MDCCLXXXIV

MDCCLXXXIVAnno diCristoMDCCLXXXIV. Indiz.II.PioVI papa 10.GiuseppeII imperadore 20.Continuando a trattenersi in Napoli, il principe austriaco vide ancora molto volontieri Carlo di Marco, come veduto avrebbe Tanucci, morto l'anno precedente[1], per opera de' quali principalmente a migliore condizione s'incamminavano ogni giorno le cose del regno. Vide anche volontieri Acton, che delle cose marineresche principalmente aveva cura, e che allora, non essendo ancora nati tremendi furori in esteri paesi, non era ancora acceso di que' furori egli stesso che il resero, alcuni anni dopo, cotanto diverso ed acerbo.Già s'erano fatte in Napoli, e si andavano preparando deliberazioni che di non poco contentamento riuscivano al sovrano di Vienna. Abolivansi i privilegii baronali, i comuni si proteggevano, gli ordini giudiziali si miglioravano, si voleva che i giudici motivassero le sentenze. Molto si faceva, eppure molto ancora restava da farsi. Ciò quanto al civile e lo economico; quanto alle cose di giurisdizione mista, si procedeva anche, ma con lodevole prudenza, a riforme. Le appellazioni a Roma furono tolte, e soppresso il tribunale della nunziatura, soppresso del tutto il tribunale dell'inquisizione. Già si parlava di sopprimere i conventistimati inutili; già si pensava di far dipendenti dagli ordinarii e troncar loro ogni dipendenza da' generali di Roma: già un Michele Torcia aveva presentato alla suprema giunta della Calabria uno scritto, per cui provava che i claustrali costavano alla nazione più di nove milioni di ducati all'anno, onde molti, tra per la condotta, l'inscienza, le maniere e l'enorme prezzo, erano ormai venuti a noia a tutti. Quelli che fra di loro di buoni studii erano nudriti e di retti costumi informati, i quali non erano pochi, non bastavano per lavare le note che sulle spalle di quegli altri erano state impresse.Grati suoni venivano anche a Giuseppe dalla Sicilia. Domenico Caraccioli, marchese di Villamarina, uomo di alto spirito e d'animo volto a benefizio dei popoli, governava col grado di vicerè quell'isola sino dal 1781. Personaggio era che molte regioni avendo peragrate, e molte cose vedute in Francia e in Inghilterra, e di purgato intelletto essendo, di suo proposito si moveva, e da sè medesimo sanamente deliberava. Ma, oltre la capacità e volontà propria, si consigliava col Napolitano Saverio Simonetti uomo di non mediocre valore, e che, stato prima luogotenente della sommarìa in Napoli, era poi stato eletto segretario di Stato per la grazia e per la giustizia. Quanto di bene in Sicilia si fece a que' tempi, da questi due uomini riconoscere si debbe, ma forse ancora più dal Simonetti che dal Caracciolo; imperocchè il primo, siccome più prudente, più consigliatamente procedeva; mentre il secondo, siccome più focoso, dava qualche volta negli scogli che non sapeva nè voleva evitare.Erasi già stabilito da' ministri di Napoli che il tribunale dell'inquisizione anche in Sicilia con un modo pacifico, e senza che il papa molto se ne risentisse, si sopprimesse; quest'era il non provvedere le cariche degli inquisitori a misura che venivano vacando. In fatti, vacato uno degli inquisitori, non aveva avutosurrogazione, e vacato anche il secondo, non si pensava a dargli un successore. Il supremo inquisitore Ventimiglia acerbamente si lamentava, rappresentando che fosse meglio annullare del tutto il tribunale che lasciarlo sprovveduto d'inquisitori; perciocchè, se dannoso era stimato, la soppressione faceva l'effetto che si desiderava, e nissun bisogno vi era di aggiungervi lo scherno, col lasciare le cariche vacanti. Caraccioli, presa occasione da questa rappresentanza, instò presso il governo supremo di Napoli, affinchè il tribunale finalmente fosse tolto. In fatti, vi fece passare una provvisione, per cui fu espedita l'abolizione del tribunale.Imperfetti erano certamente gli ordini del parlamento di Sicilia, ma pure servivano, massimamente per le tasse, di salutare freno al governo. Il Caracciolo applicò l'animo a migliorarli. Grande vizio era nel modo con cui si formava la deputazione del regno, la quale, fra una tornata e l'altra del parlamento sedendo, alla perfetta esecuzione delle leggi sancite vegliare doveva; conciossiachè accadesse che essendo i baroni di grande potenza, risultava per l'ordinario ch'ella fosse quasi tutta composta di baroni, o di qualche cadetto nobile. Dal che procedeva che piuttosto agl'interessi di chi più poteva che a quelli di chi poteva meno si avesse riguardo. Il buon vicerè, per andare all'incontro di un così grave disordine, e ridurre quella forma politica al suo primiero e più utile instituto, ordinò che sempre alla deputazione fossero eletti quattro ecclesiastici pel braccio ecclesiastico, quattro baroni pel braccio baronale, e quattro deputati delle città libere pel braccio demaniale. Per tale ordinamento si videro assunti alla deputazione ed ecclesiastici e gentiluomini in compagnia de' baroni; cosa che fu di grande contento ed utilità ai Siciliani.Il parlamento in ciò giovava, che la Sicilia non venisse molto aggravata dalle contribuzioni, ma portava con sè l'inconveniente che i pesi fossero a rovescio ripartiti;perchè i baroni, pretendendo certe ragioni di esenzione, alleggerivano i feudi ed aggravavano gli allodii. Per la qual cosa il vicerè ed il suo savio consigliere Simonetti proposero che i beni si allibrassero, e tutti, nissuno eccettuato, a proporzione del loro valore, ai pubblici pesi soggiacessero. Ma i baroni, che si sentivano percuotere nell'interesse, fecero in Napoli un tale contrasto, che per lungo tempo all'utile e giusto pensiero si soprassedette. Il loro principale argomento in ciò consisteva, che le esenzioni e privilegii, di cui ora si trattava di privarli, non erano punto a titolo gratuito, ma bensì un contraccambio ed un compenso di certi obblighi speciali ch'essi soli avevano verso la corona, massimamente ai tempi di guerra contratti. Protestavano essere ingiusto giudizio il venire accomunati da una parte e restare gravati dall'altra.Tutto l'andamento di Caraccioli fu quello di abbattere i privilegi baronali e la feudalità. Quindi aveva sempre caro di proteggere i vassalli contro i baroni, e quelli fra i magistrati, che in pro dei primi e contra i secondi giudicavano le cause, accarezzava. Per lo che suscitati i popoli a quel favorevole vento, generalmente si muovevano contro i diritti dei rispettivi baroni, e innanzi a' tribunali quasi ogni giorno risuonavano querele contro i diritti proibitivi di caccia, di forni, di fattoi, di pedaggi, di dogane interne, dei pagamenti detti di terraggio e terraggiuolo, e di simili altre angherie odiose per l'origine, pregiudiziali per gli effetti. Il commercio in fatti e l'agricoltura per essi sommamente pativano, e la libertà dell'operare nelle cose necessarie alla vita ne restava grandemente offesa. Non disformi alle querele erano le sentenze, per le quali quasi sempre i signori ne andavano con la peggio, onde appoco appoco un nuovo diritto pubblico più conforme alla egualità si andava creando, e le gravezze dei popolani si allentavano.Caraccioli, uno dei primi baroni del regno, seguitava il suo genio, e l'umorsuo contro i baroni sfogava; non però per amarezza, ma per l'utilità comune il faceva. Stabilì che il mero e misto imperio da nissuno potesse esercitarsi, se non da chi ne mostrasse il titolo, e parimente volle che nissuno dei baroni potesse partecipare nella elezione dei giurati, cioè ufficiali del comune, se il titolo autentico di poter ciò fare non esibisse. Abolì anche in amendue i casi ogni forza di consuetudine; e siccome i più per consuetudine piuttosto che per titoli scritti mostrabili quelle potestà esercitavano, ne seguitò che furono obbligati di cessarle, non senza grave risentimento degli antichi signori, a' quali pareva strano di non essere più delle antiche ragioni e consuetudini investiti. Così i popolani divennero meno gravati, ed i comuni più liberi; imperciocchè il principale nemico della libertà dei comuni fu sempre, non già l'autorità regia, ma la feudalità.I vicerè di Sicilia erano soliti a fare delle circolari, monumenti durabili del loro governo. Celebri furono a' suoi tempi quelle del Caracciolo. Molte utili riforme vi si leggevano. Ai 15 di settembre restrinse la così detta mano baronale, che valeva a fare l'esenzione dei proventi territoriali e dei livelli, e prescrisse che i baroni non potessero procedere a carcerazioni od altri atti simili nè di per sè, nè per via di fatto. Ai 10 di gennaio poi dell'anno seguente, diciamolo qui, giacchè siamo a questa, ordinò che i baroni non si potessero ingerire nell'amministrazione delle università baronali, nè nel peculio che amministravasi dai giurati. Un pensiero utilissimo ebbe nel mese di ottobre del medesimo anno 1785, e fu che stabilì che i vassalli non fossero più obbligati a lavorare i terreni dei loro baroni: il che distruggeva i comandati, ossia certe servitudini di persone e di gleba.Dalle narrate riformazioni ciascuno può conoscere quanto il male fosse grave in Sicilia a cagione di quegli sconcii ordini feudali. Piacquero all'universale dei popoli, il nome di Caraccioli fu celebratodai Siciliani, come di proprio ed alto benefattore; chi più poteva per l'opinione, chi più poteva per le braccia, con somme lodi l'esaltavano. I magistrati, i forensi, le persone di lettere l'egregio vicerè favorivano, e dai risentimenti dei baroni il difendevano. Il popolo poi, massimamente i contadini, e generalmente tutti i vassalli, si dimostravano pronti a tener lieto e sicuro colui che le fatiche più profittevoli e la vita più dolce aveva lor procurato. Quindi era nato che i Siciliani si erano divisi in due parti, e venuto l'uso di chiamarsi vicendevolmente col nome o di caracciolesco o di baronale.Tutta la Sicilia co' suoi pensieri Caraccioli abbracciava, ma speciale cura si dava di Palermo. Al dì primo di aprile vi pose la prima pietra del camposanto; lodevole risoluzione. Ma spiacque dove fu stabilito, per esser quello stesso presso la chiesa di Santo Spirito, là dove appunto ebbero principio i vesperi contro i Franzesi. Adornò e rese più regolare la piazza pubblica del mercato. Volle, ma non potè condurre a termine il suo intento di aprire due giorni per settimana un mercato pubblico per l'annona.Tali erano le virtù di Caraccioli, le quali chiaramente splendevano dentro e lontano da Palermo, ma non senza qualche ombra dentro. Quelli che da vicino il vedevano, ed ogni giorno a fare con lui avevano, non si soddisfacevano dell'impeto e dell'imprudenza con cui trattava le faccende, ancorchè, come già abbiamo accennato, Simonetti in qualche modo il ritenesse. Disgustò anche il popolo di Palermo, perchè aveva voluto riformare le feste di Santa Rosalia, e perchè ostentava una certa miscredenza e disprezzo delle cose sacre. Non volle fare il voto solenne per l'immacolata Concezione della Vergine, e motteggiava sovente sopra le cose riputate più rispettabili. Queste erano imprudenze ed errori, le seguenti scandali e sconcezze indegne dell'uomo e del grado. Invitavaalla sua mensa le ballerine e le cantatrici, e con esse conversava più famigliarmente che si convenisse. Accadde ancora che, fatta venire una compagnia di comici franzesi, invitò al teatro i vescovi.Non minore dispiacere arrecava nè minore molestia dava ad ognuno la protezione, con cui favoreggiava i delatori ed i fiscali, onde e le calunnie e le avare investigazioni turbavano le famiglie, e le proprietà incerte o gravate mantenevano. Questa fu una brutta peste che contaminò l'amministrazione di quel famoso vicerè, e lo rese meno commendabile ai contemporanei ed ai posteri. Nè vuolsi tacere che assai subito e sensitivo era verso chi il riprendeva, ed è noto in Sicilia ch'egli perseguitò acerbamente coloro che avevano fatto una satira contro di lui, uomo grande per umanità, non grande per sopportazione; virtù che ricerca maggior signoria di sè medesimo, e che Caraccioli non aveva.L'imperadore Giuseppe sentì, essendo ancora in Napoli, farsi o prepararsi dal vicerè tante generose riformazioni in Sicilia; ne riceveva non poca allegrezza. Poscia, lasciato Napoli, verso la sua Milano s'incamminava. Ebbe a Roma nuove e prolungate conferenze col pontefice, da solo a solo, nissun cardinale, nissun prelato, nissun domestico ammesso ai segretissimi colloqui.Ai 20 di febbraio l'austriaco principe arrivava a Milano. In Torino ora si riscaldava ora si raffreddava il grido della sua venuta. Vittorio Amedeo di Sardegna desiderava che la sua città visitasse. Mandò il marchese Balbis, pregando acciò venisse. Furono tra l'inviato del re e lo imperatore molte cose parlate, ma nissuna conclusa. Per non vedere quelle sponde del Po, l'Austriaco si scusò colla brevità del tempo: il duca del Chiablese, fratello di Vittorio, fu mandato a Milano per onorarlo.Giuseppe fu nella capitale della Lombardia ciò che era stato altrove, ma essendo fra i suoi popoli, con le mani ancorpiù piene di grazie per dar riparo alla vita dei miseri. Visitò quindi Pavia e la sua famosa università, a cui egli e la sua madre augusta tanto lustro, tanti nobili professori, tanti utili sussidii di scienze avevano procacciato. Era a quei tempi Pavia una vera italica Atene. Ognuno, crediamo, di questo parere sarà, quando dirassi che Scarpa, Spallanzani, Gregorio Fontana, Volta, Scopoli, Franck, Presciani, Tamburini, Mascheroni e tanti altri illustri uomini la studiosa gioventù alle fonti del sapere abbeveravano. Quivi l'imperatore, come in gratissimo seggio, si rallegrava. Tutti quei virtuosi sacerdoti delle muse amorevolmente accolse, e tutti quei preziosi repositorii di libri, dei parti dei tre regni, curiosamente esaminò ed accrebbe, tutti quei ticinesi popoli coi detti ed ancora più coi fatti rallegrò e consolò. Veduta al suo cospetto la facoltà di teologia, così le disse: «Attendete pure ad insegnare i dogmi semplicemente, e non istate a mescolarvi questioni inutili, commenti oscuri, sofisticherie scolastiche. Le superflue parole non ad altro servono che a suscitare gli odii ed a soffocare i principii del vero cristianesimo. Sia chiara e schietta la fede, benigna e tollerante la carità: sia Cristo la nostra face, Cristo il nostro amore; le oziose ed acerbe disputazioni lasciamo a chi mal vede, a chi mal sente, a chi mal ama.»Così parlato, e poco ancora dimoratosi nell'antica sede del regno lombardo, sede recente di più fortunati influssi, quell'amorevole padre dei popoli a Milano tornò; poscia, valicate le Alpi, sulle sponde del Danubio si ricondusse. Lasciò in Italia immortale memoria de' suoi benefizii, ed un fratello condegno imitatore delle sue virtù.Tutto il tempo che Giuseppe, di Napoli partito fermossi in Italia, Gustavo di Svezia si trattenne a Napoli. Parea che i due sovrani non avessero gran piacere di trovarsi insieme in alcun luogo. Per tanto, restituitosi il re di Svezia a Romail dì 10 di marzo, vi rimase sino al 19 di aprile, i maggiori riguardi al capo della Chiesa cattolica dimostrando, e colle maniere cortesi ed affabili la benivoglienza dei Romani conciliandosi. Andato una mattina a vedere il museo, vi trovò come a caso il pontefice, e, trattenendosi seco in conversazione presso a due ore, formò il soggetto d'un bellissimo quadro del celebre pittore franzese Gagneraux.Assistendo alle funzioni della settimana santa, veramente magnifiche nella principal chiesa dell'universo, non si potè, che pieno di ammirazione non si manifestasse avere i protestanti il torto nel criticare la pompa delle cattoliche funzioni; poichè, essendo ai popoli la religione necessaria, era ben fatto circondarla con tutto ciò che può renderla agli occhi umani rispettabile ed augusta.Non per tanto, temendo quel monarca che i suoi popoli, della setta di Lutero seguaci, nol credessero disposto rinnovellar l'esempio dato un secolo prima dalla regina Cristina, e assicurarli volendo del suo attaccamento al culto del proprio paese anche in mezzo alla cattolica Italia, pose la romana tolleranza ad uno stranio cimento. Ordinò che fosse alla meglio preparata una cappella nella sala del palazzo che abitava, ed ivi assistette divotamente ad un discorso assai lungo del barone di Taube, vescovo svedese, suo primo predicante e cappellano di corte, accorso da Stoccolma a Roma per adempire ai doveri del suo ministero, e alla celebrazione delle cerimonie pasquali secondo la confessione di Augusta, e con i cavalieri, con tutta la gente della sua comitiva e con altri luterani forestieri che trovavansi a Roma, la cena conforme ai riti di detta confessione ricevette, alla funzione ammettendo quante d'ogni classe persone vollero concorrervi.Mandò in dono Gustavo al papa le medaglie dei sovrani e degli uomini più insigni in diversi tempi dalla Svezia prodotti; ed essendo andato a visitare il collegio di Propaganda, fu a lui offerto unomaggio che indarno sarebbesi cercato ed ottenuto in qualunque altro paese: il suo elogio in versi, stampato in quarantasei diversi linguaggi antichi e moderni. La sorpresa del re fu viva, e soprattutto vivamente espressa.Congedatosi Gustavo da Pio, per la via di Firenze e Parma giunse a Venezia il giorno 3 di maggio, e Venezia con la solita sua splendidezza delizioso e grato rese al monarca il suo soggiorno, con regate e balli i più sontuosi. Di qui partito, passando per Milano e Torino in Francia, al suo regno affrettatamente il richiamarono le vicissitudini della Danimarca.Già da quindici anni il granduca Leopoldo felicitava la Toscana. Non solo la Italia, ma l'Europa tutta ammirava la saviezza delle sue leggi, e applaudiva all'affetto dei sudditi pel sovrano. Ne abbiam fatto più d'un cenno negli anni precedenti, non meno che delle riforme tanto nel civile quanto nell'ecclesiastico da lui fatte. Ma ciò non ostante, e quantunque delle cose ecclesiastiche sia per presentarsi altrove l'occasione di parlare, non può tacersi delle forme politiche, le quali, secondo che alcuni scrivono, egli voleva dare alla felice provincia. Narrano adunque ch'egli avesse in animo di statuire, per suprema legislazione dello Stato, quanto segue:Che alla creazione della legge dovesse intervenire il voto del granduca e quello della nazione;Che la legge dovesse consegnarsi al granduca per l'esecuzione; perciò fosse investito dell'autorità e del comando della forza, siccome per la legge constituita veniva ordinato;Che la nazione rappresentata fosse dalle assemblee comunitative, dalle provinciali e dalla generale;Che la petizione fosse libera ad ogni individuo maschio sopra ai venticinque anni davanti alle assemblee comunitative del luogo di suo domicilio, ma per oggetti meramente locali e compresi nelle facoltàdei magistrati delle medesime comunità;Dall'aggregato di varie comunità si formasse il distretto o circondario provinciale, e che quivi tener si dovessero le assemblee provinciali;Che le assemblee provinciali composte fossero dai deputati delle rispettive comunità, e che appresso loro fosse libera la petizione, ma soltanto per oggetti risguardanti l'intera provincia;Come nelle assemblee comunitative si dovevano sentire le petizioni delle rispettive comunità e quelle dei particolari comunisti, così si dovessero anco discutere e passare al partito dei voti, e poi le ammesse consegnare ai deputati, perchè le presentassero alle assemblee provinciali, per quindi discutersi e mandarsi a partito partitamente;Che dalle assemblee provinciali si eleggessero deputati per intervenire all'assemblea generale, e ad essi si consegnassero tutte le petizioni che vi erano state ammesse o decretate come voto provinciale, e così venissero abbracciate tanto le petizioni comunitative quanto le provinciali;Che i deputati provinciali formassero l'assemblea generale, che dovesse adunarsi senza intimazione o invito in determinato tempo ogni anno, e risedere prima in Pisa, poi in Siena, poi in Pistoia, e finalmente in Firenze, incominciando la volta ogni quattro anni;Che per Livorno si stabilisse una norma particolare;Che le assemblee in tutte tre i gradi fossero pubbliche;Che la legge si potesse promuovere dalle assemblee generali, e dovesse ricevere la sanzione del granduca, come egli la poteva proporre all'assemblea, e col voto di quella la legge venisse creata;Che il conto generale delle finanze si dovesse esaminare in pubblico nell'assemblea generale, ed il ministro delle finanze dovesse produrlo e dare tutte le notizie o spiegazioni occorrenti;Che al medesimo modo esaminare si dovessero i conti comunitativi e provinciali;Che gli aumenti di stipendio agl'impiegati dello Stato dovessero passare per due voti concordi, e così parimente le pensioni e gratificazioni per titoli degni di straordinaria ricompensa;Che qualunque impiegato di qualunque grado al servizio dello Stato che fosse dichiarato di non avere la soddisfazione del pubblico, si dovesse dimettere, e non si potesse altrimenti impiegare; ma che per tale atto dovesse concorrere il voto unanime della piena assemblea generale senza bisogno del voto regio;Che tutte le nomine degl'impiegati appartenessero alla prerogativa regia, e però tutte dal granduca si facessero;Che parimenti di prerogativa regia fossero le nomine ai vescovati e la collazione dei benefizii ecclesiastici di padronato regio o comunitativo;Che medesimamente i gradi e gli onori da darsi agli uffiziali della milizia fossero parte della prerogativa regia;Che finalmente la medesima prerogativa regia abbracciasse tutto ciò che non era contrario alla legge fondamentale della costituzione;Che gl'impiegati al servizio della corte o dello Stato non potessero essere ammessi a sedere nelle assemblee nazionali, e neppure i pensionarii, ma che ai medesimi non venisse interdetto il diritto di petizione; fu anche spiegato che non cadessero sotto questa censura gl'impiegati al servizio della comunità.Giova andare avanti in queste disposizioni di Leopoldo siccome sono da alcuni raccontate. Voleva bensì che la prerogativa di far grazia fosse riservata al granduca, ma solamente per diminuire o commutare le pene afflittive corporali ai delinquenti già condannati, ma non già le pecuniarie. Intendeva e voleva che fosse intieramente nel granduca soppressa la facoltà di rompere le sentenze dei tribunali nelle cause civili, e per talemodo veniva estirpato quell'enorme abuso, che ancora viveva e vive in certe monarchie, di violare a favore o pregiudizio di questo o di quello le decisioni della giustizia. Non sono da trasandarsi le parole veramente auree, se vere sono, che Leopoldo scrisse nel preambolo di questa sua legge constitutiva:«Che solo un despota imbecille o malvagio può credersi superiore alla legge; ch'ella è fatta per regolare i diritti tra privati, e che il far nascere la legge in grazia di una parte non è altro che un abuso di potere, o l'effetto d'imprudenza di volubilità o di ignoranza di quei giudici che introdussero questa nuova specie di grazia, che non può aver luogo senza un torto o un'ingiuria verso dell'altra parte, a cui la legge in quel momento sta in favore.»Seguono alcune sicurtà, perchè in ogni tempo la costituzione salva ed intatta conservare si potesse;Che i successori al trono dovessero accettare e promettere l'osservanza della costituzione prima di assumere l'autorità e la corona;Che i principi della famiglia regnante non potessero essere investiti di benefizii ecclesiastici di padronato regio, nè ammessi ad impieghi a servizio dello Stato, o civili fossero o militari;Che lo stesso interdetto abbracciasse espressamente anche i principi di famiglie regnanti estere;Che la truppa fosse tutta civica, nè che si potessero fabbricare fortezze, e quelle che già esistevano non potessero contenere artiglierie, nemmeno in forma di conserva.Che le assemblee non solo potessero, ma dovessero esser guardiane della costituzione, ed obbligate fossero a denunziare le infrazioni ed a contrastarle, regolando in quali modi ed in quali forme speciali per tali casi essi dovessero procedere.La pretesa suprema legge continuavadicendo: che non si potessero creare feudi, e quelli che venissero a decedere, non si potessero più conferire;Che la libertà del commercio fosse un articolo di legge costitutiva, e che ad essa in nissuna maniera si potesse derogare, nè che limitare si potesse, nemmeno a tempo, nè direttamente nè indirettamente, nè con imposizioni o tasse, od altro qual si volesse vincolo o restrizione;Che non si potesse creare debito pubblico nè per lo Stato, nè provinciale, nè comunitativo oltre di quello che già vi fosse;Che neppure alcun debito creare si potesse sul patrimonio della corona, che si dichiarava inalienabile, indivisibile e incapace d'ipoteca.Che, oltre i beni attribuiti a questo patrimonio, fosse instituito un supplemento sull'erario pubblico pel decorso mantenimento del granduca e della famiglia; ma che tale supplemento fisso fosse, nè mai aumentare si potesse;Che lo Stato non potesse mai essere obbligato a supplire nè alle doti, nè alle spese pel mantenimento delle principesse, nè per lo stabilimento e promozioni dei principi della famiglia;Che fosse proibito dalla costituzione il vendere o il dare in appalto le tasse, gabelle od imposizioni quali fossero o quali si volessero, e che parimente fosse dalla costituzione vietato il concedere in privativa alcun mercimonio o manifattura, neppure col profitto dell'erario.Quanto poi alla legge politica rispetto agli altri Stati, non era fuggito dall'animo a Leopoldo il desiderio che la Toscana fosse in perpetua neutralità con le nazioni anche barbaresche così per mare come per terra, qualunque i tempi fossero, o quali le contingenze. Per la qual cosa stabilì:Che non si potessero stipulare alleanze offensive nè difensive, o ricevere protezione o assistenza da potenze estere, e, molto meno, somministrare oltre i termini,della neutralità, che dal granduca erano stati chiaramente prescritti;Che il territorio non si potesse ingrandire con l'acquisto di nuovi Stati; nè cederne o cambiarne parte alcuna.Parve a Leopoldo, seguono a narrare, che per Livorno, porto di mare, scala di tanta mercatura, stanza e passaggio di tanti forastieri, in un particolare modo statuire si dovesse. Vogliono pertanto che ordinasse che la comunità di Livorno fosse esclusa dalle assemblee provinciali; dal che conseguitava, che esclusa anche fosse dall'assemblea generale; ma perchè le restasse qualche politico vincolo col rimanente della Toscana, e i suoi bisogni fossero conosciuti, ed ai medesimi provvedere si potesse, le furono lasciate le assemblee comunitative ed il diritto di petizione. Le domande mandate e vinte per partito delle assemblee comunitative di quella città dovevano mandarsi per mezzo di un oratore espresso, ma senza voce deliberativa, all'assemblea generale per esservi discusse e poste a partito.Leopoldo decretò eziandio che, affinchè la pacifica Toscana, come pacifica era, così ancora paresse, si sopprimesse ogni vestigio di apparato di guerra marittima, salve soltanto le barche armate di sanità e di esplorazione ed altri servigi fra le isole e la costa. Dal quale decreto venne interamente annullata quella pazzia del correre armata mano dei cavalieri di Santo Stefano contro i seguaci di Maometto, che i detti cavalieri potevano bensì irritare, ma non ispegnere. Contuttociò, per sicurezza di quell'emporio di Livorno e delle terre di marina, pensò che utile e necessaria cosa fosse di farvi stanziare qualche soldatesca stabile, massime di bombardieri e, come adesso si dice, di artiglieri o cannonieri, e conservarvi o innalzarvi alcuna fortezza.Tali erano, siccome narrano, i pensieri di Leopoldo circa il modo con cui egli intendeva di costituire la Toscana.

Continuando a trattenersi in Napoli, il principe austriaco vide ancora molto volontieri Carlo di Marco, come veduto avrebbe Tanucci, morto l'anno precedente[1], per opera de' quali principalmente a migliore condizione s'incamminavano ogni giorno le cose del regno. Vide anche volontieri Acton, che delle cose marineresche principalmente aveva cura, e che allora, non essendo ancora nati tremendi furori in esteri paesi, non era ancora acceso di que' furori egli stesso che il resero, alcuni anni dopo, cotanto diverso ed acerbo.

Già s'erano fatte in Napoli, e si andavano preparando deliberazioni che di non poco contentamento riuscivano al sovrano di Vienna. Abolivansi i privilegii baronali, i comuni si proteggevano, gli ordini giudiziali si miglioravano, si voleva che i giudici motivassero le sentenze. Molto si faceva, eppure molto ancora restava da farsi. Ciò quanto al civile e lo economico; quanto alle cose di giurisdizione mista, si procedeva anche, ma con lodevole prudenza, a riforme. Le appellazioni a Roma furono tolte, e soppresso il tribunale della nunziatura, soppresso del tutto il tribunale dell'inquisizione. Già si parlava di sopprimere i conventistimati inutili; già si pensava di far dipendenti dagli ordinarii e troncar loro ogni dipendenza da' generali di Roma: già un Michele Torcia aveva presentato alla suprema giunta della Calabria uno scritto, per cui provava che i claustrali costavano alla nazione più di nove milioni di ducati all'anno, onde molti, tra per la condotta, l'inscienza, le maniere e l'enorme prezzo, erano ormai venuti a noia a tutti. Quelli che fra di loro di buoni studii erano nudriti e di retti costumi informati, i quali non erano pochi, non bastavano per lavare le note che sulle spalle di quegli altri erano state impresse.

Grati suoni venivano anche a Giuseppe dalla Sicilia. Domenico Caraccioli, marchese di Villamarina, uomo di alto spirito e d'animo volto a benefizio dei popoli, governava col grado di vicerè quell'isola sino dal 1781. Personaggio era che molte regioni avendo peragrate, e molte cose vedute in Francia e in Inghilterra, e di purgato intelletto essendo, di suo proposito si moveva, e da sè medesimo sanamente deliberava. Ma, oltre la capacità e volontà propria, si consigliava col Napolitano Saverio Simonetti uomo di non mediocre valore, e che, stato prima luogotenente della sommarìa in Napoli, era poi stato eletto segretario di Stato per la grazia e per la giustizia. Quanto di bene in Sicilia si fece a que' tempi, da questi due uomini riconoscere si debbe, ma forse ancora più dal Simonetti che dal Caracciolo; imperocchè il primo, siccome più prudente, più consigliatamente procedeva; mentre il secondo, siccome più focoso, dava qualche volta negli scogli che non sapeva nè voleva evitare.

Erasi già stabilito da' ministri di Napoli che il tribunale dell'inquisizione anche in Sicilia con un modo pacifico, e senza che il papa molto se ne risentisse, si sopprimesse; quest'era il non provvedere le cariche degli inquisitori a misura che venivano vacando. In fatti, vacato uno degli inquisitori, non aveva avutosurrogazione, e vacato anche il secondo, non si pensava a dargli un successore. Il supremo inquisitore Ventimiglia acerbamente si lamentava, rappresentando che fosse meglio annullare del tutto il tribunale che lasciarlo sprovveduto d'inquisitori; perciocchè, se dannoso era stimato, la soppressione faceva l'effetto che si desiderava, e nissun bisogno vi era di aggiungervi lo scherno, col lasciare le cariche vacanti. Caraccioli, presa occasione da questa rappresentanza, instò presso il governo supremo di Napoli, affinchè il tribunale finalmente fosse tolto. In fatti, vi fece passare una provvisione, per cui fu espedita l'abolizione del tribunale.

Imperfetti erano certamente gli ordini del parlamento di Sicilia, ma pure servivano, massimamente per le tasse, di salutare freno al governo. Il Caracciolo applicò l'animo a migliorarli. Grande vizio era nel modo con cui si formava la deputazione del regno, la quale, fra una tornata e l'altra del parlamento sedendo, alla perfetta esecuzione delle leggi sancite vegliare doveva; conciossiachè accadesse che essendo i baroni di grande potenza, risultava per l'ordinario ch'ella fosse quasi tutta composta di baroni, o di qualche cadetto nobile. Dal che procedeva che piuttosto agl'interessi di chi più poteva che a quelli di chi poteva meno si avesse riguardo. Il buon vicerè, per andare all'incontro di un così grave disordine, e ridurre quella forma politica al suo primiero e più utile instituto, ordinò che sempre alla deputazione fossero eletti quattro ecclesiastici pel braccio ecclesiastico, quattro baroni pel braccio baronale, e quattro deputati delle città libere pel braccio demaniale. Per tale ordinamento si videro assunti alla deputazione ed ecclesiastici e gentiluomini in compagnia de' baroni; cosa che fu di grande contento ed utilità ai Siciliani.

Il parlamento in ciò giovava, che la Sicilia non venisse molto aggravata dalle contribuzioni, ma portava con sè l'inconveniente che i pesi fossero a rovescio ripartiti;perchè i baroni, pretendendo certe ragioni di esenzione, alleggerivano i feudi ed aggravavano gli allodii. Per la qual cosa il vicerè ed il suo savio consigliere Simonetti proposero che i beni si allibrassero, e tutti, nissuno eccettuato, a proporzione del loro valore, ai pubblici pesi soggiacessero. Ma i baroni, che si sentivano percuotere nell'interesse, fecero in Napoli un tale contrasto, che per lungo tempo all'utile e giusto pensiero si soprassedette. Il loro principale argomento in ciò consisteva, che le esenzioni e privilegii, di cui ora si trattava di privarli, non erano punto a titolo gratuito, ma bensì un contraccambio ed un compenso di certi obblighi speciali ch'essi soli avevano verso la corona, massimamente ai tempi di guerra contratti. Protestavano essere ingiusto giudizio il venire accomunati da una parte e restare gravati dall'altra.

Tutto l'andamento di Caraccioli fu quello di abbattere i privilegi baronali e la feudalità. Quindi aveva sempre caro di proteggere i vassalli contro i baroni, e quelli fra i magistrati, che in pro dei primi e contra i secondi giudicavano le cause, accarezzava. Per lo che suscitati i popoli a quel favorevole vento, generalmente si muovevano contro i diritti dei rispettivi baroni, e innanzi a' tribunali quasi ogni giorno risuonavano querele contro i diritti proibitivi di caccia, di forni, di fattoi, di pedaggi, di dogane interne, dei pagamenti detti di terraggio e terraggiuolo, e di simili altre angherie odiose per l'origine, pregiudiziali per gli effetti. Il commercio in fatti e l'agricoltura per essi sommamente pativano, e la libertà dell'operare nelle cose necessarie alla vita ne restava grandemente offesa. Non disformi alle querele erano le sentenze, per le quali quasi sempre i signori ne andavano con la peggio, onde appoco appoco un nuovo diritto pubblico più conforme alla egualità si andava creando, e le gravezze dei popolani si allentavano.

Caraccioli, uno dei primi baroni del regno, seguitava il suo genio, e l'umorsuo contro i baroni sfogava; non però per amarezza, ma per l'utilità comune il faceva. Stabilì che il mero e misto imperio da nissuno potesse esercitarsi, se non da chi ne mostrasse il titolo, e parimente volle che nissuno dei baroni potesse partecipare nella elezione dei giurati, cioè ufficiali del comune, se il titolo autentico di poter ciò fare non esibisse. Abolì anche in amendue i casi ogni forza di consuetudine; e siccome i più per consuetudine piuttosto che per titoli scritti mostrabili quelle potestà esercitavano, ne seguitò che furono obbligati di cessarle, non senza grave risentimento degli antichi signori, a' quali pareva strano di non essere più delle antiche ragioni e consuetudini investiti. Così i popolani divennero meno gravati, ed i comuni più liberi; imperciocchè il principale nemico della libertà dei comuni fu sempre, non già l'autorità regia, ma la feudalità.

I vicerè di Sicilia erano soliti a fare delle circolari, monumenti durabili del loro governo. Celebri furono a' suoi tempi quelle del Caracciolo. Molte utili riforme vi si leggevano. Ai 15 di settembre restrinse la così detta mano baronale, che valeva a fare l'esenzione dei proventi territoriali e dei livelli, e prescrisse che i baroni non potessero procedere a carcerazioni od altri atti simili nè di per sè, nè per via di fatto. Ai 10 di gennaio poi dell'anno seguente, diciamolo qui, giacchè siamo a questa, ordinò che i baroni non si potessero ingerire nell'amministrazione delle università baronali, nè nel peculio che amministravasi dai giurati. Un pensiero utilissimo ebbe nel mese di ottobre del medesimo anno 1785, e fu che stabilì che i vassalli non fossero più obbligati a lavorare i terreni dei loro baroni: il che distruggeva i comandati, ossia certe servitudini di persone e di gleba.

Dalle narrate riformazioni ciascuno può conoscere quanto il male fosse grave in Sicilia a cagione di quegli sconcii ordini feudali. Piacquero all'universale dei popoli, il nome di Caraccioli fu celebratodai Siciliani, come di proprio ed alto benefattore; chi più poteva per l'opinione, chi più poteva per le braccia, con somme lodi l'esaltavano. I magistrati, i forensi, le persone di lettere l'egregio vicerè favorivano, e dai risentimenti dei baroni il difendevano. Il popolo poi, massimamente i contadini, e generalmente tutti i vassalli, si dimostravano pronti a tener lieto e sicuro colui che le fatiche più profittevoli e la vita più dolce aveva lor procurato. Quindi era nato che i Siciliani si erano divisi in due parti, e venuto l'uso di chiamarsi vicendevolmente col nome o di caracciolesco o di baronale.

Tutta la Sicilia co' suoi pensieri Caraccioli abbracciava, ma speciale cura si dava di Palermo. Al dì primo di aprile vi pose la prima pietra del camposanto; lodevole risoluzione. Ma spiacque dove fu stabilito, per esser quello stesso presso la chiesa di Santo Spirito, là dove appunto ebbero principio i vesperi contro i Franzesi. Adornò e rese più regolare la piazza pubblica del mercato. Volle, ma non potè condurre a termine il suo intento di aprire due giorni per settimana un mercato pubblico per l'annona.

Tali erano le virtù di Caraccioli, le quali chiaramente splendevano dentro e lontano da Palermo, ma non senza qualche ombra dentro. Quelli che da vicino il vedevano, ed ogni giorno a fare con lui avevano, non si soddisfacevano dell'impeto e dell'imprudenza con cui trattava le faccende, ancorchè, come già abbiamo accennato, Simonetti in qualche modo il ritenesse. Disgustò anche il popolo di Palermo, perchè aveva voluto riformare le feste di Santa Rosalia, e perchè ostentava una certa miscredenza e disprezzo delle cose sacre. Non volle fare il voto solenne per l'immacolata Concezione della Vergine, e motteggiava sovente sopra le cose riputate più rispettabili. Queste erano imprudenze ed errori, le seguenti scandali e sconcezze indegne dell'uomo e del grado. Invitavaalla sua mensa le ballerine e le cantatrici, e con esse conversava più famigliarmente che si convenisse. Accadde ancora che, fatta venire una compagnia di comici franzesi, invitò al teatro i vescovi.

Non minore dispiacere arrecava nè minore molestia dava ad ognuno la protezione, con cui favoreggiava i delatori ed i fiscali, onde e le calunnie e le avare investigazioni turbavano le famiglie, e le proprietà incerte o gravate mantenevano. Questa fu una brutta peste che contaminò l'amministrazione di quel famoso vicerè, e lo rese meno commendabile ai contemporanei ed ai posteri. Nè vuolsi tacere che assai subito e sensitivo era verso chi il riprendeva, ed è noto in Sicilia ch'egli perseguitò acerbamente coloro che avevano fatto una satira contro di lui, uomo grande per umanità, non grande per sopportazione; virtù che ricerca maggior signoria di sè medesimo, e che Caraccioli non aveva.

L'imperadore Giuseppe sentì, essendo ancora in Napoli, farsi o prepararsi dal vicerè tante generose riformazioni in Sicilia; ne riceveva non poca allegrezza. Poscia, lasciato Napoli, verso la sua Milano s'incamminava. Ebbe a Roma nuove e prolungate conferenze col pontefice, da solo a solo, nissun cardinale, nissun prelato, nissun domestico ammesso ai segretissimi colloqui.

Ai 20 di febbraio l'austriaco principe arrivava a Milano. In Torino ora si riscaldava ora si raffreddava il grido della sua venuta. Vittorio Amedeo di Sardegna desiderava che la sua città visitasse. Mandò il marchese Balbis, pregando acciò venisse. Furono tra l'inviato del re e lo imperatore molte cose parlate, ma nissuna conclusa. Per non vedere quelle sponde del Po, l'Austriaco si scusò colla brevità del tempo: il duca del Chiablese, fratello di Vittorio, fu mandato a Milano per onorarlo.

Giuseppe fu nella capitale della Lombardia ciò che era stato altrove, ma essendo fra i suoi popoli, con le mani ancorpiù piene di grazie per dar riparo alla vita dei miseri. Visitò quindi Pavia e la sua famosa università, a cui egli e la sua madre augusta tanto lustro, tanti nobili professori, tanti utili sussidii di scienze avevano procacciato. Era a quei tempi Pavia una vera italica Atene. Ognuno, crediamo, di questo parere sarà, quando dirassi che Scarpa, Spallanzani, Gregorio Fontana, Volta, Scopoli, Franck, Presciani, Tamburini, Mascheroni e tanti altri illustri uomini la studiosa gioventù alle fonti del sapere abbeveravano. Quivi l'imperatore, come in gratissimo seggio, si rallegrava. Tutti quei virtuosi sacerdoti delle muse amorevolmente accolse, e tutti quei preziosi repositorii di libri, dei parti dei tre regni, curiosamente esaminò ed accrebbe, tutti quei ticinesi popoli coi detti ed ancora più coi fatti rallegrò e consolò. Veduta al suo cospetto la facoltà di teologia, così le disse: «Attendete pure ad insegnare i dogmi semplicemente, e non istate a mescolarvi questioni inutili, commenti oscuri, sofisticherie scolastiche. Le superflue parole non ad altro servono che a suscitare gli odii ed a soffocare i principii del vero cristianesimo. Sia chiara e schietta la fede, benigna e tollerante la carità: sia Cristo la nostra face, Cristo il nostro amore; le oziose ed acerbe disputazioni lasciamo a chi mal vede, a chi mal sente, a chi mal ama.»

Così parlato, e poco ancora dimoratosi nell'antica sede del regno lombardo, sede recente di più fortunati influssi, quell'amorevole padre dei popoli a Milano tornò; poscia, valicate le Alpi, sulle sponde del Danubio si ricondusse. Lasciò in Italia immortale memoria de' suoi benefizii, ed un fratello condegno imitatore delle sue virtù.

Tutto il tempo che Giuseppe, di Napoli partito fermossi in Italia, Gustavo di Svezia si trattenne a Napoli. Parea che i due sovrani non avessero gran piacere di trovarsi insieme in alcun luogo. Per tanto, restituitosi il re di Svezia a Romail dì 10 di marzo, vi rimase sino al 19 di aprile, i maggiori riguardi al capo della Chiesa cattolica dimostrando, e colle maniere cortesi ed affabili la benivoglienza dei Romani conciliandosi. Andato una mattina a vedere il museo, vi trovò come a caso il pontefice, e, trattenendosi seco in conversazione presso a due ore, formò il soggetto d'un bellissimo quadro del celebre pittore franzese Gagneraux.

Assistendo alle funzioni della settimana santa, veramente magnifiche nella principal chiesa dell'universo, non si potè, che pieno di ammirazione non si manifestasse avere i protestanti il torto nel criticare la pompa delle cattoliche funzioni; poichè, essendo ai popoli la religione necessaria, era ben fatto circondarla con tutto ciò che può renderla agli occhi umani rispettabile ed augusta.

Non per tanto, temendo quel monarca che i suoi popoli, della setta di Lutero seguaci, nol credessero disposto rinnovellar l'esempio dato un secolo prima dalla regina Cristina, e assicurarli volendo del suo attaccamento al culto del proprio paese anche in mezzo alla cattolica Italia, pose la romana tolleranza ad uno stranio cimento. Ordinò che fosse alla meglio preparata una cappella nella sala del palazzo che abitava, ed ivi assistette divotamente ad un discorso assai lungo del barone di Taube, vescovo svedese, suo primo predicante e cappellano di corte, accorso da Stoccolma a Roma per adempire ai doveri del suo ministero, e alla celebrazione delle cerimonie pasquali secondo la confessione di Augusta, e con i cavalieri, con tutta la gente della sua comitiva e con altri luterani forestieri che trovavansi a Roma, la cena conforme ai riti di detta confessione ricevette, alla funzione ammettendo quante d'ogni classe persone vollero concorrervi.

Mandò in dono Gustavo al papa le medaglie dei sovrani e degli uomini più insigni in diversi tempi dalla Svezia prodotti; ed essendo andato a visitare il collegio di Propaganda, fu a lui offerto unomaggio che indarno sarebbesi cercato ed ottenuto in qualunque altro paese: il suo elogio in versi, stampato in quarantasei diversi linguaggi antichi e moderni. La sorpresa del re fu viva, e soprattutto vivamente espressa.

Congedatosi Gustavo da Pio, per la via di Firenze e Parma giunse a Venezia il giorno 3 di maggio, e Venezia con la solita sua splendidezza delizioso e grato rese al monarca il suo soggiorno, con regate e balli i più sontuosi. Di qui partito, passando per Milano e Torino in Francia, al suo regno affrettatamente il richiamarono le vicissitudini della Danimarca.

Già da quindici anni il granduca Leopoldo felicitava la Toscana. Non solo la Italia, ma l'Europa tutta ammirava la saviezza delle sue leggi, e applaudiva all'affetto dei sudditi pel sovrano. Ne abbiam fatto più d'un cenno negli anni precedenti, non meno che delle riforme tanto nel civile quanto nell'ecclesiastico da lui fatte. Ma ciò non ostante, e quantunque delle cose ecclesiastiche sia per presentarsi altrove l'occasione di parlare, non può tacersi delle forme politiche, le quali, secondo che alcuni scrivono, egli voleva dare alla felice provincia. Narrano adunque ch'egli avesse in animo di statuire, per suprema legislazione dello Stato, quanto segue:

Che alla creazione della legge dovesse intervenire il voto del granduca e quello della nazione;

Che la legge dovesse consegnarsi al granduca per l'esecuzione; perciò fosse investito dell'autorità e del comando della forza, siccome per la legge constituita veniva ordinato;

Che la nazione rappresentata fosse dalle assemblee comunitative, dalle provinciali e dalla generale;

Che la petizione fosse libera ad ogni individuo maschio sopra ai venticinque anni davanti alle assemblee comunitative del luogo di suo domicilio, ma per oggetti meramente locali e compresi nelle facoltàdei magistrati delle medesime comunità;

Dall'aggregato di varie comunità si formasse il distretto o circondario provinciale, e che quivi tener si dovessero le assemblee provinciali;

Che le assemblee provinciali composte fossero dai deputati delle rispettive comunità, e che appresso loro fosse libera la petizione, ma soltanto per oggetti risguardanti l'intera provincia;

Come nelle assemblee comunitative si dovevano sentire le petizioni delle rispettive comunità e quelle dei particolari comunisti, così si dovessero anco discutere e passare al partito dei voti, e poi le ammesse consegnare ai deputati, perchè le presentassero alle assemblee provinciali, per quindi discutersi e mandarsi a partito partitamente;

Che dalle assemblee provinciali si eleggessero deputati per intervenire all'assemblea generale, e ad essi si consegnassero tutte le petizioni che vi erano state ammesse o decretate come voto provinciale, e così venissero abbracciate tanto le petizioni comunitative quanto le provinciali;

Che i deputati provinciali formassero l'assemblea generale, che dovesse adunarsi senza intimazione o invito in determinato tempo ogni anno, e risedere prima in Pisa, poi in Siena, poi in Pistoia, e finalmente in Firenze, incominciando la volta ogni quattro anni;

Che per Livorno si stabilisse una norma particolare;

Che le assemblee in tutte tre i gradi fossero pubbliche;

Che la legge si potesse promuovere dalle assemblee generali, e dovesse ricevere la sanzione del granduca, come egli la poteva proporre all'assemblea, e col voto di quella la legge venisse creata;

Che il conto generale delle finanze si dovesse esaminare in pubblico nell'assemblea generale, ed il ministro delle finanze dovesse produrlo e dare tutte le notizie o spiegazioni occorrenti;

Che al medesimo modo esaminare si dovessero i conti comunitativi e provinciali;

Che gli aumenti di stipendio agl'impiegati dello Stato dovessero passare per due voti concordi, e così parimente le pensioni e gratificazioni per titoli degni di straordinaria ricompensa;

Che qualunque impiegato di qualunque grado al servizio dello Stato che fosse dichiarato di non avere la soddisfazione del pubblico, si dovesse dimettere, e non si potesse altrimenti impiegare; ma che per tale atto dovesse concorrere il voto unanime della piena assemblea generale senza bisogno del voto regio;

Che tutte le nomine degl'impiegati appartenessero alla prerogativa regia, e però tutte dal granduca si facessero;

Che parimenti di prerogativa regia fossero le nomine ai vescovati e la collazione dei benefizii ecclesiastici di padronato regio o comunitativo;

Che medesimamente i gradi e gli onori da darsi agli uffiziali della milizia fossero parte della prerogativa regia;

Che finalmente la medesima prerogativa regia abbracciasse tutto ciò che non era contrario alla legge fondamentale della costituzione;

Che gl'impiegati al servizio della corte o dello Stato non potessero essere ammessi a sedere nelle assemblee nazionali, e neppure i pensionarii, ma che ai medesimi non venisse interdetto il diritto di petizione; fu anche spiegato che non cadessero sotto questa censura gl'impiegati al servizio della comunità.

Giova andare avanti in queste disposizioni di Leopoldo siccome sono da alcuni raccontate. Voleva bensì che la prerogativa di far grazia fosse riservata al granduca, ma solamente per diminuire o commutare le pene afflittive corporali ai delinquenti già condannati, ma non già le pecuniarie. Intendeva e voleva che fosse intieramente nel granduca soppressa la facoltà di rompere le sentenze dei tribunali nelle cause civili, e per talemodo veniva estirpato quell'enorme abuso, che ancora viveva e vive in certe monarchie, di violare a favore o pregiudizio di questo o di quello le decisioni della giustizia. Non sono da trasandarsi le parole veramente auree, se vere sono, che Leopoldo scrisse nel preambolo di questa sua legge constitutiva:

«Che solo un despota imbecille o malvagio può credersi superiore alla legge; ch'ella è fatta per regolare i diritti tra privati, e che il far nascere la legge in grazia di una parte non è altro che un abuso di potere, o l'effetto d'imprudenza di volubilità o di ignoranza di quei giudici che introdussero questa nuova specie di grazia, che non può aver luogo senza un torto o un'ingiuria verso dell'altra parte, a cui la legge in quel momento sta in favore.»

Seguono alcune sicurtà, perchè in ogni tempo la costituzione salva ed intatta conservare si potesse;

Che i successori al trono dovessero accettare e promettere l'osservanza della costituzione prima di assumere l'autorità e la corona;

Che i principi della famiglia regnante non potessero essere investiti di benefizii ecclesiastici di padronato regio, nè ammessi ad impieghi a servizio dello Stato, o civili fossero o militari;

Che lo stesso interdetto abbracciasse espressamente anche i principi di famiglie regnanti estere;

Che la truppa fosse tutta civica, nè che si potessero fabbricare fortezze, e quelle che già esistevano non potessero contenere artiglierie, nemmeno in forma di conserva.

Che le assemblee non solo potessero, ma dovessero esser guardiane della costituzione, ed obbligate fossero a denunziare le infrazioni ed a contrastarle, regolando in quali modi ed in quali forme speciali per tali casi essi dovessero procedere.

La pretesa suprema legge continuavadicendo: che non si potessero creare feudi, e quelli che venissero a decedere, non si potessero più conferire;

Che la libertà del commercio fosse un articolo di legge costitutiva, e che ad essa in nissuna maniera si potesse derogare, nè che limitare si potesse, nemmeno a tempo, nè direttamente nè indirettamente, nè con imposizioni o tasse, od altro qual si volesse vincolo o restrizione;

Che non si potesse creare debito pubblico nè per lo Stato, nè provinciale, nè comunitativo oltre di quello che già vi fosse;

Che neppure alcun debito creare si potesse sul patrimonio della corona, che si dichiarava inalienabile, indivisibile e incapace d'ipoteca.

Che, oltre i beni attribuiti a questo patrimonio, fosse instituito un supplemento sull'erario pubblico pel decorso mantenimento del granduca e della famiglia; ma che tale supplemento fisso fosse, nè mai aumentare si potesse;

Che lo Stato non potesse mai essere obbligato a supplire nè alle doti, nè alle spese pel mantenimento delle principesse, nè per lo stabilimento e promozioni dei principi della famiglia;

Che fosse proibito dalla costituzione il vendere o il dare in appalto le tasse, gabelle od imposizioni quali fossero o quali si volessero, e che parimente fosse dalla costituzione vietato il concedere in privativa alcun mercimonio o manifattura, neppure col profitto dell'erario.

Quanto poi alla legge politica rispetto agli altri Stati, non era fuggito dall'animo a Leopoldo il desiderio che la Toscana fosse in perpetua neutralità con le nazioni anche barbaresche così per mare come per terra, qualunque i tempi fossero, o quali le contingenze. Per la qual cosa stabilì:

Che non si potessero stipulare alleanze offensive nè difensive, o ricevere protezione o assistenza da potenze estere, e, molto meno, somministrare oltre i termini,della neutralità, che dal granduca erano stati chiaramente prescritti;

Che il territorio non si potesse ingrandire con l'acquisto di nuovi Stati; nè cederne o cambiarne parte alcuna.

Parve a Leopoldo, seguono a narrare, che per Livorno, porto di mare, scala di tanta mercatura, stanza e passaggio di tanti forastieri, in un particolare modo statuire si dovesse. Vogliono pertanto che ordinasse che la comunità di Livorno fosse esclusa dalle assemblee provinciali; dal che conseguitava, che esclusa anche fosse dall'assemblea generale; ma perchè le restasse qualche politico vincolo col rimanente della Toscana, e i suoi bisogni fossero conosciuti, ed ai medesimi provvedere si potesse, le furono lasciate le assemblee comunitative ed il diritto di petizione. Le domande mandate e vinte per partito delle assemblee comunitative di quella città dovevano mandarsi per mezzo di un oratore espresso, ma senza voce deliberativa, all'assemblea generale per esservi discusse e poste a partito.

Leopoldo decretò eziandio che, affinchè la pacifica Toscana, come pacifica era, così ancora paresse, si sopprimesse ogni vestigio di apparato di guerra marittima, salve soltanto le barche armate di sanità e di esplorazione ed altri servigi fra le isole e la costa. Dal quale decreto venne interamente annullata quella pazzia del correre armata mano dei cavalieri di Santo Stefano contro i seguaci di Maometto, che i detti cavalieri potevano bensì irritare, ma non ispegnere. Contuttociò, per sicurezza di quell'emporio di Livorno e delle terre di marina, pensò che utile e necessaria cosa fosse di farvi stanziare qualche soldatesca stabile, massime di bombardieri e, come adesso si dice, di artiglieri o cannonieri, e conservarvi o innalzarvi alcuna fortezza.

Tali erano, siccome narrano, i pensieri di Leopoldo circa il modo con cui egli intendeva di costituire la Toscana.


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