CAPO X.
Cautela per esentar dallo spurgo varie robe. Provvisioni per gli cani e gatti. Monete ed altri metalli se suggetti a portar infezione. Regole per le robe ed animali. Luoghi eletti pel commercio de’ commestibili, e maniera di farlo. Se si dia contagio disseminato o dilatato dalla malizia. Riflessioni intorno a’ mali effetti del terrore, e cautele.
Cautela per esentar dallo spurgo varie robe. Provvisioni per gli cani e gatti. Monete ed altri metalli se suggetti a portar infezione. Regole per le robe ed animali. Luoghi eletti pel commercio de’ commestibili, e maniera di farlo. Se si dia contagio disseminato o dilatato dalla malizia. Riflessioni intorno a’ mali effetti del terrore, e cautele.
Noteremo ora altri ricordi intorno all’infezione che può venir dalle robe, e intorno allo spurgo delle medesime. E primieramente a fin di salvarne molte dalla necessità dello spurgo, riuscirà di maggior quiete e minore incomodo del pubblico, e di sommo vantaggio de’ particolari prima che nella casa succeda accidente alcuno di peste, il levare dalle guardarobe e stanze tutti i mobili, le scritture, pitture ed ogni altra suppellettile che non servisse all’uso quotidiano o non potesse bisognare in que’ pericolosi tempi, e far tutto rinchiudere in una o più stanze con far sigillare le porte di essa o di esse camere per mano di pubblico ministro,e con sigillo del pubblico o almeno con sigillo e rogito di pubblico notaio, di maniera che nessuno possa entrarvi senza rompere quel sigillo. Operando così, qualora dipoi avvenisse disgrazia di peste in quella casa, le robe tutte ivi rinserrate s’intenderanno non suggette all’incomodo degli spurghi. In Ferrara nel 1630 fu per buona precauzione ordinato agli ufiziali del monte di pietà e a’ banchieri ebrei di mettere in luogo separato i pegni da loro presi per l’addietro, e non di confonderli coi susseguenti, bollando le stanze ove li riponevano, con sigillo e notizia del pubblico o in altra maniera che assicurasse non aver eglino dipoi maneggiate più quelle robe.
Gli animali irragionevoli possono ricevere nei loro peli o piume gli spiriti pestilenziali e portarli seco e comunicarli a chi degli uomini non si guarda, benchè eglino per l’ordinario nulla ne patiscano, essendo cosa notissima che la peste d’una spezie d’animali non suol ferire quei dell’altre spezie, ma sì ben dilatarsi e comunicarsi per mezzo ancora di chi non ne resta internamente infetto. Così all’incontro è avvenuto ed avviene nella terribil mortalità delle bestie bovine, che da tre anni in qua va devastando senza rimedio tanti territorj di Lombardia, ed entra, mentre sto scrivendo, anche nel nostro paese, con far parimente una misera strage nel regno di Napoli, nello Stato della chiesa romana, in Olanda e in altre parti dell’Europa, mentre gli uomini praticando con buoi e vacche infette senza provarne eglino danno alcuno nella persona portano via quegli alimenti velenosi e infettano disavvedutamentele stalle, proprie o d’altrui. Perciò in tempo di peste convien provvedere al pregiudizio che possono recare i cani e gatti col portare nella lor pelle alle case e persone sane l’infezione raccolta altrove, siccome ce ne assicurano Marsilio Ficino, Guglielmo Grattarolo ed altri. Sogliono perciò le ben regolate città allora far editto che si uccidano tali bestie, e il pubblico d’alcune ha talvolta pagato sei o otto giulj per cadaun cane ucciso, purchè fosse d’altri. Dovendosi nondimeno osservare che nel 1630 per essere stati ammazzati tanti gatti in Padova, fu quella città col suo territorio soggetta per gli due anni seguenti ad una mirabil quantità di sorci; parrebbe più sicuro ripiego il solamente ordinare che tutti custodissero con diligenza, anche per proprio bene, i loro gatti e cani, con facoltà poi ed ordine di ammazzar quelli che uscissero delle case e vagassero per le strade o per le case altrui. Si può esser più rigido co’ cani cittadini, perchè la lor vita regolarmente importa poco al pubblico, e sarebbe sciocchezza il volere unicamente per lusso esporre a un gran pericolo la propria e l’altrui vita.
Per poi regolarsi bene nel commercio o contatto degli altri animali e delle altre robe, si osserveranno le seguenti regole tratte da’ migliori maestri. Alcuni (e fra essi l’Ingrascia, il Mercuriale e il Diemerbrochio) tengono che l’oro, l’argento e gli altri metalli non ricevano nè serbino contagio; e il suddetto Ingrascia fa sapere agli altri medici che piglino pur le monete allegramente, mentre anch’egli faceva lo stesso insino dagli appestati, e così caldi caldi se li metteva in tasca,non avendo operato diversamente gli altri medici e cerusici del suo paese, e tutti senza infezione e danno. Certo la superficie de’ metalli per sè stessa, a cagione della lor densità e freddezza, non par capace di ritener gli spiriti velenosi della peste. Tuttavia perchè può essere attaccata qualche ruggine, feccia, untume o altra materia impura o terrea ad essi metalli, e massimamente a’ danari, e con ciò unirsi gli aliti pestilenziali, e possono i medesimi essere stati toccati dal sudore d’un infetto: per ogni maggior cautela si dee ritenere o non abbandonare la regola inveterata di purgarli, mettendoli in aceto o in acqua ben calda. Le pietre preziose anch’esse si porranno solamente in acqua, acciocchè non restino offese dall’aceto. Da altri si crede che la carta e per conseguente le lettere non contraggano nè ritengano l’infezione per cagione della lor superficie consistente e liscia. Trattandosi nondimeno di risparmiare i pericoli, s’ha da ritener la saggia cautela di profumare o bagnar coll’aceto le carte sottili da scrivere o da stampare, e di profumare i libri, ma con più diligenza; e non sarebbe se non bene il tenere, dopo i profumi, la carta grossa e i cartoni e le pergamene all’aria per molti giorni. Per conto poi delle lettere suddette, costume lodevole si è il profumarle ben bene, bagnandole anche prima con aceto, e il tagliare i pieghi affinchè entro vi penetri il profumo. Gli espurgatori di esse lettere debbono contenersi come gente sospetta, e perciò non trattar co’ sani, e hanno anch’essi da preservarsi con guanti, incerate, profumi, ecc. Le lettere che vengono da paese infetto o non si debbonoammettere, o convien aprirle e profumarle con più diligenza. Che se ne’ pieghi delle lettere si chiudesse altro che carta, s’ha da provvedervi con aprirle; avvertendo di deputare per sì geloso ufficio persone timorate di Dio, ed anche religiose che prendano giuramento di non rivelare i fatti altrui.
I vasi di vetro coperti di paglia o vimini si purghino col profumo; se nudi, con acqua sola. Ogni sorta di panno, corde e tele, sì di seta come di lino, canapa, bambagia, e massimamente di lana, si purghi per due ore col profumo della sanità. Le piume, i peli e le pelli d’ogni animale, quando non sieno salate di fresco ed umide, sono soggette a ricevere e comunicar l’infezione; e però si debbono ben purgare o con profumi o con esporle per molto tempo all’aria e al sole. I cavalli, buoi, vitelli, muli ed altri giumenti e le capre, purchè si facciano prima transitar per acqua ovvero sieno immersi più volte in essa o lavati interamente due o tre volte con essa, potranno ammettersi, avvertendo però che vengano nudi; perchè portando capezze, corde, briglie o selle, si dovranno tali arnesi profumare o almeno lavar con lisciva o con sapone. A’ castrati ed agnelli e alle pecore, se avranno pelle, e molto più se questa sia ben lanuta, sarà necessaria maggior diligenza, per essere certo che la lana riceve e nutrisce più delle altre cose il veleno pestilenziale. I polli, i capponi, le galline e gli uccellami tutti, quando abbiano le piume, insegnano alcuni che non basti il tuffarli nell’acqua, ma che si ricerchi l’immergerli più volte nell’aceto, ovvero per piùsicurezza, spogliatili delle piume, abbrostolirli; ma altri tengono che sia sufficiente una buona lavata con acqua pura.
L’uova cavate dalle ceste e poste sulla nuda terra, si prenderanno senz’altro con rimetterle in altre ceste; e lo stesso può farsi per le erbe e frutta e per le carni fresche senza pelle. Andrà nulladimeno più sicuro chi laverà con acqua robe tali. L’olio può prendersi colle nude pelli senza altra diligenza, purchè non vi si lascino corde oltre a quella che lega sufficientemente la bocca della pelle, la quale non è capace d’infezione. Il pane, vino, zucchero, i limoni, cedri e aranci, il mele, i salumi e formaggi, gli aromati, le robe medicinali, le cere e le droghe d’ogni sorta si possono ricevere liberamente, avvertendo solo di levare gli invogli, le corde, i secchi, le carte, le casse, i vasi, i barili ove fossero tali robe. Così le farine, il frumento, frumentone, o sia grano turco, e tutti gli altri grani e legumi si possono liberamente prendere, a riserva sempre de’ sacchi e d’altri simili invogli ed arnesi, che si debbono lasciare indietro o profumare o lavar con acqua secondo la loro qualità.
Ed a fine di regolar bene colle maggiori cautele possibili il commercio tra chi conduce o vende e chi ha da comperare grani, vino ed altre grasce e commestibili che abbiano detto esenti dal portar seco infezione, è da fuggirsi per quanto si può l’avvicinamento delle persone e il contatto delle vesti, de’ sacchi e d’ogni altra roba che possa, coll’aver seco la peste, pregiudicare a chi è sano. Per questo ottima regola si è il deputar certi sitie luoghi aperti, fuori, se si può mai, della città, con piantar ivi due file di cancelli o palizzate, che impediscano dall’una parte e dall’altra il passaggio e contatto de’ cittadini e paesani. Le robe vendute si depongono in terra, o sopra lenzuoli o coperte stese in terra, quando si possa, e poi vanno a prenderle i compratori. I vini ed altri liquori si vôtano da quei di fuori ne’ vasi deposti in terra dai cittadini, senza toccar punto essi vasi. Il danaro che si sborsa sarà purgato per ogni buon fine da chi il riceve, bagnandolo in aceto. E perciocchè troppo è necessario che vengano alla città le grasce o vettovaglie, e ciò dee anche farsi senza pregiudizio della salute de’ condottieri; sarà libero a questi il poter andare e venire colle loro fedi di sanità, purchè non si levino dal diritto cammino e si guardino di praticar per viaggio con genti sospette. A qualche osteria deputata in mezzo al cammino dovrà farsi la posata dai vetturali. Fuori della città saranno deputate osterie per loro soli; e si farà il commercio della roba da loro condotta ai cancelli posti fuori d’essa città, in maniera che i sani esteri non pratichino coi sospetti cittadini. Nulla si dovrà consegnare se non alla presenza de’ commissari, che invigileranno all’esecuzione degli ordini, affinchè non segua miscuglio nè contatto. I consoli o massari delle arti si troveranno ad essi cancelli per istabilire i prezzi e far tosto pagare e sbrigare i condottieri. Si vieterà ai commessari delle porte il comperare e mercantar le vettovaglie portate ai cancelli, per rivenderle poi ai bottegai, benchè per altro sia da procurare che, mancando compratori, vi sia qualche deputatoil quale comperi quelle robe, affinchè si tenga viva ne’ rustici e in altre persone estere la voglia di condurne e di accrescere il mercato, e a fine ancora di spedire in breve i poverelli del contado, aspettati a man giunte dalla misera lor famigliuola con qualche soccorso.
Con queste ed altre simili precauzioni un popolo sano può aver commercio di vettovaglie con un altro infetto, senza contrarne la stessa disgrazia. E perciò, posto ancora che l’uno bandisca l’altro, si può ai confini fare una specie di mercato, quando vi sia bisogno di ricevere o comperar grasce, obbligando però tutti a non far questo commercio se non ne’ luoghi destinati e sotto gli occhi de’ deputati da ambedue le parti. In Modena fu fatto editto che niuno potesse toccar vettovaglie, frutti e simili commestibili prima d’averli pagati. Nelle città, e massimamente in quelle di gran popolazione, bisogna provvedere che tutta la gente non concorra ad un luogo solo per comperar da vivere, perchè ci vuol poco ad intendere che mescolandosi e fregandosi insieme moltissimi, alcuni pochi infetti, de’ quali ne trapela sempre fuori qualcheduno, possono appestar gli altri; pericolo a cui sono sottoposti tanto i poveri quanto i ricchi, quelli per andarvi in persona, e questi pel commercio con la servitù. Tutte le botteghe ove si vendono robe soggette a ricevere infezione e quelle dei commestibili, e così le spezierie, dovranno tener chiuse le loro porte o con rastrelli o in altra forma, di modo che niuno v’entri, ma si eseguisca la consegna delle robe o per le finestre o pei cancelli; nè si faccia adunanza entro o davantibottega alcuna. Specialmente si usino tali riguardi alle botteghe de’ fornai e a’ macelli, o sia alle beccherie. Le stesse cautele possono proporzionatamente osservarsi nel somministrar cibi ed altre robe agl’infetti o sospetti di mal contagioso, potendosi ciò bene spesso fare senza accostarsi loro e senza toccare i loro vasi e robe. Nella peste di Roma del 1656 furono pubblicate sagge istruzioni, raccolte poi tutte dal cardinale Gastaldi nel suo Trattato della Peste, con insegnar al popolo la maniera di governarsi nel commercio delle robe e persone. Altre ne furono fatte pei deputati ai quartieri ed ai mercati fuori della città; pei medici, cerusici, speziali, osti, guardarobieri, soldati di guardia ed altri ministri de’ lazzeretti; pei deputati all’espurgazione delle case e robe infette o sospette, insegnando ancora la maniera di far tali spurghi. Così nel 1680 furono stampati in Ferrara vari ordini da osservarsi in sospetti e tempi di contagio da tutti gli uffiziali della sanità, con un editto ancora del vescovo pei conventi delle monache, mentre allora la peste di Vienna metteva molta apprensione all’Italia tutta. È degna quell’opera di essere studiata e tenuta davanti agli occhi dai maestrati delle altre città, alla prudenza de’ quali in tempo di contagio apparterrà il vedere quali e quante istruzioni s’abbiano a formare e pubblicare, secondo le forze e il sistema di ciascuna.
Hanno in oltre i maestrati da invigilare non solamente per impedire che il morbo non si comunichi e dilati inavvertentemente per lo commercio delle persone e robe infette o sospette, ma ancora per vedere che non sia esso accresciutodalla malizia e diabolica ingordigia degli scellerati. È cosa che fa orrore, anzi può comparir tosto come incredibile, cioè che si dieno delle pesti suscitate o dilatate per via di veleni, polveri ed unzioni pestifere. Alcuni negano che ciò sia avvenuto mai o possa avvenire; ma superiori in numero e più accreditati sono quelli che l’asseriscono, e citano i casi. Raccontano essi che nella peste di Casale del 1536 furono giustiziati molti i quali in numero di 40 s’erano congiurati per moltiplicare la mortalità con unguenti e polveri pestilenziali. Niccolò Polo scrive succeduto lo stesso in Franchestein l’anno 1606. Ercole Sassonia e il celebre nostro Falloppia attestano il medesimo della peste de’ loro tempi, ed altri narrano fatta la medesima scelleraggine in diverse pesti di Ginevra, Parma, Padova e d’altre città. Non importa che io citi gli autori. Mattia Untzero nel lib. 1, cap. 17 del suo Trattato della Peste ne ha raccolto molti. Ma nessun caso è più rinomato di quel di Milano, ove nel contagio del 1630 furono prese parecchie persone che confessarono un sì enorme delitto, e furono aspramente giustiziate. Ne esiste ivi tuttavia (e l’ho veduta anch’io) la funesta memoria nella Colonna infame posta ov’era la casa di quegli inumani carnefici. Il perchè grande attenzione ci vuole affinchè non si rinnovassero più simili esecrande scene.
Tuttavia avvertano i saggi maestrati e i lettori che una tal vigilanza non degenerasse poi in superstizione e in timori ed in apprensioni spropositate, dalle quali potrebbono poi nascere altri non meno gravi disordini. Il punto è di particolareimportanza, e però bisogna pesar bene e tenersi a mente anche le seguenti riflessioni: Egli è facilissimo, secondo me, che sia accaduto spesso ed accada spessissimo anche di nuovo ne’ tempi di peste ciò che veggiamo tante volte accadere nei mali straordinari o non molto usitati delle donne e de’ fanciulli del volgo, mentre con gran leggerezza s’attribuiscono quasi tutti a malie e stregherie e ad invasioni di spiriti cattivi, giungendosi anche talvolta non solo a sospettare, ma a credere streghe certe povere donne che altro delitto non hanno se non quello d’esser vecchie. Molto più senza paragone possono occorrere tali sospetti nell’inusitato ed orrendo spettacolo d’una pestilenza, al mirar tante morti, e tanti che, di sani che erano, restano all’improvviso estinti. Basta che un solo cominci a sparger voce, benchè dubbiosa e timida, che quella misera e non mai più veduta carnificina proceda da stregherie, unguenti, o polveri di veleno artefatto, affinchè tal voce prenda gambe e corpo, e diventi una indubitatissima verità in mente dei più del popolo. Il solo aver letto o inteso a dire che si danno e si sono date dilatazioni di peste per empia e crudel manifattura d’alcuni, è bastante a cagionare in molti una fiera apprensione dello stesso, e che l’apprensione gagliarda ad ogni picciol rumore od osservazione passi in ferma credenza. In que’ tempi sì calamitosi, nei quali, per attestato di chi n’ha veduta la prova, non si può dire quanto sia il terrore del popolo, passando esso insino a farne molti stolidi ed insensati, egli è troppo facile il concepir simili spaventi, e che alla fantasia sembri poi di trovar quae là fattucchierie, e unti i martelli delle porte, o le panche o i vasi dell’acqua santa nelle chiese, e sparse polveri pestifere, e simili altre visioni.
Da questo stravolgimento di fantasmi nasce poi un’incredibil miseria di molti che temono la morte anche dove non l’hanno da temere; e alcuni si muoiono, anche senza peste, di pura apprensione e spavento. Anzi si giunge ad imprigionar delle persone, e per forza di tormenti a cavar loro di bocca la confessione di delitti ch’eglino forse non avranno mai commesso, con far poi di loro un miserabile scempio sopra i pubblici patiboli. Questa malattia dell’immaginazione è vecchia in altri simili; ed è curioso quanto abbiamo dal famoso arcivescovo e scrittore Agobardo, il quale nel librode Grandine et tonitruisal cap. XVI narra che, insorta a’ suoi tempi, cioè nell’anno 810, la mortalità de’ buoi, quale ancor noi abbiamo provata, si ficcò nella mente a molti che tale disavventura procedesse da Grimoaldo duca di Benevento, il quale, per esser nemico di Carlo Magno imperadore, avesse mandato in Francia persone a spargere polveri micidiali pe’ campi, monti e prati. Furono presi non pochi su questo sospetto, ed alcuni ancora trucidati; e il mirabile era che taluno confessava questo delitto, senza mai porsi mente come potesse formarsi una polvere sì giudiziosa e discreta che desse morte ai soli buoi e non agli altri animali. Così Agobardo. Ma i tormenti (torno a dirlo) hanno il segreto di far confessare misfatti anche agl’innocenti. Ho trovato gente savia in Milano che avea buone relazioni dai loro maggiori, e non era molto persuasa chefosse vero il fatto di quegli unti velenosi, i quali si dissero sparsi per quella città, e fecero tanto strepito nella peste del 1630. Anzi ho osservato esserne stato in dubbio lo stesso cardinale Federigo Borromeo, arcivescovo allora di Milano, personaggio di santa ed immortale memoria e gran filosofo ancora, il quale fece insigni azioni durante quella pestilenza, e potè parlarne con fondamento. Fu anche più orrida la scena nella terribilissima peste del 1348, poichè, sparsa la voce che alcuni, e specialmente i Giudei, fossero quegli che con vari veleni e malie avessero introdotta e dilatata quella incredibile mortalità, furono trucidati molti Cristiani, e moltissime poi migliaia d’Ebrei per la Francia e per la Germania, di modo che lo stesso papa Clemente VI fu mosso dalla carità cristiana a soccorrere e proteggere con varie Bolle quella povera gente, al certo non rea di questo delitto. Bisogna dunque andar adagio in profferir sentenze e in avvalorar sospetti allorchè si spargono tali voci. Nel presente anno 1713 abbiamo co’ nostri occhi veduto nella nostra città che rumori, che paure e cavate di sangue abbia cagionato la voce disseminata che si mirasse di notte una fantasima per le contrade. Oh! molti la videro; ma loro la fece vedere la sola precedente apprensione e paura, la quale è un’industriosa dipintrice, massimamente in tempo di notte. Quel solo che si può credere senza veruna difficoltà essere avvenuto qualche volta e poter di nuovo avvenire, si è che qualche scellerato possa in tali occasioni valersi di veleni o d’unguenti pestiferi per incamminare all’altro mondo qualche particolare e determinata persona,la quale non avesse gran fretta o voglia d’andarvi, per isperanza di cogliere i loro danari, o saccheggiare le loro case: il che avrà anche dato motivo a più larghi e generali sospetti, e al che si dee ben por mente, invigilando specialmente alla condotta de’ beccamorti, gente ingordissima, e di chi volesse fare il medico e il cerusico allora senza le legittime licenze ed approvazioni della sua abilità e fedeltà. Per altro, che si dieno congiure di gente la quale con simili unti e veleni si metta a far morire il popolo alla rinfusa, io non m’indurrei a crederlo se non dopo una grande evidenza. La peste sola ha troppa possanza d’empiere una città di stragi, senza ricorrere ad altre incerte e straordinarie cagioni, lasciata la visibile e certa. Che se faransi ben eseguir le regole fin qui prescritte non sarà facile che alcun particolare insidj alla vita altrui, perchè tolta la comodità di poter rubare o trasportar le robe infette, sarà anche tolto il prurito di rubar prima la vita alle persone comode con falsi medicamenti e veri veleni. Dirò in fine ch’io concepisco per cosa possibile che infuriando la peste in una città, naturalmente compariscano talvolta i martelli delle porte ed altri corpi duri come unti, qualora sia umida o sciroccale l’aria, poichè la gran dissipazione e svolazzamento che allora si fa di spiriti e vapori sì da tanti infermi come da tanti cadaveri, può esser cagione che si fermi sulla superficie di alcuni corpi qualche untuosità, se pure il gran terrore non fa allora prendere per untumi la sola umettazione dell’aria e dello scirocco.