non date dalle sacre mani di Sua Maestà. Sono in pelle rossa e verde, e la gualdrappa che scende a lunghe punte ricamata con disegni originalissimi quanto primitivi che pretendono rappresentare leoni, guerrieri, croci cofte ed altri ornamenti.

La mattina del 21 giugno, lasciamo il colle di Gafat, questa residenza reale dove provammo tante emozioni e tante soddisfazioni, e accompagnatidaiNaretti e da qualcuno della Corte che ci vogliono scortare per breve tratto, proseguiamo verso ovest, rifacendo in parte la strada fatta nel venire, e ci fermiamo un'ora prima del tramonto presso un villaggio all'altezza di 2000 metri, dove malgrado gli ordini del re ci rifiutano qualsiasi ospitalità, persino l'acqua.

Al momento della partenza fummo affidati ad un giovane soldato, logoro e schifoso da destare ribrezzo e pietà, che doveva esserci di guida ed ottenerci in nome del suo Sovrano, ad ogni villaggio che incontravamo sulla nostra via, tanta roba da mantenere un reggimento. Una lettera dataci dal re e diretta a tutti i governatori, capi dei villaggi, preti, ci raccomandava e minacciava severe punizioni in caso di rifiuto all'adempimento di questi ordini, ma sono così scarsi quelli che in Abissinia sanno leggere, che anche questo documento finisce per diventare inutile, oso dire, derisorio.

Nove prigionieri abissinesi, tenuti da un tronco d'albero che con una forcella ad un'estremità serra loro il collo, e scortati da parecchi soldati, sono destinati a fare il viaggio con noi fino al campo dirasArea, lo zio del re dal quale siamo chiamati. La compagnia non era certo la più simpatica, ma in questi paesi bisogna sorpassare a molte cose; d'altronde noi siamo a mula e vogliamo fare marce forzate, per cui dopo poco cammino li lasciamo e proseguiamo per conto nostro.

Il giorno appresso la guida lega per bene l'ostile capo del villaggio e lo trascina per portarlo a scontare il fio della sua mancanza, ma i preti si presentano in funzione, colle croci in testa e seguiti da molto popolo ad implorare il nostro perdono che ci mostriamo risoluti a rifiutare. Fatta poca via però siamo fermati da un baccano misto di suoni e gridi; sono l'allarme che i ministri di Dio danno, e la raccolta ai fedeli per inseguirci in massa e colla forza ottenere la libertà del capo. Per evitare guai, nei quali certo saremmo sopraffatti dal numero, e d'altronde avendo ben poco a guadagnare dalla compagnia del nostro prigioniero, testimoni i preti, lo dichiariamo assolto dalla sua colpa, purchè venga ad accompagnarci fino alla sera e ci ottenga dal nuovo capo quello che desideriamo. Così fu pattuito, ma lungo la strada scomparve fra boscaglie e fuggì. Dopo una traversatadi diverse alture coltivate e ben vestite da vegetazione, dalle quali godiamo sulla nostra sinistra l'esteso panorama del lago Tzana, scendiamo in una sterminata pianura nel mezzo della quale ci andiamo a fermare presso alcune capanne, abitate da miseri pastori che non trovandosi in forza di reagire vengono a supplicarci colle lagrime di risparmiar loro il tributo, perchè mancanti persino del pane per vivere. Ci accontentiamo quindi di qualche piccola cosa che ricompensiamo con moneta.

SpadeSpade: 1. biscerina. 2. abissinesi.3. Sella e briglia di distinzione regalateci de Re Giovanni. 4. Decorazione militare.

Spade: 1. biscerina. 2. abissinesi.3. Sella e briglia di distinzione regalateci de Re Giovanni. 4. Decorazione militare.

Tutti i giorni verso le tre il cielo si copre e ci accompagnano pioggie dirotte che ci preparano bene inzuppato il terreno sul quale dobbiamo poi piantare la tenda e sdrajarci, salvo poi continuare la notte e colla pendenza del suolo formarsi una corrente d'acqua, che mentre dormiamo ci cura idroterapicamente il dorso.

Lunedì 23.Proseguendo a nord-ovest attraversiamo la vasta pianura a poca distanza dal lago, con un caldo soffocante; alla nostra destra ci maschera il Gondar una bella catena di monti, uno dei contrafforti del gruppo del Semien che fra pochi giorni visiteremo. Usciamo dalla provincia di Begemeder ed entriamo in quella di Dembea che è sotto il governo del vecchiorasArea che ci fu dipinto come affabile e di modi cortesi cogli Europei, ma il più severo e crudele coi suoi; è il solo che ancora abbia inflitta la pena dell'accecamento, malgrado il re vi sia contrario. Lungo il lago masse di ardee, anatre, oche selvatiche e cento altre varietà di selvaggina, da coprire letteralmente acqua e spiaggia. Sono talmente ingenui sui tranelli che l'uomo può tendere loro, che si lasciano assai facilmente avvicinare, ed al tiro del fucile non fanno che sollevarsi in massa per rimettersi a pochi metri di distanza. Giunti all'estremità del lago pieghiamo leggermente a nord, e, attraversati molti campi coltivati, ci accingiamo alla salita del colle di Genda, i cui versanti sono occupati dall'accampamento delle truppe e il vertice dal solito ricinto entro cui sono le capanne del capo.

Ci facciamo annunciare, e dopo una mezz'ora di nojosa anticamera fuori della cinta, circondati da centinaja di impudenti soldati che spingono la loro curiosità all'indiscrezione, non sanno cosa sia cortesia e si divertono a deriderci ed insultarci ripetendo fra loroturco, turco, siamo invitati ad entrare. Attraversata, parte del recinto siamo introdotti in un vastissimo tucul doverasArea sta accovacciato fra una massa di grandi, di generali, di avvocati. La nostra guida ci presenta, o meglio ci presentiamo da noi, ma la guida consegna uno scritto del re. Tutti si alzano vedendo il suggello reale; commentano frase per frase, ci fanno mille domande sul dove andiamo, da dove veniamo, chi siamo, cosa contiamo fare, poi siamo licenziati e affidati ad un individuo che si porta ad un piccolo tucul, in mezzo a tutti gli altri delle truppe, già pieno di soldati che si fanno sgombrare. Non è così che si trattano persone di riguardo, come, senza tema di peccare di superbia, credo siamo noi in questo paese, dove se si fa dell'ospitalità, almeno apparentemente si cerca di farla bene, ma pensiamo saranno stati male eseguiti gli ordini dati, e ci adattiamo alle circostanze, ci spogliamo delle nostre armi e ci sdrajamo in cerca di riposo, sperando arrivi presto anche da soddisfare l'appetito.

Entra poco dopo un messo con un corno ditecce ci offre a bere, poi ci invita per ordine del capo a portarci da lui. Certo è per darci da mangiare, pensiamo, e pieni di speranze e d'ardire ci avviamo.RasArea è seduto nell'angolo di un piccolo ricinto e circondato da una ventina dei più fidi compagni; salutiamo e ci disponiamo davanti a loro; un forte battibecco comincia, si fa viva una querela fra loro, dai gesti si vede che vogliono accusarci di qualche cosa; il nostro servo che fa da interprete dice ci ritengono malfattori; pensiamo ci scambino pei condannati che dovevano arrivare con noi e cerchiamo spiegarci, ma ad un cenno del capo una massa di soldati invade,ognuno di noi è preso da due per le braccia che ci tengono rivolte all'indietro; io porto il destro al collo, perchè sempre malato, si insospettiscono nasconda qualche arma, vogliono mostri il mio male. La questione si va facendo più seria, più complicata; il nostro Agos, l'interprete, giovane timido, grida:vi legano, vi legano; poi è preso da timore, piange, non sa più spiegarsi; alcuni soldati entrano con delle catene. In questo frattempo, anzi fin dal principio, il capo e parecchi dei suoi si armarono di carabine, vi misero le cartuccie e pronti tenevano queste armi rivolte a noi. Noi davvero non si sa che pensare; le nostre parole non sono intese, la nostra innocenza non vuol essere ammessa; ci guardiamo l'un l'altro, è inutile fare il forte, tutti son pallidi e come gli altri devo essere anch'io. Ferrari è condotto nel mezzo del recinto, inginocchiato col dorso rivolto alle carabine; in quel momento, confesso, lo vidi finito e immaginai tutti noi stesi con lui. La morte mi parve bella in quel momento e il pensiero correva triste all'idea di non essere finito d'un colpo, delle sofferenze delle ferite, d'esser forse destinati coi nostri patimenti a trastullo di quella canaglia. Nel volgere di pochi secondi migliaia di pensieri mi si presentarono alla mente e una vera lanterna magica dei miei cari, del passato, del mio paese, mi passò davanti agli occhi. È paura questa? se lo è, confesso d'averla avuta e non me ne vergogno; quando è dato mostrare di aver coraggio, credo non sia tanto difficile persuadere che non si ha paura, ma quando si vede la morte vicina e l'impossibilità di muovere dito per respingerla, e senza scopo alcuno, e convinti della propria innocenza, credo non sia gran merito rassegnarsi alla morte, nè demerito dolersi di perdere la vita.

Qualcosa di sereno però siedeva ancora nel mio cuore, e si fece gigante, e una voce interna mi parve dirmi: tua madre prega per te, tu devi riabbracciarla, e mi sentii rassicurato. Lepreci di mia madre avevano infatti un eco in questi cuori da belve, e Ferrari fu solo primo ad essere incatenato. Come la catena deve serrare al polso, l'ultimo anello è più largo e aperto per farvi entrare il braccio, che poi si appoggia ad una pietra qualunque, mentre con un'altra picchiando or su un estremo or sull'altro dell'anello, lo si chiude tanto che serri e non possa sortirne la mano. Per questa operazione Ferrari erasi dovuto inginocchiare, anzi dopo quasi sdrajare a terra. Lo stesso fu fatto a tutti noi, con permesso speciale di Sua Eccellenza per mettermi la catena al braccio sinistro essendo il destro il malato, poi fummo separati e condotti attraverso quell'orda selvaggia di vigliacchi che si chiamano soldati e che ci scherzavano, ci insultavano, ridevano della nostra disgrazia al nostro passare. All'altro estremo della catena è legato un mascalzone qualunque pieno di rogna e di pidocchi che è garante del delinquente che gli viene affidato. Così ognuno fu condotto in una capanna e circondato da donne, ragazzacci e soldati che si appropriarono quattrini, fazzoletti, orologi, quanto poteva soddisfare i loro gusti: ci spiegarono comerasArea era come Teodoro e noi gli inglesi che questi aveva incatenato; chi con un fucile spianato mi mostrava che fuori la capanna mi avrebbero fra poco finito, chi con una spada voleva farmi capire che la mia condanna era il taglio del piede e della mano. Intanto i pensieri volavano a casa mia, all'avvenire, ad una lunga prigionia, a sofferenze, alla morte; e per buona sorte la noja insistente di questi importuni non lasciava troppo tempo allo svolgersi dei pensieri, e il succedersi di questi mi calmava l'indignazione della posizione in cui mi trovavo condannato. Oso dire che la risultante fu una buona dose di rassegnazione e mi tranquillai aspettando la mia sorte.

Non saprei precisare quanto tempo durò questo stato di cose, e i minuti devono certo essermi sembrati ben lunghi, maparmi che dopo circa un'ora e mezza, un soldato venne a dirmi mi portassi dal capo. Seguito dal custode, e ancora attraversando tutti quei gruppi di mascalzoni indegni d'esser uomini e di portare il titolo di cristiani, tornai darasArea e vi incontrai i compagni. Si fece ancora qualche po' di discussione, ma alla fine fummo liberati dalle catene appoggiando il braccio su d'una pietra e legando un estremo dell'anello con cinghie ad un grosso palo che si tien fermo e appoggiato alla pietra stessa, e forzando a schiudersi l'altro estremo tirandolo con liste di pelle parecchi soldati.

RasArea si mostrò allora mortificato, avvilito, disse che se volevamo avevamo diritto a bastonarlo, e fingendone l'atto, dichiarò che a lui non restava che presentarsi colla pietra al collo per implorare il nostro perdono.

Quando arrivammo egli era completamente ubbriaco ed i suoi fidi in parte. La nostra guida, un povero cretino, presenta la lettera del re in cui dice:ti invio nove prigionieri, metti loro le catene e mandali alla montagna; e non aggiunge altro a nostro riguardo.

Questoqui-pro-quo, i fumi dell'ubbriacatura che confondevano la mente e offuscavano la vista, il desiderio degli altri ajutanti e seguaci di mettere in catene dei bianchi, ciò che pareva loro gran merito, tutto questo insomma fu la causa dello sbaglio e del fatto avvenutoci. Passata un po' l'ubbriacatura, avuti maggiori ragguagli dalla guida, ricordatosi che lui stesso aveva domandato questi bianchi che stavano al campo del re, tornò a miglior consiglio.

Per buona fortuna nella lettera del re non era detto di fucilare i prigionieri, chè altrimenti, nè la mente rinfrescata, nè gli schiarimenti della guida avrebbero valso a rimediare alla pena che ci sarebbe stata inflitta.

Fummo subito regalati di una vacca, un montone, pane,tecc, miele, burro, ecc., e l'emozione in generale non aveva poi avuto grandissima influenza sull'appetito.

Vorremmo partire la mattina dopo, ma ilrasci prega restare, dicendo ci vuole almeno una giornata suoi ospiti per mostrargli che non conserviamo rancori per l'avventura di ieri; ma in fondo il vero motivo è che teme che noi ritorniamo direttamente dal re a fare le nostre lagnanze, ed egli vuole prima spedire un corriere con una sua lettera in cui dà ragione dell'equivoco e implora la sovrana grazia. Per quanto instare si faccia, mostrando che una giornata per noi è preziosa e può avere grandi conseguenze, non ci è dato liberarcene e ci è forza rassegnarci a restare. Passiamo la giornata visitando l'accampamento che in piccolo è una ripetizione di quello di Debra-Tabor, e ricevendo visite da diversi capi e ufficiali che fingono dolersi del fatto accadutoci. La sera siamo invitati dal capo. Pronti ad una ripetizione del ricevimento di ieri, lo troviamo invece nella stessa gran capanna, ma steso su alcuni tappeti, avanti un gran fuoco, circondato dai soliti grandi che per turno si rubavano l'alto onore di accarezzargli piedi e gambe, leggermente ubbriaco diteccche ci fa servire in abbondanza, non trascurando di continuare anche da parte sua a vuotarne delle intere bottiglie. Ci rivolse mille domande sul nostro paese e sui nostri usi e costumi, ma il discorso volse specialmente sulla poco cordiale accoglienza fattaci al nostro arrivo, e disse che noi potevamo essere paragonati a Gesù Cristo, e lui al diavolo, che era stato ben cattivo, che si riconosceva per un vero bue, e così trascese ad appropriarsi tanti e tali epiteti che, per quanto si riconoscesse peccatore e lo confessasse, mostravano certo in lui maggiore mancanza di dignità che vero buon cuore e schietto rimorso.

Mercoledì 25.Alle nove lasciamo questa poco simpatica residenza, e volgiamo a nord-est, attraversando continuamente pianure coltivate, alternate a colline, coperte da folta vegetazione; paesaggioin complesso bello e grandioso. Alle due ci si presenta il Gondar disteso sui versanti di un'altura, ai piedi della quale sorge una borgata abitata da mussulmani, e il ciglio è coronato da un ammasso di costruzioni alte e rettangolari, dall'aspetto di castelli, di torri, di mura merlate; sono gli avanzi dei palazzi portoghesi.

Gondar, l'antica capitale dell'impero, sorge a 12°, 36' lat. settentrionale e 35°, 11' long. est, e l'altura che gli è per così dire base, è bagnata da due corsi d'acqua, l'Anguereb all'est e il Kaha all'ovest, che a poca distanza si riuniscono e vanno a versare le loro acque nel lago Tzana. L'attuale città non differisce punto da tutti gli altri villaggi d'Abissinia, sia pel genere delle costruzioni, sia per l'irregolarità e il sudiciume delle vie; solo la popolazione non è molto agglomerata, le capanne divise a diversi gruppi, lasciando così molti spazii liberi che potrebbero dirsi piazze, e permettendo che molte piante vi possano così allignare. È la città della fede per eccellenza, chè oggi vi si contano quarantaquattro chiese che come edificio non offrono nulla di rimarchevole, ma riposano sempre all'ombra di grossi alberi. Il quartiere più ordinato e pulito è quello che sta al basso, riservato aimussulmanie per questo chiamatoBet-islam; vi godono di piena libertà e sicurezza, ma non hanno facoltà di erigervi moschee. La cosa più attraente di Gondar sono certamente le rovine che si distendono ad occupare tutta la parte superiore dell'altura. Le costruzioni sono opera dei Portoghesi e datano dal secolo decimosesto; sono tutte racchiuse entro una cinta ovale, in parte merlata, che di quando in quando offre larghe aperture con arcate.

Gli edificii sono parecchi, in parte isolati e in parte collegati fra loro; tutti rettangolari, cogli angoli spesso terminati a torri quadrate o circolari. Il tempo e lo spirito devastatore hanno molto distrutto, ma in alcuni, e in quello detto il palazzo dell'Imperatoreche è anche il più vasto, si conservano ancora perfettamente le scale, alcune porte, soffitte, e vi si vedono le aperture dei trabochelli che nei pavimenti o negli spessori delle mura portano dai piani superiori ai sotterranei. Tutto porta traccie dell'incendio che fu uno degli ultimi sfoghi delle pazzie e degli spiriti perversi di re Teodoro. Le principali mutilazioni di questi monumenti storici sono però dovute alla madre dirasAli, la rinomataIteghè Menéne, che, furiosa dell'impopolarità della sua famiglia, volle distruggere parte di questi edificii, dicendo: dacchè non dobbiamo lasciare monumenti del nostro potere, è inutile che lasciamo sopravvivere quelli degli altri.

La nessuna proprietà, in generale, dei terreni, la facilità del costruirsi le abitazioni, la mancanza di suppellettili da trasportare, forse il poco attaccamento alla casa paterna che è nel carattere delle popolazioni, le continue guerre che trascinano vagabonda pel paese gran parte delle sue genti, e cento altre cause forse, rendono difficile lo stabilire una cifra di censimento per gli abitanti di una città. Così per Gondar vediamo Bruce stimarne la popolazione fino a 30,000 anime, D'Abbadie a circa 12,000, e Rüppel che vi fu a non grande distanza da quest'ultimo a 6,000. A me dissero 8,000; lo ripeto senza farmene per nulla responsabile, tanto più che un altro Abissinese è capacissimo di dirvi la metà o il doppio. Gondar è sempre la città commerciale per eccellenza in Abissinia, e per tradizione e per la sua posizione, facendovi punto le carovane che provengono dal Goggiam coi prodotti delle provincie Gallas, e da qui partendo per le diverse vie di Adua e Massaua, oppure Metemma e quindi Cartum o Suakin per Kassala.

M'avrebbe interessato assai di fermarmi qualche tempo a vivere della vita abissinese e visitare un po' minutamente le rovine portoghesi, ma le maledette piogge parevano dirci: avanzate, avanzate, che siete agli ultimi, e la mattina del giovedì 26rimontammo quindi a mulo per metterci seriamente sulla via del ritorno.


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