GondarRovine degli antichi palazzi portoghesi a Gondar
Rovine degli antichi palazzi portoghesi a Gondar
L'elevazione di Gondar mi risulta di 2300 metri.
Il giovedì 26 facciamo i saluti al compagno Bianchi che da qui torna al campo reale per passarvi col Naretti il cherif, e rappresentarvi in certo modo il Comitato milanese di esplorazione, nella speranza di potervi seriamente trattare col re qualche affare ed ottenere in seguito di visitare e studiare commercialmente il Goggiam o lo Scioa, e noi proseguiamo a nord-est attraverso montagne verdeggianti, e seguendo una strada tracciata da Teodoro, quando voleva fare del suo paese una nazione civile e del Gondar la gran capitale. Si direbbe che avuta da natura una mente elevata, un carattere ardito ed un cuore che non conosceva ostacoli a soddisfare la propria ambizione, tutta la parte che era a lui destinata di bontà e malvagità si concentrarono, per segregarsi l'una dall'altra e svilupparsi coll'impeto che doveva esser proprio d'ogni sua azione. Così dapprima concepì idee civilizzatrici di gran lunga superiori al possibile e volle tentarne l'effettuazione, ma fu subito assalito dallo svilupparsi del secondo elemento, l'istinto perverso, cui non potè esser freno ragione nè educazione, vestì il carattere di pazzia e gli fece commettere quegli eccessi che rovinarono il paese e furono causa della sua miseranda fine.
Verso le tre ci fermiamo ad un piccolo villaggio presso la chiesa Georgis a 2950 metri.
Continuando il venerdì 27 in un vero parco inglese dove la grandiosità è sconfinata e la natura non studiata nè inventata, ma quale solo il tempo ha creata, incrociamo dopo circa quattro ore di cammino la via tenuta nell'andare a Debra-Tabor, e volgendo più ad est attraverso estesi bacini a pascoli e coltivo, saliamo verso le tre un colle che spicca fra gli altri e alla vetta del quale è la residenza didegiatch-Semma figlio dirasGaramaden,giovane simpatico che ci usa mille riguardi e mille cortesie, trattandoci come si usa trattare fra amici in Europa, mostrandosi beato di vederci e di poterci ospitare. Tutto il resto della giornata volle che stessimo con lui, ci destinò una capanna vicina alla sua, volle prendessimo parte alla sua refezione. Entusiasta delle nostre armi chiese poter fare qualche tiro, e più di una volta colpì perfettamente a palla uno dei nostri cappelli messo come bersaglio a discreta distanza. La contentezza di questo giovane e l'ammirazione dei suoi non aveva più limiti e ci dichiarò che sarebbe il più felice dei mortali se dall'Italia glimandassimoun fucile simile. Il buon Ferrari, intenerito dal trovare un'accoglienza veramente schietta e cordiale, prese a due mani il suo cuore sempre grande e sempre aperto, e volle far dono della sua fida arma. Vera eccezione fra gli Abissinesi, si dovette insistere per farla accettare.
Dirò ora che la parolarastante volte usata significacapo, è araba e fu introdotta e si usa sempre oggi in Abissinia.Degiatchcorrisponde a governatore con pieni poteri conferiti dal re.
Siamo pregati di restare ospiti per qualche giorno, ma ci è impossibile, quindi il giorno appresso proseguiamo per la nostra via, ritroviamo quella percorsa nell'andata, nelle vicinanze di Ciambilghé, che lasciamo alla sinistra, per raggiungere il villaggio di Dewark, a circa 3000 metri di elevazione. Il villaggio è costituito da due aggruppamenti di capanne poste a qualche distanza, ma distinte collo stesso nome. A poca distanza dalla frazione più a nord, già accampammo nell'andata, ora abbiamo preso stanza all'estremità opposta.
Per essere più lesti viaggiamo senza provvigioni nè tende, e solo abbiamo presa una piccola tenda nera, come si fanno allo Scioa, pei casi estremi. Siamo quindi costretti di ricoverarci tutte le sere ai villaggi, e chiedere una capanna, e farci dare col mezzo della guida del re o più spesso col mezzo dei nostri talleri, quelche si può trovare non per mangiare, ma per vivere. Come si stia la notte in questi tuguri con ogni sorta di compagnia, e cosa si debba ingojare, risparmio descrivere per evitare un disgusto. La stanchezza e l'appetito rendono però soffice qualunque giaciglio e gustoso qualunque cosa sia materialmente mangiabile; la necessità fa trovare superflua la maggior parte delle cose che si ritengono necessarie, e si capisce allora quanto di inutile abbiamo nelle nostre abitudini, e quante pene e quante noje ci procuriamo per soddisfarle.
La domenica 29 siamo svegliati dal grido diel matera, el matera, cavaga, la pioggia, signori, che i nostri servi ci fanno intendere, sapendo quanto ci stesse a cuore questa brutta compagna, perchè nojosa nel viaggio e più che per questo, perchè gonfiando il Taccazè potrebbe tagliarci la via al ritorno. Una fitta pioggia aveva infatti durato tutta la notte e ancora continuava, ma bisogna prendersela con disinvoltura, sellare le mule e come splendesse il più limpido sole, mettersi in cammino. Ci avviciniamo alla gran catena del Semien, e diamo scalata ad un'altura ertissima dove il terreno bagnato rende il salirvi doppiamente faticoso e per noi e per le mule. Il cammino continua poi molto accidentato in continue discese e salite; per lungo tratto corre anzi su di una via dove la mano dell'uomo rese possibile il percorrere il versante di un enorme vallone, da dove durante qualche lucido intervallo in cui il vento ci libera per pochi istanti dalle moleste compagne, la pioggia e le nebbie, si intravedono valli scoscese e pareti rocciose di monti a profili orizzontali, interrotti da guglie. Siamo in una regione veramente alpestre, dove un vero sistema costituito, per così dire, di catene montuose surroga quel caos di natura sconvolta che percorremmo nell'andata, più al basso parallelamente a questa altezza. Frequenti corsi d'acqua gonfi in questa stagione abbiamo a guadare, e dopo una giornata veramente campale ci fermiamoverso il tramonto chiedendo ospitalità a poche misere capanne a 3450 metri d'elevazione.
Lunedì 30.Saliamo sempre attraverso terreni coltivati e pascoli, fino a raggiungere lo spigolo di una catena che davanti a noi, dal versante nord, si presenta scendere a picco, determinata da una di quelle pareti verticali basaltiche, tanto caratteristiche di queste formazioni e di questo paese. Per un sentiero da camosci discendiamo o meglio precipitiamo fino a raggiungere un terreno meno ingrato; costretti di marciare a piedi, anzi di ajutare qualche volta le mule che affievolite dagli stenti e intimidite dal pericolo si rifiutano di continuare, nell'acqua fin quasi alle ginocchia, chè il poco sentiero raccoglie lo scolo del versante, e sotto una continua pioggia dirotta, avanziamo taciti e pensierosi, preoccupati dal caso di non poter passare il Taccazè e di dover quindi forse rifare questa strada fra pochi giorni, e in condizioni ancora peggiori, ma animati dalle speranze del caso contrario, e di poter quindi essere fra qualche giorno rassicurati che ci sarà libera la via del ritorno. La fitta nebbia continua ci toglie oggi quasi ogni vista sulle regioni più elevate, e solo di quando in quando si scorge al basso il passo di Wogara e parte della via che percorremmo per arrivarvi. Verso le quattro ci fermiamo ad un piccolo villaggio a 3350 metri. Gli abitanti sono tutti pastori che coltivano quel poco di grano che basta pel loro pane, ma il benessere, se benessere conoscono in questo paese, lo ricavano dal bestiame. Sono piuttosto poveri, ma cordiali ed abbiamo certo a lodarci di loro meglio che di tutti gli altri abitanti d'Abissinia. L'elevazione non permette vegetazione alcuna e solo vi allignano pascoli, per cui nemmeno pel fuoco si può aver legna, e per l'uso degli abitanti essicano nell'estate lo sterco vaccino, e lo conservano come combustibile. Questo non dà fiamma, poca bragia e lascio pensare quale fumo puzzolente, e per noi che si arriva la sera inzuppati d'acqua fino alleossa, non è certo di gran risorsa. Pure, così come siamo ci si sdraja per terra, e con una pelle da bue per tutto letto, e poco meno che nel fango, si aspetta la mattina: si riposa benissimo e la nostra stella ci preserva da qualunque male.
1.º Luglio.Si sale sempre percorrendo i pascoli stesi su una striscia di piano inclinato che forma quasi gradino fra due pareti verticali di roccia. Sono sparse masse di piante simili adyuka, dalla foglia più larga e grigiastra. Il tempo è un po' migliore, chè il vento ritiene di quando in quando la pioggia e siamo invece accompagnati da un freddo intenso. Giunti a 3950 metri ci si presenta una precipitosa discesa che è forza percorrere a piedi: bisogna alle volte lasciarsi sdrucciolare su nuda roccia bagnata, dove è miracolo che le mule possano reggersi. Raggiunto il fondo della valle seguiamo il torrente impetuoso che replicatamente attraversiamo. La vegetazione è foltissima e rivediamo, man mano si va scendendo, tutte le varietà di piante che allignano alle diverse altezze e che già ci furono compagne; fra queste abbondano gli esemplari del cusso e stupendi lauri. È tale l'intreccio dei rami, che si cammina in una vera galleria di verde ed è impossibile stare a cavallo, che anzi spesso siamo obbligati di sollevare tronchi che sporgono orizzontalmente per lasciarvi passare i nostri quadrupedi. Questi sono sfiniti dalla fatica e dal digiuno; non hanno tempo a pascolare il giorno e non lo possono la notte, chè piove e l'erba è troppo inzuppata d'acqua, per cui appena possono reggere con biade e orzo che cerchiamo procurar loro quando se ne trova. Due già li lasciammo sfiniti per la strada ed un terzo comincia ora a mostrarsi impotente a proseguire; ad ogni passo cade. La notte arriva, un acquazzone indiavolato ci sorprende; siamo in un fitto bosco e senza sapere a quale distanza sia il primo villaggio. Nessun mezzo serve più a ravvivare almeno momentaneamente ed apparentemente le forze della mula, quindi la lasciamo a farsi finiredalle jene nella notte, diamo a portare ai servi parte del carico e parte lo lasciamo pel primo che avrà la fortuna di trovarselo, e a notte fatta raggiungiamo alcune capanne a 2600 metri. Di mangiare già non se ne parla, e basta qualche po' di farina, del pane acido del paese e del berberia per far tacere le esigenze dello stomaco. È fortuna rara quando si arriva a trovare una capra, e si ha il tempo di ammazzarla ed abbruciarne un po' le carni per divorarle, come fossimo diventati anche noi abissinesi.
Il due luglio continuiamo a discendere la lunghissima vallata; grandiosissimo il panorama che si svolge alle nostre spalle, delle montagne che veniamo d'attraversare e che hanno tutta l'apparenza d'inacessibili. Al tramonto arriviamo laddove la gran catena che fiancheggiamo muore, per dar luogo ad un vastissimo orizzonte. I profili dei monti sono belli ed originali avendo sempre l'apparenza d'essere coronati da torri e da castelli in rovina; la vegetazione scarsa, tranne in qualche punto, e credo a causa delle sostanze minerali, specialmente rame, che si vedono sparse nelle rocce. Il tempo ci favorisce, chè per quanto circondati da continui temporali, pochi arrivano a regalarci le ultime loro grazie.
Ci fermiamo a 1800 metri, dove il suolo è perfettamente arido e sabbioso e solo vi allignano tristi acacie; le abitazioni differiscono dalle solite d'Abissinia essendo basse, in pietra, circolari, col tetto quasi piatto e coperto da terra sostenuta da travi. Lungo la strada bellissimi marmi rossastri, giallognoli e verdastri. Gran battibecco per avere un ricovero, e ci vien poi data una mezza stalla, dove ce la passiamo con delle capre e tutto quello che si può trovare nel loro asilo notturno.
La mattina dopo però il capo del villaggio ci invita a bere deltecc, ci usa mille riguardi e ci domanda mille scuse pel modo con cui fummo alloggiati, essendo lui assente e arrivato solodurante la notte. Dietro il villaggio è un erto colle che saliamo fino a 2200 metri da dove scorgiamo da lontano il sospirato Taccazè che appare in una svoltata, in fondo a profonde valli, e dopo una lunga distesa di alture che dovremo pur troppo digerirci una ad una. Proseguiamo su e giù per creste d'alture e dentro e fuori da vallate seminate sempre da stupendi marmi e belle cristalizzazioni, e sparse di acacie e qualchebaobab, dove il suolo ha però apparenza arida, per fermarci verso sera a 1800 metri ad un villaggio dove risiede il preteso capo del Taccazè, quello cioè che dirige il passaggio del fiume per le carovane, e che troviamo briaco fradicio, talchè ci rifiuta qualunque asilo per la notte e assistenza per l'indomani. Un galantuomo di prete però prende le nostre parti e non curandosi dell'ostinato e poco cordiale seguace di Bacco, ci assiste in tutto quanto ne occorre.
Il giorno quattro ci avviamo pieni di emozione chè la giornata può essere decisiva per noi; per quanto ci si assicuri che il fiume è guadabile, potrebbero esser cadute forti piogge la notte nell'alto Semien o nel Lasta, il Taccazè esserne gonfio e quindi trovarci tagliata la via al ritorno, costretti a passare qualche giorno in attesa di decrescenza delle acque in questo poco simpatico soggiorno, poi forse rifare la via fatta per andarcene un'altra volta a Debra-Tabor a svernare. Il nostro bravo Legnani, preoccupato da questi pensieri e rimasto a qualche distanza da noi, invece di seguire le orme nostre scende per una vallata trasversale, ed anzi accelera il passo per raggiungerci, mentre noi proseguendo in direzione quasi opposta ci accorgiamo della sua mancanza, e ci volle buona forza di nostre voci e di sue gambe per poterci ritrovare. Sali e scendi per alcune alture, ci si presenta nel fondo il Taccazè che colle acque sue fangose va tortuosamente seguendo il suo corso; mille commenti, nuove emozioni, i cuori si allargano a nuove speranze per riserrarsi a tristi presentimenti. Discesa vertiginosa e lunga, sempre sul cigliodi uno sprone che scende fino al fondo della valle; il terreno di sedimento poco compatto rende ancora più faticosa la marcia, il caldo si fa sempre più soffocante. Eccoci finalmente a circa 1000 metri di elevazione, alle acque che il nostro buon prete ci assicura che passeremo.
Risaliamo per breve tratto lungo le sponde per trovare una posizione propizia al nostro passaggio; parmi il fiume abbia un centinajo o poco più di metri di larghezza, ma la traversata dovendosi operare trasversalmente, perchè la corrente trasporta, diventa assai più lunga; alcuni indigeni entrano nell'acqua e felicemente li vediamo raggiungere l'opposta riva. Quel che fa un abissinese lo sapremo fare anche noi, gridiamo: i nostri spiriti si sono rianimati, in due minuti siamo pronti, e ajutati da due indigeni che gridano e battono l'acqua con un bastone per allontanare i coccodrilli, coll'acqua fino alla gola e facendo ogni sforzo per vincere la corrente, raggiungiamo l'opposta sponda.
Gli stessi uomini si incaricano a diverse riprese di far passare i nostri effetti, le mule nuotano per conto loro, e persino il prete, visto che v'era a guadagnare qualche tallero, smesso quel poco abito e con esso la altrettanto poca dignità sacerdotale, ci apparve in costume perfettamente adamitico per aiutare al passaggio nostro e della nostra roba. Il cielo ci assiste in questo momento, il gran passaggio è fatto, un sole splendido ci riscalda e ci serve ad asciugare la nostra roba, che dal più al meno aveva tutta assaporata l'acqua del Taccazè.
Ci rimettiamo in via. I pasti poco succolenti di parecchi giorni, il digiuno quasi completo e il bagno, fanno i loro effetti, e la debolezza ci permette a stento di reggerci sulle gambe; camminiamo come ubbriachi, e ci sta davanti una salita a fare colle ginocchia in bocca, con un caldo soffocante, obbligati per di più a spingere le mule che per forza brillano come noi. Ci guardiamo in faccia l'un l'altro, per un pane non socosa daressimo, ma tanto non ce n'è, dunque allegri, che anche questa sarà da ricordare, e avanti. Il morale agisce sul fisico, dunque se la forza manca, perchè la macchina non è alimentata, cerchiamo almeno di non deprimerla ancor più col perderci d'animo.
Si ride dell'avventura, si siede ad ogni passo, si spera per la sera, e intanto s'arriva a 1700 metri, dove si trova un piccolo villaggio. L'accoglienza non è delle più festose, chè ci vuole il poco fiato che ci resta a far capire che pagheremo, ma vogliamo un montone. A notte fatta finalmente ce lo portano, e senza tanti rispetti all'arte culinaria ce lo divoriamo.
Ci è forza la mattina dopo salire ancora fino a 2200 metri per seguitare poi su un altipiano che conduce ad alcune cime, sulla costa delle quali prosegue il sentiero. Dietro noi la distesa dei monti che veniamo di attraversare, alla nostra destra altra distesa che si protende in direzione sud-est, e avanti a noi riconosciamo dei vecchi amici nei caratteristici profili dei monti di Adua. Un'ora prima del tramonto lasciamo il sentiero per discendere in un vallone circondato da pareti rocciose, quasi a picco, al fondo del quale vediamo buon pascolo e un villaggio. Ci vien negata ospitalità, se non vogliamo dividerci ed essere ricoverati ognuno in diversa abitazione, ciò che rifiutiamo e passiamo piuttosto la notte coperti dalle fronde di una acacia.
Si continua da qui per vasti altipiani spesso fessi da larghi valloni che, come già dissi, ricordano i crepacci da ghiacciai, e che obbligano alle volte a lunghe deviazioni per evitarli. Un torrente, guadabile pochi minuti prima, come ce lo provano dei boricchi carichi che incontrammo e che venivano d'attraversarlo, scende tanto gonfio e impetuoso per piogge improvvisamente cadute alla montagna, che ci è forza aspettare più d'un'ora prima che le acque si calmino e vi si possa azzardare.
Il soldato che ci fu dato come guida è dei più sucidi che sipossano vedere. Ad un lembo del suo scemma tiene un grosso nodo che rappresenta nientemeno che la valigia di un corriere reale, avendovi avvolte le lettere che il re, approfittando dell'occasione, invia a ras Alula. Questi è suo amico intimo, ed ora muove col suo esercito per far guerra agli Egiziani, per cui quelle lettere possono, anzi devono, essere ben importanti, e vedere a quali mani sono affidate e in quali condizioni hanno fatto tutto quanto il viaggio, è cosa che basta per dare idea di questi cervelli e della loro organizzazione.
Il 7 luglio continuano larghe vallate, spesso coronate da pareti rocciose granitiche: poco a poco vanno allargandosi e noi teniamo a girare a nord di quel picco isolato che raffrontai al Cervino e che come questo si eleva a dirupo. Raggiungiamo un altipiano sparso di villaggi e coltivato: a nord-ovest in lontananza scorgiamo Axum, e noi proseguiamo direttamente verso il gruppo dei monti di Adua che da qui si presenta disteso e maestoso. Scorgiamo anche Adua stessa, che trovandoci noi a 2200 metri si presenta come infossata: discendiamo una delle pareti rocciose quasi a picco, e proseguiamo nel fondo della vallata che rinserra. Un acquazzone tanto forte ci sorprende, che venendoci di fronte, accompagnato da vento, è impossibile avanzare e per istinto le mule si rivolgono, abbassano la testa e se ne stanno così finchè non sia cessato, od almeno di molto diminuito. Costeggiamo il versante di un'altura che è convertito letteralmente in un letto da torrente, tanta è l'acqua che vi scorre.
In uno stato veramente compassionevole raggiungiamo Adua verso le due e ci andiamo a stabilire in casa di Naretti. I nostri servi che spedimmo da Debra-Tabor col bagaglio per la via più comoda del Sirié non sono ancora arrivati, e questa notizia ci sconforta assai, potendosi dare il caso che qualche giorno di ritardo non permetta più loro di passare il Taccazè, e quindi nerestiamo divisi Dio sa fin quando, e la nostra roba vada perduta. La casa che occupavamo noi è abitata dal console di Grecia in Suez che aspetta di poter partire pel campo del re. È persona gentile e cordiale quanto mai, che appena saputo del nostro arrivo ci manda in regalo vino, cognac e qualche scatola di conserve. È inutile e impossibile dire con quanta festa le accogliemmo e con quanto gusto le divorammo.
Passiamo qualche giorno in Adua in attesa del nostro bagaglio sulla sorte del quale siamo molto inquieti, non avendosi notizia alcuna. Finalmente il fido Baramascal, il capo dei servi, arriva e ci porta la grata nuova che le casse sono in Axum e ci raggiungeranno l'indomani. A due giornate da Debra-Tabor le mule sentirono ancora degli strapazzi del viaggio di andata e non furono più in grado di portare il loro carico che si dovette fare in gran parte trasportare a spalla d'uomini: stettero quattro giorni accampati al Taccazé in attesa della possibilità di passarlo. Legata ogni cassa ad un lungo bastone, due nativi che tenevano questo alle estremità, nuotando le trascinarono nell'acqua, per modo che tutte se ne riempirono e la roba nostra ci arriva tanto bagnata e sudicia da far pietà: in parte anzi completamente rovinata, tanto da doversi abbandonare. Due mule morirono per strada e le altre ci arrivano in uno stato miserando per piaghe e magrezza, talchè siamo costretti a subito procurarcene altre per proseguire il viaggio. Accompagnati come siamo da una guida del re, avremmo diritto a pretendere che di villaggio in villaggio ci si trasporti il nostro bagaglio a spalle d'uomini, ma questo sistema offre molti inconvenienti, primo dei quali una massa di perditempo.
Ad ogni paese c'è a questionare e ad aspettare delle ore e dei giorni prima che si trovino portatori sufficienti; poi bisogna continuamente andare a zig-zag, chè i contadini, se fuori strada v'è un villaggio più vicino che non il primo sulla via, nonrisparmianodi allungare il cammino vostro se possono accorciare il loro. È sempre meglio quindi di emanciparsi da questa schiavitù.
In Adua non troviamo alcun che di nuovo, tranne i dintorni resi più verdeggianti dalle continue piogge. Per non rifare la strada fatta decidiamo prendere la via di Gura, così potremo visitarvi il campo di battaglia ed incontrarvi ras Alula che col suo esercito marcia a quella volta per tentare, a quanto si dice, un colpo di mano sulla costa, mentre ras Woldi Michael andrebbe ad occupare i Bogos.
Un corriere arriva dal campo reale e ci porta notizie della triste impressione avuta da Naretti per l'avventura toccataci da ras Area. Tutta la Corte era sossopra per celarlo al re, temendo avesse ad usare troppi rigori verso lo zio, e ci si dice che tutti igrandisi presentarono a Naretti con una pietra al collo, supplicandolo di non farne rapporto al Sovrano.
Si riparte per la costa.—Arrivo di un corriere con una lettera di re Giovanni.—Considerazioni sul paese.—Il campo di ras Alula.—Due nostri servi imprigionati.—Campo e forte di Gura.—I Sciohos.—Incontro di Tagliabue.—Arrivo a Massaua.—Hodeida.—Aden.—A bordo del Manilla.—Un morto in mare.—Arrivo in Italia.
Appena rifornita la carovana dei quadrupedi necessarî, si decide la partenza che ha luogo infatti il giorno 14. Ci avviamo alle catene di montagne verso nord-est, e circa un'ora dopo usciti da Adua siamo richiamati da voci che si trasmettevano l'un l'altro gli avanzi della retroguardia di Ghedano Mariam, che stavano disordinatamente sparsi lungo tutta la via. Ci fermiamo, è l'arrivo di un corriere da Debra-Tabor con lettere nostre e una del re relativamente al nostro imprigionamento: è semplice, cordiale, schietta come usa re Giovanni, e ne trascrivo la traduzione: la lettera autografa era in Amarico e Maderacal vi aveva unita la traduzione in francese:
«Scritto del re dei re, Giovanni d'Etiopia, e tutta la sua dipendenza.
«Signor Matteucci, capo della spedizione commerciale italiana e suoi compagni.
«Io vi presento i miei complimenti a tutti: dacchè ci siamo separati, io e la mia armata fummo bene in salute, grazie a Dio.
«Ho inteso il male che ras Area vi ha fatto. Ciò non è contro tutti voi, ma contro me stesso: egli lo ha fatto per scontentarmidi lui. Egli mi scrisse, sono ammalato, mandatemi il dottore, ed io vi pregai nel vostro ritorno di andarlo a vedere: voi mi rispondeste sì. Voi avevate la mia lettera, malgrado questo vi ha fatto tal male: egli ha una malattia al cervello o qualcosa altro di male nella sua salute: egli non è molto bene. Io so che il pensiero dei cristiani è vasto e vi prego di lasciar questo fatto nel profondo del vostro cuore.
«Voi avete sofferto per me, io vi ricompenserò.
«Il 2 luglio 1879.»
Credo che re Giovanni non poteva essere più gentile con noi nè far di più per farci dimenticare un cattivo quarto d'ora passato nel suo regno, e diede così ancora una conferma alla stima ed all'amicizia, che conoscendolo avevamo concepito per lui. Certo non può avere gran istruzione, non conoscendo altre lingue che la sua e non avendo mai messo piede fuori dai confini dei suoi Stati, ma ha un fondo di serietà, di onestà, di delicatezza di sentimenti, una finezza di intuizione, una dose di ingegno naturale, come è raro assai di trovare fra i suoi. V'ha chi nasce col genio della musica, chi con quello delle matematiche, chi con quello della letteratura, e Giovanni Kassa, bisogna pur dirlo, nacque col genio d'esser re d'Etiopia, e da piccolo principe seppe infatti diventarlo, sa reggersi bene sul trono ed è certo fra tutti gli Abissinesi quello che più lo merita.
Potessero i suoi sudditi assorbire un pochino del suo buon senso, tenersi in pace e capire qualcosa dei beneficii della civiltà, smettendo cento pregiudizii inveterati, e il paese si vedrebbe in poco tempo farsi fiorente.
Lo scopo cui più di tutto mira re Giovanni è quello di riconquistare le provincie di Galabat e dei Bogos che gli Egiziani presero all'Abissinia, poi di estendersi fin verso la costa, occupando lo spazio fra questa e l'altipiano, spazio di cui le due nazionisi contendono la proprietà, e che intanto se ne resta indipendente. Vorrebbe avere un porto sul Mar Rosso per rendere libero il suo commercio di esportazione e di importazione dalle tasse e dagli abusi delle dogane egiziane che proibiscono l'introduzione di quello che agli Abissinesi maggiormente accomoderebbe, le armi e le munizioni, ma non credo vanti, almeno per ora, pretese su Massaua, e si accontenterebbe forse di una baia qualunque che l'Egitto gli cedesse. Ottenuto questo, credo che re Giovanni cercherebbe di favorire la civiltà nel suo paese, facendo però sempre in modo che questa si infiltri poco a poco per non urtare d'un tratto le idee del suo popolo che in complesso non vi è troppo favorevole, perchè non crede averne bisogno, e perchè istigato dai preti a non lasciarla penetrare.
Una colonia agricola, per esempio, potrebbe avere, io credo, ogni concessione dal re, progredire a passi da gigante ed essere di buon esempio al popolo. Ma chi vorrà fidarsi d'esserne iniziatore? Chi mi garantisce che da un giorno all'altro sorga unmattodirivoltatoche tenga in armi la provincia, rubi, saccheggi e commetta ogni eccesso contro i poveri agricoltori? E quando ciò fosse avvenuto, da chi ripetere soddisfazione, se pure per chi ha coscienza v'ha soddisfazione da contrabbilanciare la vita perduta da miserabili emigranti, ed a chi attribuirne la responsabilità?
Ma senza assumersi la responsabilità noi di introdurre in Abissinia l'elemento europeo, nè re Giovanni di chiamarvelo, io credo che re Giovanni potrebbe erigersi un monumento di gloria collo sviluppare in paese due rami di industria. Migliori le vie di comunicazione e faciliti i diritti doganali alle carovane commerciali: allora queste si faranno frequenti, dal Goggiam e dai paesi Gallas, attraverseranno in gran numero tutti i suoi Stati per portare le loro mercanzie a Massaua, e da qui tornando alle loro case porteranno all'interno i prodotti europei che verrannocosì conosciuti, se ne riconoscerà l'utilità, si imparerà ad apprezzare chi li produce. Il consumo crescente vi chiamerà allora gli stessi Europei ad importarvi la merce, e questi saranno non solo tollerati in paese, ma già desiderati, e poco a poco si introdurrà così una civiltà, della quale senza accorgersi il popolo sentirà quasi il bisogno, mentre oggi vedendola avanzare tutta d'un blocco se ne spaventa e cerca respingerla. In pari tempo lasci che le migliaia di braccia che ora non fanno che tenere una lancia od una spada, se ne tornino alle loro case, e le obblighi all'agricoltura: il paese potrà in breve tempo diventare un gran produttore di grano: questo non mancherà negli anni di carestia, e come oggi succede, non si spopoleranno provincie per la fame, e in breve tempo si esporterà il grano alla costa: questo porterà ricchezza in paese, quindi maggior spinta al lavoro e maggiore probabilità che le merci importate dalle carovane trovino sfogo. Dalla produzione del grano poi, l'agricoltura potrebbe estendersi ad altri rami che porterebbero benessere nel paese ed utilità coll'esportazione.
Altra fonte di ricchezza per l'Abissinia sarebbe il bestiame, sia pei latticinii, sia per le carni che si potrebbero conservare, sia fors'anche per l'esportazione diretta del bestiame stesso, ma questo porta già una certa complicazione, e sarebbe quindi da attuarsi in seguito. Io sono convinto che collo sviluppare commercio e agricoltura tutt'affatto semplicemente come accennai, in pochi anni l'Abissinia può farsi ricca e fiorente e prepararsi il terreno a degnamente ricevere i primi pionieri della civiltà. Ma questo deve fare da sè e senza che nessuno cerchi di imporvisi. Se metterete l'Abissinese in condizioni da gustare qualche frutto della civilizzazione e da trovarla quasi necessaria alla sua esistenza, e finanziariamente lo porrete in condizione da potersela procurare, forse vi asseconderà; ma se volete imporviglisi o costringerlo al più piccolo sacrificio, resterà sempre qual'è,cioè presuntuoso e indifferente alla civilizzazione, e quindi oppositore costante di chi cerca di portarvela.
Così il commercio di esportazione, a mio credere, sarebbe almeno prematuro il tentare di esercitarvelo ora gli Europei. Per volerlo sperimentare bisognerebbe fare le cose piuttosto in grande, e questo raddoppierebbe ancora le difficoltà. Innanzi tutto sui mercati si pretende sempre un prezzo assai più elevato dal compratore bianco, perchè si suppone che questi abbia sempre grosse somme disponibili, e che colle merci che acquista faccia poi favolosi guadagni. D'altronde fu sperimentato che quando il negoziante bianco si trova all'interno, prevale il pregiudizio che per mettere a profitto il suo tempo e il suo viaggio, si trovi costretto di comperare a qualunque prezzo, mentre quando il negoziante indigeno è arrivato ai mercati delle coste, vi è obbligato di vendere a prezzi ragionevoli per non rimanervi sulle spese e per prepararsi al ritorno. Grave ostacolo al commercio in grande sarebbero poi le continue rivoluzioni che in questo paese pullulano, e tengono agitate intere provincie per mesi ed anni: una grossa carovana derubata, o la via interrotta ad ogni comunicazione, sarebbe una vera rovina per la speculazione che vi si tenta. E per questo non vi sono garanzie, nè promesse, nè trattati col re che possano influire. Altra considerazione che milita in favore della mia idea è pur questa: le merci atte ad un commercio possibile provengono tutte dal Goggiam e dai paesi Gallas, dai quali per portarsi alla costa con carovane di muli carichi occorrono da due a tre mesi. L'Europeo in questo tragitto ha bisogno certamente di vivere molto meglio dei pochi indigeni che esercitano questo traffico, che vivono con farina, peperoni e cipolle, dormono continuamente per terra, e sono i primi a dar l'esempio ai servi coll'aiutare a caricare e scaricare. Sono poi gente paziente per la quale è ignoto il detto che tempo è danaro, e un mese di più di viaggio per loro è nulla, purchè si risparminole mule o si facciano lunghe soste per lasciarle risanare dalle piaghe. Il bianco che si adatta a questa vita di fatiche, di pericoli, di privazioni, vuole certo in pochi anni farsi una fortuna, e la società che lo incarica ne vuol pure ricavare il suo utile, mentre gli indigeni non tentano tanto di arricchire, chè hanno idee ben limitate sulla ricchezza, ma si accontentano di vivere e di aumentare tutt'al più il loro capitale di tanto da accrescere forse di una mula in ogni viaggio la loro proprietà ambulante. Somma tutto, io ritengo, e sentii ripetere anche da persone esperte, che per ora almeno convenga aspettare alla costa le piccole carovane del paese, e farvi trovar pronte le nostre merci che possono scambiare colle loro. Oltre tutto questo, i piccoli negozianti del paese, ritornando riportano qualche poco di merci che sanno di poter vendere, e soddisfanno le piccole commissioni che ricevono dall'uno e dall'altro, e con questo quasi ritraggono le spese del ritorno. Ma son cose queste che possono andare per piccole carovane, e non basterebbero a compensare le carovane grandi, per le quali quindi tutto il viaggio di ritorno sarebbe perduto.
Abbiamo inoltre incontrate sulla via piccole carovane che fanno trasportare parte del loro carico da schiavi comperati sui mercati del Goggiam e che poi rivendono verso la costa, traendone così profitto e risparmiandosi le spese del loro viaggio di ritorno. Altri hanno invece per servi degli schiavi loro, che comperati si mantengono con ben poco e si retribuiscono delle loro fatiche con pochi talleri e qualche metro di tela all'anno. Sono mezzi questi che portano una grande economia, ma ai quali non potrebbe certo ricorrere l'europeo, che anche da questo lato incontrerebbe quindi assai maggiori spese, e i prodotti da lui trasportati alla costa avrebbero ben maggior valore che non gli stessi trasportativi coi mezzi abituali.
Io non voglio con questo portare uno scoraggiamento, nèpretendere che l'Abissinia sia un paese che non merita considerazione dal lato commerciale. Tutt'altro, ma ripeto non hanno a farsi illusioni, che dall'oggi al domani se ne possano succhiare ingenti ricchezze. Queste vi stanno, ma per arrivarvi è necessario studii, esperienza e tempo: un avvenire per chi vi vuol dedicare le proprie fatiche ci deve essere certamente, ma non bisogna pretendere di raccogliere dei frutti prematuri, e accontentarsi di seminare quello che può preparare ai nostri nipoti abbondante raccolto, e per questo è doppiamente benemerito chi vi si dedica con proprio disinteresse, ma colla fiducia di un bene futuro per la propria causa e pel proprio paese.
Potrei citare esempii che avvalorano queste mie considerazioni, ma ne risparmio la lungaggine, confidando che il tempo verrà a confermarle, ed ho già la soddisfazione di averne una prova nella condotta che si è prefissa il nostro Comitato di esplorazione commerciale, composto tutto di persone, che oltre il sapere posseggono l'arditezza accompagnata dalla prudenza necessaria in queste imprese.
Il nostro compagno Bianchi, giovane serio ed esperto, rimasto all'interno, potrà studiar meglio il paese e fare un rapporto in proposito assai più profondo e ponderato. Porteranno forse le sue considerazioni a conclusioni opposte alle mie, e allora al frutto della sua esperienza e de' suoi studii, non oserò certo opporre queste semplici osservazioni che impallidiranno dinnanzi alla sua autorità.
Proseguiamo intanto per la nostra via, chè ben ansiosi siamo noi di raggiungere la costa, e non meno desideroso sarà il lettore di ultimare queste pagine.
In direzione nord-est, correndo nel fondo di larghe vallate o sulla costa di alture, percorriamo un cammino continuamente tortuoso per evitare monti che a picco isolatamente si elevano dal suolo. Dopo sei ore raggiungiamo Ghedano Mariam e mettiamol'accampamento vicino al suo, presso il villaggio di Magara Tamri, a 2100 metri d'elevazione. Il terreno è verdeggiante e sparso di acacie, euforbie e cespugli.
Il giorno 15 lasciamo la via diretta di Gura per piegare più ad est e avvicinarci al campo di ras Alula. Ci portiamo su un vasto altipiano che attraversiamo in direzione quasi nord, poi scendiamo in un profondo burrone che da questo lato lo limita, per risalire dal versante opposto e proseguire di altura in altura, finchè mettiamo il campo con Ghedano Mariam, in compagnia del quale abbiamo fatto cammino. Altezza 2050 metri.
Attraversiamo il giorno dopo un vastissimo vallone per poi sorpassare, se così può esprimersi, una distesa di alture verdeggianti, ma spopolate, e fermarci presso un torrente che scorre a 1680 metri. Da questa via passò or fa qualche giorno ras Alula col suo corpo d'esercito, e passando riscuote imposte, infligge pagamenti di multe per mancanze commesse e pretende il mantenimento per tutto il suo seguito, senza contare che tutti i soldati poi entrano nelle case e si impossessano di quanto trovano, spadroneggiando da veri briganti. Per questo all'avvicinarsi delle truppe, tutti i contadini colle loro famiglie, le loro scorte ed il bestiame si ritirano nelle montagne e vi stanno nascosti, per cui troviamo tutti i villaggi spopolati e deserti, le abitazioni completamente vuote, e anche i nostri stomachi risentono di questa mancanza di abitanti, troppo giustificata, del resto, per non trovarla perfettamente giusta, malgrado le privazioni che ci apporta. Con una piccola provvista di farina e miele, noi ce la passiamo ancora discretamente, ma pei poveri servi manca letteralmente di che far tacere le domande dello stomaco, e sono ammirabili come sopportano il digiuno, lavorando sempre e lamentandosi mai.
Il 17 partiamo prima di giorno, percorrendo un altipiano sparso di immensi massi prismatici di roccia nuda rossastra. Curiosesono le abitazioni tutte appoggiate al versante delle alture, in pietra, rettangolari, lunghe, basse, con una specie di porticato sul davanti, il tetto piatto, in terra, talchè spesso vi stanno pascolando le pecore. Tutta la strada è continuamente ingombra dal seguito di ras Alula, del quale verso l'una raggiungiamo il campo, che occupa uno spazio estesissimo, al centro del quale, su un'altura, sorgono le tonde del capo.
Ci riceve assai cordialmente, ci fa piantare una tenda e subito ci regala di una vacca, pane, tecc, birra.
Qual baraonda sia un corpo d'esercito abissinese in marcia, è impossibile dire e figurarsi. La minor parte sono quelli che si possono chiamare soldati, i veri combattenti; del resto vecchi, donne, ragazzi, che nel maggior disordine seguono le tracce del capo che marciando pel primo indica la strada.
Quasi ogni soldato porta seco la propria famiglia, tutti poi indistintamente sono seguiti da donne che macinano il grano e preparano il pane. Il capo alla mattina leva le tende, e questo è segno di partenza: tutti allora vi si apparecchiano e la gran sfilata comincia. Lo stato maggiore in testa, poi una coda interminabile di ragazzi che portano le armi, di vecchi carichi delle tende o di qualche utensile, di donne che hanno sulle spalle bambini da latte, otri, pelli colle provviste di farina, e persino le pietre per macinare.
Di questo modo non si possono fare che due o tre ore di marcia al giorno, che ancora gran parte non arriva che la sera e alle volte la mattina dopo. Appena giunti comincia il momento di grande attività, chè ognuno pensa a piantarsi la propria tenda od a costrursi una piccola capanna, e la donna a preparare il necessario per mangiare: una vera processione si stabilisce presso i pozzi, in qualche punto si ammazza qualche bue; una tenda maggiore delle altre, attorno alla quale si vede un grande affacendarsi, è la sede scelta per un ufficiale.
La sera in cento diversi punti si accendono dei fuochi e questo dà all'accampamento un aspetto doppiamente grandioso.
Nella notte siamo svegliati da suoni di tromba, canti, gridi, pianti: è ungrandeche se n'è ito al creatore, e così se ne dà l'annuncio e si mostra il dispiacere della sua partenza per l'eterno viaggio. La mattina dopo tutti si recavano in processione alla sua tenda per dargli l'ultimo addio.
Nella giornata siamo anche noi continuamene visitati da una massa di importuni, che non ci disturbano meno di un acquazzone tanto forte e insistente, che l'essere sotto la tenda era divenuto perfettamente come l'essere a cielo aperto.
Le mule col nostro bagaglio non hanno potuto fare ieri tutta la lunga marcia che abbiamo fatto noi, per cui la mattina del 18 ci è forza aspettare che ci raggiungano per proseguire assieme. Mentre stiamo aspettando vengono ad annunciarci che due dei nostri servi furono legati, e noi siamo invitati a presentarci al capo.
Ras Alula fece infatti introdurre in nostra presenza i due prigionieri: Yavolet-ciarkos, un bravissimo giovane che da Massaua ci aveva accompagnati durante tutto il viaggio, che lasciammo a Debra Tabor con Bianchi e che ci raggiunse speditoci quale corriere a portarci la lettera del re; il secondo altro buon giovane che da poco era al nostro servizio. Tutti due nativi dello Scioa, e ras Alula fece dichiarare a noi e giurare al capo dei nostri servi che non avevamo altri dello Scioa addetti al nostro servizio. Si visitarono da capo a piedi, nelle pieghe dello scemma, si tagliarono persino i sacchettini di pelle coi talismani che portano al collo, si fece loro subire un interrogatorio, poi ci fu dichiarato che non si potevano rilasciare, e che anche noi non l'avressimo passata molto bella se ras Alula avendoci conosciuti dal re, non avesse visto quanto gli eravamo amici. Unico motivodi questo imprigionamento è che quei disgraziati erano dello Scioa; nel resto mistero, come pur troppo è mistero per noi la sorte che avranno subito. Io dubito sospettassero che potessero essere spie di re Menelik, e che col pretesto d'essere nostri servi avessero ad osservare i movimenti dell'armata di ras Alula, e forse portarne nuove in Massaua o recarle al loro ritorno in patria. Comunque sia, in questo momento ci si risvegliarono le memorie dell'accoglienza di ras Area, e per quanto si fosse fatto tardi abbiamo voluto partire per andarci ad accampare a poco più d'un'ora, accompagnati per di più da una pioggia torrenziale. Nel villaggio dove trovammo asilo erano le più belle ragazzine che mai ho vedute. Profili regolarissimi, forme snelle, eleganti, occhioni grandi ed espressivi, pettinature stravaganti intrecciate a conterie che cadevano sul fronte, vestite di semplici pelli adorne di piccole conchiglie, collane e braccialetti di conterie o di metalli alle mani e ai piedi. I più bei tipi selvaggi, delle vere piccole Selike.
Ilgiorno 19prima che il sole sorgesse noi eravamo pronti per toglierci dalla compagnia di questa soldatesca impertinente e screanzata che ritiene spirito e vanto l'insultare chi passa coll'affibbiargli l'epiteto diturco.
La via corre sempre su e giù per alture fatte verdi dalle recenti piogge. Abbiamo uno stupendo effetto di eclissi che ci lascia in un buio perfetto, e ci permette di ammirare uno stupendo e perfetto anello di luce attorno all'ombra portata dalla luna sul sole. Dopo circa sette ore di cammino arriviamo in una specie di altipiano al centro del quale sorge un'altura, e su questa andiamo ad accampare, nel villaggio di Gura a 2100 metri. Disteso dinanzi a noi sta il campo della famosa battaglia, e domani lo visiteremo nel nostro passaggio. Qui è forza procurarci buoi pel trasporto del bagaglio, chè avvicinandoci alla costa il caldo è tanto intenso che le mule soffrono troppo, e d'altrondenon trovano nulla a mangiare, mentre il bue s'accontenta di qualunque cosa e resiste assai più al digiuno. Torniamo dunque agli antichi amori delle questioni per il prezzo e il peso delle casse, e finalmente si riesce di combinare. Un saluto da qui all'Abissinia, chè questo è l'ultimo villaggio prettamente abissinese che incontriamo: da qui innanzi entriamo nei territori degli Sciohos, le tribù indipendenti che ci dipingono come ladre, alle quali però aspetto di accollare questo epiteto, per accertarmi se realmente se lo meritano.
Continuando direttamente a nord, il giorno appresso attraversiamo la pianura sparsa ovunque di ossi degli Egiziani che vi furono massacrati. Le piogge, trascinandole colla loro veemenza, ne radunarono qualche volta delle vere masse nei punti più depressi o nei letti dei torrenti, dove ad alleviare il triste senso che producono quei miserabili avanzi umani, sorge il pensiero che almeno natura li radunò per l'eterno riposo, mentre la malvagità degli uomini li lasciava sparsi a scherno e trastullo dei passanti.
All'estremo nord dell'altipiano si eleva un vasto cono isolato che sta come a sentinella dell'immensa vallata, che dietro lui si distende, e determina quasi il confine geologico di quello che si può propriamente chiamare altipiano etiopico. È questa l'altura che avevano occupata gli Egiziani durante la guerra, fortificandone tutto il versante che guarda Gura con trincee armate, e coronandone la vetta con un bellissimo forte a casematte, fosse, polveriere, scavate nella nuda roccia, e fornito di batterie terribili d'acciaio. E gli Abissinesi hanno avuto l'ardire di darvi l'assalto colle lance e le spade!...
Da qui, seguendo una strada tracciata dagli Egiziani per portarvi i cannoni, ma che è tutta lasciata andare in rovina, discendiamo fino al villaggio di Kaiakor, a 1880 metri, che troviamo quasi spopolato, perchè gli abitanti saputo dell'avvicinarsidel corpo di ras Alula, si sono quasi tutti rifugiati nelle montagne.
Il 21 proseguiamo nella pittoresca vallata che sbocca in un vasto altipiano ondulato, attraversato il quale troviamo una gran discesa che ci porta nel fondo della valle presso dei depositi d'acqua, e qui ci fermiamo per riposo nostro e delle bestie, all'ombra d'un gruppo di giganteschificus. Circa le due ci rimettiamo in strada e dopo un paio d'ore, mentre si cammina nel letto del torrente, vediamo venirci incontro un arabo a mula, seguito da un buricco e da un servo.
Lo crediamo un impiegato di dogana, un ufficiale egiziano che viene ad ispezionare, ma mentre facciamo queste supposizioni ci troviamo dinnanzi il nostro bravo Tagliabue, completamente ristabilito, ingrassato, e sotto mentite spoglie. Da Adua si era spedito un corriere a Massaua, annunciando il nostro arrivo e pregandolo venirci incontro con qualche provvigione, e lascio immaginare con quanta gioia lo riabbracciammo tutti quanti. Si discende sempre lungo il torrente, spesso nel suo letto, qualche volta attraverso piccole alture, attorno alle quali le acque fanno le loro evoluzioni. Verso il tramonto ci fermiamo in un largo spazio detto Derassò, ai piedi della salita del monte Bamba. Tagliabue ci ha portato pane, vino, sardine, maccheroni, noi ammazziamo un bue che facevamo seguire per provvista, e così in poco tempo si prepara una cena come da qualche mese non avevamo più avuta.
Per evitare il caldo insopportabile del giorno e per accelerare, sperando arrivare al vapore egiziano a Massaua, ripartiamo alle due di notte: erta salita, poi forte e lunga discesa: strada pessima, poca luna coperta da nubi, quindi buio quasi perfetto e pericolo continuo di romperci il collo, ma l'orgasmo del rivedere il mare ci spinge e ci sostiene. Si segue sempre la stessa vallata che gira in mille direzioni per tendere in fine a nord-est.Verso le dieci ci fermiamo presso poca acqua putrida, verde quale smeraldo, conservata in una infossatura del letto del torrente. Le montagne si vanno facendo sempre più basse e aride, coperte da piante delle quali letteralmente non restano che i tronchi, e il suolo sparso d'erba gialla che con un fiammifero si potrebbe tutta incendiare. C'è nelle tinte del paesaggio la vera impronta della siccità, della flora bruciata. Lasciate passare le ore del gran sole, ci rimettiamo in strada un paio d'ore prima del tramonto: le nostre mule sono sfinite dalla fatica continua e dalla mancanza di cibo, per cui è forza aiutarle meglio che cavalcarle: il caldo si fa sempre più soffocante, terminano le alture e subentra un vasto piano inclinato fesso di quando in quando da larghissimi letti da torrente. Molti ne attraversiamo, e sempre ci dicono dobbiamo scorgere il mare, ma mai non vi si arriva: il sonno e la stanchezza resi ancor maggiori dall'afa terribile ci ammazzano, ma vogliamo giungere alla meta. Nei letti dei fiumi troviamo scavati dei pozzi dai quali si ha acqua fangosa e salmastra, ma che l'arsura ci fa bere, vincendone la ripugnanza. Finalmente fra le due e le tre di notte battiamo alla porta di un greco che in Omkullo tiene una piccola bottega d'acquavite. Ci rifocilliamo, riposiamo qualche ora, poi ripartiamo per Massaua, dove ritroviamo tutti i nostri buoni amici e la cattiva notizia che il vapore è partito il giorno prima.
Eccoci dunque per due settimane condannati ancora a questo soggiorno.
Non dico della festa che abbiamo dal bravo Habib Sciavi e dagli altri amici che avevamo lasciati in questo paese: è una gara per vederci, felicitarci del nostro viaggio, che davvero conteremo per sempre fra le migliori nostre soddisfazioni.
Come vita Massaua ci pare un paradiso dopo l'Abissinia, pure subito si rimpiange la vita delle emozioni, la vita variata della carovana.
Il caldo è insopportabile, chè nelle posizioni e nelle ore più ventilate si hanno da 38° a 40°, e in qualche ora del giorno il termometro sale fino ai 46°.
Non un momento di tregua nè giorno nè notte, è un continuo soffocare e traspirare, ciò che è molto noioso ma igienico per noi che abbiamo assorbita tanta umidità. Nella giornata, il costume più che semplice adottato anche per le strade, e la notte il portarsi a dormire sulle terrazze sono, i soli rimedii contro questo molesto perseguitatore. Il sole dardeggia i suoi raggi verticali, infuoca il suolo, e pochi passi a capo scoperto bastano per caderne fulminati.
Il primo agosto arriva il vapore egiziano che continua la sua corsa fino ad Hodeida per fermarvisi due o tre giorni, poi riprendere la via del ritorno, impiegando almeno dodici giorni per arrivare a Suez. Passare tutto questo tempo su una di queste sudicie carcasse non è certo divertente, per cui ci decidiamo d'andare ad Hodeida nella speranza di trovarvi un trasporto inglese col quale proseguire fino in Aden e qui aspettare uno dei vapori della linea delle Indie. Partiamo infatti la mattina del due e dopo una giornata di navigazione, all'alba del tre siamo in vista di una costa che si crede la nostra meta, ma quando ci avviciniamo maggiormente la si riconosce invece per tutt'altro punto. Gran consiglio di tutto lo stato maggiore, e ritenuto che Hodeida deve essere più a sud vi rivolgiamo la prua.
Coi cannocchiali non si scorge però traccia di abitato, quindi fronte indietro e si va in cerca di Hodeida direttamente a nord. Finalmente alcuni minareti si innalzano all'orizzonte, e verso le due mettiamo le ancore davanti alla città, dalla quale però ancora ci separano parecchi chilometri di bassi fondi.
La città è grande e interessante per lo stile prettamente arabo dei suoi edificii e per la molteplicità dei costumi dei suoi abitanti, fra i quali sono maggiormente degni di rimarco i beduinidell'Yemen, bellissima gente artisticamente vestita d'un piccolo pantalone, una giacca aderente e un turbante in tela azzurra, adorni di bellissime armi riccamente lavorate in argento. Le donne portano una massa di monili al collo, alle braccia, alle mani, alle gambe, pure in argento lavorato a filigrana e misto a conterie o pezzi d'ambra. Al collo dei ragazzi collane che ricordano quelle delle Abissinesi, che certamente ebbero queste a modello.
Nella notte del quattro partiamo a bordo del vapore inglese; passiamo lo stretto diBab-el-Mandeb, porta del diavolo, rinserrato fra terra ferma asiatica e l'isola di Perim su cui sventola la bandiera inglese, e la mattina del giorno seguente diamo fondo dinanzi Aden. Vi trovate qui un vero labirinto di aguglie i cui detriti hanno costituito un banco lungo il mare. Su questo la città commerciale, dettaSteamer-point, su ogni vetta un piccolo forte o qualche antenna che col mezzo di bandiere segnala ogni arrivo e partenza di bastimento; ovunque si guardi tutta roccia nuda e sabbie, non un filo di verdura; d'acqua non se ne parla; e qui si seppe piantare una città, e qui si potè attirare gli sguardi del mondo intero e buona dose di commercio.
A otto chilometri, dopo uno strettissimo passaggio tagliato entro dura roccia per raggiungere una larga vallata posta oltre una catena di alture, sta la città, propriamente detta, che a Steamer Point non sono che ufficii, agenzie, magazzini ed alberghi. Vi siamo accolti come fratelli dal nostro bravo console signor Rolph, che a tutto uomo si adopera sempre per tornare utile e gradito agli Italiani che visitano questi paesi. Abbiamo lo spettacolo di un temporale di sabbia, che non saprei meglio descrivere che dicendo di immaginare, invece di pioggia, colonne di fitta e fina sabbia trasportate dal vento, seguite da qualche goccia di vera acqua, cosa che da tre anni non si vedeva in Aden.
I temporali sono rari, ma così torrenziali che per radunare tutta l'acqua che in pochi momenti scorre sui versanti delle montagne, si costrussero delle vasche gigantesche che quasi rinserrano le vallate. Sono lavoro ciclopico che si crede iniziato dai Persiani e ristabilito poi dopo l'occupazione Inglese. Originali in Aden sono i tipi degli Ebrei dell'Yemen, che vi fanno il commercio delle penne da struzzo e del cambia-valute. Vestono una lunga zimarra, un piccolo calottino in testa e due lunghi ricci che pendono davanti alle orecchie; e i somali che vi fanno generalmente il facchino o il marinaio, quasi nudi, con enormi parrucche di capelli arricciati, che per sgrassare coprono di calce, la quale li riduce giallo-biancastri.
Il giorno 12 partiamo a bordo delManilla, grosso vapore di Rubattino, e volgiamo direttamente la prua verso l'Italia. È una vera soddisfazione trovarsi a bordo di un legno come questo di 5000 tonnellate, e pensare che è nostro, e per noi era doppia la gioia illudendoci già di essere su un pezzettino del nostro paese. La cordialità degli ufficiali, tutti quanti, valeva ancora ad accrescere il nostro contento e la nostra illusione. Abbiamo la morte di un signore inglese a bordo, e nulla di più triste delle funzioni per la sepoltura. A mezzogiorno il vapore si ferma, una campana a prua annuncia ed accompagna con suono cadenzato la triste cerimonia; il feretro è portato sopra coperta e coperto da bandiera inglese; un vecchio legge qualche preghiera, tutti gli altri religiosamente ascoltano e pregano, poi unitamente ad un grosso peso di ferra-vecchie, quattro marinari sollevano la cassa e la buttano a mare, dove si sprofonda nelle acque, mentre il bastimento riprende il suo cammino.
La notte del 18 siamo a Suez, dove qualche buon amico venne da Alessandria per abbracciarmi ed accompagnarmi fino a Porto-Said. Entriamo nel canale, interessantissimo a percorrersi: rivediamo le azzurre acque del Mediterraneo. Il 27 abbiamouno dei più splendidi spettacoli che al mondo si possano vedere, l'entrata al sorgere del sole, nel golfo di Napoli. Il giorno dopo verso sera, provo una delle più belle emozioni del viaggio, chè arrivando a Milano, mi ritrovo nelle braccia di mia madre, e circondato da tutta quanta la mia famiglia.
FINE.
ELENCO
DI OPERE RIGUARDANTI
VENDIBILI DA
ULRICO HOEPLI
MILANO-PISA