CAPO IV.

CAPO IV.

Uffizio de’ parochi e confessori prima del morbo, e venuto il morbo. Cautele per le chiese e per i confessionari. Se i parochi sieno tenuti a ministrare i sacramenti agl’infetti, e quali sacramenti. Come si possa ministrare la Penitenza, il Viatico e l’estrema Unzione. Voti, quali da persuadersi.

Uffizio de’ parochi e confessori prima del morbo, e venuto il morbo. Cautele per le chiese e per i confessionari. Se i parochi sieno tenuti a ministrare i sacramenti agl’infetti, e quali sacramenti. Come si possa ministrare la Penitenza, il Viatico e l’estrema Unzione. Voti, quali da persuadersi.

Per conto de’ parochi, confessori ed altri sacerdoti, si ponga mente alle seguenti cose. Appena si udirà avvicinarsi o essere già pervenuta ai confini la peste, che dovrà ogni paroco di terre, castella e ville ammonir per tempo tutti a confessarsi prima del morbo, predicare il pericolo della morte, l’ira di Dio, l’emendazione della vita, i quattro Novissimi,ne præoccupati die mortis quærant spatium pœnitentiæ, et illud nequeant invenire.Dovrà pure sostituire anch’egli una solenne e divota processione di penitenza, con digiuni, comunione generale, ed altre opere di pietà, a fine di placare Dio e d’implorare il suo santo aiuto. Da queste pubbliche e strepitose divozioni, tanto della città quanto della diocesi, ne risulterà anche un vantaggio temporale. Cioè i popoli si metteranno in maggior apprensione di quel terribile ed imminente flagello; cosa utilissima, perchè così ognuno, aperti gli occhi per tempo, si guarderà con più cura dal pericolo di prendere, o d’introdurre il contagio. Non si può dire fin dove giunga alle volte la zotica e supina disattenzione, o sciocca temeritàdella gente rozza. Vanno alcuni senza pensarvi a cogliere la peste fuori del loro distretto sano in territori infetti o sospetti, conversando alla buona con persone appestate, o maneggiando robe, che portano poi la morte ad essi e l’esterminio alla patria loro. Bisogna perciò che anche la Chiesa con azioni vistose di pietà faccia avvertiti tutti del suo e dell’altrui pericolo. Anzi debbono i predicatori e i parochi dall’altare e in altre guise andar per tempo inculcando la miseria della peste, il rischio che sovrasta, la necessità di guardarsi per sè e per gli altri, e il peccato grave di chi trascura sè stesso, e tradisce il suo prossimo, e disubbidisce al principe e alle leggi, e in un affare di tanta conseguenza e rovina. Mostrino ancora al popolo, finchè è tempo (che questo pure sarà un atto di carità), in quante guise si possa contrarre e comunicare il veleno della pestilenza, e come le buone cautele hanno forza di preservare e difendere le popolazioni dall’infezione. Fatto uno sproposito, indarno si cercherà il rimedio, e in vano si dirà: Bisognava governarsi in questa o in quella maniera.

Che se la peste entrerà, allora i parochi vadano similmente ricordando, come potranno il meglio, ai loro parochiani quanto gravemente pecchino quelli che celano l’infezione contratta, non per altro che per timore di qualche suo danno, perchè maggiore sarà sempre il danno che recheranno non solamente agli altri con disseminarla e comunicarla, ma anche alla propria vita, col non lasciarsi curare, e coll’esporsi al pericolo d’una morte repentina, e senza tempo di sacramenti edi contrizione. Gran conto dovrà rendere a Dio chi per sua colpa o negligenza dilata il male e l’attacca agli altri che con buona fede hanno commercio con esso lui, o colle robe di lui. Nel contagio di Palermo del 1625 fu proibito sotto pena della vita che nessuno potesse trasportar robe da una casa in un’altra, ed anche vi fu imposta la pena della scomunica; e a certi tempi colle cerimonie solite della Chiesa venivano dichiarati scomunicati i trasgressori: il che faceva grande effetto per lo spavento che cagionavano tali cerimonie. Questo è un rimedio troppo violento, e da non praticarsi così facilmente altrove, benchè non sieno scomunichelatæ sententiæ, e perciò s’intimino solamente a terrore. Si può provvedere in altre guise. Dovranno al certo i ministri di Dio inculcare la grande obbligazione di non trasportare, rubare o contrattar robe infette o sospette, e quella altresì di denunziar subito ai deputati quei della sua famiglia, o gli altri che vengano a scoprire infetti. Molto maggior obbligazione si è quella di denunziare gl’infetti medesimi al paroco o al sacerdote deputato per l’amministrazione dei sacramenti, affinchè niuno manchi di vita senza i soccorsi spirituali della grazia di Dio. Nella nostra città, allorchè la peste del 1630 ci prese piede, fu dai conservatori della sanità con pubblico proclama ordinato che se alcuno o parente, o coabitante nella casa di qualche infermo fosse ricercato da esso malato di chiamare il confessore, e non vi andasse, costui cadesse in una grave pena pecuniaria, da estendersi anche ad arbitrio sino alla galea.

Per maggiormente preservarsi i parochi ed altri sacerdoti nel dire la messa, avranno cura di mettere cancelli, sbarre, o altro impedimento intorno all’altare dove dovranno celebrare, affinchè niuno del popolo vi si accosti, o la dicano essi in chiesa o fuori. Maggior cautela sarebbe che cadauno avesse i suoi determinati paramenti, de’ quali nessun altro allora si servisse. E tal cautela sarà poi necessaria per chi abbia da praticare con ammorbati o sospetti. I sacerdoti che dovranno amministrare i sacramenti saranno divisi in due classi, cioè altri per i sani, ed altri per gl’infetti e sospetti, secondo la disposizione e distribuzione che ne farà il vescovo. I primi, cioè quei dei sani, che si appelleranno sacerdoti o confessori ordinari, non potranno, se non in caso di estrema necessità, ministrare i sacramenti a gente appestata o sospetta; e se per necessità, o pure disavvedutamente, praticassero con infermi di questa fatta, o dessero loro i sacramenti, non potranno eglino per alquanti giorni praticare con sani, ma staranno ritirati, facendo una specie di contumacia in casa propria. All’incontro i destinati per la gente infetta o sospetta, che si chiameranno sacerdoti o confessori della carità, e saranno anche essi divisi in due schiere, non potranno conversar con sani, nè ministrare i sacramenti ad alcun sano, anzi nè pure a chi fosse infermo d’altro male che di peste, qualora questi non si trovasse in pericolo di vita e in necessità legittima del loro ministero. Per assicurarsi meglio di non errare in questo, potrebbe praticarsi che gl’infetti e sospetti ricavassero una fede del medico d’essere tali; eallora sarebbe moralmente sicuro il sacerdote della carità di non accostarsi ad infermi d’altro male. Così fu praticato nel contagio della nostra città l’anno 1630. Per questo ancora la sacra pisside destinata agli infetti dovrà tenersi non nelle chiese ove entrano i sani, ma in luogo decente separato secondo che prescriverà il vescovo, ove sia tabernacolo e lampana di continuo accesa. Non è lecito ai principi l’impedire ai parochi o ad altri sacerdoti l’amministrazione de’ sacramenti; ma sarà loro ben lecito l’impedire a quei che gli amministrano ad infetti il commercio coi sani, passando in ciò d’intelligenza coi vescovi, siccome stabiliscono il Marta, il Barbosa e il Benzoni, con altri. E però di necessità si ha da dare uno o più coadiutori al curato esposto al servigio degl’infetti, secondo ilc. tua nos, de clerico ægrotante. Avverto qui che i parochi non sono allora tenuti ad assistere alla sepoltura dei defunti, nè ad accompagnare verun cadavero; anzi se ci fosse chi volesse allora che il paroco seppellisse alcuno de’ suoi in luogo sacro, quando occorresse sospetto d’infezione, egli dovrà costantemente opporsi, e molto più poi se avrà ordine dai superiori in contrario.

Sarà poi cura dei sagrestani ogni mattina e sera il far de’ profumi, quando se ne conoscesse il bisogno, intorno agli altari ove si celebra e nella sagrestie, e certo non tralascino di farlo ai confessionarj. Anche intorno a questi sarà necessario mettere allora qualche sbarra o steccato o altro impedimento con panche, sicchè si trattenga la gente dall’accostarsi al confessore. Anzi allora dovranno star assai radi fra loro e in una competente distanzadal sacerdote, al quale non s’avvicineranno se non chiamati da lui. Oltre alle grate perforate di ferro, il costume è di tenere ai confessionarj una membrana o sia una carta pecorina, o almeno una carta ordinaria ben incollata, con telajo che chiuda ben le fissure; perciocchè con essa benissimo s’ascoltano i penitenti e restano difesi dal pericoloso lor fiato i confessori. Gioverà il rimutare e profumare di quando in quando tali membrane. Fuori del confessionale (il che facilmente allora può accadere e si dee permettere dal vescovo) il confessore potrà ascoltare i penitenti in distanza di tre o quattro braccia, badando che il sito non sia esposto alle orecchie altrui. Tanto prescrisse S. Carlo ne’ suoi piissimi e prudentissimi regolamenti intorno alla peste, pubblicati nel concilio V provinciale di Milano. Per purificare le dita dopo aver comunicato il popolo, si tenga aceto in cambio d’acqua; e i sacerdoti che comunicano, si tengano il più che possono lontani dalle persone che prendono il sacramento, procurando ancora di star sempre in mezzo a due torce accese, acciocchè venga purificata l’aria. Non diasi abluzione, non si metta tovaglia alcuna, siccome nè pure per qualunque festa o funzion che si faccia, non si dovranno ornare con paramenti le mura delle chiese. Anzi han praticato i saggi di levare insin le panche da esse chiese e le portiere e simili altre robe che possono facilmente pigliare infezione. Qualora abbiano i confessori della carità da ascoltare infermi appestati, prima d’andarvi prendano qualche antidoto preservativo interiore ed esteriore; e alquanto prima d’entrar nelle stanze d’essi, facciano aprir le finestre,acciocchè l’aria sventolando disperga quei cattivi effluvj, o per dir meglio, facciano ben profumare, se si potrà, quella stanza. Ad ogni buon fine però v’entrino essi sempre con un profumo davanti o pure abbiano in mano una torcia accesa, che terranno fra la bocca loro e quella dell’infermo. I beccamorti ed espurgatori entrando nelle case infette sogliono coprirsi il naso e la bocca con un fazzoletto bagnato in aceto, ove sia stato dell’aglio in infusione potranno i confessori cautelarsi in altra somigliante maniera. In Firenze l’anno 1630 un sacerdote esposto, andando a sacramentare infetti, pigliava una spugna divisa pel mezzo ed allacciatasela agli orecchj con due nastri, bagnatala prima con aceto rosato fortissimo, l’accomodava in maniera che pigliava tutta la bocca e le narici, correggendo così l’aria che respirava; invenzione non men felice che ingegnosa, poich’egli si conservò sempre senza male. L’esempio è da notarsi ed imitarsi. Se poi si può senza intollerabil incomodo degl’infermi, il confessore li faccia venire in luogo aperto o in un cortile, o alla porta, o alle finestre della casa, o all’uscio della camera che potrà star chiuso e ascoltarsi anche bene la confessione. Il P. Filiberto Marchino insegna che potendo gl’infetti uscir di letto e venire all’aria aperta o tenere altra via di confessarsi senza pericolo della vita del paroco, e non volendolo fare, esso paroco non è tenuto ad entrare in lor casa per ascoltarli. È interesse del pubblico e degli altri parrocchiani che i pastori si conservino illesi. In Firenze si servivano tali confessori di un certo strumento di legno o di ferro, atto a ripararsi dal fiato pestiferodegl’infetti. Nel portare il Viatico al malati, usino i sacerdoti veste corta con cotta e stola, lasciando stare il piviale, in cui vece terranno sopra la cotta una veste di tela incerata. Anzi nè pur la cotta sarà necessaria e nè pure la stola secondo la sentenza di Leandro; e il vescovo potrà dispensar da tal obbligo, massimamente per i lazzeretti, ne’ quali i sacerdoti sogliono accostarsi agl’infermi colla lor sola veste incerata e col Santissimo chiuso in una borsa con piccola pisside, pendente dal collo e con ombrella di cuoio, la quale anche per città si terrà nel portare il Viatico, bastando una o due torce accese per accompagnamento del Signore, e senza far precedere suono di campana o di campanello. Abbiano sempre seco una spugna bagnata in aceto per purificarsi le dita.

Ma chi dei sacerdoti è obbligato ad amministrare i Sacramenti agli appestati? E a che son tenuti allora i parochi? Regolarmente parlando, i semplici sacerdoti, tanto secolari come regolari, cioè quelli che non han cura d’anime, non sono tenuti a ciò per debito di giustizia. Possono solamente venirvi obbligati da qualche caso d’estrema necessità del prossimo, perchè allora entrano a comandarlo loro le leggi della carità cristiana. La sentenza è comune. In quanto ai vescovi e parochi, certo è ch’essi in tempo di peste hanno gravissima obbligazione di risedere nella lor parrocchia e di non abbandonare per conto alcuno la loro greggia. Veggasi il Barbosa con altri autori. Ma per quel che riguarda l’amministrazione dei sacramenti alla gente infetta è stato disputato fra i teologi, se i curati sieno a ciò eglino obbligati, ancorchè con troppo verisimilpericolo della lor vita. Il Molfesio e alcuni altri tengono di sì, stante la gran necessità d’essi sacramenti per la salute del prossimo, e stante il diritto che hanno le pecorelle di chiedere e d’ottenere il cibo dell’anima dai proprj pastori. Ma il Marchino, il Diana ed altri esentano il paroco da obbligo tale, a condizione però che vi sia altro sacerdote che in luogo di lui supplisca al bisogno degl’infetti. E all’opinione loro può starsi, perchè il Barbosa ed esso Diana sì nella Somma come nel tomo II delle sue opere e il Tamburino citano le risposte date a S. Carlo dalla sacra congregazione il dì 10 di dicembre del 1576, con approvazion del Santissimo che sono del seguente tenore:Parochi tempore pestis teneantur omnino residere in suis ecclesiis parochialibus; et si non resideant, agendum contra eos, etc. Ministrent vero parochianis peste infectis sacramenta pœnitentiæ et baptismi per alios. Et hoc ad commodum parochianorum, qui verisimiliter nollent conversari cum parochis euntibus ad infirmos peste. Et licet Alciatus diceret, quod ex duobus ultimis verbis videatur prohiberi, ne parochi, etiam volentes, per se ipsos hæc duo Sacramenta ministrent: tamen tota congregatio dixit, quod ista erat mens Sanctissimi in prohibendo hæc parochis ad commodum parochianorum, qui sani essent; hi enim universaliter nollent conversari cum parochis cuntibus ad infirmos peste.

Il Benzoni prova a lungo e seco s’accordano altri antichi teologi che il vescovo e il paroco non pecchino fuggendo dal luogo della peste, purchè provveggano il grege loro di un vicario o sostituto sufficiente, e mancando questo, ne somministrino unaltro o tornino essi alla lor residenza. Ma stante il suddetto decreto non è più da seguitare una tal sentenza. Anzi è da avvertire col Marchino e con altri essere tenuti alla residenza in tempi tali ancora i confessori di monache, gli abati, i priori, guardiani ed altri capi di case religiose. Dal suddetto decreto parimente si ricava che ogni qual volta il paroco abbia o pure il vescovo deputi (siccome egli ha da fare e fu fatto anche nel contagio di Modena del 1630) altri sacerdoti che amministrino i sacramenti ai parrocchiani appestati, egli sarà esente da tale obbligazione, e dovrà allora attendere alla cura dei soli sani o infermi, ma non di peste, cioè ai più della sua parrocchia. Nulladimeno accadendo che manchino tali sacerdoti sussidiarj, allora esso paroco sarà tenuto egli in persona, ancora con pericolo della vita, a soccorrere gl’infetti, non solamente per debito di carità, stante la necessità delle sue pecorelle, ma ancora per obbligo di giustizia a cagione del carico ch’egli ha come pastore; poichè in tal caso non mancherà via agli altri parrocchiani non infetti di ricevere i sacramenti da altra mano, non essendo questi in eguale necessità, potendosi più facilmente trovar sacerdoti che soddisfacciano al bisogno del popolo intatto dalla peste. Di più il paroco è tenuto a ricercare chi stia in pericolo o articolo di morte e se abbia bisogno di confessarsi. Che se mancassero ministri idonei per l’amministrazione de’ sacramenti, sarà tenuto il vescovo a provvederne anche con sua grave spesa. Così tengono S. Tommaso, il Bagnez, il Sa, il Benzoni. Dovranno però anche i parochi contribuire una porzione delle rendite loro, e nonbastando nè il vescovo nè i parochi a tale spesa, i parrocchiani dovrebbono somministrar dell’aiuto. Avvertasi col Marchino e con altri autori, non esser bene che il vescovo vieti la fuga ai parochi sotto pena della scomunica, ma bastare che intimi pene pecuniarie, perdite di frutti o la privazione del benefizio, benchè per altro non sia lecito al paroco in tempo di pestilenza nè pure il rinunziare alla sua chiesa. Io non ho veduto, ma so esserci un libricciuolo di Francesco Lazzaronide privilegiis parochorum tempore pestis, stampato in Venezia dell’anno 1631 in ottavo. Il Benzoni col Turrecremata, in caso che non si trovassero sostituti, stimerebbono bene che il vescovo tirasse a sorte tre o quattro parochi, i quali assistessero agl’infetti, restando gli altri al servigio de’ sani, e mancando i primi, succedessero gli altri. Parimente nelle terre e castella ove non sia che un solo sacerdote, il vescovo dovrà mandare almeno un altro coadiutore, acciocchè l’uno attenda ai sani e l’altro agli appestati, e se il coadiutore non vorrà per carità ministrare i sacramenti ad essi infetti, allora questo carico apparterrà per giustizia al curato. Mancando i parochi, sarebbe di dovere il subito conferire la lor chiesa al sostituto che avesse con generosa carità preso a servire agl’infetti; anzi potrebbe il vescovo per tempo ricercare dal sommo pontefice la facoltà di stabilire una spezie di coadiutori, a’ quali si conferisse tosto la chiesa, accaduta la morte del paroco, meritando tal grazia il pio coraggio di simili sacerdoti. Che se il curato o altro prete fosse solo, allora potrà egli più discretamente governarsi nel ministrare i sacramenti, affinchè mancando lui, non manchi l’aiutospirituale a tanti altri che possono averne bisogno, essendo egli in parità di circostanze tenuto più ai molti che ai pochi. Ma non si credesse alcuno esentato dall’obbligo di confessare gl’infetti per quella sola ragione che da taluno è stata addotta, cioè perchè essi possono fare un atto di contrizione, e salvarsi senza l’attual confessione ed assoluzione del ministro di Dio. Imperocchè tal sentenza è troppo pericolosa, lasciando esposti i peccatori ad un evidente rischio di non pentirsi come debbono, e perciò di dannarsi. Per altro chi infermo di peste non ha confessore, è tenuto a formare un atto di contrizione, e potendo aver confessore è tenuto a non differire di confessarsi.

Appresso è da notare che il ministrare l’Estrema Unzione agli appestati sarà sempre bene, e si dee procurar loro, per quanto si potrà, questo spirituale aiuto e conforto; tuttavia non essendo esso un sacramento necessario alla salute, dicono i teologi che non è obbligato il paroco sotto rigoroso precetto ad amministrarlo allora. Il che però secondo il Diana ed altri si dee intendere quando l’appestato si sia prima confessato ed abbia ricevuta l’assoluzione; altrimenti s’egli non avesse potuto confessarsi per aver perduta la favella, converrà dargli almeno questo sacramento. Per altro essendo da amministrare, per quanto si può ancora questo sacramento, si avverta per parere del Chapeavilla, Silvio, Layman, Diana ed altri essere lecito l’ungere una sola parte del corpo, e fare una sola unzione, unendo poi nella forma delle parole l’udito, la vista e gli altri sensi dell’uomo. Per sentenza ancora de’ suddetti teologi, del Marchino,Suarez, Barbosa ed altri sarà lecito ungere gli appestati con una lunga bacchetta, in cima alla quale sia bombace intinto nell’olio sacro che dovrà subito o almen poco dopo bruciarsi. In oltre tengono il Filiarco, il Marchino, il Tamburino ed altri, appoggiati anche al suddetto decreto, che purchè l’infetto sia legittimamente confessato, non son obbligati i parochi a ministrargli con tanto lor pericolo il Viatico, siccome non necessario alla salute; e nè pure il sacramento della Penitenza, quando si fosse moralmente certo che l’infermo non avesse peccati mortali. Così ancora tiene il Benzoni vescovo di Recanati. Avvertasi però che questo ultimo non si dee presumere senza gravissime ragioni. Vedi il Molfesio e il Diana alla parola Communionis minister e parochus. E per conto del Viatico bisogna far quanto si può per ministrarlo; essendo poi non solo lecito, ma obbligo di non darlo, quando il paroco fosse solo e la sua morte potesse ridondare in danno di tanti altri. Mancando i sacerdoti o non volendo essi dare l’Eucaristia, per comune sentenza potranno ministrarla i diaconi. In caso poi che nel distribuir le sacre particole mancasse all’improvviso di peste il sacerdote, le altre particole si hanno non già da bruciare, ma da conservare o pur debbono distribuirsi a persone infette o assumersi da qualche sacerdote esposto. Qualora sovrasti pericolo di morte a molti appestati, basterà che ciascuno dica qualche peccato al confessore, acciocch’egli possa assolverli di tutti. Così insegnano il Coninco, Diana, Suarez, ecc. E basterà ancora, quando non si possa far di meglio, che mostrino segni di penitenza a fine di poterli assolvere. Parimente tengono non pochiteologi, cioè Zambrana, Granado, Laiman, Conioco, Hurtado, Turriano, Suarez, Diana, ecc., che si possa assolvere l’appestato colla confessione non intiera, quando il confessore probabilmente tema d’infettarsi anch’egli, come sarebbe o pel troppo fetore, o per la troppa dimora dell’infermo, con assicurare il malato che una tal confessione è sufficiente, restando nondimeno l’obbligazione, guarito che sia, di confessarsi di quei che tralascia. Queste sentenze sembrano anche a me tutte ragionevoli e da osservarsi in pratica. Che poi i semplici sacerdoti non approvati per le confessioni possano in tempo di peste confessare e assolvere dai peccati i sani, è sentenza del Marchino, del Corneo, di Polidoro Ripa e dell’Homobono, perchè, dicono essi, allora gli uomini sono moralmente posti tutti, benchè sani, in pericolo di morte; e per conseguente secondo il loro parere cessa allora anche la riservazione di tutti i casi e delle censure. Il Diana, il Benzoni, il Bossio tengono il contrario. Io qui distinguerei: Se la peste fosse di quelle fierissime che in un momento fanno cader morte le persone, come è qualche volta accaduto, ed allora la persona sana non avesse in pronto un confessore approvato, in tal caso ogni semplice sacerdote potrà confessarla, ed assolverla da tutto, con obbligo però che ella si presenti subito che potrà ai superiori, caso che avesse censure. Anzi il Preposito, il Laiman e il Diana tengono per opinion probabile che anche il semplice chierico e il laico stesso possano assolvere non già dai peccati, ma sì ben dalle suddette censure chi è posto in articolo di morte; e il Marchino scrive che tal sentenza non solo sipuò, ma si dee praticare in casi di tanto bisogno. Quando poi la peste sia tale che dia, siccome d’ordinario accade, tempo di poter cercare confessori approvati, e questi sieno nel luogo della peste, allora non sarà lecito ai semplici sacerdoti, sieno secolari, sieno regolari, senza l’approvazione del vescovo, l’ascoltare ed assolvere penitenti sani. Per chi è gravemente infermo o in pericolo di morte, ove il paroco o altri confessori legittimi mancassero, allora qualunque sacerdote ha facoltà di dargli l’assoluzione da ogni peccato e censura. Questa è cosa chiara.

Alcuni teologi hanno scritto che in tempi di contagio è stato in uso, ed essere lecito il porgere alle persone infette il santissimo Viatico sopra un foglio di carta, lasciandolo ivi prendere ad esse, con poi bruciare la carta; o pure si può porgerlo in un cucchiajo d’argento o con legno lungo formato a guisa d’una foglia di palma, nella cui sommità incavata a guisa di patena si mette l’ostia sacra, o pure in altre guise. Ma il Diana con alcuni altri disapprovano tutti questi ripieghi, come poco decenti, adducendo per ragione che la Chiesa ha i suoi usi, e questi non è convenevole mutarli, e che S. Carlo nel concilio provinciale V riprovò tali industrie della paura. Contuttociò si vuol qui riflettere, doversi per quanto si può provvedere ai pericoli altrui e conservare la salute de’ poveri sacerdoti o parochi, essendo ancor questo un debito della carità e della giustizia de’ superiori, i quali senza precisa necessità non debbono esporre a rischio manifesto la vita dei pastori, e ciò anche per bene delle lor pecorelle. Ora quando si possa conqualche onesto ripiego ministrare agl’infetti l’Eucaristia, e provedere nello stesso tempo all’identità di chi la ministra, tenendolo lungi dal pericolosissimo fiato degli appestati, c’è una ragion troppo gagliarda di non rigettare questo partito e di non esigere troppo dalla debolezza altrui. Bisogna qui facilitare il santo ministero e figurarsi non di essere a decidere ad un quieto tavolino, ma in mezzo a quella gran tempesta; nè si dee camminar con un rigore che potrebbe tirar addosso a’ poveri sacerdoti la morte e spaventar gli altri da così pio e caritativo impiego. Qui poi non c’è divieto preciso della Chiesa in contrario; le costituzioni, o, per dir meglio, le istruzioni di S. Carlo, sono bensì venerabili, ma da sè sole non hanno forza d’obbligar tutti i fedeli; anzi son tali che possono molto bene interpretarsi in questo caso per non obbliganti a peccato grave nè pure i sudditi di quella metropoli. Oltre di che non bisogna misurare coi riti del tempo placido quei che possono convenire alla necessità de’ tempi miseri e stravaganti d’una peste. Nè v’è indecenza, ma solamente ve la fa nascere la nostra immaginazione in alcuni di questi ripieghi, e molto meno vi sarebbe, se gl’infermi si prendessero in sè il sacro Viatico posto sulla patena, la qual poscia si potrebbe purificare. Nei primi secoli non credette mai la Chiesa che fosse indecente il porgere l’Eucaristia in mano agli uomini e sopra un fazzoletto alle donne che si aveano da comunicare, per tacer d’altre usanze che una volta erano lodate o permesse. E tanti autori che tengono per lecito ad un laico il ministrare il Viatico ad un infermo o pure a sè stesso, in caso diestrema necessità, non trovano già indecente un tal atto. Il che sia detto per modo di disputa, poichè qualora i vescovi ordinassero in contrario, dovranno ubbidire i sacerdoti loro sudditi, e tutti poscia ubbidire, se dalla S. Sede uscisse decreto su questo punto. Intanto reputo io questa sentenza per molto probabile, sì per le ragioni addotte, e sì perchè l’approvano o non la disapprovano il Possevino, il Mancino, il Vettorelli, il Bonacina, il Venero, il Marcanzio, il Gavanto, il Tamburino ed altri teologi.

Oltre a ciò si osservi che i fanciulli poco fa nati, qualora sieno o infetti o pure sospetti per essere nati da madre infetta, si dovran tosto battezzare da sacerdote deputato, con farli portare all’aria aperta e adoperando acqua pura; ovvero saran battezzati in caso di bisogno da altre persone, per far poscia le cerimonie della Chiesa a suo tempo, se resteranno in vita. In caso di estrema necessità, affinchè un’anima non perisca, è tenuto sotto grave peccato ciascuno a soccorrerla, anche con pericolo della sua vita. Questa è sentenza comune. Battezzati che sieno i fanciulli, si dovrà subito registrare il nome loro nel libro de’ battesimi, o pure battezzandoli qualche laico, avverta egli di por al collo, se è possibile, un bullettino di carta pecora o almeno di ordinaria, ove sia scritto il giorno ed anno in cui sono nati e battezzati col nome del padre e della madre. Sono ancora consigliati i parochi, secondo l’istruzione di S. Carlo, a guardarsi dall’indurre gl’infermi a far testamento, quando questo non si richiedesse per atto di carità, cioè per bisogno dei figliuoli o parenti. In oltre si asterranno,per quanto possono, dallo scriverlo essi, e non condescenderanno a ciò se non in caso di particolar necessità. Comunque poi sia, fuggano ogni ombra d’interesse e di guadagno sordido, e non convertano in loro pro le disgrazie altrui. Nè persuadano voti dispendiosi, ma più tostò que’ voti che riescono più facili e di maggior profitto spirituale dell’anime. Anche le città in que’ tempi debbono andar con riguardo ad obbligarsi a certi voti di spesa grande, perchè o questi malamente si eseguiscono poi, o pure elle hanno bisogno di soddisfare ad altri debiti antecedenti, (e se ne fanno e se ne debbono fare assaissimi anche in tempo di contagio) e la giustizia vuole che questi si paghino e si sgravi per quanto è possibile il popolo dagli oneri imposti loro dalla necessità e dalle disgrazie de’ tempi. Alle volte noi trattiamo con Dio e coi santi, come se li supponessimo dediti all’interesse a pari di noi. Così è da invigilare che alcuni allora non facciano guadagno, ed altri non facciano abuso di certe divozioni esteriori e di qualche amuleto sacro da portare addosso, con riporre in essi una tal fidanza che poi si trascurino le cautele umane prescritte per guardarsi dal prendere e dall’attaccare ad altri la pestilenza, e si disubbidisca senza positiva necessità ai comandamenti de’ superiori spirituali e temporali. Il miglior preservativo e la più soda divozione allora, e sempre, sarà la vera penitenza e il darsi ad una vita santa e caritativa, con fiducia in Dio e con ricorrere anche all’intercessione dei santi, senza però ommettere le diligenze e precauzioni prudenti per sicurezza propria e d’altrui. Queste ancora le ama e le comanda Dio che non vuol fare de’ miracoli sensibili a capriccio nostro.


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