CAPO V.

CAPO V.

Peste comunicata pel contatto dell’aria, de’ corpi e delle robe appestate. Come l’una parte del paese abbia da difendersi dall’altra. Regolamento pel trasporto delle vettovaglie. Non occultare il morbo. Uffizio de’ medici, e maniera di opprimere la pestilenza introdotta.

Peste comunicata pel contatto dell’aria, de’ corpi e delle robe appestate. Come l’una parte del paese abbia da difendersi dall’altra. Regolamento pel trasporto delle vettovaglie. Non occultare il morbo. Uffizio de’ medici, e maniera di opprimere la pestilenza introdotta.

Egli è notissimo che dall’intrinseco veleno della peste viene l’uccider ella sì facilmente gli uomini, e che dal suo contagio, cioè, dal toccar l’aria o i corpi o le robe appestate vien poi l’ucciderne ella tanti, e lo spopolar le città: il perchè contagio suol anche appellarsi la peste. Il principal dunque e quasi infallibil rimedio per guardarsi da così terribil nemico, non è altro che il guardarsi dal toccamento di tutto ciò che può contenere e comunicare il veleno pestilenziale. Gli altri rimedi son fallaci le più delle volte: questo solo vien comprovato per sicuro dalla sperienza di tutti i tempi. Perciò abbiam lodato cotanto di sopra il fuggire, ed ora dobbiamo maggiormente inculcare che la gran cura dei magistrati ha da consistere nell’impedire affatto o nel regolar così bene il commercio che i corpi sani si difendano dal malore degl’infetti.Nullum praesentius remedium adversus pestem comprobavit usus, quam sana corpora adiuvare, ne inficiantur,così scrisse dopo la sperienza fattane il cardinal Gastaldi.

Ora in due tempi e forme si dee levare il commercio delle persone e robe; cioè o ne’ sospettidi peste o dopo aver già la peste invasa la città. Per conto del primo le savie città, udito qualche sospetto o romor d’infezione nelle circonvicine, non fidandosi (e con troppa ragione) degli avvisi delle medesime, spediscono segretamente colà qualche medico non conosciuto o altra persona accorta che s’informi bene e ponderi ogni successo; e sulla relazione prendono poi le loro misure e cautele. Poscia appena s’udirà grave sospetto o dichiarazion chiara di peste in qualche popolo, che gli altri popoli sani, i quali ragionevolmente possono temere di contrarre quel morbo, debbono interrompere il commercio con esso, bandendolo con rigorosi editti, e non accettando più, se non colla quarantena, persone, merci e robe di colà procedenti, e nè pure ammettendole talvolta colla quarantena, secondo la qualità o vicinanza del male. Questo è notissimo; e volesse Dio che gli altri popoli imitassero in ciò la saggia e severa condotta della repubblica veneta. Egli è facile, così facendo, lo schivar le pesti, e però il poco fa citato cardinal Gastaldi formò queste due verissime conclusioni:Contagium negligere crebrior in pestilentiis error a prudenti regimine magis cavendus. Pestis praevisa facile vitari potest. Poscia crescendo il pericolo, dee ogni terra e città ordinare che ognuno denunzi qualunque malato all’ufizio della sanità. Di cadauno sia fatta la visita attenta da qualche medico o chiamato da essi o deputato dalla città, il quale fedelmente riferisca con fede in iscritto la qualità di quel male, per poter passare ad ulteriori ripari in caso di bisogno. Niuno, eccettochè il medico ed altre personenecessarie, possa visitare infermi, ancorchè non si sia peranche scoperta la peste. Anche i conventi de’ religiosi e delle religiose, e i conservatorj saran tenuti alla stessa denunzia; e il medico e cirusico d’essi luoghi dovrà anch’egli dare la relazione.

Ma qualora la peste, superati i confini d’uno stato, penetri in qualche terra, castello o porzion del medesimo, i circonvicini e la città capitale debbono bandirla e tagliare ogni commercio con quella parte infetta, serrandola, mercè d’un cordone o d’altri ripieghi, tanto che non comunichi il suo veleno alle parti intatte di quello stato o distretto, ma senza mancare di prestar loro ogni possibile soccorso ed istruzione in tanta calamità. Così l’un castello può e dee difendere sè stesso e il territorio suo dall’infezione degli altri, levando loro ogni commercio. Di più infettata la città capitale, non solamente possono, ma debbono le altre città e terre bandirla; anzi il principe o i magistrati debbono loro ordinarlo. Così fece ancora il nostro duca Francesco I nel contagio del 1630, scrivendo a san Felice e ad altre terre che mettessero sotto il bando la stessa città di Modena. Altrettanto fu eseguito nel contagio di Roma del 1656, essendosi con pubblico proclama ordinato che le terre e castella sane potessero e dovessero bandire Roma infetta co’ suoi casali, vigne e case di campagna. E certo una tal cautela e difesa delle parti sane è secondo il gius della natura; e i principi e superiori peccherebbono contra la giustizia a contra la carità, anzi contra il pubblico e proprio interesse, ove non cercasserodi salvare quanto si può dello stato loro e volessero per la loro o negligenza o ostinazione involto tutto nel comune naufragio.

Quel solo che qui è da avvertire si è che il distretto suburbano e le ville poste nel contorno della città si debbono ben difendere colle possibili diligenze dal contrarre il morbo penetrato nella città; ma non possono elle, nè debbono con rigoroso bando segregarsi da essa città: altrimenti affamerebbono i cittadini padroni d’esso territorio; e inutile ancora riuscirebbe un tal rigore, ove tali ville fossero anch’elle infette. Sicchè la cura che i rustici di queste terre e i cittadini hanno d’avere, sarà quella di ben regolare il commercio de’ viveri e delle persone, in guisa che i sani non prendano l’infezione dei malati e seguiti a concorrere alla città quel soccorso di vettovaglie che le occorre e le è dovuto. Anzi, siccome vedremo, si può ordinar bene il commercio dei viveri, che annona e grascia vengono appellati, tra una città o terra infetta e bandita, e le altre sane, senza che si comunichi o si riceva il veleno pestilenziale; e perciò le terre e castella sane che abbiano bandita la città, debbono poi permettere il trasporto delle grascie ad essa città colle cautele decretate.

Allorchè la peste s’è finalmente spinta ed ha preso possesso in qualche città, o popolazione, s’ha da attendere a vietare il commercio, per quanto si può, fra il popolo infetto o sospetto e il tuttavia sano ed illeso. Qui è il difficile e qui ha da essere lo studio più acuto e la maggior attenzione e vigilanza dei magistrati; imperocchè ilnemico feroce è in casa e la maggior parte del popolo costretta dalla necessità a fermarsi ivi, non gli può abbandonare il campo. Ove dunque ci sia modo di mettere su quel principio in quarantena tutto il popolo, riuscirà, siccome dicemmo, assai facile il liberar la terra o città in poche settimane dal male, non essendoci più efficace maniera d’impedir la comunicazione, non che la dilatazione d’una pestilenza, e di poter purgare in breve tutta la città che questo imprigionamento e questo levare affatto il commercio. Ma perciocchè a molte città mancheranno i mezzi per istituire e sostenere questa rigorosa universal quarantena o pure per negligenza o frode d’alcuni non se ne caverà il profitto che pure se n’avrebbe a sperare: convien sapere e mettere in opera gli altri consigli e mezzi finora praticati dal saggi magistrati per impedire o per ben regolare il commercio e salvarsi in mezzo alla peste e fra la gente appestata o sospetta.

In tre maniere si può ricevere il veleno della pestilenza, cioè toccando i corpi umani appestati o le robe e gli animali da loro maneggiati e toccati ovvero l’aria respirata da essi o contigua. Gli spiriti velenosi di questo fierissimo morbo, oltre all’uccidere con facilità quelle persone, in cui si cacciano, agitati dal respiro e dal calor febbrile ed interno; si spargono ancora per l’aria a una debita distanza dal corpo infetto; e s’attaccano alle merci, a’ panni e ad altre robe e agli animali e agli altri corpi umani, co’ quali esso corpo infetto ha comunicazione col contatto. Per questo i sani debbono guardarsi dal commercio e contattonon men delle persone infette che delle robe e dell’aria loro. Io tratterò in primo luogo del commercio delle persone.

E qui avanti ad ogni altra cosa si dee osservare, qualmente scoperto, che la peste sia contagiosa ed abbia già avuto adito nello stato o nella città, si fa un solenne sproposito a volerla tenere occulta, per timore di perdere il traffico e commercio coi vicini. Questa è la via di lasciarle ben prendere piede e dilatarla, senza più speranza di espugnarla e con danno gravissimo sì de’ cittadini che dei forestieri, i quali praticando alla buona e non usando le debite cautele, perchè non avvisati del male, s’infettano e portano a’ vicini e a’ lontani la rovina. Bisogna dunque subito scoprirla e combatterla e avvisare del pericolo il popolo tutto e chiunque dianzi praticava con libertà. Per sentimento del Rondinelli, se quando in una città il contagio comincia, si potesse far tosto crederlo tale a tutti e farlo temere per quel mostro divoratore ch’egli è, il male non farebbe tanto progresso nè si vedrebbe nelle case l’esterminio che molte volte accade. Appresso è sommamente da avvertire che in sospetti di peste hanno i medici da stare attentissimi ad ogni accidente o malattia, per avvertirne i magistrati e discernere se vi sia caso di peste. Ma si tengano essi lontani da quelle strane dispute che son talvolta succedute ne’ principj del male, cioè se sia o non sia pestilenziale, sostenendo ciascuno per impegno l’opinione sua, ma con incredibil danno della città, che su questo dubbio non si risolve agli ultimi rigorosi spedienti e rimedj. Nel 1576 la pestilenzaprese gran piede in Venezia, con farvi poi un’orribilissima strage, perchè non si dichiarò, se non troppo tardi che era peste vera; e ciò per colpa de’ medici che non finirono mai di disputare se fosse o non fosse. Per quanto narra nelle sue storie Natal Conti, furono chiamati da Padova a Venezia Girolamo Mercuriale e Girolamo Capovacca, celebri medici, i quali sostennero quelle non essere infermità pestilenziali e si esibirono alla lor cura. Così continuando il commercio cominciò a morir tanta gente e a dilatarsi cotanto la furia del male, che i due medici suddetti conoscendo scaduta la loro riputazione ed in pericolo d’oltraggi la loro persona, si ritornarono a Padova mal soddisfatti di sè medesimi. Altrettanto avvenne in Firenze per la peste del 1630, altrettanto in Malta per quella del 1675. Altri esempi ce ne sono stati; ma pur troppo ce ne darà degli altri il tempo avvenire, perchè le teste umane saran quelle di sempre. Meglio è in tali casi ingannarsi col prendere per effettivo contagio quello che non è, e provveder per tempo, benchè senza bisogno, che il trascurare gli opportuni ripari per volerla far da accurato filosofo nel riconoscere la vera essenza e le qualità del male. Se a questo si fosse badato meglio dai medici di Vienna, non avrebbe nel presente anno 1713 preso tanto possesso in quella imperial città l’epidemia contagiosa che vi regna o almeno si sarebbero facilmente preservate da sì dannosa influenza altre province confinanti all’Austria, le quali gemono anch’esse sotto questo flagello con pericolo ancor dell’Italia.

Ho detto di sopra che la città di Ferrara si preservò illesa nel 1630 dal contagio, quantunque fosse attorniata dal medesimo, e succedesse entro la stessa qualche caso di peste. Ora debbo aggiungere potersi attribuire una sì mirabil preservazione a varie cagioni sì naturali, come soprannaturali, come sarebbe l’essersi finalmente appigliato quel magistrato al rigore di non lasciar entrare in città persone, tuttochè procedenti da luoghi sani, senza una particolare ispezione, e di negare affatto l’ingresso a qualsivoglia mercatanzia, di cui anche vi fosse stato bisogno, con lasciare che i mercatanti gridassero, e con escludere insino le suppellettili degli stessi Ferraresi che aveano villeggiato, e con altre esecuzioni d’austerità contro i trasgressori delle leggi, ladri di robe infette, ecc. Ma forse il più utile dei ripari fu la sollecitudine ed esattezza nel pubblicare ed estinguere il male nascente. Altre città, come Verona, Milano, Parma fecero quanto poterono per occultar l’infezione già presa, o sia perchè ivi troppo si disputasse, secondo il solito, se fosse o non fosse male di peste, o sia perchè ad ognuno rincresce d’essere bandito e privato del commercio co’ vicini. E perciocchè tali città dai vicini più attenti vennero bandite, non s’udivano che querele, ascrivendosi tali bandi a precipizj e a passioni, benchè poi simili prevenzioni de’ vicini restarono comprovate giuste dalla peste che giunse da lì a poco a non potersi negare. I savi magistrati di Ferrara non si guidarono così, come si ha dalle lor memorie stampate. Appena addì 13 di maggio fu scoperto il male del Veronese di sopra accennato che, tuttochè nonfosse se non dubbioso quello essere tocco di pestilenza, fu risoluto di pubblicarlo come veramente pestilenziale, con trasportare di bel mezzo giorno al lazzaretto tutti gli abitanti della casa ove morì costui, colle robe loro, e sequestrando chi aveva conversato con esso lui, credendo meglio i Ferraresi il perdere, siccome avvenne, per tal rumore il commercio co’ vicini, che l’esporre la patria al pericolo d’un danno incomparabilmente maggiore. In fatti gli abitanti d’essa casa, al numero di sette, morirono successivamente di poi, e parte d’essi con buboni e carboni evidenti. Altri casi di chi morì chiaramente di peste succedettero in quello stesso anno nella città medesima; ma colla pronta provvisione si troncarono tutte le conseguenze pregiudiziali. In una parola, dopo il primo caso si stabilì e fu conosciuta necessaria, non che utilissima, quella gran massima di sempre interpretare per peste ogni accidente indicante indifferentemente peste e non peste; e quantunque alcune volte (furono nondimeno esse ben poche) forse non si accertasse ivi nel giudicare, tuttavia si accertò sempre in assicurar la patria, essendosi apertamente veduto che in sette o otto casi almeno dentro la città e in altri nel territorio restò oppresso il male vero e reale, senza lasciargli campo a dilatarsi. In effetto molte terre di quel distretto, contuttochè circondate dal morbo, seppero così ben difendersi col rigore e colla diligenza, o opprimere il male introdotto, specialmente col confinar esso, e con lo starsene le persone ritirate, che la passarono netta. Gioverà ad ognuno l’avere sempre mai presenti simili rilevanti esempj, pernon dormire e per non disperarsi quando mai venissero que’ miseri tempi. Il perdere il commercio de’ vicini, il penuriar di molte mercatanzie e d’altri comodi della vita, certo è un male; ma questo male può dirsi un nulla in paragone del fuoco divoratore della peste; anzi la perdita di esso commercio, benchè mal veduta, può chiamarsi un gran bene, perchè serve anch’essa a impedire la comunicazione del contagio. In somma ebbero, secondo me, ragione i Ferraresi di conchiudere nelle lor memorie poter eglinocertificare agli altri che il pubblicare prontamente il male, e il tenere per contagioso ogni caso che sia capace di sospetto, è l’unico rimedio all’estinzione del medesimo male.


Back to IndexNext