UNA CORTIGIANA FRA MILLE:VERONICA FRANCO
PARTE PRIMA
La mattina del 18 di luglio, dell’anno 1574, Venezia era tutta in fervore ed in giubilo: in quella mattina appunto l’anticadominanteadriatica doveva accogliere fra le sue mura ed ospitare il giovane Enrico di Valois, duca d’Angiò, e da poco più di tre mesi re di Polonia, il quale, abbandonata clandestinamente la sua buona città di Cracovia, e piantati in asso i suoi fedelissimi sudditi, se ne tornava a piccole giornate in Francia, per cingervi la maggiore corona che Carlo IX, suo fratello, morendo a ventiquattro anni, gli aveva inaspettatamente lasciata.
Le accoglienze e i festeggiamenti furono solenni e trionfali, degni in tutto dell’ospite augusto, degni di quella magnifica Signoria, degni della città più opulenta e fastosa che fosse allora in terra di cristiani; di quella che, nonostante alcun segno di già cominciata decadenza, nativi e forestieri s’accordavano a chiamare la regina dei mari, la meraviglia del mondo.
Già più giorni innanzi, il Senato aveva mandato incontro al principe fortunato, sino a Vienna, il segretario Bonriccio. Alla Pontebba, cioè al confine, cominciarono le onoranze maggiori. Patrizii illustri inchinarono il re al suo entrare nel territorio della Repubblica, e gli diederoil benvenuto; il duca di Ferrara gli andò incontro sino a Spilimbergo; e dovunque erano artiglierie, salve fragorose e ripetute diedero segno di esultanza e fecero plauso al suo passaggio. La sera del 17, un sabato, il re giunse a Murano, già celebre sin da allora per l’artificio mirabile de’ suoi vetri, e vi passò la notte. Il giorno seguente, il doge in persona, accompagnato da tutta la Signoria, andò a levarlo con una galea soprammodo pomposa e lo condusse al Lido, ove era eretto, davanti alla chiesa di San Niccolò, un magnifico arco trionfale, opera del famoso Palladio, e di contro all’arco una grande e bellissima loggia, con dieci colonne d’ordine corinzio, e con figurate all’intorno tutte le virtù. Al Lido fu celebrata una messa, e poi il re fu condotto in Bucintoro al palazzo Foscari, dove ogni cosa era apparecchiata per degnamente ospitarlo, e quaranta giovani gentiluomini erano ordinati a servirlo. La notte ci fu grande luminaria per tutto il Canal Grande, e nei giorni seguenti le feste succedettero alle feste, gli spettacoli agli spettacoli, ininterrottamente, con tanta magnificenza e pompa, con sì grande concorso e letizia di popolo, che nulla di simile si ricordava, nè s’era veduto mai, nemmeno al tempo dell’entrata in Venezia di Caterina Cornaro, già stata regina di Cipro. Il lunedì si fece una grandissima regatad’ogni sorte legni, cosa che al giovane re riuscì al tutto nuova, e incontrò molto il suo gradimento. Il martedì entrata solenne del duca di Savoja, che con molti altri signori veniva ad ossequiare il re di Francia. Il mercoledì sontuoso banchetto nelle sale del Palazzo ducale, preceduto da unTe Deumin San Marco, rallegrato damusiche e concerti inauditi, e seguito dalla rappresentazione di unatragedia in canto: le mense erano imbandite per tremila persone. Il giovedì il re fece visita al doge, e poi fu a una festa privata nel palazzo delPatriarca Grimani, del quale visitò anche il celebrestudio d’antichità , o vogliam dire museo. Il venerdì giunsero in Venezia il duca di Mantova e il Gran Priore di Francia, e il buon re ebbe il gusto di prender parte in Consiglio alla elezione dei magistrati, e diede palla d’oro per Giacomo Contarini, che fu fatto dei Pregadi: la sera fuochi artificiali meravigliosi davanti al palazzo Foscari. Il sabato visita all’Arsenale, che era ancora il primo del mondo, seguita dauna bellissima colazione di confezioni, e di frutti di zuccari, coi cortelli, con le tovaglie, coi piatti, e con le forcine(cosa non più escogitata)fatte di zuccaro. La domenica ballo nella sala del Gran Consiglio,dove si trovarono dugento gentildonne di singolar bellezza, tutte vestite di bianco, e adornate di perle, e d’infinite gioje di uno incredibil valore; poicolazione ricchissimacon sessanta maniere di confezioni. Il lunedì guerra di bastoni fra Castellani e Niccolotti al Ponte dei Carmini. Tutti i giorni, alle due ore di sera,singolarissimi concertidinanzi al palazzo Foscari[340].
Il martedì finalmente, decimo giorno dall’arrivo, si partì il re da Venezia, innamorato di quella città e di quel popolo, cattivato da quelle accoglienze, stupito di tante impareggiabili pompe, lasciando molti e cospicui pegni del suo gradimento e del suo favore, e giurando, affermano gli storici, ch’egli era per serbare eterna efedele memoria dell’onore fattogli e della dimostratagli benevolenza. Ma gli storici che diedero particolareggiato ragguaglio di quegli avvenimenti memorabili; gli storici che ricordano come il re visitasse nel Fondaco dei Tedeschi il banco di quei Fugger, ricchi sfondolati, i quali, usi di soccorrere di denari imperatori e papi, potevano anche a lui far comodo di cento o dugentomila fiorini, e come comperasse da uno di quegli orafi di Rialto uno scettro di grandissima valuta e di mirabil lavoro; gli storici, dico, non accennano neanco di passata a un altro fatto del principe, fatto che può avere poca importanza per la storia di Polonia e di Francia, ma che per noi ne ha moltissima. Un bel giorno, ma più probabilmente una bella notte, il giovane re, abbarbagliati gli occhi dallo sfolgorio dei drappi d’oro, degli ostri, dei giojelli, delle argenterie, delle luminarie e dei fuochi artificiali; intronati gli orecchi dalle lunghe dicerie, dagli innumerevoli versi recitati in suo onore, daisingolarissimi concertie dallo sbombardamento delle artiglierie; imbuzzito a furia di desinari interminabili, e dicolazioni ricchissime; leggermente fastidito delle cerimonie ufficiali, e, si può credere, messo in uzzolo dalla vista di tante belle patrizie, sentì desiderio di alcun gaudio più tranquillo e più intimo, e uscito alla chetichella dal miracoloso palazzo che ancora si specchia nell’acque del Canal Grande, se n’andò, guidato senza dubbio da un Mentore servizievole e discreto, in contrada di San Giovanni Crisostomo, e quivi picchiò all’uscio di una casa di onesta e decorosa apparenza, entro la quale fu immantinente ricevuto. In quella casa abitava Veronica Franco, veneziana di nascita, cortigiana di professione, poetessa per inclinazione e per ingegno. Il serenissimo doge e l’almo Senato non avevano pensato che Enrico di Valois, re di Polonia e di Francia, non passava il ventesimoterzo anno dell’età sua.
La notizia del fatto memorabile noi la dobbiamo alla Veronica stessa, la quale, in una lettera scritta appuntoall’invittissimo e cristianissimo Re Enrico III, e che è la seconda del suo volume diLettere familiari a diversi, ricorda con legittimo orgoglio il giorno felice in cui egli degnò di sua regale presenza l’umile abitazionedi lei. La Veronica non entra in altri particolari circa il colloquio; ma noi abbiamo ragione di credere che il re ne rimanesse contento, perchè in partirsi tolse un ritratto di lei, condotto in ismalto, e fece moltebenigne e grazioseofferte, le quali non sappiamo che seguito avessero. Nella lettera ella promette di dedicare a lui un suo libro, e gli manda intanto due sonetti, nel primo dei quali la visita di lui è assomigliata alle visite che Giove si degnava di fare in antico alle povere mortali, e nell’altro ella esprime il desiderio di alzarfuor del mondoesopra il cielocon le sue lodi il giovane eroe
In armi, e in pace, a mille prove esperto.
In armi, e in pace, a mille prove esperto.
In armi, e in pace, a mille prove esperto.
Ma che donna mai era cotesta Veronica, e quali le sue prerogative, perchè un re coronato, ospite della più illustre e possente delle repubbliche, andasse, in occasione di tanta solennità , a visitarla nella propria casa di lei, ne togliesse come grato ricordo il ritratto, le facesse graziose e generose profferte? Che donna era cotesta, la quale poteva farsi lecito di scrivere a cotal re una lettera in cui quella visita e quelle altre particolarità erano ricordate, poteva offrire e promettere un libro in cui ella, Veronica, avrebbe celebrato e glorificato quel re, e poteva far pubblica quella lettera per le stampe, di maniera che a ognuno fosse dato vederla? Se noi diciamo ch’ella era una cortigiana, come innegabilmente era, ci par di dire cosa la quale non solo non giustifichi e non ispieghi i portamenti di lui e di lei, ma dovrebbe, piuttosto, far supporre di lui e di leiportamenti in tutto diversi. Ora, nè il re mostra di vergognarsi della famigliarità ch’egli ha con la cortigiana, nè la cortigiana mostra di sospettare che il re possa vergognarsene, e che per conseguenza s’addica a lei un prudente riserbo e una lodevole discrezione. Ma se così è, vorrà dire che quel nome di cortigiana, non ha, o non aveva allora, il pessimo significato che gli si suole attribuire; vorrà dire che la cortigiana non era giudicata così severamente come pare a noi che dovrebb’essere giudicata, e che il più mite e benevolo giudizio le permetteva di tenere nella civil società un luogo che non avrebbe altrimenti tenuto, di godere immunità e benefizii che non avrebbe altrimenti goduto.
Procuriamo dunque, prima di andare innanzi, di farci un giusto concetto di ciò che fosse la cortigiana nel Cinquecento, e gioviamoci a tal fine delle testimonianze e dei giudizii dei contemporanei. Tali testimonianze e tali giudizii non sempre sono concordi, anzi si contraddicono spesso; ma se noi riusciamo ad intender bene le ragioni che variamente muovono giudici e testimoni, le contraddizioni si spiegheran facilmente, e non ci torran di conoscere il vero delle cose. La digressione sarà un pochino lunga, ma, oso sperare, non nojosa; e se, giunti al termine di essa, avremo acquistato della cortigiana, dei suoi costumi, della sua condizion di vita, una nozione più piena e più esatta che prima non avevamo, ci riuscirà incomparabilmente più agevole intender l’animo e la vita di Veronica Franco, alla quale allora ritorneremo[341].
Sperone Speroni, in una Orazione che compose contro le cortigiane e le innumerevoliloro opere irrazionali, esce a un certo punto in queste formali parole: «Dico adunque..... che la cortigiania delle male femmine è una antica, ma vile e sozza professione, novellamente di gentil nome adornata. Scorti altra volta latinamente e meretrici per vero nome solea chiamarle la Italia; ma per più vero e più proprio si nominavano peccatrici. Io veramente sendo fanciullo con tal disprezzo sentia parlarne per le contrade, mentre passavano alla sfuggita, che quelle istesse, che ogni vergogna parea che avessero per niente, dalla natura sospinte, che razionali l’avea pur fatte, al lor dispetto arrossavano; ed era tanto cotal rossor vergognoso, che vincea l’altro, ond’elle il viso si ricopriano: or non so come, o per qual cagione l’uso del mondo, che in fatto e in detto è corrotto, le voglia chiamar cortigiane»[342]: egli, lo Speroni, le chiama invecemonstri infelici. Poniamo che in questalamentazione ci sia parecchia retorica, e che nel tempo in cui l’autore di essa era fanciullo, cioè nei primi anni del secolo XVI, lepeccatricinon fossero così pronte ad arrossire come egli pretende; di vero c’è ad ogni modo una cosa per noi molto importante, anzi due: la prima, che l’uso del mondo voleva allora si chiamassero cortigiane quelle che in passato si solevano chiamar peccatrici (o altrimenti, chè lo Speroni non si cura, o forse non si degna, di ricordare altri nomi); la seconda, che queste cortigiane erano imbaldanzite molto, e non si vergognavano più tanto di loro condizione come in passato se n’erano vergognate; il che non vuol dir altro se non che quella condizione sembrava molto men vile agli occhi lor proprii e agli occhi altrui.
Il mutamento del nome rivela in questo caso un mutamento profondo avvenuto nelle idee e nella vita. Il nome dipeccatriceera suggerito da certi concetti fondamentali della credenza religiosa e della morale cristiana, e implicava biasimo assoluto, senza temperamento alcuno: il nome dicortigianaè suggerito da tutt’altri concetti, in massima parte contrarii a quelli, e non solo, per sè, non implica biasimo, ma, anzi, implica lode, e, starei per dire, glorificazione. Esso rimanda senz’altro al Rinascimento, alla sua coltura, alle sue tendenze, al nuovo intuito delle cose, e al nuovo sentimento della vita che quello recò nel mondo. In fatti, dov’è che la coltura del Rinascimento, e la vita informata a quella coltura, riescono più intense, più piene, e raggiungono la perfezione loro? Nelle corti e intorno alle corti. E qual è l’uomo in cui meglio si personifica quella coltura, e che più pienamente sa vivere quella vita? Il cortigiano perfetto, quale l’ha descritto nel famoso suo libro Baldassar Castiglione. Ora, per sè stesso, il nome di cortigiana non diversifica da quello di cortigiano se non pel genere; è, come quello, nomedi tutto onore, e suggerisce, al par di quello, l’idea (molte volte contraddetta dai fatti, nol nego) che la persona designata per esso sia persona ornata d’ogni pregio e virtù, persona compita, della cui conversazione nessuno s’ha a vergognare, come essa non s’ha a vergognare della sua qualità .
Il Rinascimento fiorito chiama dunque con nome onorifico la donna che l’età precedente chiamava con nome d’infamia; al qual proposito non si vuol dimenticare che un altro nome onorifico viene a lei dato nel Cinquecento, ed è quello di signora. Ma qui non si tratta di un semplice mutamento di nome, come potrebbe a prima giunta sembrare, e come, a torto, lo Speroni vorrebbe lasciar credere. Sotto il nome mutato c’è la cosa anch’essa mutata; e se la cortigiana rimaneva pur sempre una peccatrice, non era più la peccatrice di prima. Vero è che, l’uso degenerando in abuso, il nome di cortigiana fu molto spesso dato nel Cinquecento a tutte le donne di mala vita, indistintamente; ma di quanti altri nomi, serbati in principio a un uso particolare, non è avvenuto lo stesso?[343]. Tutti i nomi chehanno dell’onorevole vanno soggetti a indebite appropriazioni, a illegittime estensioni di significato. Da altra banda, se le donne tutte di mala vita furono spesso nel Cinquecento chiamate cortigiane, non è men vero, che si cercò, allora stesso, con qualificazioni e con aggiunti di più e men felice invenzione, di ripristinare le distinzioni opportune, e toglier di mezzo l’equivoco. Così è che in certo censimento della città di Roma, fatto ai tempi di Leone X[344], si trovano le denominazioni dicortesana, o dicuriale, senz’altro, che dicono, l’una in volgare, l’altra in latino, il medesimo; dicortesana puttana, dicortesana da lumeoda candela, e dicortesana onesta. A noi quell’accozzo dicortesanae dionestasembra veramente una cosa assai strana; ma ai contemporanei di Leone X non sembrava così. Giovanni Burchard, maestro di cerimonie di Alessandro VI, e vescovo di Città di Castello, narra una curiosa storia di certa Cursetta romana, da lui chiamata, senza esitazione alcuna,meretrix honesta, e narra pure come l’ultima domenica d’ottobre dell’anno 1501, vigilia d’Ognissanti, cenarono col duca Valentino, nel Palazzo apostolico, cinquantameretrices honestae, cortegianae nuncupatae, le quali dopo cena danzarono ignude e fecero altre prove di lor valentia e di lor arte in presenza di esso duca, della sorella di lui Lucrezia, e del padre di entrambi, il buon pontefice Alessandro VI[345].Questo passo del famoso diarista prova, tra l’altro, che il nome di cortigiana era venuto in uso, secondo ogni probabilità , già qualche anno prima del 1500, e che lo Speroni assegnava a quel nome un’origine troppo tarda[346].In un libro di memorie della famiglia Chigi, scritto da quel Fabio Chigi che poi fu papa col nome di Alessandro VII, la famosa Imperia è chiamatanobilissimum Romae scortum[347]. Il censimento testè citato fa anche ricordo dicortigiane piacevolie dicortesane della minor sorte, e usa altri nomi che non accade ripetere. Da canto suo Marin Sanudo chiama in un luogo de’ suoiDiariile cortigiane di lussoputtane sontuose, eonorata e nominata meretricechiama in un altro certa signora Angiola. Una Lista fiorentina dell’anno 1569 classifica le meretrici in ricche, mediocri e povere[348], e le ricche sono per lo appunto le cortigiane oneste.
Vediamo dunque un po’ più da vicino qual fosse la condizione, quali fossero i costumi e i portamenti di queste cortigiane oneste, o se troppo dispiace l’associazione di quel sostantivo e di quell’aggettivo, delle cortigiane senz’altro, avvertendo che noi non vogliamo badare ora se non a quelle cui tal nome appartiene più ragionevolmente, a quelle cioè che debbono in molta parte il carattere e l’esser loro alla civiltà del Rinascimento. Delle altre, più numerose assai, cui quella civiltà non educò, non trasformò, non vogliam tener conto.
Chiamata a vivere in mezzo ad una società in cui la coltura era largamente diffusa, e che aveva la coltura in grandissimo pregio, la cortigiana doveva esser colta, tanto più che le donne oneste erano, in certe classi, spesso coltissime. Nella commedia del Guarini intitolataL’Idropica, Loretta, che è una figura non molto viva, ma, se si può dire, molto corretta di cortigiana compita, così parla di sè: «vedendo mia madre (perchè già la sua macina faceva più crusca assai, che farina) la buona piega della vita mia, pensò di rinverdire nella mia giovinezza le sue passate prodezze: ed avendomi fatte imparare le sette arti liberali, aperse casa a tutta Vicenza, cominciando a tener trebbj d’ogni sorta»[349]. La famosa Imperia, fiorita nei primi anni del secolo, aveva appreso a compor rime volgari da Niccolò Campano, detto lo Strascino, ed era in grado di leggere, sembra, gli autori latini. Lucrezia, soprannominataMadrema non vuole, sapeva riprendere chiunque non parlasse secondo il buon uso, o quello che a lei sembrava il buon uso, e un cotal Ludovico, il quale fa professione di praticar cortigiane, dice di lei in uno deiRagionamentidi Pietro Aretino: «ella mi pare un Tullio, e ha tutto il Petrarca e ’l Boccaccio a mente, ed infiniti e bei versi latini di Virgilio e d’Orazio e d’Ovidio e di mille altri autori»[350]. Lucrezia Squarcia, veneziana, ricordata in certaTariffa, si faceva vedere
Recando spesso il Petrarchetto in mano.Di Virgilio le carte ed or d’Omero,
Recando spesso il Petrarchetto in mano.Di Virgilio le carte ed or d’Omero,
Recando spesso il Petrarchetto in mano.
Di Virgilio le carte ed or d’Omero,
e spesso disputava del parlar toscano[351]. Una Nicolosa, ebrea, ricordata ancor essa dall’Aretino, leggeva i salmiin ebraico[352]. Tullia d’Aragona e Veronica Franco hanno i nomi loro registrati onorevolmente nelle storie letterarie. Camilla Pisana aveva composto un libro e datolo a correggere a Francesco del Nero[353], e le lettere di lei che si hanno a stampa sono scritte con un fare un po’ caricato, ma non prive di eleganza, con latinismi frequenti e con intere frasi latine. Ercole Bentivoglio indirizza a una signora Agnola, veneziana (forse Angela Zaffetta) il suo capitoloDella lingua tosca, ed esprimeva il desiderio d’imparare da lei il dolce e garbato dialetto di Venezia. Se s’ha a credere ad Alfonso de’ Pazzi, Tullia d’Aragona, non solo faceva correggere le sue scritture dal Varchi, ma col Varchi insieme studiava e lavorava:
La Tullia, il Varchi ed Ugolino e leiHan fatto lega e studian tutta notte,E voglion pur che i ranocchi sian botteE che gli etruschi non siano aramei[354].
La Tullia, il Varchi ed Ugolino e leiHan fatto lega e studian tutta notte,E voglion pur che i ranocchi sian botteE che gli etruschi non siano aramei[354].
La Tullia, il Varchi ed Ugolino e lei
Han fatto lega e studian tutta notte,
E voglion pur che i ranocchi sian botte
E che gli etruschi non siano aramei[354].
Vero è che taluna, non riuscendoci da sè, si faceva comporre da qualche letterato amico le lettere e i versi.
Ma la cortigiana di recapito non si contentava della sola coltura letteraria; essa doveva ancora andare adorna di altrevirtù, come allora dicevasi; cantare, se la natura le aveva fatto dono di bella voce[355], sonare uno o più strumenti, danzare con grazia, e usare poi sempre soavità nel parlare, e garbatezza nei modi. Bisognavache, stando almeno alle apparenze, si potesse dir sempre di lei ciò che il Lasca diceva di Nannina Zinzera[356]:
D’atti è sì piena, e modi signorili,Che come l’ombra dal sol fuggir suole,Fuggon da lei le cose basse e vili;
D’atti è sì piena, e modi signorili,Che come l’ombra dal sol fuggir suole,Fuggon da lei le cose basse e vili;
D’atti è sì piena, e modi signorili,
Che come l’ombra dal sol fuggir suole,
Fuggon da lei le cose basse e vili;
e ciò che il Coppetta diceva a Ortensia Greca[357]:
E che voi non volete, a tutti è espressoO meccanica cosa, o men ch’onestaFar, nè lasciar che vi si faccia appresso.
E che voi non volete, a tutti è espressoO meccanica cosa, o men ch’onestaFar, nè lasciar che vi si faccia appresso.
E che voi non volete, a tutti è espresso
O meccanica cosa, o men ch’onesta
Far, nè lasciar che vi si faccia appresso.
Aveva dunque torto il pedante Cinzio di certa commedia del Domenichi a dire:Le cortigiane non sono cortigiane nè cortesi[358].
La cortigiana non aveva obbligo d’essere letterata e scrittrice; ma doveva avere lo spirito pronto e la lingua sciolta; doveva sapere coi vezzi, col brio, con l’arguzia, coi modi affabili e accorti, col vario uso delle sue varie virtù, invaghire i cortigiani, ammaliare i letterati, imbertonire i prelati, intrattenere un crocchio, prender parte a una disputa, dar anima a una festa. L’Aretino, scrivendo a una Zufolina, amicissima sua, accenna allo scaltrito ingegno, alla arguta festività , alla signorile creanza ch’ella ebbe dall’aria del toscano paese, dallanaturae dallapratica, e dice tra l’altro: «i Duchi e le Duchesse se intertengano con lo intertenimento dellevostre chiacchiare molto insalate e molto appetitose; sentenzie che fumano vi scappano di bocca e tra i denti. Di pinocchiato, di savonia, e di marzapane sono le ciancie che voi date a qualunche si crede che voi siate una baja»[359]. E il Calmo scriveva nel suo vispo dialetto a una madonna Vienna Rizzi, che da Venezia s’era tramutata in Roma: «el me par da vederve tutta aierosa, maistra de motizari, astuta de resposte, cativeta de dar canate, lenguina piena de acenti toscani, e baldanzosa con chi ha del mobele del re Mida»[360]. Della famosa Isabella de Luna, spagnuola, che aveva viaggiato mezzo mondo, era stata a Tunisi e alla Goletta, e aveva un tempo seguitata la corte dell’imperatore in Germania e in Fiandra, dice il Bandello che in Roma era tenuta «per la più avveduta e scaltrita femina che stata ci sia già mai». E soggiunge: «Ella è di grandissimo intertenimento in una compagnia, siano gli uomini di che grado si vogliano; perciocchè con tutti si sa accomodare e dar la sua a ciascuno. È piacevolissima, affabile, arguta, e in dare a’ tempi suoi le risposte a ciò che si ragiona, prontissima. Parla molto bene italiano; e se è punta, non crediate che si sgomenti, e che le manchino parole a punger chi la tocca; perchè è mordace di lingua, e non guarda in viso a nessuno, ma dà con le sue pungenti parole mazzate da orbo»[361]. Messer Matteo reca qui e altrove[362]le prove di ciò che asserisce. Non meno arguta, nè menomordace di linguaera la Giulia Ferrarese, madre di Tullia d’Aragona. Narra il Domenichi: «Fu fatta la strada del popolo in Roma, lastricata da i tributi che le puttanepagavano: nella quale scontrando la Giulia Ferrarese una gentildonna, l’urtò un poco. Allora la gentildonna alterata cominciò a dirle villania. Rispose la Giulia: Madonna, perdonatemi, che io so bene, che voi avete più ragione in questa via che non ho io»[363]. Non è dunque da stupire se la conversazione delle lor pari era desiderata e cercata, e se esse s’ingegnavano di trar profitto anche di quella. Il Montaigne, ch’ebbe a farne la prova, assicura che esse (almeno in Venezia) facevansi pagare i semplici colloquii quanto lanégociation entière[364].
Che le cortigiane dovessero avere in tutto o in parte levirtùtestè enumerate non parrà certo strano a chi ripensi i caratteri di quella civiltà , le usanze e i gusti degli uomini di quel tempo; ma che quelle stessevirtùs’avessero a trovare in qualche misura anche negli agenti di esse cortigiane, e procuratori d’amore in genere, ossia, per parlar più chiaro, nei mezzani, parrà strano a più d’uno. E pure era così. Quel bell’umore di Tommaso Garzoni narra della coltura del mezzano cose veramente miracolose e incredibili. «Imita il grammatico nel scriver le lettere amorose tanto ben messe, e tanto bene apuntate, che rendono stupore, nel dettar politamente, nel spiegar galantemente, nell’isprimer secretamente il suo pensiero..... Appare un poeta nel descrivere i casi acerbi con pietà di parole, i fatti allegri con giubilo di core..... Porta seco i sonetti del Petrarca, le rime del Cieco d’Adria, l’Arcadiadel Sannazaro, i madrigali del Parabosco, ilFurioso, l’Amadigi, l’Anguillara, il Dolce, il Tasso, e sopra tutto i strambottid’Olimpo da Sassoferrato, come più facili, sono i suoi divoti per ogni occasione..... Si reca dietro qualche sonetto in seno, un madrigale in mano, una sestina galante, una canzone polita, con un verso sonoro, con uno stil grave, con parlar facondo, con tropi eleganti, con figure eloquenti, con parole terse, con un dir limato, che par che il Bembo, o il Caro, o il Veniero, o il Gosellini l’abbiano fatto allora allora; e si mostra alla diva con lettere d’oro, con caratteri preziosi; si legge con dolcezza, si pronunzia con soavità , si dichiara con modo, si scopre l’intenzione, si manifesta il senso, e si palesa il fine del poeta..... Con la musica diletta sovente le orecchie delle giovani, mollifica l’animo d’ogni lascivia, ruina i costumi, disperde la onestà , infiamma l’alme di cocente amore, incende i spiriti di concupiscenza carnale; mentre si cantan lamenti, disperazioni, frottole, stanze e terzetti, canzoni, villanelle, barzellette, e si tocca la cetra, o il lauto, a una battaglia amorosa, a una bergamasca gentile, a una fiorentina garbata, a una gagliarda polita, a una moresca graziosa, e pian piano s’invita ai balli ed alle danze, dove i tatti vanno in volta, i baci si fanno avanti le parole secrete,ecc. ecc.»[365].
C’erano molti, gli è vero, ai quali queste ed altrettali virtù riuscivano sospette nelle cortigiane medesime. Pietro Aretino, il quale credeva che nelle donne, in generale,la coltura fosse stimolo al mal costume[366], e diceva «i suoni, i canti e le lettre che sanno le femmine» essere «le chiavi che aprono le porte della pudicizia loro»[367]; Pietro Aretino, dottissimo in questa parte, affermava non essere altro le virtù delle cortigiane, se non panie e lacciuoli tesi agli amanti[368]; e di tali virtuose diceva il Garzoni: «Onde pensi che nascano i canti, i suoni, i balli, i giuochi, le feste, le vegghie, i conviti, i diporti loro, se non da quell’intento d’aver l’applauso, il commercio, il concorso della turba infelice di questi amanti, che rapiti da quelle voci angeliche e soprane, attratti da quei suoni divini di arpicordi e lauti, impazziti in quei moti, e in quei giri loro tanto attrattivi, consumati in quei giuochi spassevoli, dileguati in quelle feste giulive, addormentati in quelle vegghie pellegrine, immersi in quei conviti di Veneree di Bacco, morti nel mezzo di quei soavi diporti, restino prigioni e servi del lor fallace ed insidioso amore?»[369]. Ma poichè, contrariamente alla opinione dei pochi, la opinione dei molti era che donna bella ed onesta non potesse avere, oltre alla bellezza e all’onestà , più degno ornamento di quello che viene dall’ingegno e dalla coltura, così non era possibile che i molti biasimassero nelle cortigiane ciò che nelle donne oneste lodavano, e temessero in quelle ciò che cercano in queste. Certo, vivendo in mezzo a una società in cui tutti eran colti, e in cui l’ingegno e la coltura erano tenuti sommamente in pregio, anche le cortigiane, se volevano aver seguito, bisognava si ponessero in grado di soddisfare al gusto comune, e perciò si può dire che l’esercizio e l’accorta ostentazione di quelle varie virtù che abbiam vedute facevano parte del loro mestiere, erano tra l’arti loro di richiamo più attrattive ed efficaci. Ma ciò non vuol già dire che esse non potessero compiacersi in quell’esercizio anche pel piacere che ci trovavano, indipendentemente dal guadagno che ne poteva venir loro. Erano anch’esse figlie del Rinascimento, e potevano, al pari di tante gentildonne onorate, i cui nomi la storia ricorda, legger libri, compor versi, coltivare la musica, per ragion di gusto naturale, e, ancora, per acquistar fama. Una prova di ciò si ha nel fatto che le cortigiane cercavano la compagnia e la famigliarità dei letterati assai più che l’utile loro non sembrasse richiedere. I letterati potevano, è vero, aiutarle in più di una occorrenza, potevano anche adoperarsi a metterle in vista; ma avevano, ad ogni modo, un ben grave difetto, quello, cioè, d’essere assai più ricchi di fama che di quattrini. Gli è che le cortigiane,se non tutte, almen le migliori, si compiacevano anch’esse in quelle cose in cui tutti si compiacevano; gli è che l’estro poetico poteva pungere parecchie tra esse come pungeva altri infiniti, e che la gloria, la quale assetava di sè tante anime, poteva destare un po’ d’ardore anche nelle anime loro.
Come non trascuravano le doti e gli ornamenti dello spirito, così pure non trascuravano le cortigiane, ed è naturale, le doti e gli ornamenti del corpo, e, generalmente parlando, nessuno di quei sussidii onde la loro professione poteva in qualche maniera avvantaggiarsi. Uno dei primi accorgimenti loro, non dimenticato ai dì nostri, era di cambiare il nome, spesso troppo umile e volgare, ricevuto col battesimo, in un nome sonoro e peregrino, il quale era come un suggello poetico impresso nella persona, chiamandosi Ginevra, Virginia, Isabella, Olimpia, Elena, Diana, Lidia, Vittoria, Laura, Domizia, Lavinia, Lucrezia, Stella, Delia, Flora[370]. A cotal nome, esse medesime, o altri, solevano aggiungere quello della città natale, o della nazione, dicendo Camilla da Pisa, Giulia Ferrarese, Beatrice Spagnuola, Angiola Greca e simili; anche i soprannomi erano frequenti, e alle volte assai strani. Il nome d’Imperia valeva quasi da sè solo un titolo di nobiltà [371]; ma LucreziaMadrema non vuolesi sottoscriveva Lucrezia Porzia, Patrizia Romana[372]. Tullia d’Aragona gloriavasi,e sembra a buon diritto, di aver nelle vene sangue, non pur cardinalizio, ma reale[373]. Angela Zaffetta si vantava figliuola del Procuratore Grimani, e Lucrezia Squarcia pretendeva a non so qualeantiqua e gran genealogia. Il Giraldi Cinzio narra di certa Linda, la quale essendo nata di sangue assai gentile, si diede a fare la cortigiana, per inclinazione[374]. Altre, che non avevano le stesse ragioni della Tullia e della Linda, cercavano egualmente di passar per nobili, della qual cosa molto si lagna lo Zoppino nel già citato Ragionamento di messer Pietro[375].
Che le cortigiane attendessero con ogni studio a farsi belle e piacenti, non fa bisogno dirlo. Rinfrescavano la carnagione, imbianchivano e rassodavano le carni con varie maniere di belletti e di lisci, votando, come dice il Garzoni, le spezierie di biacca, di sublimato, di più maniere di allumi, di borrace, di adraganti, di acque distillate, di aceti lambiccati, e non rifuggendo neanchedall’uso di certe sudicerie stomacose, alcune delle quali sono ricordate dallo Zoppino[376]. Tingevano in biondo i capelli con acque medicate di cui son pervenute sino a noi le numerose ricette, e assoggettandosi a tal uopo a pratiche lunghe e penose. Nei loro spogliatoi era un barbaglio e un arruffio di specchi, di ampolle, di bossoli, di pettini, di forbici, di giojelli[377], e l’aria affogava con l’alito acuto dell’acque rose, dell’acque nanfe, dell’acque muschiate, dei zibetti, degli ambracani, dei mirabolani, del bengiuì e di mille sorta di polveri, di pasticche, di saponi. Anzi afferma il Garzoni che tutta la casa olezzava di profumi. Nè si deve di ciò dar troppo biasimo alle cortigiane, le quali non facevano veramente se non seguitare l’usanza comune. Ercole Bentivoglio, parlando delle donne del tempo suo, diceben rarequelle che non adoperassero il liscio[378], e quanto all’uso d’imbiondirsi i capelli, era uso di tutte le donne italiane, ma più particolarmente delle veneziane[379]. Il Tansillo comincia una terzina di certo suo capitolo col verso
Donne che a farvi i capei d’or siete use;
Donne che a farvi i capei d’or siete use;
Donne che a farvi i capei d’or siete use;
e lodando le donne di Francia e di Germania, che non avevano, come le italiane, quella fantasia, dice:
Nessuna se ne ammala o se n’ammazzaPer disio di portar le chiome gialle[380].
Nessuna se ne ammala o se n’ammazzaPer disio di portar le chiome gialle[380].
Nessuna se ne ammala o se n’ammazza
Per disio di portar le chiome gialle[380].
Vero è che quella fantasia l’avevano già avuta le donne romane[381].
Nel vestire, le cortigiane ostentavano somma eleganza e lusso eccessivo. Usavano biancherie finissime e profumate, vesti di seta, di velluto, di drappo d’oro ricchissime, acconciature pompose, pellicce delle più rare, guanti preparati con la concia di gelsomini di Spagna, o di garofani, trine e pizzi preziosi di Venezia, e abbagliavano con lo scintillio delle anella, delle maniglie, delle collane, dei pendenti, dei diademi. Erano sempre le prime a seguitare le nuove fogge, le quali mutavano spesso[382]. Di tanto in tanto andava una legge, o un bando, che tentava por misura a tali pompe, vietando i panni più ricchi, gli ori e le gemme; ma leggi e bandi facevano poco pro, e coloro stessi che li avevano mandati fuori li lasciavan cadere. Le cortigiane non ricchetoglievano, per comparir fuori di casa, vesti e ornamenti a nolo[383].
Se eccessivo era il lusso del vestire, non minore era quello delle abitazioni, degne spesse di principesse, nonchè di cortigiane. Palazzi sontuosi ospitarono sovente le Olimpie, le Diane, le Ortensie più facoltose. Una Salterella pagava in Roma ottanta scudi d’oro di pigione; Isabella di Luna ne pagava cento, somma più che cospicua pel tempo. Angela Zaffetta avrebbe voluto in fitto il palazzo dei Loredano, in Venezia[384]. Le stanze erano non di rado tappezzate di arazzi preziosi, di broccati, di drappi d’oro, di cuoi dorati, oppure mostravano le pareti e le volte dipinte da mano maestra. In terra, su per le tavole, vedevansi tappeti turcheschi. I letti avevano lenzuola di renza finissima, padiglioni di raso, coltri di seta, cuscini ricamati, e ai letti facevano degna accompagnatura seggioloni di cremisino, di velluto listatod’oro, scranne scolpite, specchi riccamente incorniciati, spalliere pompose, cofani e stipi leggiadramente intagliati e intarsiati. Nelle credenze scintillavano le argenterie, le maioliche di Faenza, di Cafaggiolo, di Urbino, i vetri di Venezia; e raccolti in artificioso assetto, o sparsi in vago scompiglio, vedevansi per le stanze quadri, statue, vasi preziosi, armi eleganti, liuti e mandòle, libri sfarzosamente legati, ninnoli d’ogni sorta, e persino anticaglie, sebbene il Calmo raccomandasse alla signora Vienna di non accettarne in dono, se non quando tenessero poco luogo e valessero molti denari. Cagnuoli da tenere in grembo, gattini lindi e coi fronzoli, pappagalli loquaci, scimie ghiribizzose, e altri animali piacevoli o rari, empievano la casa dei giuochi e delle voci loro, e facevano festa alla padrona[385]. Negli atrii, nelle logge, nelle anticamere, era uno sfoggio ridente di fiori e di piante peregrine. Ancelle garbate vestivano e servivano la signora, accoglievano premurosamente le pratiche;un vario e numeroso servidorame attendeva agli altri servigi di casa. Camilla da Pisa aveva a’ suoi stipendi anche un cantiniere e un fattore. E la casa era provveduta d’ogni ben di Dio. Nelle cantine invecchiavano i vini più generosi, nelle dispense le più ghiotte leccornie s’accumulavano, così che a ogni ora del giorno, al primo apparire di un ospite gradito, era facile ammannire una colazion saporita, o una stuzzicante cenetta[386]. In tali case, in mezzo a così fatto lusso, accoglievano le cortigianegli amici e ammiratori loro, e com’erano esse di tutti i ritrovi eleganti, così tenevano ritrovi elegantissimi, a’ quali non mancavano ambasciatori e prelati, cavalieri e letterati, musici e ogni altra maniera d’artisti. Tullia d’Aragona, dovunque andasse, si formava intorno la sua piccola corte. Di certa Lucia Trevisan, morta in Venezia nell’ottobre del 1514, diceva il Sanudo: «cantava per eccelenzia, era dona di tempo, tutta cortesana, e molto nominata apresso musici, dove a casa sua se reduceva tutte le virtù»[387].
Questo s’intende naturalmente delle cortigiane maggiori, le quali, se erano così magnifiche in casa, possiam figurarci quali si mostrassero fuori. Uscivano in pompa magna, molte in isplendidi cocchi[388], o cavalcando ginnetti baliosi, e mule ingualdrappate e impennacchiate, con seguito da duchesse.Madrema non vuolesi tirava dietro ordinariamente dieci fantesche, altrettanti paggi e altrettante ancelle[389]. Un’altra cortigiana, di cui non ci è detto il nome, andava per Veneziain lunga processione, col maggiordomo inanzi, col paggio... e con quanti fanti e massarepotevaaccattar per tutta la vicinanza[390]. Così si recavano a diporto, alle feste, ai conviti, ai bagnipubblici, o stufe, come si chiamavano allora[391], alle chiese, le quali erano diventate luogo di ritrovo per esse e per quanti le praticavano, e la gente lasciava la messa per farsi loro d’attorno[392]. Gli amici andavano a levarle in casa e le accompagnavan per via, ingrossando la lor brigata di quanti nuovi ammiratori incontravano camminfacendo, e nel numeroso seguito non mancavano bravacci di professione, pronti a tirar l’arme in difesa delle padrone[393]. Le quali, se andavano a piedi, procedevanoa guisa di tante duchesse, con passi misurati, con andatura maestosa, appoggiando la mano famigliarmente sulla spalla di tale de’ loro accompagnatori, agitando con l’altra, se di state, la ventola dorata e dipinta, fatta a modo di banderuola, favellando con garbo, pompeggiandosi con grazia. Perciò aveva ragione quel buon tedesco, che parlando delle cortigiane di Roma, diceva che a vederle in istrada si sarebbero prese per donne dabbene[394]; e non aveva torto l’Antonia, quando esortava la Nanna a non dare altro stato alla figliuola, e le diceva: «facendola cortigiana di subito la fai una signora, e con quello che tu hai, e con ciò che ella si guadagnerà diventerà una reina»[395]. E i guadagni potevano veramente essere assai lauti. Molte cortigiane, anche non bellissime, arricchivano,comperavano case, e le appigionavano. Dice il Coppetta nel capitolo che ho ricordato pur ora: