CAPO V.

CAPO V.

Carità verso il prossimo quanto essenziale al cristiano, e massimamente nelle calamità d’una peste. Obbligazione de’ secolari in tempi tali di soccorrere il prossimo. Varie maniere di esercitare la carità. Confraternità della misericordia. Lode di chi assiste alla cura de’ suoi parenti infermi.

Carità verso il prossimo quanto essenziale al cristiano, e massimamente nelle calamità d’una peste. Obbligazione de’ secolari in tempi tali di soccorrere il prossimo. Varie maniere di esercitare la carità. Confraternità della misericordia. Lode di chi assiste alla cura de’ suoi parenti infermi.

Sempre siam tenuti ad avere in noi la regina di tutte le virtù, cioè lacarità verso Dio e verso il prossimo nostro, e ad esercitarla secondo le occasioni; ma nessun tempo ci è, in cui sia più da accendersi in noi e da praticarsi questa celeste virtù, quanto ne’ tempi della pestilenza. Allora il bisogno della repubblica e dei privati suol giungere al sommo; e però il dar loro quel soccorso che ognuno può secondo le forze e il grado suo, non è per lo più solamente una lodevol cosa, ma è anche un’obbligazione precisa, ed obbligazione non solo di cittadino, ma ancora di cristiano. Tutti siam tenuti a difendere ed aiutare la patria nelle necessità, per un patto stabilito dalla natura e dal diritto delle genti, allorchè entriamo nella società degli altri uomini. Ma molto più, e più largamente fu, ed è imposto a noi questo debito dalla legge santissima di Cristo, legge a noi mandata dal cielo, spezialmente per introdurre e dilatare fra gli uomini lo spirito della carità. Nulla più ci comanda, o ci raccomanda il nostro divino Salvatore e maestro, per bocca sua e degli apostoli suoi, quantol’amar Dio, e dopo Dio l’amarci l’un l’altro, l’aiutarci, e il mettere anche la vita nostra in soccorso de’ nostri fratelli, sì se vogliamo distinguerci dalle bestie irragionevoli, dai gentili e dai pubblicani. E il suo santo apostolo Paolo scrive che potremo forse avere molte e molte virtù, e divozioni; ma che se non avremo ancora, e in primo luogo, la carità, noi non saremo niente buoni e nulla faremo di bene; perciocchè in questa virtù è riposta l’essenza, non che la perfezione della vita cristiana. Amare Iddio, e amare il prossimo per amore di Dio, sono i due precetti massimi della nostra santa legge, e chi gli eseguisce sarà salvo, sarà beatissimo. Il perchè, ben considerate le angustie, alle quali in tempo di peste è soggetta la patria e il prossimo nostro, ognuno dee allora maggiormente ravvivare in sè le fiamme santissime della carità, e fissarsi bene in mente e in cuore che quello è più che mai il tempo di farsi conoscere per buon cittadino alla patria, e per vero seguace e discepolo di Gesù all’afflitto prossimo suo. Divozione più accetta a Dio in que’ tempi, nè che tanto possa impegnare la divina sua misericordia a preservarci illesi, anche in mezzo agl’infermi e ai cadaveri, non ci è, quanto questo applicarsi alla carità verso la patria e verso i nostri fratelli, con far del bene e porgere aiuto, per quanto sarà in nostra mano, ai corpi e alle anime loro.

Da questi principj deriva l’obbligazione che hanno i nobili cittadini, e i meglio stanti di far certe guardie ed ufizj che non possono farsi dai poveri e dagli artigiani, perchè intenti a guadagnarsi il vito, e che debbono farsi da gente pienad’onore, la quale si presume incapace di lasciarsi corrompere. Quindi anche viene l’obbligo de’ medici, cerusici e d’altre persone, di assistere allora in persona ai bisogni del pubblico. Chi fa questo, senza fallo esercita un atto di nobile carità cristiana; e indirizzando a Dio l’offerta di tali sue fatiche in pro del suo prossimo non si può dire quanto sia per dar gusto al nostro comun padre Iddio. Tutti gli altri poi, se hanno sentimenti di vera carità verso Dio, debbono anch’essi in qualche altra guisa porre in opera la carità verso il pubblico e verso i privati, impiegandosi o colla persona o colle facoltà, e meglio poi se in tutte e due queste forme, per sovvenire agli altrui bisogni. È incredibile la spesa che allora dee fare un comune. E come farla, se mancassero i fondi e l’erario del pubblico, e non soccorressero i cittadini? Bisogna allora alimentar tutti i poveri, mantenere i lazzeretti, provvedere agli altri infermi, pagar medici, cerusici e tanti altri o ufiziali o serventi. Mille altre cure ed impensati aggravj si debbono sostenere, uno però dei quali non vo’ lasciar di accennare, cioè, che non pochi degli operai, degli artigiani e de’ servitori restano allora senza traffico e senza padroni che li licenziano, riducendosi con ciò alla mendicità e per conseguente al bisogno di essere nutriti dal pubblico. Ora in tali casi non è solamente un consiglio, ma è un precetto chiaro chiarissimo della dottrina cristiana, registrato da tutti i teologi che cadauno, secondo la sua possibilità, ha da concorrere al mantenimento degli altri cittadini bisognosi e impotenti a guadagnarsi il vitto in sì miseri tempi, ed è tenutoin coscienza a contribuire in aiuto altrui il suo superfluo, e talvolta ancora parte di ciò che è a lui necessario, se fosse in urgente ed estremo pericolo di morir di fame e di stento uno de’ nostri fratelli in Cristo. Anzi in sì gravi bisogni hanno i maestrati da fare quanto possono di bene, e usare gran carità insino ai poveri Giudei, creature anch’essi di Dio e prossimi nostri. Santamente fecero in Roma nel contagio del 1656 que’ maestrati nell’aiuto che diedero anche agl’infelici Ebrei, fra i quali poi fu osservata, per attestato del cardinal Gastaldi, questa carità, cioè che quei d’altre città d’Italia sane spedirono non leggieri soccorsi di danaro all’università appestata degli Ebrei di Roma. Sicchè chiunque ha viscere di carità cristiana e stimolo d’onore, come può essere che potendo soccorrere non soccorra al miserabile e compassionevole stato di tanti suoi concittadini, che non per loro colpa, ma per la costituzione del tempo, si veggono esposti ogni momento a morir di fame o pure di peste, e a cagion della loro miseria? Perduto è quello che si dona al lusso e ai peccati: non è così di ciò che s’impiega in sollevare le altrui calamità. Prescindendo anche dalla legge cristiana, non ci può essere secondo le leggi del mondo azione più gloriosa ed eroica che il sovvenire ai bisogni della patria e del prossimo. Quanto più dunque dovrà ciò farsi da chi seguita Cristo, il quale nel dì del giudizio null’altro più dimanderà agli uomini, quanto se abbiano usata carità e misericordia verso dei bisognosi? Oltre a ciò egli ha detto in S. Giovanni al cap. XIII, 35 (e ce ne abbiam da ricordare tutti, e sempre) che undistintivo d’essere vero cristiano e suo buon seguace, consiste nell’amarci l’un l’altro.In hoc cognoscent omnes, quia discipuli mei estis, si dilectionem habueritis ad invicem.E questo santo amore, senza il quale non saremo riconosciuti nè dagli uomini, nè da Dio per veri cristiani, non ha già da essere un amor di sole parole, ma un amore di fatti; e ce ne avvisò il suo diletto discepolo Giovanni nella epist. I, cap. III, 18, con quelle parole:Filioli mei, non diligamus verbo, neque lingua, sed opere et veritate.Cioè:miei cari figliuoli, amiamoci non colle parole, e colla sola lingua, ma colle opere e colla verità.Certo poteva il Signore Iddio fare che chi ora è comodo e ricco, nascesse, e durasse per tutta la sua vita nel numero dei pezzenti e del povero volgo. Non l’ha fatto per sua bontà. Ora che ingratitudine non sarebbe mai, se in così evidente incredibile necessità i benestanti non sovvenissero col superfluo loro ai bisogno e ai guai dell’infelice plebe? Questa giustizia l’esige Dio; questa gratitudine l’aspetta quel benefico Signore da tutte le persone comode, e da quel remuneratore potentissimo ch’egli è; non mancherà poi di ricompensarla con centuplicata mercede in terra, difendendo spezialmente la vita dei caritativi, e poi d’infinitamente premiarla, quando a lui piacerà, nel suo beatissimo regno.

La carità è ingegnosa allorchè ci sta nel cuore; e però sarebbe superfluo l’insegnar qui ad alcuno, come si debba o si possa giovare in tempi di peste al prossimo nostro. Dirò nulladimeno che primieramente bisogna di buon cuore concorrere alle collette, che facesse il pubblico di letti, biancherie,legnami, vettovaglie, danari, ecc. Girolamo Previdello, legista reggiano, nel suo Trattato della peste tiene con Baldo, che nessuna persona, quantunque privilegiatissima, sia scusata da queste collette e nè pure gli ecclesiastici, i quali però s’intende che debbono essere regolati in questo dai loro prelati. Poscia sarà un bell’impiego della carità il ritenere per amore di Dio que’ servitori che già si avevano in casa, senza ascoltare l’interesse o la politica del mondo che forse in quelle strettezze e timori consiglierebbero il licenziarli. Diventerà ancora assai meritorio presso a Dio il dare allora (senza che se ne abbia bisogno) da lavorare ai poveri, acciocchè si guadagnino il pane, ad oggetto appunto di far loro del bene; perchè se ben paresse agli occhi del mondo interessata questa azione, pure agli occhi di Dio comparirà per un atto di lodevol carità. Chi poi prendesse ad alimentare allora alcuni determinati poveri (e i parenti spezialmente, se ne avessero bisogno) scaricando i conservatori del pubblico dal peso d’essi, e dandone loro contezza, acciocchè non cogliesse tal gente anche la limosina altronde; certo è che di lunga mano più inviterebbe sopra di sè le benedizioni di quel gran Dio che ama e consiglia tanto la beneficenza verso il prossimo. Molto più si farebbe, ricoverando povere fanciulle rimaste orfane, e perciò in pericolo di perdere l’onestà e la vita, e il vescovo spezialmente accudirà e farà accudire a questo, con provveder poscia dopo la peste, per quanto potrà, al sostentamento e all’asilo di quelle che ne avessero bisogno. Che se il Signor Iddio preserva qualcheterra o parte del paese, hanno gli abitanti d’essa da tenere sempre davanti agli occhi le calamità de’ vicini infetti, e inviar loro quell’ajuto che possono. Queste son divozioni sode, perchè la carità è la principale delle virtù e la regina delle divozioni. In una parola, con danari, vettovaglie, mobili, medicamenti, ecc., si può allora porgere soccorso al bisogno e alle infermità altrui; e il non porgerlo per timore che possa poi mancare un giorno a sè il bisognevole, sarà talvolta un poco fidarsi di Dio, e un consigliarsi colla sola avarizia e col troppo amor di sè stesso. Se non faremo allora del bene al prossimo, quando poi vorremo noi fargliene?

E perciocchè alcuni appunto ci sono che in tempi di pestilenza credono che loro debba mancar la terra sotto i piedi, e non si saziano d’unir vettovaglie, quasichè il cattivo influsso avesse a durar degli anni; anzi si trovano di quelli che sol pensano a far traffico e guadagno delle disgrazie altrui, dovranno i parochi e predicatori raccomandare anch’essi a tutti, sia chi si voglia, il non nascondere e non incarire i grani, essendo obbligo di peccato grave il vendere allora e a giusto prezzo, l’annona superflua al bisogno suo. Troppo è facile in sì fatte congiunture che la povera gente muoia di fame e di disagio. Uniscasi appresso coi magistrati il vescovo zelante, per adunar limosine e apprestare ogni aiuto al prossimo, studiandosi, se mai si potesse, di raccogliere in un luogo solo tutti i mendicanti, e di alimentarli ivi, siccome ancora d’impiegare in varj ministeri, necessarj allora al pubblico, le persone che restasserosenza padroni, o senza mezzo di procacciarsi il vitto coll’arte ed impiego loro consueto. Tanto pur fece S. Carlo, concorde coi maestrati nella peste di Milano, avendo egli procurato un luogo fuori della città a tre o quattro cento di questi poveri artisti e servitori sfaccendati, con alimentarli dipoi e farli regolare come se fossero stati entro d’un monastero. Oltre al soccorso ch’egli contribuiva del suo, inviava poi gli stessi poveri ordinati in ischiere per le vicine terre, cantando le Litanie ed altre orazioni col crocifisso avanti, per eccitar maggiormente i fedeli a far loro larghe limosine. E perchè venuto il verno, non si trovava provvisione per vestirli e difenderli dal freddo, non potendo sofferire il pietoso padre di vederli patire, trovò finalmente un buon partito, che fu di pigliare tutte le tappezzerie, portiere, padiglioni e quanti altri panni e drappi egli aveva in casa, non riservando per sè e per la sua famiglia, se non da mutarsi una volta; e questi panni e drappi di varj colori fece convertire tutti in vesti per quei poverelli. A tanto ancora si ridusse il santo e caritativo cardinale che si privò infino del proprio letto per soccorrere alle necessità del suo dilettissimo popolo.

Dovrà dunque il vescovo tener conto esatto di tutti quelli che avran bisogno d’aiuto, inchiudendo in questo numero anche i monasteri ed ogni altro ecclesiastico povero, per provvedere a ciascuno, secondo che potrà il meglio, anteponendo sempre i più miserabili e bisognosi agli altri. A questo effetto sarà non solo utile, ma ancora necessario l’instituire una pia confraternità, che si chiameràdella misericordia o della carità, o pure instituirne molte, cioè una per quartiere, ufizio di cui sia il visitare i poveri e gl’infermi, e l’invigilare ai lor bisogni, l’avvisarne i deputati e il raccogliere limosine di danari, farine, pane, vino ed altri commestibili, o pur di biancherie, vesti, mobili, ecc., per poi distribuirle ai lazzeretti, ovvero ai bisognosi della città e de’ quartieri, e per mantener loro medici, cerusici, spezieria, ecc. Medesimamente si arroleranno a questa divota compagnia tutti quegli dell’uno e dell’altro sesso, che, animati dallo spirito di Dio con particolar vocazione, si offeriranno al servigio degli appestati e de’ lazzeretti. Nella pestilenza che accadde a’ tempi di S. Cipriano in Cartagine, per quanto narra Ponzio Diacono, il santo vescovo esortò ognuno agli ufizj della carità, in maniera che tutto quel buon popolo infervorato si accinse ad aiutarsi l’un l’altro. Appressodistributa sunt continuo pro qualitate hominum atque ordinum ministeria. Multi, qui angustia paupertatis, beneficia sumtus exbibere non poterant plus sumptibus exibebant, compensantes proprio labore mercedem divitiis omnibus cariorem. Non si ammetteranno però se non persone che sieno dabbene, e dalle quali si possa ragionevolmente sperare fedeltà e carità. Ogni paroco descriverà nella sua parrocchia quei che si esibissero a questo santo impiego, e ne darà nota al vescovo, il quale secondo le occorrenze destinerà loro gli impieghi. Leggiamo del suddetto S. Carlo che osservatasi dalle finestre dell’arcivescovato una fanciulla, poco lontana dallo spirar l’anima, a cui la madre presente non osava accostarsi, nè porgereaiuto, il santo Cardinale avendo egli medesimo veduto il misero stato della povera figliuola, mosso a compassione di lei, fece chiamare una vergine di S. Orsola, che già se gli era offerta per somiglianti bisogni, e la mandò a soccorrere l’infelice moribonda. Entrò coraggiosamente la vergine in quella stanza, e levando di mezzo a due fratelli morti l’agonizzante zittella, la lavò e le fece altri fomenti, con che si riebbe, in guisa che dopo varj altri ajuti fu condotta al lazzeretto e restituita in perfetta sanità. Altrettanto fece nella peste di Lione del 1629, per attestato di Teofilo Rinaldo, un’onesta e generosa vedova, per nome Giovanna Mauris, che inteso esser morti di peste i genitori d’un bambino lattante, corse in quella casa, e preso l’abbandonato fanciullo, diede poscia a lattarlo ad una capra.

La distribuzione delle limosine si farà non dal paroco, ma dai capi d’essa confraternità, o da altri conosciuti per molto fedeli e savj. Che se il paroco dovrà farla egli, abbia in sua compagnia qualcuno d’essi confratelli o altre persone timorate di Dio. E si ricordi ai raccoglitori e distributori che sarebbe reo di colpa mortale chi dispensasse, o ritenesse per sè tali limosine senza necessità, essendo questo un rubare a quei che hanno vero bisogno. Dovrà poi il vescovo, quando la necessità il richiedesse, permettere che s’impieghino in sollievo de’ poveri alcuni legati annui, destinati ad altre opere pie. Raccomandi ancora, se ne conoscesse il bisogno, ai maestrati e deputati, di non lasciar mai abbandonato alcuno o sospetto o infetto, finchè sia vivo, perchè il fare altrimenti è un’indicibile crudeltà. Di più raccomandiloro che per quanto si potrà, non impediscano che i figliuoli ai genitori, i genitori ai figliuoli, e i parenti ai parenti servano nell’infermità o nel sospetto di peste, essendo ciò un ufizio di gran carità e pietà. Anzi accadendo pur troppo che allora molti si avviliscano, e dimentichi delle leggi della natura e molto più di quelle della carità, pensino a salvar solamente sè stessi nel naufragio, senza badare nè al pericolo nè al bisogno de’ loro più congiunti, sarà cura dei parochi e predicatori il raffrenare, per quanto potranno, una tale mostruosità, con rappresentarne la bruttezza, e con inculcare a tutti il debito della gratitudine, e i bellissimi e santissimi insegnamenti della carità cristiana. Ci avvisa qui S. Antonino che il non somministrare quando si possa agl’infetti le cose necessarie al corpo e all’anima loro,est contra charitatem, humanitatem, et cristianam pietatem.E giacchè il Signor Iddio (non si può ricordare abbastanza) nel finale giudizio più d’ogni altra cosa ci chiederà se avremo esercitate le opere della misericordia verso il prossimo nostro, quanto più sarà inesorabile il suo sdegno contra chi nè pure avrà aiutato i congiunti che noi più degli altri dobbiam amare e soccorrere; e quanto più perdonerà il Dio della carità, e darà premj di vita eterna a coloro che, coraggiosi e fedeli, senza lasciarsi atterrire nè da pericoli, nè da incomodi, nè dall’aspetto della morte terrena, avranno assistito con santa unione e pazienza alla cura e al bisogno de’ lor genitori, figliuoli e parenti?

A questo proposito non sarà grave ad alcuno l’intendere ciò che scrive uno degli antichi storiciitaliani, cioè Matteo Villani, il quale descrivendo la spaventosa peste de’ suoi giorni, accaduta nel 1348, così parla:Tra gl’infedeli cominciò questa inumanità crudele che i padri e le madri abbandonavano i figliuoli, e i figliuoli le madri e i padri, e l’uno fratello l’altro e gli altri congiunti; cosa crudele e maravigliosa, e molto strana della barbara natura, ma molto più detestanda tra i fedeli cristiani, nei quali, seguendo le nazioni barbare ed infedeli, questa crudeltà si trovò. Essendo cominciata nella nostra città di Firenze, fu biasimato da discreti la sperienza veduta di molti, i quali si provvidono, e rinchiusono in luoghi solitarj e di sana aria, forniti d’ogni buona cosa da vivere ove non era sospetto di gente infetta. Ma in diverse contrade il divino giudizio (a cui non si può serrar la porta) gli abbattè come gli altri che non s’erano provveduti.E molti altri, i quali si disposero alla morte per servire i loro parenti ed amici malati, camparono avendo male; e assai non l’ebbono, continuando, in quel servigio: per la qual cosa cadauno si ravvide, e cominciaro senza sospetto ad aiutare e servire l’un l’altro; onde molti guarirono; e guarendo erano più sicuri a servir gli altri.Anche Evagrio nel lib. 4, cap. 28, della Storia narra che in una gran peste molti servendo ai suoi parenti malati, benchè desiderassero anch’essi di morir con esso loro, pure non s’infermavano punto. L’ordine poi della carità richiede che si aiuti prima il padre e l’avolo che gli altri parenti; prima i figliuoli che la moglie; prima i parenti che gli amici; prima chi è posto in estrema necessità spirituale, che il costituito in sola estremanecessità corporale. Finalmente per animar sempre più il popolo a soccorrersi caritativamente in occasione sì propria e di sì grave bisogno, potrebbe il vescovo far dare alle stampe cose pie, spettanti a simili calamità, come un’omelia di S. Gregorio Nazianzeno, due sermoni di S. Gregorio Nisseno intorno al soccorrere i poveri, un sermone di S. Cipriano della mortalità, ed uno sopra la limosina, e così altre omelie del Crisostomo e d’altri SS. Padri che inspirassero e dilatassero la santissima virtù della carità ne’ fedeli, e tutte tradotte in italiano, affinchè il latino non ristringesse il frutto a quei soli pochi che l’intendono.


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