CAPO IV.
Rimedj curativi della peste. Nessuno specifico e sicuro finora trovato. Periodo delle pestilenze in una città, principio, mezzo e fine e lor diversi effetti. Medicamenti come trovati efficaci in una peste e non in altre. Salassi e medicine solutive, rimedj allora o pericolosi o nocivi.
Rimedj curativi della peste. Nessuno specifico e sicuro finora trovato. Periodo delle pestilenze in una città, principio, mezzo e fine e lor diversi effetti. Medicamenti come trovati efficaci in una peste e non in altre. Salassi e medicine solutive, rimedj allora o pericolosi o nocivi.
Veniamo ora a trattar dei medicamenti e rimedj per curare chi è già infetto, cioè preso dal morbo pestilenziale. Per tempo sono obbligato anch’io ad intonare quella spiacevol sentenza, cioè: che non si dà antidoto alcuno specifico, il quale per sua particular qualità sia atto a preservare ogni persona dalla peste, e che molto meno si dà alcun determinato rimedio per guarire chi è già colpito dalla medesima. Perciò tutto quello che ha mai saputo pensare e suggerir qui la medicina e la sperienza, consiste in certi rimedj generali per espugnare la malignità dei veleni contratti e resistere alla putredine, che per analogia possono anche servire contra la peste. Nè c’è da maravigliarsene da che l’arte medica con tutti i suoi studjnè pure ha trovato finora rimedj specifici a tanti altri mali e malattie di molto minor importanza e malignità che non è il crudelissimo della peste. Ora anche la curativa può ben vantare per questo morbo un’infinità di rimedj, pubblicati già in varj ed assaissimi libri che trattano della pestilenza; ma di nessun d’essi può dirsi con sicurezza: Questo guarirà. Anzi è da por mente che tanto nella preservazione, quanto nella cura ad uno gioverà un rimedio che nulla poi servirà ad un altro ferito del medesimo male, perchè concorre il temperamento e la disposizione interna delle persone a fare che sia giovevole ad uno e inutile nello stesso tempo ad un altro il medesimo rimedio. Anzi si osserva che alcuni medicamenti provati efficaci in una peste, non servono poi in altre, essendo che quasi ciascuna peste ha qualche suo proprio e particolar sintoma diverso da quei delle altre. Forse ancora è avvenuto, ed avverrà, che un medicamento sia stato e sia per essere utile tra i Franzesi, Tedeschi, Inglesi, ecc., e questo non riesca poi tra gl’Italiani; oltre al vedersi che ce ne vengono proposti dagli autori di quei che sono d’indole contraria per preservare e per guarire dalla stessa stessissima peste; riflessioni tutte che rendono anche me perplesso e timoroso nel trattar qui dei rimedj. Ma finalmente un pessimo rimedio potrebbe essere il non voler nè pure tentare veruno di tanti rimedj che veggonsi ancor qui lodati dai medici saggi.
Credono alcuni che non si trovi, se non tardi, rimedio alla peste, e che appunto i contagi facciano tanta strage prima di cominciare a cedere ai medicamenti,perchè non si giunge a scoprire il proporzionato, se non dopo molte esperienze. Dissi che così credono alcuni; ma non dirò già che sia certa questa opinione, perchè non ben sussiste che tardi si trovi il rimedio; ma sussiste più tosto che non si trova giammai. In qualsivoglia peste v’ha delle cose strane, la cagion delle quali non si sa rinvenire, almeno con sicurezza, potendo essa attribuirsi alle qualità meno o più fiere del male, alla buona o rea disposizion dell’aria e de’ corpi, o pure a un complesso e concorso d’altre sconosciute circostanze che la man di Dio unisce per gastigare i cattivi e purgare la terra. Per altro son da avvertire tre tempi diversi di qualsisia peste, cioè il principio, mezzo e fine. Nel principio o sia nell’accessione di questo malore, un solo, o pochi almeno saran quegli che porteranno la peste in una terra o città e la parteciperanno a chi disavvedutamente con esso loro tratti. Costoro quasi infallibilmente morranno o perchè non sarà conosciuto per tempo il male, o i rimedj non avran forza, o nè pure s’applicherà loro alcun rimedio essendo tutti sul principio d’un contagio pieni più di spavento che non s’è all’arrivo d’un fiero esercito di nemici in paese disarmato e che gode da gran tempo la pace. Se però conosciuto tal disordine, con pronte ricerche e rigorosissime determinazioni, verranno scoperte e serrate quelle case, e sequestrate persone e robe che possano aver portata o contratta l’infezione, con separar le famiglie sospette dal commercio degli altri, e si provvederà coi profumi alle case e robe loro; la peste sarà soffocata e forzata a cedere e morire, potendosicon ciò tuttavia preservare la Città, perchè il veleno non è peranche invigorito, nè dilatato.
Il mezzo, o sia lo stato della pestilenza è quando essa ha preso possesso delle città e scorre liberamente, atterrando chi le capita alle mani, e facendo girar le carrette senza riposo. O sia che allora l’aria stretta delle contrade s’imbeva tutta di quegli aliti e vapori mortiferi, cagionando con ciò tanta carnificina; o sia che difficilmente possano le persone, almen popolari, guardarsi allora dall’ambiente o contatto di qualche aria, persona o roba infetta; o sia in fine che il veleno pestilenziale si trovi allora nel maggior suo auge, malignità e furore; certo è che in tale stato di cose i rimedj non sembrano aver forza e difficilmente si veggono guarir gl’infermi. Anzi è stato osservato che alcune persone, benchè si tenessero chiuse nelle lor case, nè conversassero con alcuno, pure se per altri lor disordini o casualmente venivano assalite da una febbre, non si fermavano qui, perchè la febbre degenerava poscia in peste. Del pari scrivono alcuni che altri mali spontaneamente allora si mutavano in pestilenza: il che però potrebbe essere stato cagionato o dalla visita di qualche medico, o da altre persone o robe infette, senza che se ne accorgessero i poveri infermi. Nel fine poi, o sia nella declinazion del contagio, il male così facilmente non si comunica, nè passa dall’uno nell’altro della stessa famiglia, e gl’infetti facilmente guariscono, riducendosi le morti a poco a poco in nulla. Può essere che dopo avere il morbo perduto il suo pascolo con essersi perduta tanta gente, venga egli meno, non già perch’esso manchi dimalignità, ma perchè manchi a lui la preda; ovvero che restando solamente in vita quei che sanno ben difendersi o col ritiro o con altri preservativi, e quei che hanno (e non son pochi) un temperamento talmente opposto alla qualità del male che anche in mezzo agli appestati e senza alcun preservativo, non ne risentono danno; può, dico, essere che il morbo non trovi finalmente alcuno, sopra cui infierire; nè fomite o esca, ove più attaccare il suo incendio; o non gliel lasci trovare il buon governo de’ maestrati, i quali non ommettendo diligenza e premura alcuna di profumi, sequestri ed altri mezzi, si studino di conservare illesi quei che fin allora son campati.
Contuttociò non sembra nè pure improbabile che il veleno stesso della peste possa andare a poco a poco smarrendo il suo vigore dopo alcuni mesi di dimora entro d’una città, tanto che si lasci vincere o dalle naturali forze dei corpi umani, o da quelle de’ medicamenti che dianzi nel suo furore valevano poco o nulla. Anche il morbo gallico sul principio e per molti anni, era quasi immedicabile o certo faceva dei terribili danni. Va esso a poco a poco perdendo la sua rabbia, e si lascia medicare con facilità, benchè la calata in Lombardia di tanti eserciti dalla parte del Rodano ne abbia tornato ad inferocire alquanto gli spiriti dal 1701 fino ai dì nostri, siccome ho inteso dire ad eccellenti medici che l’hanno osservato. Non m’arrischierò già di dire che passando il veleno pestilenziale da tanti in tanti altri corpi si vengano a poco a poco a rintuzzare le particelle acute, fiammeggianti e maligne che il compongono; perciocchèso che se da quella città, in cui esso finisce, passerà ad un’altra fin’allora intatta, si vedrà ch’esso ivi sarà quel vigoroso tiranno di prima. Ma dirò bene che per un vento, il qual venga a soffiare in quella città, portando seco o nitro o zolfo o altri effluvj e vapori, correttivi dell’aria e contrarj al veleno pestilenziale che vien creduto da alcuni formato di particelle d’arsenico o napello o aconito, questo potrà infiacchirsi, e divenir tale che dia poi luogo ai medicamenti, o non sia ivi tanto attaccaticcio, o non conduca sì facilmente alla fossa. Ovvero potrebbe immaginarsi che tali venti e vapori, senza cangiar punto la qualità di questo veleno, cangiassero la costituzion dell’aria e de’ corpi umani di quella città, onde eglino da lì innanzi non sentissero sì presto, nè provassero così fiero questo crudelissimo morbo, rendendosi disposti a maggiormente resistergli. Così qualora accade che, contro il costume ordinario, infierisca più una peste in tempo di verno che di state, probabilmente ciò verrà de qualche pernicioso scirocco che ostinatamente allora soffj, e con alterare e mettere in moto il sangue e gli umori, faccia strada alle devastazioni del veleno pestilenziale. La tramontana molte volte ha snervata o fermata affatto la peste. Guai se da qualche cagione esterna, operante o nell’aria, o ne’ corpi, o pure contro le particelle del fermento contagioso, non venisse indebolito e finalmente estinto questo morbo: non si rimarrebbe esso mai di fare strage nelle città finchè vi fosse popolo. E pure si sa ch’esso dopo il periodo d’alcuni mesi per l’ordinario si estingue, e che talvolta un improvviso gran freddo l’abbatte affatto.
Comunque sia, Bernardino Cristini scrive che nel contagio di Roma del 1656 sul principio si adoperavano vari rimedi, ma indarno tutti. Sospetta egli che non giovassero agl’infermi del lazzeretto, perchè non erano ministrati al debito tempo dai serventi, impauriti dal pericolo della morte; ed aggiunge che non si può esprimere qual fosse il disordine dei cerusici; ma che nel progresso del male cominciò egli con altri medici a far di belle cure e a guarir non pochi appestati. All’incontro il cardinale Gastaldi nella descrizione di quella peste medesima, ove egli sostenne la prefettura dei lazzeretti, attesta essere stati di gran lunga più i guariti ne’ lazzeretti romani per benefizio della loro natura che i risanati dal sapere e dalle ricette dei medici. Quegl’infermi che aveano gagliardìa di spiriti vitali, espugnavano il contratto veleno per mezzo di ascessi o sudori, effetti tutti della loro benefica natura, benchè poi paressero ridonati alla vita dal possente aiuto delle medicine; ed appunto anche senza medicamenti guarirono molti dai buboni. Di più scrive egli essersi conosciuto alle prove che niuno seppe trovare un vero e specifico antidoto contro quella pestilenza; che i medicamenti giovevoli agli uni, riuscivano poi nocivi ad altri; e che meno degli altri medici conobbero o seppero medicare tal morbo quei che si credeano più barbassori nella professione medica; e in fine che tanti bei rimedi e consigli suggeriti dai libri de’ medici, o dalla loro viva voce, o mandati anche dagli stranieri a Roma in soccorso di quella misera congiuntura, più tosto portarono confusione che sollievo; eancorchè per avventura avessero giovato in altre pesti, in quella si trovarono vani, e talvolta ancora dannosi.
Queste sono cattive nuove. Contuttociò non bisogna perdersi d’animo. Certo io per me sono abbastanza persuaso (e di questo sentimento sono anche tutti i medici, non ciarlatani nè ipocriti, ma galantuomini), cioè che la guarigione de’ mali venga per lo più dalla natura, vera medicatrice d’essi, qualora è alle sue forze permesso il fare le separazioni ed espulsioni de’ cattivi umori, nel che consistono le vere crisi. Ma credo ancora del pari che il dotto e giudizioso medico possa contribuir molto alla salute degl’infermi, prescrivendo opportunamente rimedj che aiutino i movimenti regolati della natura, e che in certo modo la correggano se talvolta ella sceglie le strade non convenienti, o pure se caccia fuori con disordine gli umori confusi e non peranche ben separati. Perciò siccome può essere che alcuni medici romani si facessero vento alla barba con troppa facilità nell’attribuire a sè la guarigione di tanti, così può darsi caso che anche il cardinale Gastaldi si dilungasse alquanto dal vero nell’ascrivere al solo benefizio della natura ciò che ancora fu benefizio d’alcuni medicamenti opportunamente dati e trovati buoni in quella occasione. Passiamo dunque avanti per consultare ancor qui la medicina, di cui in fine, non ostante tutta la sua incertezza e debolezza, si dee fare anche ne’ tempi di peste un gran capitale.
Ma prima d’accennare ciò che può essere utile, convien dire quello che può nuocere. Il Mercati,il Mercuriale, il Foresti, il Massaria, Zacuto Portoghese con altri insigni medici sostengono che si abbia da cavar sangue nel principio del male agli appestati, mettendo mano a vari raziocini e testi de’ medici antichi, e il Settala cita anche la sperienza sua. Certo non è improbabile che in qualche peste ciò sia stato di giovamento; io però inclino a credere che queste lodi del salasso sieno procedute dall’osservazione di soli pochi casi che non bastano a fissare una decisione legittima, o pure che s’esso giovò, fu per cagione de’ sintomi e non della peste medesima; e però quando non ne apparissero chiari da un’accurata inspezione i suoi buoni effetti, quanto a me senza fallo non mi lascerei allora cavar sangue; e quando la sperienza non gridasse in contrario, consiglierei anche a tutti gli altri il non lasciarsi aprire la vena in casi tali: sì se fanno conto della loro pelle. Un’altra folla d’eccellenti medici, fra’ quali il Fracastoro, il Cardano, il Fernelio, il Platero, il Salio, il Riverio, il Barbetta, il Doleo, il Sorbait, il Waldschmidio, e per tacer di tanti altri, il celebre nostro Falloppio, asseriscono che questo è un colpo mortale, recando non solamente ragioni e testi migliori, ma anche la sperienza, vera maestra in simili dispute. Il Falloppio scrive che nella lunga peste che dal 1524 durò in Italia sino al 1530, morirono tutti coloro a’ quali fu cavato sangue; e molti, che se ne guardarono, salvarono anche la vita. Anche il Pareo interrogò una gran moltitudine di medici e chirurghi trovatisi nella peste del 1565, che infestò quasi tutta la Francia, e n’ebbe per risposta che nessuno campò dopo il salasso, risanatiall’incontro moltissimi coll’uso de’ soli alessifarmaci. Lo stesso fu osservato in altre pestilenze dall’Andernaco, da Arrigo Fiorentino, dal Dodoneo, Minderero, Hildano, Gesuero, Bauhino e da altri assaissimi rinomati fisici, che per brevità tralascio. E per parlare de’ contagi più recenti, abbiamo anche l’attenta osservazione del Diemerbrochio, il quale ci assicura che chiunque ferito dalla peste de’ suoi giorni era salassato, indubitatamente e presto moriva. Anzi osservò egli di più che gl’infermi d’altri mali, se si lasciavano aprir la vena, poco dopo venivano presi dalla peste; e che anche a moltissimi dei sani dopo il salasso incontrò la medesima disgrazia. Misera condizione degli uomini, diventando carnefici nostri quei che sono scelti per conservare la nostra vita. Abbiamo ancora dal Cristini che nella peste di Roma del 1656 fu perniciosissima la cavata del sangue, notizia confermata medesimamente dal cardinale Gastaldi con dire essersi avverata anche allora l’osservazione del Falloppio, il quale narra che un medico famoso de’ suoi tempi fece cavar sangue a mille appestati, e che appena due scamparono dalla morte. Aggiunge però il Gastaldi che fu meno dannoso il taglio della safena per alcuni pletorici e robusti. Finalmente anche nella nostra città, grassandovi la peste nel 1630, fu stampato un avvertimento in cui si faceva sapere come osservato in varie città che il cavar sangue e dar medicine da purgare il ventre, affrettava irremissibilmente la morte ai malati, e probabilmente uccideva alcuni che sarebbono guariti. Il punto è importantissimo, e però mi son qui diffuso. Tuttaviaconcepisco io molto bene che in alcune pesti la sperienza possa far conoscere utile la cavata del sangue, almeno per le complessioni pletoriche, e solo in principio, o pure quando il morbo cagionasse sintomi di pleuritidi o altre infiammazioni: al che i saggi medici porranno ben mente. Il moderno contraddittore d’Ippocrate, Michele Sinapio, scrive che a quanti della corte del principe di Radzvil, ambasciatore di Polonia a Vienna, fu aperta la vena nella peste dell’anno 1679 tutti guarirono, morti all’incontro quei d’essa famiglia che se ne astennero. Aggiungo di più insegnare il Sidenham che il salasso, purchè fatto con larga mano e replicato più volte, prima che escano fuori i buboni, giova assaissimo; e nuoce solo il cavarne poco, o pure l’aspettare a cavarlo dopo l’uscita dei tumori. Cita la sperienza sua e l’autorità di Leonardo Botallo. Così egli; la disgrazia però si è che lo stesso Sidenham in fine, vedendo, che questo suo metodo zoppicava forte, abbandonò i salassi, e si diede anch’egli ai sudoriferi, che trovò meno pericolosi e più utili. In una parola, ci vuol qui gran cautela trattandosi d’un rimedio che può essere anch’egli pestifero.
La medesima ragione ha poi fatto che anche il cavar sangue colle ventose e colle sanguisughe o colle scarificazioni, venga riprovato da qualche eccellente medico, tuttochè Galeno conti una storia d’una scarificazione ben fortunata in una gamba, da cui poscia han preso motivo altri di lodare un tal tentativo ne’ tempi di peste, con citare anch’essi dal canto loro qualche prova fortunata. Oltre a questi pericolosi rimedi chirurgici, è da avvertireil pericolo medesimo in un altro che è farmaceutico. Certo non meno de’ salassi ha fatto conoscere la sperienza che le medicine solutive del ventre in tempi di peste, e prima che la natura avesse sciolto il morbo degl’infermi, erano veleni, conducendo in breve alla morte con una diarrea che teneva lor dietro: il che si verificava eziandio nei corpi pieni di mali umori; essendosi all’incontro osservato che la stitichezza del ventre non noceva ad alcuno. Imperocchè non hanno le medicine purgative ingegno da scegliere e votare con distinzione gli umori, nè hanno forza di purgarci dagli umori cattivi, potendo anzi con gli scioglimenti e con le precipitazioni che cagionano corrompere i buoni, e dissipare ed infettare gli spiriti, i quali nella pestilenza, più che in qualsivoglia altro male, bisognerebbe che fossero puri e vigorosi. Perciò Ippocrate, Cornelio Celso, il Fernelio, il Saraceno, il Fracastoro, il Palmario, il Cardano, l’Acquapendente, il Barbetta, ed assaissimi altri de’ più rinomati medici, riprovano colla sperienza alla mano in tempo di peste i purganti; e nel secolo prossimo passato le infelici prove d’alcuni insegnarono troppo agli altri di astenersene, per non accrescere i mali della pestilenza. Anche il Marchino e il Grillot lasciarono memoria che nella peste di Firenze del 1630 e 1631, e in quella di Lione del 1628 furono perniciosissimi i purganti. Aggiungono che i salassati morirono quasi tutti: il che ci fa svanir fra le mani l’autorità del Rondinelli, da cui nella Descrizione della medesima Peste di Firenze fu notificato ai posteri essersi alloraveduto per isperienza che nel principio delmale, mentre l’ammalato aveva buone forze, quegli a chi si cavava sangue la maggior parte guarivano, se bene fosse apparito o il bubone o il carbonchio, con questa eccezione però di farlo parcamente, e molto meno di quello che per l’ordinario si farebbe, ecc.In fatti lo stesso Rondinelli scrive altrove che fu proibito assolutamente il dar medicine,siccome il cavar sangue; poichè per esperienza si vedeva che tutti quelli che in casa loro o altrove l’avean fatto morivano; e in Firenze non ne campò niuno. È ben vero che quando la natura sfogava da per sè, o pel naso, o venivano alle donne le solite purghe, purchè non in quantità straordinaria, nell’uno e nell’altro caso era segno di salute. La conclusione pertanto si è non essere molto da fidarsi di chi ha cotanto esaltato i salassi e gli evacuanti, anche violenti, per chi è preso dal morbo pestilenziale, mentre nè pure i lenienti e nè pur le pillole di Rufo sogliono allora se non recar nocumento a chi è già infermo. Non sono tanto pericolosi allora i cristeri, o sia i lavativi; anzi per parere d’alcuni riescono utili. Ma perchè l’uso loro vien riprovato dalle ragioni d’altri, e, quel che è più, da sperienze in contrario, perciò converrà andar cauto a valersene. Così gli emetici, o vomitori, anche stibiati, de’ quali son tanto amici i chimici ed alcuni oltramontani ed empirici, per disgrazia talvolta di chi in loro s’incontra, benchè dal cardinale Gastaldi venga scritto che talora parevano giovevoli nella peste di Roma, dati nel principio del male, tuttavia per l’ordinario in tempi di peste si son fatti conoscere per aiutanti e sergenti della morte.Così attestano insigni autori. In somma egli è una gran felicità rincontrarsi in medici che rendano, se è possibile, agli infermi la vita; ma non è minore o è anche maggior felicità il trovar medici i quali sappiano non levar la vita ai miseri infermi, che pure tanto si fidano del loro aiuto. Passiamo ora a rimedi più accettati in tempo di peste, perchè conosciuti per giovevoli, o almeno per non nocivi.