CAPO II.

CAPO II.

Argini e difese da opporsi affinchè il contagio non s’accosti. Con quali diligenze se gli abbia a disputar l’ingresso e l’avanzamento. Entrato il morbo, tentativi per soffocarlo. Quarantena proposta a questo effetto.

Argini e difese da opporsi affinchè il contagio non s’accosti. Con quali diligenze se gli abbia a disputar l’ingresso e l’avanzamento. Entrato il morbo, tentativi per soffocarlo. Quarantena proposta a questo effetto.

Bisogna sulle prime figurarsi che nei sospetti e pericoli di peste una città si trova nello stato medesimo, come se fosse minacciata di guerra da un principe o popolo vicino di gran possanza e fierezza, che pensasse ad occupare e devastare il territorio di lei e in fine lei stessa; con questa sola differenza che i mali e danni d’una guerra vengonoregolarmente da chi è nimico e straniero; e quei della peste da chi regolarmente è amico ora straniero ed ora del paese, o da chi involontariamente vi porta la rovina anche sua. Ma chiunque vuol offendere la vita nostra e del popolo nostro, quantunque internamente non covi egli in seno sì barbara voglia, pure si presume nostro nimico; e si può o si dee tener lontano colla forza e metterlo in istato di non poterci nuocere atterrendolo, fermandolo, gastigandolo, ed anche rigorosamente secondo i differenti casi di maggiore o minore negligenza, malizia e fraude. Sicchè a guisa de’ pericoli della guerra s’ha ne’ pericoli della peste da adoperare ogni possibil forza e difesa, a fin di salvare il proprio distretto e la propria terra o città.

Allorchè dunque s’ode incrudelire questo terribil morbo in paesi contigui all’Italia, o di tal positura che possa di colà passare alle nostre città, convien subito mettersi in difesa e unirsi coi confinanti e coll’altre città italiane, per impedirgli l’entrata in Italia. Avendo il Signore Iddio separata coi monti e col mare questa grande e felicissima provincia dall’altre, non è a lei difficile il guardarsi e salvarsi dalla vicinanza o dagli assalti d’una peste, purchè la violenza sregolata dell’armi e degli armati non disordini e renda inutili le buone regole degl’Italiani e non venga per forza a rovinarci. Le diligenze che usa una città o provincia di frontiera in simili casi, sono non men difesa di lei, che difesa dell’altre, le quali stanno più addietro; e appunto le leggi della natura e delle genti ci obbligano tutti a simil difesa anche per salute de’ vicini.

Che se penetrasse in Italia, e si avvicinasse il contagio pestilenziale, coll’andar superando gli argini dell’altre città più esposte, allora la nostra dee raddoppiar le diligenze e difese, come se l’effettivo esercito o principe nimico venisse per assediarla e soggiogarla. Consistono tali diligenze in esigere lefedi della sanitàcon gran rigore, avvertendo bene che non vi sia frode in esse, e che per le persone del distretto sieno almen riconosciute e segnate dal curato della villa. Ne’ pericoli gravi sarà prudenza non solo il contrassegnar le fedi, ma ancora il bollarle con sigillo a posta, mettendovi anche numero d’abaco particolare e usando altre cautele. Accade pur troppo che alcuni concedono fedi le quali non contengono verità con aggravio ed inganno de’ vicini. Altri le falsificano, ed altri non sapendole ben leggere, o confrontare, restano delusi. Ne’ gravi sospetti non si ammette forestiero e nè pur terriero se non si sa di certo che egli sia dianzi stato per molto tempo in luogo sano. Parimente convien sospendere il commercio a luoghi sospetti, non accettando senza quarantena persone o robe che vengano di colà; e in levarlo affatto ai luoghi infetti di peste, con regolar solamente qualche comunicazione per le grascie e vettovaglie, se la necessità il richieda secondochè diremo più a basso. In oltre il costume è di mettere guardie a tutto il confine, distanti in maniera che nessuno possa entrare senza veduta e permissione dei deputati; di far battere da gente a cavallo la pattuglia ai confini; di tagliar tutte le strade che abbiano comunicazione col paese appestato, talmente che resti interdetto ad ognuno, sia forestiero, sia paesano,il venir di colà se non per la via che per necessità fosse stata destinata e riservata dai magistrati e sotto gli occhi di chi è deputato alla custodia de’ passi; di custodir bene le porte e mura della terra o città, chiudendo ancor le porte men necessarie, e di usar altre simili cautele e provvisioni che son triviali e notissime a tutti. Ma si avverta che riusciranno inutili le guardie, se non si farà buona guardia alle stesse guardie; cioè saranno necessarie persone d’autorità e d’attività che indefessamente facciano eseguir gli ordini e fare il suo dovere alle sentinelle e ai corpi di guardia, altrimenti la trascuraggine o venalità di costoro lascerà per poco entrare la peste e indarno si dirà poi: Bisognava fare così e così: io non credeva, e simili altre superflue scuse e inutili pentimenti.

Appresso è da osservare che per ben assicurarsi da questo non men fiero che fraudolento nimico bisognerebbe non contentarsi d’un solo trincieramento ai confini, ma disporne alcun altro più indentro e finalmente alle porte della terra o città, acciocchè se mai per negligenza o malizia delle guardie poste a’ confini penetrasse il male, non passi egli il secondo argine, o superato questo non s’inoltri al terzo e così al cuore del popolo. Si dee far quanto si può per custodire tutto il confin dello stato; ma perchè tal custodia suol riuscire pericolosa e difficile, ove i confini dell’una giurisdizione coll’altra son vasti e facili a superarsi, nel qual caso talvolta i forestieri e sovente i paesani poco scrupolosi e molto ingordi di guadagno passano e ripassano: perciò il più sicuro trincieramentosi dee credere che sia quello de’ monti, fiumi, canali grossi, fosse profonde e simili. Un grande argine facile a guardarsi, purchè si volesse far bene il suo ufizio, sarebbe per esempio il Po allorchè dalla Germania penetrasse la peste nell’Oltrapò, e il di qua da Po potrebbe agevolmente preservarsi. Ma conciossiachè in sì gravi pericoli non convien fidarsi molto de’ vicini, oltre alle guardie che dovrebbero porsi ai confini esposti di tutto lo stato del sereniss. Duca di Modena, bisognerebbe ancora metterle alle rive della Secchia e del Panaro e in una linea da tirarsi fra questi due fiumi, per custodir Modena, e lo stesso dovrebbon fare dal canto loro l’altre città e terre del suddetto stato, ai fiumi o canali o argini che paressero più proprj; affinchè se il confine dello stato non bastasse a tenere indietro il nemico, quest’altro più forte trincieramento l’arrestasse. Che se nè pur questo reggesse, le porte e mura della città sono e possono essere d’un antemurale fortissimo e sicuro, purchè si osservino accuratamente le regole prescritte dai saggi in tali congiunture, col non permettere commercio fra i cittadini sani e i forensi infetti e col non prendere le robe di questi se non colle cautele che si accenneran più a basso. E sopra tutto s’abbia ben l’occhio in ogni popolazione a certuni, le cui rendite, anzi il quotidiano vitto son riposte nel condurre continuamente da un paese all’altro o vettovaglie o bestiami o altre robe venali. Costoro anche colla forca sugli occhi vogliono continuare il loro mestiere, nè si può dire con che pregiudizio o pericolo della pubblica salute.

Anzi è da sapere che entrato il male anche nellacittà, qualora se ne accorgano per tempo i magistrati, si può sopire e per così dire affogare nei suoi principj, chiudendo e tagliando fuori dal commercio degli altri quelle case che avessero qualche persona infetta e le persone che avessero comunicato con esso lei o maneggiato sue robe. C’è di più, può anche darsi che col tagliare una contrada o un quartiere d’una città si preservi il rimanente degli abitanti. Ripullulato il contagio in Firenze l’anno 1632 si serrò nel quartiere ove esso faceva danno e in venti giorni tornò a restituirsi il commercio. Così nella peste di Roma del 1656 una porzione della città di là dal Tevere, scopertasi infetta, fu in una sola notte rinserrata e fatto un muro all’intorno con istupore e con inutili doglianze di quegli abitanti che se ne avvidero la mattina. Così in Venezia nella peste del 1576 declinando il male nella parte della città di qua dal canal grande, questa fu difesa con guardie dall’altra, ove tuttavia infieriva il male. Narra il Faustini nelle storie di Ferrara che del 1630 essendo già la peste in Verona, si dilatò la mortalità sino ad Ostiglia, da dove essendo passato a Ferrara un Veronese appestato, andò ad alloggiare in casa d’un suo compare abitante incontro alla chiesa di S. Antonio vecchio. Costui si pose a letto con febbre, e visitato da’ medici fu giudicato tocco della peste, siccome era in fatti, e in due giorni morì. Il perchè quel cadavero fu subito sepolto nella calce viva, e chi l’avea ricettato in casa fu condotto colla sua famiglia al lazzeretto fuori della città e chiusa la sua casa. Quindi si rinovarono le diligenze, e non restò per tal accidente presa dalla peste quellacittà, benchè il male si dilatasse poi sino a Melara e Brigantino, e passato il Po venisse ancora al ponte del Lagoscuro e in altre ville poco lungi da essa Ferrara. In somma convien tentare tutti i mezzi per vedere di opprimere sì crudele avversario, disputandogli a palmo a palmo il terreno come si fa nelle città assediate, delle quali, insin quando l’oste contraria s’è impadronita della fossa e de’ bastioni, a forza di tagliate e barricate si va mantenendo il cuore della città. Ma si ricordino bene tutti i principi e magistrati, essere un punto di somma importanza il non avere allora nè lasciar avere parzialità per alcuno, sia cavaliere, sia dipendente da’ ministri, sia privilegiato dal principe stesso. Un solo peccato d’indulgenza può portare l’eccidio a un pubblico tutto. Riuscì bene in Roma nella peste del 1656, perchè non si guardava in faccia ad alcuno.

Ma poniamo che il morbo, superato ogni riparo, ed entrato in una terra o città non si possa colle vie suddette soffocare, e che oggi uno, domani due o tre e in luoghi diversi dalla città, comincino a morir di peste, in guisa che resti solo ii gran pensiero di salvare da così fiero incendio i più che si potranno del popolo, allora è necessario che i magistrati con una pronta e ben pesata consultazione propongano l’ultimo de’ rimedi che son per accennare. Non è già esso da mettere in disputa, essendo efficacissimo e tale che si dee, purchè si possa, tosto abbracciarlo; ma solo è da esaminare se si abbiano o possano aversi mezzi per mettere in opera questo ripiego, il qual pure fu insegnato e praticato in vari luoghi con felicissimosuccesso dal P. Maurizio da Tolone cappuccino, siccome egli narra nel suo Trattato Politico della Peste, opera molto utile, stampata in Genova l’anno 1661. Consiste esso nel mettere in quarantena almeno tutto il basso popolo della città, dal quale, e non dai nobili e dalle persone comode, la sperienza fa troppo spesso vedere che il male è facilmente disseminato e introdotto anche nelle case de’ più guardinghi. Cioè dopo avere ordinato che chi vorrà in termine di alcuni giorni partirsi dalla città, possa farlo, si ha assolutamente da rinserrare nelle proprie lor case il volgo e i poveri tutti sotto pena della vita, con interdire ogni commercio fra una casa e l’altra, e con provveder poscia ai rinserrati bisognosi il vitto ed altro che occorra. Scorgendosi dipoi infetta alcuna d’esse case, quella colle robe sue e non le altre, si dovrà purgar coi profumi, avendo buona cura delle persone che, o ivi restano o si conducono altrove, siccome sospette del male. Che se anche nell’ordine più civile de’ cittadini fosse penetrata la peste, i medesimi si dovrebbono obbligare a questa medicinal prigionia.

Un gran bene si ricava da tal rinserramento, perchè così vien tolta l’occasion di conversare e di vicendevolmente imbrattarsi. I magistrati più facilmente esercitano le loro incumbenze; e si schivano le ladrerie costumate in simili tempi, nei quali la vil plebe si fa lecito ogni disordine e coll’appropriarsi le robe degli appestati, tira addosso a sè la morte e la comunica ad altri. Basta il tempo di quaranta giorni per recidere e soffocare il male, mentre chi è sano, si fa conoscertale dopo tal prova; e chi tale non era o avea in casa i semi del male o manca di vita o guarisce; ed espurgandosi immediatamente la sua casa e robe, si taglia la via al male di passare ad infettare altre persone e case. Il sequestrar la plebe minuta nella forma suddetta, può conservar la vita a loro e a tante altre migliaia di persone, le quali pel conversare potrebbono contrarre un morbo che sì facilmente si comunica per commercio o delle persone o delle robe. Dopo i suddetti quaranta giorni scorgendosi che non muore alcuno di peste, ed espurgati i luoghi e le robe o sospette o infette, si può rimettere come prima il commercio interno della terra o città.

Il punto sta, come dissi, in consultar bene se vi sia nerbo per provveder di vitto il popolo rinchiuso. Ma si osservi, essere di spesa ed impegno maggiore il mantenimento delle capanne e dei lazzeretti, i quali in fine non difendono la gente dalla morte, anzi talvolta servono a far morire chi non sarebbe morto o ad affrettargli il passaggio, e certamente non sono atti ad estinguere il male già penetrato ed allignato in una città. Nè la spesa di tal quarantena si troverà insoffribile alle prove, sì perchè moltissimi cittadini si saran già ritirati alle ville; e di quei che restano in città, buona parte sarà provveduta di vettovaglie, senza che i magistrati abbiano da pensare al loro sostentamento. Io per me non so precisamente, come riesca e fosse per riuscire in pratica e massimamente in città grandi, questo rimedio che in teorica mi comparisce sommamente utile, per non dir anche necessario. Ma sobene che nelle due pestilenze che tanto afflissero la popolata città di Milano negli anni 1576 e 1630 dopo esser morte tante migliaia di persone, non cessando il male, altro rimedio non si trovò per vederne il fine (e si noti bene) che quello di mettere in quarantena, cioè di rinserrar nelle sue case per quaranta dì tutto il popolo, sì nobile come ignobile a riserva de’ magistrati, ministri e serventi necessari: dopo di che restò oppressa e cessò affatto la pertinace mortalità, mantenuta fino allora dal commercio de’ cittadini, e spezialmente da quello della plebe e de’ poveri. Ma se infine bisogna ridursi alla quarantena o sia a tal rinserramento, per salvare le reliquie del popolo fin allora preservate dal comune incendio: quanto più gioverà e sarà convenevole quando mai si possa, il tentare lo stesso rimedio e scampo su i principj per vedere di mettere in salvo la cittadinanza tutta? Per compimento di ciò aggiungerò le parole stesse del soprammentovato cappuccino, il quale dopo aver consigliato e commendato questo ripiego, come atto a purgare dal contagio qualsivoglia città, così conchiude:La lunga pratica ed isperienza è quella che m’ha insegnato, non potersi dare rimedio nè più facile nè più efficace, nè più presentaneo di questo.


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