CAPO VI.
Carità de’ principi verso i lor sudditi. Maggiore si esige dagli ecclesiastici che dai laici e molto più dai benefiziati. Obbligazione dei regolari. Doversi in caso di necessità impiegare anche i vasi sacri. Carità eccellentissima di chi si espone alla cura degl’infetti. Come s’abbiano da preservare tali caritativi.
Carità de’ principi verso i lor sudditi. Maggiore si esige dagli ecclesiastici che dai laici e molto più dai benefiziati. Obbligazione dei regolari. Doversi in caso di necessità impiegare anche i vasi sacri. Carità eccellentissima di chi si espone alla cura degl’infetti. Come s’abbiano da preservare tali caritativi.
Ma se, in tempi massimamente di pestilenza, tutto il popolo dee aver tanto a cuore ed esercitare le carità, quanto più poi dovranno averla ed esercitarla i capi del popolo, i principi della terra? Sanno essi che il difendere, conservare e soccorrere i proprj sudditi, è un debito patente del loro grado, e un interesse premurosissimo della lor potenza, e che non possono altronde sperar gloria più grande quanto dal ben soddisfare aquesto ufizio. Sanno che il Signor Iddio nel costituirli sopra il popolo gli obbligò a procurare più la felicità di questo popolo che la loro propria; e che appunto dalla conservazione e felicità dei sùdditi dipende la maggiore lor felicità e riputazione. Il perchè, quando s’odono le minacce, o si prova il flagello della pestilenza, i buoni principi prima degli altri sottopongono sè stessi alle leggi ed ai riguardi comuni, per tener lontano questo fiero nemico, e non portare in seno ad alcuno la rovina. Non permettono che i lor ministri, dazj e gabelle sieno d’impedimento alla preservazione del popolo; anzi stimano gran guadagno le perdite loro, se queste possono contribuire alla salute del pubblico. In una parola, siccome veri padri del popolo, non perdonano a spesa, diligenza e premura alcuna, per salvare e sovvenire in tanta calamità la gente, consegnata alla lor prudenza e carità dalla provvidenza divina, come se fossero tanti loro figliuoli.
E qui merita d’essere rammemorato uno dei principi italiani del secolo prossimo passato, per le sue gloriose azioni in occasion di contagio, cioè Ferdinando II, granduca di Toscana. Entrò la peste in Firenze nel 1630, e quel caritativo principe mantenne sempre del suo ed anche con suntuosità i tre lazzeretti allora costituiti. Non cessando poi la strage, si venne finalmente al ripiego di mettere sul principio dell’anno seguente in general quarantena tutta la città, e nello stesso tempo ancora tutti i luoghi del suo distretto; risoluzione che da tutti i saggi fu creduta e provata in fatti per l’unico antidoto che estinse affatto il male.Descritti pertanto gli abitatori tutti colla loro età, condizione e sesso, emanò un editto che chi avea bisogno di vitto dal pubblico, stesse per 40 dì in casa (si allungò poi questo sequestro sei altri giorni di più per arrivare al principio della quaresima) nè potesse sotto qualsisia pretesto uscirne senza licenza de’ deputati. A chi potea vivere a sue spese, era prescritto che un solo ben sano della famiglia potesse, con licenza però del maestrato in iscritto, uscir di casa una sola volta il dì al suono d’una campana, per provvedersi di quello che bisognava, con poter anche andare ai cancelli fuori di tre porte per comperarne dai rustici affatto esclusi. Per i bisognosi erano preparati magazzini di vino, olio, grano, farina, ecc., a’ quali soprintendevano nobili, portandosi alle case d’essi poveri la porzione, cioè per ciascuna persona, senza riguardo di sesso o di età, due libbre di pane, una misura di vino e mezz’oncia di sale ogni dì, mezza libbra di carne ogni tre dì della settimana, e negli altri giorni due uova o talvolta due once di cacio, oltre a certa distribuzione di olio, aceto, fascine, ecc., nel che quella città impiegò rilevantissime somme di danaro. Dì e notte i soldati battevano la pattuglia, e due del maestrato della sanità andavano ogni dì girando a cavallo per udire il bisogno di tutti. Ora durante la suddetta quarantena il granduca Ferdinando, non contento di tanti altri atti del suo amore, che qui tralascio, verso il suo popolo, non lasciava giorno, quantunque la stagion fosse rigida, che anch’egli non passeggiasse per le contrade, consolando i mestissimi sudditi, ascoltando le lor necessità eprovvedendo a tutto; atto veramente eroico di un principe vero padre del suo popolo.
È chiara l’obbligazion dei laici di soccorrersi l’un l’altro in tempi di tanta miseria; ma molto più senza fallo dovranno allora accendersi di carità e giovare al prossimo, gli ecclesiastici sì secolari, come regolari. Parla da per sè questa verità, ed è superfluo il citare autori. Per l’obbligo ch’essi hanno di dar buon esempio agli altri, e per debito della lor professione, che è d’essere più virtuosi degli altri, siccome entrati nella sorte ed eredità del Signore, questo medesimo Dio richiede e aspetta da loro nelle calamità della pestilenza ogni ufizio di carità fraterna. Chi può colla roba, dee soccorrere con essa alla miseria del popolo; chi non può con questo, vegga di potere colla persona o in altra forma. I vescovi spezialmente sono a ciò obbligati dai sacri canoni e dai ss. Padri. E per conto della roba, è da ricordarsi che se bene gli ecclesiastici che godono commende, abbazie e benefizj, o semplici o curati, conceduti loro dalla Chiesa, son tenuti in ogni tempo sotto pena di grave peccato a distribuire in usi pii, e massimamente in benefizio de’ poveri, le rendite d’essi beni, con potersi eglino solamente riservare quello che è necessario all’onesto e non pomposo loro sostentamento, pure allorchè infierisce la pestilenza, cresce questo obbligo, dovendo eglino vivere allora più frugalmente che mai, e sottrar molto alle loro comodità, per rimediare in quel che possono ai tanti incomodi ed affanni che il popolo è costretto allora a sofferire. Le rendite della Chiesa, per comune sentenza de’ concilj, de’ ss. Padri e de’ teologi,sonoBona Christi, Pauperum Patrimonia. Quando mai è più proprio il tempo che i poveri godano il frutto di questi lor patrimonj, che nelle estreme necessità e sciagure d’una pestilenza? E quand’anche non ci fosse questa obbligazion precisa, imposta dalla Chiesa, anzi, per così dire, dalla natura stessa, a tutti i benefiziati di qualunque ordine e grado che sieno, dovrebbe essere più che sufficiente a muovere gli ecclesiastici che possono, all’altrui sovvenimento, l’aspetto e la considerazione di tante miserie, nelle quali è allora involta l’infelice plebe, se pur eglino han cuore in petto e si ricordano d’essere servi dichiarati di Cristo, e ministri del vangelo e da chi eglino han ricevuto que’ beni stessi. Ma che sarebbe poi, se taluno del clero, in vece di contribuire le sue sostanze in sollievo de’ miseri, s’industriasse di far anche guadagno sulle sciagure altrui, e facesse servire il suo contribuir soccorsi spirituali al popolo per veicolo de’ proprj temporali profitti?
Corre poi questa medesima considerazione anche per i luoghi pii e per qualunque monistero, convento e comunità religiosa benestante, dovendo anch’essi contribuire il loro superfluo, anzi assai più del superfluo, con risparmiar quanto possono allora, per soccorrere quel popolo, onde eglino una volta riceverono i beni temporali. Guglielmo, abate di S. Benigno di Digione, o sia Divionense, uomo di santa memoria, nel secolo XI tornato d’Italia, trovando che i suoi monaci aveano la dispensa e il granaio pienissimo, e che contenti di dare ai poveri l’ordinaria limosina, non soccorrevano ad essi come potevano, sdegnato sbalzòsu dalla sedia, e girando pel monastero non si saziava di replicare o con alta o con bassa voce:Ubi est charitas? Ubi est charitas? Dove è la carità?Quindi fece chiamare i poveri e distribuir loro quanto gli venne alle mani e ai monaci che voleano dipoi placarlo, andavano pure rispondendo:Ubi est charitas?Anzi nelle calamità d’un contagio nè pure si hanno allora a lasciare in dietro i ricchi arredi e i vasi sacri delle chiese; ma conviene, o è necessario il convertirli in soccorso de’ poveri, qualor ne corra il bisogno. Non solo non sarà disgradevole a Dio un impiego tale delle oblazioni a lui fatte, ma anzi sarebbe a lui troppo disgradevole, se non si facesse e se l’umano interesse, furtivamente ammantandosi delle vesti della pietà e religione, trovasse colori e via per consigliare il non farlo. Premono più senza fallo al Signore i poveri, cioè la sua famiglia, e i tempj animati dello Spirito Santo, che gli ornamenti esterni del tempio materiale, i quali sono bensì lodevoli e parte ancora necessarj, ma senza che sia necessaria anche la lor ricchezza ed abbondanza. Io potrei provare più diffusamente questa sentenza, se credessi che alcuno ne avesse bisogno. Basterà pertanto il ricordare qui che S. Giovanni Grisostomo, S. Girolamo, S. Bernardo ed altri SS. Padri non lasciano dubitarne, da che eglino non hanno molto lodato chi fa servire senza necessità al lusso dei sacri tempj ciò che sarebbe meglio impiegato in soccorso delle necessità dei poveri. Ma più degli altri, parla chiaro un altro dottore della chiesa, cioè S. Ambrosio nel lib. 2, cap. 28de officiis, le cui parole furono poi riferiteda Graziano nel c.Aurum13,Qu.2. Eccone alcuni sensi:Hoc maximum incentivum misericordiæ, ut compatiamur alienis calamitatibus; necessitates aliorum, quantum possumus, juvemus, et plus interdum quam possumus, etc. Aurum ecclesia habet, non ut servet, sed ut eroget, et subveniat in necessitatibus. Quid opus est custodire, quod nihil adjuvat? Nonne melius conflant sacerdotes propter alimoniam pauperum, si alia subsidia desint? etc. Nonne dicturus est Dominus: Cur passus es tot inopes fame mori? Et certe habebas aurum, ministrasses alimoniam. His non posset responsum referri. Quid enim diceres: Timui ne templo Dei ornatus deesset? Responderet: Aurum sacramenta non quærunt. Ornatus sacramentorum redemtio captivorum est. Vere illa sunt vasa pretiosa, quæ redimunt animas a morte, etc. Numquid dictum est S. Laurentio: Non debuisti erogare thesauros ecclesiæ, vasa sacramentorum vendere?Veggasi il resto. Basterà qui a me in luogo d’ogni altro esempio quello del B. Ricardo abate di S. Vitono di Verduno. Nell’orrenda mortalità cagionata dalla fame nell’anno 1028 che desolava la città, quell’uomo di Dio, per quanto narra Ugone Flaviniacense nella sua cronaca:dopo aver distribuito alla povera gente quanto aveva, non perdonò ai tesori della sua chiesa; anzi vendute le cose più preziose d’essa a quella di Rems, ne distribuì subito il prezzo ai poveri, de’ quali ancora ritenne presso di sè un determinato numero per alimentarli. Inviò ancora lettere e messi ai re, principi e vescovi suoi amici, chiedendo soccorso di carità a tutti. Impegnò ancora i beni del monasteropersoccorrer pure in quante maniere poteva alla miseria del popolo. Questi sono santi, questi esecutori veri della mente di quel buon Padre che abbiamo in cielo.
Ma il più eccellente atto di carità che possa farsi in tempo di peste verso il prossimo, e per conseguenza verso Dio, da cui vien ricevuta come fatta a sè ogni opera di misericordia che esercitiamo verso il prossimo nostro, purchè accompagnata da essa carità e dall’intenzione di piacere allo stesso Dio, si è l’esporre allora la propria vita in soccorso degli appestati e spezialmente nei lazzeretti, o per medicarli, governarli e cibarli o per aiutar l’anime loro alla pazienza, ovvero al passaggio dell’eternità coi sacramenti e con altri mezzi della pietà e carità cristiana. Certo che di un sommo merito presso Dio si è ancora l’attendere con indefesso studio alla preservazione dei sani e del povero popolo, e il sovvenir loro con aiuti temporali o spirituali; e massimamente perchè ciò non può farsi d’ordinario senza esporsi a molti rischi di lasciarvi un giorno o l’altro la vita. Ma il vedere allora persone non solamente ecclesiastiche, ma ancora secolari che volontariamente e senza obbligo, rinunziano a tutte le speranze della vita terrena, e, lasciata al Signore la cura della lor sorte, corrono piene d’allegrezza e di coraggio, e accese del fuoco celeste della carità, al governo e soccorso o temporale o spirituale degl’infetti; questo è uno spettacolo degno degli occhi del paradiso, e che supera tutti gli altri, e che non si può abbastanza lodare da noi, ma si saprà ben premiare infinitamente ed eternamenteda Dio. Quando anche la morte accada in così eroico e santo ministero, il morire, quantunque non sia propriamente un martirio, pure è una similitudine o spezie di martirio, siccome il P. Teofilo Rinaldo mostra in un suo trattato. E S. Bernardino coll’autorità delle Scritture prova in una delle sue prediche quaresimali che se un assassino, un ladro o altro più gran peccatore, corresse in soccorso di qualche appestato abbandonato dai suoi e in pericolo di perdere per la disperazione il corpo e l’anima, a fine di confortarlo e di aiutarlo a salvarsi, mosso a ciò da vera carità cristiana, cioè da un eroico amore di Dio, e costui in sì pio ufizio venisse colpito dalla peste, e tanto improvvisamente morisse che non potesse pensare a’ suoi peccati, nè confessarsi, egli si salverebbe, mercè di quell’atto coraggioso di santissima carità, tanto commendata da Cristo, e contenente in sè virtualmente anche la contrizione. Ed appunto in questa scuola di carità si segnalarono i cristiani d’Alessandria a’ tempi di S. Dionisio, e in altre pestilenze e mortalità S. Cipriano, S. Gregorio taumaturgo, S. Cutberto, S. Antonino arcivescovo di Firenze, il venerabile Girolamo Emiliano, S. Gaetano, il B. Luigi Gonzaga, e tanti altri vescovi e santi: in questa incominciò Bernardino da Siena, giovane di venti anni, con dodici altri pii giovanetti il noviziato della sua santità; in questa finalmente fece il santo arcivescovo di Milano Carlo Borromeo sì mirabili azioni ch’elle non si possono leggere nella sua vita senza lagrime di tenerezza. Così in altre pesti si son veduti divoti e generosi secolari dell’uno e dell’altro sesso,sacrificare al Signore ogni riguardo di questa vita terrena, per servire e soccorrere i poveri infermi. E gli ecclesiastici secolari, non meno che gli ordini religiosi, hanno spesse volte fatto a gara nel contribuire (anche sopra le loro forze, e con tirarsi addosso non pochi debiti) o aiuti spirituali, o pur grani, medicamenti ed altri simili soccorsi della lor carità; essendosi in oltre quasi sempre distinti nell’assistere o al governo, o alle confessioni della gente infetta, i PP. cappuccini e i PP. della compagnia di Gesù con dare molti di loro lietamente la vita per la salute del prossimo loro.
E non è già che tutti poi questi generosi servi del Signore sieno mancati di vita in mezzo alle morti altrui. Di moltissimi ha accettato il medesimo Dio la prontezza, ed offerta di morire nel Suo santo servigio, ma gli ha voluti anche preservare sani e gli ha risanati infermi. Tuttavia si mirano in Firenze appesi ad un altare nella chiesa delle Carmelitane, per voto fatto a S. Maria Maddalena de’ Pazzi, gli abiti che portava nella peste della nostra città l’anno 1630 il P. D. Vincenzo Maccanti fiorentino, cherico regolare teatino, il quale intrepido sino al fin del contagio assistè agli appestati; cioè una sopravveste e una sottanella ambedue di cuoio, una stola bianca, due stivali e un’ombrella pure di cuoio, con altri arnesi. Mi contento di questo solo esempio, perchè sono infiniti gli altri ecclesiastici, medici, cerusici, serventi, ecc., che non risentirono infezione alcuna dal praticare fra tanti infetti. Anzi parrà incredibile, e pure viene attestato, come fatto patentee notissimo da Auberto Mireo, dall’Elmonzio, da Antonio de Lions, che la pia confraternità di S. Eligio instituita in Fiandra e in Normandia, prova una particolar protezione da Dio per la lor carità verso gli appestati. Assistono essi agl’infetti, ne toccano le piaghe, i cadaveri, e pure si mantengono illesi in questo caritativo esercizio, e tornando alle lor case non portano la rovina alle lor famiglie. Che che sia di questo, so bene che per attestato del P. Marchino nella peste di Firenze del 1631 i confratelli della misericordia, almeno in due per volta, accompagnavano i morti alla sepoltura in una debita distanza con lumi accesi, fermandosi poi fuori delle porte della città, nè si vide che alcun d’essi morisse di peste. Qui nondimeno reputo io necessario il ricordare, non doversi nè pure chi con una vocazione sì degna d’invidia tutto allora si sacrifica a Dio, tralasciar le umane cautele, e i riguardi e preservativi, per tener lungi da sè il morbo e la morte. Il fare altramente, sarebbe un tentare Iddio, e uno scialacquare que’ giorni che la carità vorrebbe impiegati nel corso intrapreso per benefizio del popolo. Perciò sarà loro cura di andar continuamente premuniti con vesti incerate di tela Sangallo, o di seta, o di cuoio sottile (il che è meglio) e con odori e profumi, e con aceto ed altri alessifarmaci, e di guardarsi dall’affaticarsi in maniera da sudare e da rendersi con ciò più atti a contrarre l’infezione, dovendosi eglino conservare, se non a sè, almeno al prossimo, lasciando poi che il celeste Padre disponga, come a lui parrà meglio, della loro vita. Portino ancora berrette di cuoio, e giunti alle propriestanze, benchè non sudati, mutino spesso camicia e vesti, esponendo le altre all’aria. Nel lazzeretto di Firenze per relazione del Rondinelli, i PP. cappuccini che ne avevano cura, si governavano nella seguente forma per non infettarsi. Pigliavano della bambagia rassodata, e tuffandola nell’elisire, si turavano con essa le narici e le orecchie, perchè il cattivo fiato degli appestati non penetrasse, o penetrando restasse corretto dall’altro odore confortativo della testa. In bocca tenevano incenso o solfo; e quando uscivano, si cavavano la bambagia e lasciavano libera la bocca, bagnandosi tutto il capo con acquarello di elisir-vite, perchè non è tanto potente. Avevano due abiti, l’uno, col quale stavano nel lazzeretto, mutandolo la sera e facendolo profumare con incenso, mentre il solfo dava loro troppo fastidio, e si mettevano l’altro. Si lavavano di quando in quando la persona con aceto, ovvero con qualche bagnuolo odorifero. E tale era la lor maniera per difendersi.
Finirò con accennare una particolarità degna di essere tenuta a memoria, e registrata dal P. Teofilo Rinaldo della compagnia di Gesù, in occasione di parlare della peste che afflisse Lione a’ suoi tempi, cioè l’anno 1629. Dopo aver egli narrato in quante maniere esercitassero allora i PP. Gesuiti la loro carità in pro del popolo, aggiugne che quantunque molti d’essi religiosi stessero nella loro chiesa quasi continuamente esposti a confessar la gente, pure niuno di que’ confessori fu mai toccato dalla peste. Due soli, che non andavano mai, o di rado andavano a quel santo ministero, e si credevano più sicuri dal pericolo con lo starritirati, morirono di pestilenza, ad esempio nostro, che non si ha da mettere la speranza della sanità nella ritirata, quando non assista Iddio, e che chi è assistito dalla sua misericordia, può andar franco in mezzo a tutti i pericoli. Perirono in quell’occasione anche molti sacerdoti secolari per aver data solenne sepoltura ad alcuni morti, come non morti di peste, secondo le fedi false dei medici, e per aver toccato danari ed altre robe loro date dai penitenti. Del resto nota il medesimo scrittore essere stato il popolo di quella numerosa città in mezzo alle terribili angosce della pestilenza sì divoto, sì compunto e disposto a ricevere dalla mano di Dio qualunque sorte, e con tal disprezzo delle cose caduche di questo misero mondo, che parevano persone della primitiva Chiesa. Chi potè colla roba, aiutò; chi era povero, colla fatica e con altri atti di carità. Inspiri il Signore Iddio a tutti i popoli fedeli, e massimamente al nostro, in tutti i tempi, e molto più quando egli volesse visitare un giorno con mano più pesante i nostri peccati, questo spirito di rassegnazione, penitenza e carità, per l’amore ch’ei porta al suo dilettissimo figliuolo, Gesù, e faccia che i mali temporali servano a noi d’incentivo a maggiormente temerlo ed amarlo, e di scala a goderlo un dì nel regno della sua carità.