MDCCXXXIAnno diCristoMDCCXXXI. IndizioneIX.Clemente XIIpapa 2.Carlo VIimperadore 21.Non mancarono faccende in questo anno al sommo ponteficeClemente XII. Nulla valsero le forti insinuazioni fatte fare dalla santità sua alcardinal Cosciadi rinunziare l'arcivescovato di Benevento. Egli con tutta la mala grazia negò questa soddisfazione al santo padre; e però continuarono i processi contro di lui nella congregazion de' cardinali appellatade Nonnullis. Fu carceratomonsignor vescovo di Targadi lui fratello, con altri Beneventani, gente mischiata negli abusi accaduti sotto il precedente governo. Ilcardinal Finivenne privato di voce attiva e passiva in ogni congregazione. Fu dipoi intimata al Coscia la restituzione di ducento mila scudi alla camera apostolica e alla tesoreria: somma indebitamente da lui percetta. Questa fu la più sensibile stoccata all'interessato cuore di quel porporato, e la sordida avidità sua, che l'avea consigliato a fare in tante illecite maniere quell'ingiusto bottino, gli suggerì ancora il ripiego per conservarlo. Portato il buon pontefice dalla sua natural clemenza, non avea voluto mai condiscendere ad assegnare una stanza in castello Sant'Angelo a questo porporato. Però, trovandosi egli in libertà , seppe con falsi supposti ottenere dalcardinale Cinfuegorministro dell'imperadore un passaporto, e poscia se ne fuggì nel dì 31 di marzo, e travestito ora da cavaliere, ora da abbate ed ora da frate, arrivò felicemente fin presso a Napoli, con implorare la protezione del vicerèconte d'Harrach. Da Vienna, ove fu spedito un corriere, venne poi la permissione ch'egli potesse dimorare ovunque gli piacesse nel regno. Svegliossi in cuore del santo padre un vivo risentimento per questa fuga, presa con dispregio degli ordini e divieti precedenti; e però nel dì 12 di maggio fu pubblicato un monitorio, con cui al Coscia s'intimava, che non tornando a Roma entro lo spazio di quel mese, resterebbe privo di tutti i suoi benefizii: e se continuasse in quella disubbidienza sino al primo d'agosto, verrebbe degradato dalla dignità di cardinale. Furono poi nel dì 28 di maggio fulminate le scomuniche, gl'interdetti ed altre pene contro di lui, che intanto facea volar da per tutto dei manifesti in sua difesa; pretendendosi indebitamente aggravato dalla congregazione suddetta. Chiamò poi in suo aiuto una forte gota, spalleggiata dall'attestato veridico dei medici, acciocchè gli servisse di scusa, se entro i termini prescritti non compariva in Roma. Fu in questa occasione che il pontefice spedì ai principi cattolici copia del processo formato contro del Coscia, dov'erano ben caratterizzate le sue ribalderie; ma processo che fu poi processato da molti, perchè dopo l'essersi rilevati tanti capi di reato, e dopo tanti tuoni, si vide tuttavia la porpora ornare un personaggio che le avea recato sì gran disonore. Vedrem nondimeno che non mancarono gastighi alle colpe sue.Dietro ad altro affare si scaldò medesimamente lo zelo di questo pontefice. Cioè nel dì 8 di gennaio in una allocuzione fatta ai cardinali nel concistoro segreto scoprì il santo padre l'intenzion sua di disapprovare l'accordo già conchiuso fra il suo predecessore eVittorio Amedeore di Sardegna. A molti capi si stendeva quella concordia, riguardanti l'immunità ecclesiastica, la nomina a varie chiese e benefizii, e l'esercizio della giurisdizione dei vescovi. Si aggiungeva la controversia per diversi feudi posti nel Piemonte e Monferrato, e spezialmenteCortanze, Cortanzone, Cisterna e Montasia, sopra i quali intendeva il re di esercitare sovranità , laddove il pontefice pretendeva appartenere ai diritti della santa Sede, come feudi ecclesiastici. Citati i nobili vassalli di que' luoghi a prestare il giuramento di fedeltà al re, aveano ubbidito. Roma all'incontro tali atti dichiarò nulli, e intimò le censure ed altre pene a chi per essi feudi riconoscesse la regia camera di Torino. In una parola s'imbrogliò forte l'armonia fra le due corti, e scritture di qua e di là uscirono, e le controversie durarono sino al principio dell'anno 1742, siccome vedremo. A me non occorre dirne di più; siccome nè pure di altre rilevanti liti che in questi stessi giorni ebbe la santa Sede con gli avvocati e col parlamento di Parigi. Ma ciò che maggiormente tenne in esercizio la vigilanza di esso sommo pontefice in questi tempi, fu Parma e Piacenza. Quando si sperava cheAntonio Farneseduca di quella città avesse dal matrimonio suo da ricavar frutti, per li quali si mantenesse la principesca sua casa, e restassero frastornati e delusi i conti già fatti su quei ducati dai primi potentati dell'Europa: eccoti l'inesorabil morte nel dì 20 di gennaio del presente anno troncar lo stame di sua vita, ed estinguer insieme tutta la linea mascolina della casa Farnese, che tanto splendore avea recato in addietro all'Italia. La perdita sua fu compianta da tutti i suoi sudditi, perchè già provato principe amorevole, splendido e di rara bontà ; anzi di tale bontà , che se più in lungo avesse condotto il suo vivere, fu creduto che il suo patrimonio sarebbe ito sossopra, sì inclinato era egli alle spese e alla beneficenza. Maggiore fu il duolo, perchè già si prevedeva la gran disavventura di que' paesi, che, perduto il proprio principe, correano pericolo di diventare provincia. Nel testamento fatto da esso duca negli ultimi periodi di sua vita, lasciò erede il ventre pregnante della duchessaEnrichetta d'Estesua moglie,e, in difetto di figli, l'infante don Carlo.Avea già ilconte Daungovernator di Milano, all'udire l'infermità del duca, ammanito un corpo di truppe per introdurlo in Parma e Piacenza; e però, accaduta che fu la morte di lui, il generaleconte Carlo Stampa, come plenipotenziario cesareo in Italia, nel dì 25 del suddetto gennaio venne a prendere il possesso di quegli Statisotto gli auspicii dell'imperadore a nome del suddetto infante di Spagna, senza mettersi fastidio degli stendardi pontifizii, che si videro inalberati per la città . In tal congiuntura non mancò il pontefice ai suoi doveri per sostenere i diritti della Chiesa sopra Parma e Piacenza. Scrisse lettere forti a Vienna, Parigi e Madrid. Perchè la corte di Vienna sosteneva il cominciato impegno, richiamò da Vienna ilcardinale Grimaldi. Fu spedito a Parma il canonico Ringhiera, che ne prese il possesso colle giuridiche formalità a nome del papa, e insiememonsignor Oddicommissario apostolico, a cui non restarono vietati molti atti di padronanza in quella città . Parimente in Roma si fecero le dovute proteste contro qualsivoglia attentato fatto o da farsi dall'imperadore e dalla Spagna per conto di que' ducati. Restavano intanto incagliati gli affari per la pretesa gravidanza della duchessa Enrichetta. Se ne mostrava sì persuaso chi la desiderava, che avrebbe per essa scommesso quanto avea di sostanze. Dopo alquanti mesi visitata quella principessa da medici e mammane, si videro attestati corroborati dal giuramento che quel monte avea da partorire. Ridevano all'incontro altri di opposto partito, ancorchè mirassero preparato il suntuoso letto, dove con tutte le formalità dovea seguire il parto, con essere anche destinati i ministri che aveano in tal congiuntura da imparare il mestier delle donne. Ma venuto il settembre, e disingannata la duchessa, onoratamente essa in fine protestò di non essere gravida. Stante nondimeno l'incertezzadi quell'avvenimento, in Vienna s'erano fatti non pochi negoziati fra i ministri dell'imperadore, quei del re Cattolico e quei del re della Gran Bretagna, per istabilire una buona concordia. Questa in fatti restò conchiusa nel dì 22 di luglio fra le suddette potenze, con avere l'AugustoCarlo VInon solamente confermata la successione dell'infante don Carlonei ducati di Toscana Parma e Piacenza, ma eziandio condisceso che si potessero introdurre sei mila Spagnuoli, parte in Livorno e Porto Ferraio, e parte nelle suddette due città : conformandosi nel resto al trattato della quadruplice alleanza del dì 2 d'agosto del 1718 e alla pace di Vienna del dì 7 di giugno del 1725. A questa nuova respirò l'Italia, stata finora in apprensione di nuove guerre. Fu poi preso dal generale conte Stampa un'altra volta il possesso formale dei ducati di Parma e Piacenza a nome del real infante, e nel dì 29 di dicembre esatto da quei popoli il giuramento di fedeltà e di omaggio. Ma nel giorno seguente monsignor commissario Oddi per parte del sommo Pontefice fece una contraria solenne protesta in Parma; e così andavano balleggiando questi ministri, nel mentre che l'infante don Carlo si preparava per venire in Italia, anzi s'era già messo in viaggio, e parte delle milizie spagnuole, pervenuta a Livorno, avea preso quartiere in quella città . Quanto al gran ducaGian Gastone de Medici, e alla vedova palatinaAnna Maria Luigia, nel dì 21 di settembre dichiararono di accettare il trattato di Vienna del dì 22 di luglio dell'anno presente. Prima ancora di questo tempo, cioè nel dì 25 di luglio, aveano stabilita una convenzione colla corte di Madrid, in cui fu convenuto che il reale infante don Carlo non solamente succederebbe negli Stati di Toscana, ma anche in tutti gli allodiali, mobili, giuspatronati, ed altri diritti della casa de' Medici. Per tutori d'esso principe, a cagion della sua minorità furono da Cesare deputati il suddetto gran duca per la Toscana,e la duchessa vedovaDorotea Sofia, avola materna di lui, per Parma e Piacenza.Si cominciarono a scorgere di buona ora dei rincrescimenti per l'eletto soggiorno di Sciambery nel fu re di SardegnaVittorio Amedeo. Non vedeva egli più chi andasse a corteggiarlo, o a chiedere grazie; e il piacere di comandare, provato in addietro sopra tanti popoli, si ristringeva nella sola sua domestica famiglia. Questo abbandonamento, questa solitudine facevano guerra continua e cagionavano malinconia ad un principe avvezzo sempre a grandi affari; e a lui parea gran disgrazia il vedere confinati i suoi vasti pensieri nell'augusto recinto, cioè in un angolo della Savoia. Aggiungasi che sul principio di quest'anno egli fu preso da un accidente capitale, per cui gli rimase sempre qualche sensibile impedimento alla lingua, e gli sopraggiunse poi anche una qualche confusione d'idee. Andò allora il reCarlo Emmanuelea vederlo per testimoniargli il suo filiale affetto, e vi tornò anche nella state colla regina sua moglie. Verso poi la fine di agosto, attribuendo il re Vittorio il suo poco buono stato all'aria troppo sottile di Sciambery, volle ritornare in Piemonte, e andò a piantar la sua corte a Moncalieri in vicinanza di tre miglia da Torino. Nulla sospettava sulle prime di lui il re Carlo Emmanuele; ma da che si avvide ch'egli contro il concertato ambiva l'autorità nel governo, ordinò che si tenessero gli occhi aperti addosso a lui. E tanto più dovette quella corte allarmarsi, quando fosse vero quanto allora si disse, cioè avere esso Vittorio Amedeo minacciato che farebbe anche tagliare il capo ad uno dei primi e più confidenti ministri del re figlio; e che crebbero poscia i sospetti di qualche meditata mutazione, da che egli, parlando col conte Del Borgo, gli fece istanza dell'atto della sua rinunzia, fatto nel precedente anno, che con tutta sommessione gli fu negato. Aggiugnevano, che da lìa poco tempo egli scrivesse un biglietto al governatore della cittadella di Torino con avvisarlo dell'ora in cui egli intendeva di andare a spasso entro di essa cittadella: o pure, ch'egli effettivamente si portasse in persona alla porta segreta, per entrarvi, ma con trovar il governatore che se ne scusò, con dire di non aver ordine dal real sovrano di riceverlo. Tutti questi fatti contemporaneamente si divulgarono, ma senza fondamento. La verità si è, che avendo il re Vittorio dopo il suo ritorno in Piemonte dato segni non equivoci di volere aver parte all'autorità del governo, il re Carlo Emmanuele fu in caso di far vegliare sui di lui discorsi; e tanto più da che seppe che il re padre parlava con diverse persone dell'atto dell'abdicazione, come di un atto che fosse in sua balìa di rivocare.In questo tempo essendo assai cresciute le indisposizioni del re Vittorio, e la di lui mente, anche per l'accidente patito, molto indebolita, con qualche risalto alle volte di riscaldamento e di agitazione di spirito, onde venivano poi empiti di collera, si ebbe luogo a temere qualche novità sconvenevole e pericolosa. Vedeva il re figlio con ciò esposta ad un grave cimento non solamente la real sua dignità , ma anche il suo onore medesimo e il bene dello Stato; e però sperimentati prima in vano più mezzi e spedienti per calmare lo spirito del padre, e ricondurlo a pensieri più proprii e più convenienti, chiamò a sè i più saggi ministri di toga e di spada, ed esposto il presente sistema, con protestarsi nondimeno pronto a sacrificare ogni sua particolar convenienza, qualora avesse potuto farlo, salva la sua estimazione, il bene dei sudditi e la quiete degli Stati, richiese il loro consiglio. Ben pesato ogni riguardo, concorse il parere di ognuno in credere necessario un rimedio, a fin di evitare tutte le delicate e disastrose conseguenze che prudentemente si temevano come imminenti; e però fu concordemente determinato di assicurarsidalla persona d'esso re Vittorio. Nella notte adunque del dì 28 di settembre, venendo il dì 29, da vari corpi di truppe che l'uno non sapea dell'altro, si vide attorniato il castello di Moncalieri, e fu improvvisamente intimato al re Vittorio Amedeo di entrare in una preparata carrozza. Gli convenne cedere; e fu condotto nel vasto e delizioso palazzo di Rivoli, situato in un colle di molto salutevol aria, ma sotto le guardie, con raccomandare alle medesime di rispondere solamente con un profondo inchino a quante interrogazioni facesse loro il principe commesso alla loro custodia. La di lui moglie contessa di San Sebastiano, già divenuta marchesa di Spigno, nello stesso tempo fu condotta al castello di Ceva; ma perchè fece istanza il principe di riaverla, non gli negò il re questa consolazione. Del resto, al signorile trattamento d'esso principe fu pienamente provveduto; tolta a lui fu la sola libertà . Chiunque poi conosceva di che buone viscere fosse il reCarlo Emmanuele, e quanta virtù regnasse nell'animo suo, facilmente comprese che forti e giusti motivi il doveano avere indotto ad un passo tale con tutta la ripugnanza del suo sempre costante filiale affetto. Quelle stesse guardie che sul principio il teneano d'occhio, con saggio consiglio e per suo bene gli furono poste, affinchè osservassero che la gagliarda passione nol conducesse ad infierire contro sè stesso. Cessato il bollore, cessò anche la vicinanza d'esse guardie, ed era data licenza alle persone saggie e discrete di visitarlo e parlargli. E perciocchè fece istanza di essere rimesso in Moncalieri, perchè l'aria di Rivoli era troppo sottile, fu ricondotto colà .Duravano in questi tempi le controversie della sacra corte di Roma col re di Portogallo cotanto alterato perchè il nunzio apostolicomonsignor Bichiera stato richiamato, senza prima decorarlo colla porpora cardinalizia. Sostenne il sommo pontefice il decoro della sua dignità con esigere che il prelato uscisse di Portogallo; e in fatti egli passò a Madrid, e gran tempo vi si fermò. Venne poscia in quest'anno a Firenze, e non passò oltre. Finalmente nel dì 24 di settembre fatta dal santo padre una promozione di cardinali, fu in essa compreso il Bichi; nè solo il Bichi, ma anchemonsignor Firraosucceduto a lui in quella nunziatura: laonde si trattò dipoi con più facilità di rimettere la buona armonia fra la santa Sede e il re suddetto. Sempre più andava in questo mentre crescendo la ribellione dei corsi, e volavano per tutte le corti le loro doglianze per gli aggravi che pretendeano fatti ad essi dalla repubblica di Genova. A fine di smorzar questo incendio, ricorsero i Genovesi alla protezione dell'imperadoreCarlo VI, e ne ottennero un rinforzo d'otto mila soldati alemanni, comandati dal generaleWachtendonck. Passò la metà di questa gente in Corsica, e fece tosto sloggiare i sediziosi dal blocco della Bastia. Ma da che verso la metà d'agosto s'inoltrò per cacciare da altri siti i Corsi, trovò in due battaglie gente che non conosceva paura. Perirono in quei combattimenti moltissimi dei Tedeschi, di maniera che fu necessario il far trasportare colà il resto dei loro compagni. Seguirono susseguentemente altre zuffe ora favorevoli ora contrarie ai malcontenti; ma spezialmente un'imboscata da loro tesa agli Alemanni nel fine di ottobre, nel passare che facevano a San Pellegrino, costò ben caro ad essi Tedeschi, perchè furono obbligati a ritirarsi dal campo di battaglia, con perdita di più di mille persone tra morti e feriti. Nel dì 30 di maggio terminò la carriera de' suoi giorniViolante Beatrice di Baviera, gran principessa di Toscana, vedova del fu gran principeFerdinando de Medici. Era essa il ritratto della gentilezza, venerata da ognuno, e però dalle comuni lagrime si vide onorato il suo funerale. Gran compassione prima d'allora si svegliò in cuore di tutti per gli orrendi effetti d'un fierissimo tremuoto, cheavendo cominciato nel febbraio a farsi sentire nel regno di Napoli, infierì poi con varie altre più violenti scosse, e tenne gran tempo in una costernazione continua le provincie di Puglia, Terra di Lavoro, Basilicata e Calabria Citeriore, e in alcuni luoghi lasciò una dolorosa catastrofe di rovine. Più d'ogni altro ne provò immensi danni la città di Foggia, perchè tutta fu convertita in un monte di pietre, e più di tre mila persone rimasero seppellite sotto le diroccate case. Non restò pur uno de' sacri templi e chiostri in piedi; e frati, monache ed altri abitanti, che ebbero la fortuna di scampare, andarono raminghi per quelle desolate campagne, cercando e difficilmente trovando un tozzo di pane per mantenersi in vita. Si videro in tal congiuntura le acque alzarsi nei pozzi, ed uscirne con allagar le vigne. Barletta, Bari ed altre città furono a parte di questo spaventevol flagello; e perchè in Napoli i borghi di Chiaia e Loreto risentirono non lieve danno, buona parte di popolo, e massimamente la nobiltà col vicerè si ritirò alla campagna. Ma il piissimocardinale Pignatelliarcivescovo non volle muoversi dal suo palazzo, e attese ad animar la plebe, e ad eccitar la misericordia di Dio con pubbliche processioni e preghiere.
Non mancarono faccende in questo anno al sommo ponteficeClemente XII. Nulla valsero le forti insinuazioni fatte fare dalla santità sua alcardinal Cosciadi rinunziare l'arcivescovato di Benevento. Egli con tutta la mala grazia negò questa soddisfazione al santo padre; e però continuarono i processi contro di lui nella congregazion de' cardinali appellatade Nonnullis. Fu carceratomonsignor vescovo di Targadi lui fratello, con altri Beneventani, gente mischiata negli abusi accaduti sotto il precedente governo. Ilcardinal Finivenne privato di voce attiva e passiva in ogni congregazione. Fu dipoi intimata al Coscia la restituzione di ducento mila scudi alla camera apostolica e alla tesoreria: somma indebitamente da lui percetta. Questa fu la più sensibile stoccata all'interessato cuore di quel porporato, e la sordida avidità sua, che l'avea consigliato a fare in tante illecite maniere quell'ingiusto bottino, gli suggerì ancora il ripiego per conservarlo. Portato il buon pontefice dalla sua natural clemenza, non avea voluto mai condiscendere ad assegnare una stanza in castello Sant'Angelo a questo porporato. Però, trovandosi egli in libertà , seppe con falsi supposti ottenere dalcardinale Cinfuegorministro dell'imperadore un passaporto, e poscia se ne fuggì nel dì 31 di marzo, e travestito ora da cavaliere, ora da abbate ed ora da frate, arrivò felicemente fin presso a Napoli, con implorare la protezione del vicerèconte d'Harrach. Da Vienna, ove fu spedito un corriere, venne poi la permissione ch'egli potesse dimorare ovunque gli piacesse nel regno. Svegliossi in cuore del santo padre un vivo risentimento per questa fuga, presa con dispregio degli ordini e divieti precedenti; e però nel dì 12 di maggio fu pubblicato un monitorio, con cui al Coscia s'intimava, che non tornando a Roma entro lo spazio di quel mese, resterebbe privo di tutti i suoi benefizii: e se continuasse in quella disubbidienza sino al primo d'agosto, verrebbe degradato dalla dignità di cardinale. Furono poi nel dì 28 di maggio fulminate le scomuniche, gl'interdetti ed altre pene contro di lui, che intanto facea volar da per tutto dei manifesti in sua difesa; pretendendosi indebitamente aggravato dalla congregazione suddetta. Chiamò poi in suo aiuto una forte gota, spalleggiata dall'attestato veridico dei medici, acciocchè gli servisse di scusa, se entro i termini prescritti non compariva in Roma. Fu in questa occasione che il pontefice spedì ai principi cattolici copia del processo formato contro del Coscia, dov'erano ben caratterizzate le sue ribalderie; ma processo che fu poi processato da molti, perchè dopo l'essersi rilevati tanti capi di reato, e dopo tanti tuoni, si vide tuttavia la porpora ornare un personaggio che le avea recato sì gran disonore. Vedrem nondimeno che non mancarono gastighi alle colpe sue.
Dietro ad altro affare si scaldò medesimamente lo zelo di questo pontefice. Cioè nel dì 8 di gennaio in una allocuzione fatta ai cardinali nel concistoro segreto scoprì il santo padre l'intenzion sua di disapprovare l'accordo già conchiuso fra il suo predecessore eVittorio Amedeore di Sardegna. A molti capi si stendeva quella concordia, riguardanti l'immunità ecclesiastica, la nomina a varie chiese e benefizii, e l'esercizio della giurisdizione dei vescovi. Si aggiungeva la controversia per diversi feudi posti nel Piemonte e Monferrato, e spezialmenteCortanze, Cortanzone, Cisterna e Montasia, sopra i quali intendeva il re di esercitare sovranità , laddove il pontefice pretendeva appartenere ai diritti della santa Sede, come feudi ecclesiastici. Citati i nobili vassalli di que' luoghi a prestare il giuramento di fedeltà al re, aveano ubbidito. Roma all'incontro tali atti dichiarò nulli, e intimò le censure ed altre pene a chi per essi feudi riconoscesse la regia camera di Torino. In una parola s'imbrogliò forte l'armonia fra le due corti, e scritture di qua e di là uscirono, e le controversie durarono sino al principio dell'anno 1742, siccome vedremo. A me non occorre dirne di più; siccome nè pure di altre rilevanti liti che in questi stessi giorni ebbe la santa Sede con gli avvocati e col parlamento di Parigi. Ma ciò che maggiormente tenne in esercizio la vigilanza di esso sommo pontefice in questi tempi, fu Parma e Piacenza. Quando si sperava cheAntonio Farneseduca di quella città avesse dal matrimonio suo da ricavar frutti, per li quali si mantenesse la principesca sua casa, e restassero frastornati e delusi i conti già fatti su quei ducati dai primi potentati dell'Europa: eccoti l'inesorabil morte nel dì 20 di gennaio del presente anno troncar lo stame di sua vita, ed estinguer insieme tutta la linea mascolina della casa Farnese, che tanto splendore avea recato in addietro all'Italia. La perdita sua fu compianta da tutti i suoi sudditi, perchè già provato principe amorevole, splendido e di rara bontà ; anzi di tale bontà , che se più in lungo avesse condotto il suo vivere, fu creduto che il suo patrimonio sarebbe ito sossopra, sì inclinato era egli alle spese e alla beneficenza. Maggiore fu il duolo, perchè già si prevedeva la gran disavventura di que' paesi, che, perduto il proprio principe, correano pericolo di diventare provincia. Nel testamento fatto da esso duca negli ultimi periodi di sua vita, lasciò erede il ventre pregnante della duchessaEnrichetta d'Estesua moglie,e, in difetto di figli, l'infante don Carlo.
Avea già ilconte Daungovernator di Milano, all'udire l'infermità del duca, ammanito un corpo di truppe per introdurlo in Parma e Piacenza; e però, accaduta che fu la morte di lui, il generaleconte Carlo Stampa, come plenipotenziario cesareo in Italia, nel dì 25 del suddetto gennaio venne a prendere il possesso di quegli Statisotto gli auspicii dell'imperadore a nome del suddetto infante di Spagna, senza mettersi fastidio degli stendardi pontifizii, che si videro inalberati per la città . In tal congiuntura non mancò il pontefice ai suoi doveri per sostenere i diritti della Chiesa sopra Parma e Piacenza. Scrisse lettere forti a Vienna, Parigi e Madrid. Perchè la corte di Vienna sosteneva il cominciato impegno, richiamò da Vienna ilcardinale Grimaldi. Fu spedito a Parma il canonico Ringhiera, che ne prese il possesso colle giuridiche formalità a nome del papa, e insiememonsignor Oddicommissario apostolico, a cui non restarono vietati molti atti di padronanza in quella città . Parimente in Roma si fecero le dovute proteste contro qualsivoglia attentato fatto o da farsi dall'imperadore e dalla Spagna per conto di que' ducati. Restavano intanto incagliati gli affari per la pretesa gravidanza della duchessa Enrichetta. Se ne mostrava sì persuaso chi la desiderava, che avrebbe per essa scommesso quanto avea di sostanze. Dopo alquanti mesi visitata quella principessa da medici e mammane, si videro attestati corroborati dal giuramento che quel monte avea da partorire. Ridevano all'incontro altri di opposto partito, ancorchè mirassero preparato il suntuoso letto, dove con tutte le formalità dovea seguire il parto, con essere anche destinati i ministri che aveano in tal congiuntura da imparare il mestier delle donne. Ma venuto il settembre, e disingannata la duchessa, onoratamente essa in fine protestò di non essere gravida. Stante nondimeno l'incertezzadi quell'avvenimento, in Vienna s'erano fatti non pochi negoziati fra i ministri dell'imperadore, quei del re Cattolico e quei del re della Gran Bretagna, per istabilire una buona concordia. Questa in fatti restò conchiusa nel dì 22 di luglio fra le suddette potenze, con avere l'AugustoCarlo VInon solamente confermata la successione dell'infante don Carlonei ducati di Toscana Parma e Piacenza, ma eziandio condisceso che si potessero introdurre sei mila Spagnuoli, parte in Livorno e Porto Ferraio, e parte nelle suddette due città : conformandosi nel resto al trattato della quadruplice alleanza del dì 2 d'agosto del 1718 e alla pace di Vienna del dì 7 di giugno del 1725. A questa nuova respirò l'Italia, stata finora in apprensione di nuove guerre. Fu poi preso dal generale conte Stampa un'altra volta il possesso formale dei ducati di Parma e Piacenza a nome del real infante, e nel dì 29 di dicembre esatto da quei popoli il giuramento di fedeltà e di omaggio. Ma nel giorno seguente monsignor commissario Oddi per parte del sommo Pontefice fece una contraria solenne protesta in Parma; e così andavano balleggiando questi ministri, nel mentre che l'infante don Carlo si preparava per venire in Italia, anzi s'era già messo in viaggio, e parte delle milizie spagnuole, pervenuta a Livorno, avea preso quartiere in quella città . Quanto al gran ducaGian Gastone de Medici, e alla vedova palatinaAnna Maria Luigia, nel dì 21 di settembre dichiararono di accettare il trattato di Vienna del dì 22 di luglio dell'anno presente. Prima ancora di questo tempo, cioè nel dì 25 di luglio, aveano stabilita una convenzione colla corte di Madrid, in cui fu convenuto che il reale infante don Carlo non solamente succederebbe negli Stati di Toscana, ma anche in tutti gli allodiali, mobili, giuspatronati, ed altri diritti della casa de' Medici. Per tutori d'esso principe, a cagion della sua minorità furono da Cesare deputati il suddetto gran duca per la Toscana,e la duchessa vedovaDorotea Sofia, avola materna di lui, per Parma e Piacenza.
Si cominciarono a scorgere di buona ora dei rincrescimenti per l'eletto soggiorno di Sciambery nel fu re di SardegnaVittorio Amedeo. Non vedeva egli più chi andasse a corteggiarlo, o a chiedere grazie; e il piacere di comandare, provato in addietro sopra tanti popoli, si ristringeva nella sola sua domestica famiglia. Questo abbandonamento, questa solitudine facevano guerra continua e cagionavano malinconia ad un principe avvezzo sempre a grandi affari; e a lui parea gran disgrazia il vedere confinati i suoi vasti pensieri nell'augusto recinto, cioè in un angolo della Savoia. Aggiungasi che sul principio di quest'anno egli fu preso da un accidente capitale, per cui gli rimase sempre qualche sensibile impedimento alla lingua, e gli sopraggiunse poi anche una qualche confusione d'idee. Andò allora il reCarlo Emmanuelea vederlo per testimoniargli il suo filiale affetto, e vi tornò anche nella state colla regina sua moglie. Verso poi la fine di agosto, attribuendo il re Vittorio il suo poco buono stato all'aria troppo sottile di Sciambery, volle ritornare in Piemonte, e andò a piantar la sua corte a Moncalieri in vicinanza di tre miglia da Torino. Nulla sospettava sulle prime di lui il re Carlo Emmanuele; ma da che si avvide ch'egli contro il concertato ambiva l'autorità nel governo, ordinò che si tenessero gli occhi aperti addosso a lui. E tanto più dovette quella corte allarmarsi, quando fosse vero quanto allora si disse, cioè avere esso Vittorio Amedeo minacciato che farebbe anche tagliare il capo ad uno dei primi e più confidenti ministri del re figlio; e che crebbero poscia i sospetti di qualche meditata mutazione, da che egli, parlando col conte Del Borgo, gli fece istanza dell'atto della sua rinunzia, fatto nel precedente anno, che con tutta sommessione gli fu negato. Aggiugnevano, che da lìa poco tempo egli scrivesse un biglietto al governatore della cittadella di Torino con avvisarlo dell'ora in cui egli intendeva di andare a spasso entro di essa cittadella: o pure, ch'egli effettivamente si portasse in persona alla porta segreta, per entrarvi, ma con trovar il governatore che se ne scusò, con dire di non aver ordine dal real sovrano di riceverlo. Tutti questi fatti contemporaneamente si divulgarono, ma senza fondamento. La verità si è, che avendo il re Vittorio dopo il suo ritorno in Piemonte dato segni non equivoci di volere aver parte all'autorità del governo, il re Carlo Emmanuele fu in caso di far vegliare sui di lui discorsi; e tanto più da che seppe che il re padre parlava con diverse persone dell'atto dell'abdicazione, come di un atto che fosse in sua balìa di rivocare.
In questo tempo essendo assai cresciute le indisposizioni del re Vittorio, e la di lui mente, anche per l'accidente patito, molto indebolita, con qualche risalto alle volte di riscaldamento e di agitazione di spirito, onde venivano poi empiti di collera, si ebbe luogo a temere qualche novità sconvenevole e pericolosa. Vedeva il re figlio con ciò esposta ad un grave cimento non solamente la real sua dignità , ma anche il suo onore medesimo e il bene dello Stato; e però sperimentati prima in vano più mezzi e spedienti per calmare lo spirito del padre, e ricondurlo a pensieri più proprii e più convenienti, chiamò a sè i più saggi ministri di toga e di spada, ed esposto il presente sistema, con protestarsi nondimeno pronto a sacrificare ogni sua particolar convenienza, qualora avesse potuto farlo, salva la sua estimazione, il bene dei sudditi e la quiete degli Stati, richiese il loro consiglio. Ben pesato ogni riguardo, concorse il parere di ognuno in credere necessario un rimedio, a fin di evitare tutte le delicate e disastrose conseguenze che prudentemente si temevano come imminenti; e però fu concordemente determinato di assicurarsidalla persona d'esso re Vittorio. Nella notte adunque del dì 28 di settembre, venendo il dì 29, da vari corpi di truppe che l'uno non sapea dell'altro, si vide attorniato il castello di Moncalieri, e fu improvvisamente intimato al re Vittorio Amedeo di entrare in una preparata carrozza. Gli convenne cedere; e fu condotto nel vasto e delizioso palazzo di Rivoli, situato in un colle di molto salutevol aria, ma sotto le guardie, con raccomandare alle medesime di rispondere solamente con un profondo inchino a quante interrogazioni facesse loro il principe commesso alla loro custodia. La di lui moglie contessa di San Sebastiano, già divenuta marchesa di Spigno, nello stesso tempo fu condotta al castello di Ceva; ma perchè fece istanza il principe di riaverla, non gli negò il re questa consolazione. Del resto, al signorile trattamento d'esso principe fu pienamente provveduto; tolta a lui fu la sola libertà . Chiunque poi conosceva di che buone viscere fosse il reCarlo Emmanuele, e quanta virtù regnasse nell'animo suo, facilmente comprese che forti e giusti motivi il doveano avere indotto ad un passo tale con tutta la ripugnanza del suo sempre costante filiale affetto. Quelle stesse guardie che sul principio il teneano d'occhio, con saggio consiglio e per suo bene gli furono poste, affinchè osservassero che la gagliarda passione nol conducesse ad infierire contro sè stesso. Cessato il bollore, cessò anche la vicinanza d'esse guardie, ed era data licenza alle persone saggie e discrete di visitarlo e parlargli. E perciocchè fece istanza di essere rimesso in Moncalieri, perchè l'aria di Rivoli era troppo sottile, fu ricondotto colà .
Duravano in questi tempi le controversie della sacra corte di Roma col re di Portogallo cotanto alterato perchè il nunzio apostolicomonsignor Bichiera stato richiamato, senza prima decorarlo colla porpora cardinalizia. Sostenne il sommo pontefice il decoro della sua dignità con esigere che il prelato uscisse di Portogallo; e in fatti egli passò a Madrid, e gran tempo vi si fermò. Venne poscia in quest'anno a Firenze, e non passò oltre. Finalmente nel dì 24 di settembre fatta dal santo padre una promozione di cardinali, fu in essa compreso il Bichi; nè solo il Bichi, ma anchemonsignor Firraosucceduto a lui in quella nunziatura: laonde si trattò dipoi con più facilità di rimettere la buona armonia fra la santa Sede e il re suddetto. Sempre più andava in questo mentre crescendo la ribellione dei corsi, e volavano per tutte le corti le loro doglianze per gli aggravi che pretendeano fatti ad essi dalla repubblica di Genova. A fine di smorzar questo incendio, ricorsero i Genovesi alla protezione dell'imperadoreCarlo VI, e ne ottennero un rinforzo d'otto mila soldati alemanni, comandati dal generaleWachtendonck. Passò la metà di questa gente in Corsica, e fece tosto sloggiare i sediziosi dal blocco della Bastia. Ma da che verso la metà d'agosto s'inoltrò per cacciare da altri siti i Corsi, trovò in due battaglie gente che non conosceva paura. Perirono in quei combattimenti moltissimi dei Tedeschi, di maniera che fu necessario il far trasportare colà il resto dei loro compagni. Seguirono susseguentemente altre zuffe ora favorevoli ora contrarie ai malcontenti; ma spezialmente un'imboscata da loro tesa agli Alemanni nel fine di ottobre, nel passare che facevano a San Pellegrino, costò ben caro ad essi Tedeschi, perchè furono obbligati a ritirarsi dal campo di battaglia, con perdita di più di mille persone tra morti e feriti. Nel dì 30 di maggio terminò la carriera de' suoi giorniViolante Beatrice di Baviera, gran principessa di Toscana, vedova del fu gran principeFerdinando de Medici. Era essa il ritratto della gentilezza, venerata da ognuno, e però dalle comuni lagrime si vide onorato il suo funerale. Gran compassione prima d'allora si svegliò in cuore di tutti per gli orrendi effetti d'un fierissimo tremuoto, cheavendo cominciato nel febbraio a farsi sentire nel regno di Napoli, infierì poi con varie altre più violenti scosse, e tenne gran tempo in una costernazione continua le provincie di Puglia, Terra di Lavoro, Basilicata e Calabria Citeriore, e in alcuni luoghi lasciò una dolorosa catastrofe di rovine. Più d'ogni altro ne provò immensi danni la città di Foggia, perchè tutta fu convertita in un monte di pietre, e più di tre mila persone rimasero seppellite sotto le diroccate case. Non restò pur uno de' sacri templi e chiostri in piedi; e frati, monache ed altri abitanti, che ebbero la fortuna di scampare, andarono raminghi per quelle desolate campagne, cercando e difficilmente trovando un tozzo di pane per mantenersi in vita. Si videro in tal congiuntura le acque alzarsi nei pozzi, ed uscirne con allagar le vigne. Barletta, Bari ed altre città furono a parte di questo spaventevol flagello; e perchè in Napoli i borghi di Chiaia e Loreto risentirono non lieve danno, buona parte di popolo, e massimamente la nobiltà col vicerè si ritirò alla campagna. Ma il piissimocardinale Pignatelliarcivescovo non volle muoversi dal suo palazzo, e attese ad animar la plebe, e ad eccitar la misericordia di Dio con pubbliche processioni e preghiere.