CAPO III.

CAPO III.

Alleggerire le città d’abitatori. Poveri se si abbiano da escludere. Libertà ai cittadini di ritirarsi in villa. Fuga utile e permessa a tutti, fuorchè alle persone necessarie per la repubblica.

Alleggerire le città d’abitatori. Poveri se si abbiano da escludere. Libertà ai cittadini di ritirarsi in villa. Fuga utile e permessa a tutti, fuorchè alle persone necessarie per la repubblica.

Passiamo ad altre provvisioni necessarie in sospetti di contagio. La prima d’esse ha da esser quella di alleggerir di gente la città. Appena s’odono casi di peste lontana sì ma che obblighi alle precauzioni delle fedi di sanità e ai rastelli o cancelli, si debbono licenziar dalla città, anzi da tutto quanto lo stato in termine di pochi dì, i birbanti, vagabondi, cingani, questuanti, lebbrosi, impiagati e simil sorta di gente che non eserciti qualche arte, e non voglia procacciarsi il pane se non col mezzo troppo comodo del mendicarlo. Tal proclama ha da essere per i forestieri, perciocchè ragion vuole che costoro non occupino essi il pane ai veri poveri del paese nelle strettezze d’una pestilenza; e non è un mancare di carità verso di quelli l’assicurarsi il più che si può che non venga meno la carità a’ poveri della patria sua, perciocchè nell’ordine della carità hanno questi da essere preferiti agli altri. Anzi in ogni buon regolato governo nè pure in tempi liberi da ogni sospetto di male si dovrebbono permetter coloro che non vogliono faticare, ma sì bene vogliono nudrirsi delle altrui fatiche nella terra non sua, con pregiudizio di chi è ivi cittadino, ed è veramente bisognoso e degno dell’altruilimosina. Facilmente bensì potrebbono mancare i magistrati alla giustizia e carità, se in pericoli di contagio volessero espellere fuori dello stato anche i poveri nativi o già divenuti cittadini della terra, essendochè questi sono parte della repubblica e hanno diritto d’essere soccorsi nella loro necessità dalla lor patria. Nè gioverebbe il dire che non lavorano; poichè, qualora possono lavorare, ha da imputare a sè il principe, se non gl’impiega e costringe alla fatica lor conveniente; e quando non sieno atti a guadagnarsi il pane colla fatica a cagione delle loro infermità, tutte le leggi della carità insegnano che s’hanno da alimentare coi soccorsi e colle fatiche dei sani della sua terra. Anzi se avvenisse che trovandosi oramai chiusi tutti i passi non potessero sloggiare dal paese i poveri forestieri, non è lecito il cacciar via nè pur questi; ma si debbono tollerare e soccorrere in tal congiuntura, essendo colpa dei soli magistrati il non avere per tempo scaricato il paese di queste bocche. Io non intendo però con questo di riprovare la sentenza del Ripa legista, il quale insegna doversi anche espellere i poveri del paese che possono e non vogliono lavorare; perchè, dice egli, e dice il vero, costoro coll’andar qua e là questuando son quelli che seminano e dilatano il contagio. Quando non si potesse provvedere a questo inconveniente con altro che con iscacciarli, allora sarà lecito il farlo. Ma si potranno trovar de’ rimedi men crudi di questo.

Avvicinandosi poi a gran passi la peste, o accaduto qualche caso in città, onde si vegga evidente il rischio di non poterla cacciar fuori o tenerlalontana, hanno alcuni osato d’intimar la partenza dalla città a chi non ha maniera di sussistervi; ed altri nè pure han voluto dar licenza ai cittadini di ritirarsi alla campagna e alle loro ville. L’uno e l’altro ripiego è crudele ed ingiusto. Il primo, perchè si espone la povera gente ad un manifesto pericolo di morir poscia di fame o di stento per la campagna; il secondo, perchè si espone troppa gente al pericolo d’infettarsi in mezzo al commercio e alle morti frequenti d’una città. Sarà pertanto convenevole e giusta la determinazione di permettere a chiunque voglia il ritirarsi fuor della città, e il cercare ricovero in parte men pericolosa. Questo può essere ugualmente utile a chi va e a chi resta.

Imperocchè certa cosa è che il contadino o cittadino in campagna, siccome segregato dagli altri e lontano dal concorso e commercio di chi può attaccargli il male, purchè si abbia buona cura nel praticar co’ vicini, e non porti seco nella solitudine il veleno già preso, si può con gran facilità preservare illeso dalla pestilenza. All’incontro diminuendosi il numero degli abitanti nella città, men pascolo viene a restare al morbo, e men occasione di comunicarlo vicendevolmente l’uno all’altro. Volesse perciò Iddio che in sì terribil congiuntura si potesse trovar modo, che o tutti abitassero largo in una terra, o città sorpresa dal contagio, o che coll’uscire alla campagna tanto si diradasse il numero degli abitatori che divenisse ancora più rado il commercio di chi resta in essa terra o città. La conversazione e il concorso son quelli che fomentano e dilatano di troppo il male quantunque ancorasi serrino le strade e si suggellino le case; e dove le città sono di gran popolazione, e le famiglie, massimamente de’ poveri, sono strette di casa e sono affollate, quivi la peste fa incredibile strage. Perciocchè è da sapere che un infermo di peste può infettar tutta l’aria della camera ove si ricovera, e con ciò venir ad infettar le vicine se quell’aria può passarvi dentro; e perciocchè i poveri non hanno via per l’ordinario di segregarsi dagli appestati della lor famiglia, però agevolmente restano anch’essi trafitti; e col moltiplicarsi l’aria infetta, giungono talvolta a penetrar nelle abitazioni contigue gli spiriti velenosi colla rovina ancora di chi rinserrato nella sua stava in diligente custodia di sè stesso e de’ suoi.

Perciò nelle contrade più strette e ricolme di poveri abitanti, entrato che vi sia il male, si vede in poco tempo una spaventosa desolazione; e le città più popolate restano a proporzion più afflitte che l’altre men popolate, non solo per la maggior copia delle persone, ma ancora per la maggior facilità, necessità, e strettezza del commercio e delle abitazioni. Così Venezia e Milano nella peste del 1630 diedero uno spaventoso spettacolo di morti; e così avvenne anche a Napoli e a Genova in quella del 1656, laddove Roma in questa ultima non ebbe che circa sedicimila estinti, non tanto per le ottime diligenze ivi usate, quanto ancora per l’abitato che è largo. Il perchè torno a dire che l’alleggerire il più che si possa la città d’abitanti all’arrivo d’un contagio, questo è uno de’ più utili mezzi per levare il pascolo alla morte che s’avvicina, e per conservare più facilmente in vitachi esce e chi resta. E qui si vuol far menzione delle famosepillole dei tre avverbjdecantate da tutti coloro che trattano della peste, come di quel rimedio e preservativo che si conosce tosto pel più efficace, e più sicuro di quanti mai si possano prescrivere contra la pestilenza nel governo politico e medico. Bisogna prenderle per tempo, e a tempo; e così prese certo è che faranno un mirabile effetto. Consistono esse in questi tre avverbjmox, longe, tarde, cioè nel fuggir presto, andar lontano e tornare ben tardi. Ciò fu espresso nel seguente distico:

Hæc tria tabificam tollunt adverbia pestem,Mox, longe, tarde, cede, recede, redi.

Hæc tria tabificam tollunt adverbia pestem,Mox, longe, tarde, cede, recede, redi.

Hæc tria tabificam tollunt adverbia pestem,

Mox, longe, tarde, cede, recede, redi.

Sel tengano a memoria i lettori; e giacchè la fuga in tali casi è lecita, e nello stesso tempo utile al pubblico e al privato, hanno i principi e magistrati da permettere che tutti i cittadini a’ quali non manchi la comodità di farlo, si ritirino alle lor ville e al largo della campagna, ricordandosi ancora di quelle parole d’Ezechiele, cap. 7:Qui in civitate sunt, pestilentiæ et fame devorabuntur, et salvabantur qui fugerint ex ea.

Da questa general regola e permissione però si debbono eccettuar le persone, che trovansi per lo speziale ufizio loro impegnati ed obbligati al servigio della repubblica, e sono in sì funesta congiuntura necessarj all’altrui conservazione e governo. Tali sono i magistrati, i parochi, i medici, i cerusici o barbieri, i notai, le levatrici, o sia le mammane ed altre simili persone, alle quali si suole e si dee con pubblico editto vietare l’absentarsi dalla città. In oltre, secondochè occorra il bisogno,si possono i gentiluomini ed altri cittadini (seguitando però sempre la giustizia distributiva) obbligare a certi ufizj e guardie che sieno credute necessarie, ciascuno per la sua parte e rata di tempo. E sono specialmente tenuti i nobili, siccome persone che si presumono più fedeli e più zelanti del ben pubblico, alla guardia delle porte, alle quali si avverta che non dee permettersi il giocare, nè il dar ivi colezioni, nè il far bagordi; siccome ha anche da essere vietato ad ogni ufiziale o ministro il prendere mancia alcuna dai passeggieri.

Finalmente (e si avverta bene) se sono esentati i cittadini dal trattenersi nelle terre e città in sì pericolosi tempi, non si hanno già da credere esentati anche da alcune leggi della carità cristiana, restando allora nelle città i mendichi, gli artigiani, e tanti altri soliti a guadagnarsi il pane alla giornata, perchè loro manca la comodità di ritirarsi altrove; e dall’altro canto potendo cercar asilo nella campagna i soli meglio stanti: ognuno intende che viene a mancare alla povera gente della città, chi loro faccia limosina, e somministri da lavorare, e perciò vien loro meno il granaio e la dispensa di ogni giornata, con rimaner tutti esposti al quotidiano pericolo di morir di fame, non meno che di pestilenza. Pertanto non è un solo consiglio, ma ancora un precetto chiaro della carità cristiana che stando anche i cittadini fuor di città, aiutino in sì estrema necessità, e soccorrano i rimasi nella medesima, ciascuno secondo le forze sue, siccome più precisamente diremo a suo luogo.


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