«…. Che cosa direi ai signori giurati?
«Io direi loro così:
«Prima di condannare un uomo bisogna ascoltarlo. Io so quel che ho fatto e non cerco di sottrarmi alle conseguenze che pesano su di me. Soltanto, giacchè il mio nome è uscito dalla oscurità in cui sempre si mantenne, giacchè esso è stato dato in pascolo alla malsana curiosità della folla, io ho il dovere, più che il diritto, di narrare tutta la storia di cui si conosce il solo scioglimento, di enumerare tutti i moventi che lo determinarono, di illuminare la coscienza pubblica fuorviata da versioni partigiane od incomplete, perchè la verità, la sola verità trionfi.
«Io non mi scuso, non mi giustifico. Io non faccio parlare per me un uomo di legge. Spesso, l'uomo della legge è chiamato per impedire che la legge abbia il suo corso. Le argomentazioni speciose, le interpretazioni sottili, le citazioni significative, l'arte oratoria, la competenza giuridica non fanno al caso mio. Io debbo esporre dei fatti, tocca a voi apprezzarli.
«La mia parola sarà disadorna: tanto peggio, o tanto meglio. Se fossi un letterato, scriverei un romanzo. Io non so scrivere, non so parlare: e la folla mi sgomenta. La timidità è il fondo del mio carattere. Bambino, io covavo dentro di me le mie piccole amarezze ed i miei piccoli dolori. Avevo vergogna di farmi vedere piangente. Non so se questa sia fortezza o debolezza d'animo; so che ero così. Poi, anche un altro motivo contribuiva al mio mutismo: la persuasione del nessun interesse che avrebbero avuto per gli altri le cose mie.
«Perchè mi avrebbero badato? Che cosa importava alla gente di quel che io pensavo o sentivo? Erano cose insignificanti, puerili, senza fondamento e senza valore. Puerili in sè stesse, e non perchè concepite da un ragazzo. Quando fui molto più inoltrato negli anni, lo stesso sentimento persisteva. Meno espansivo io ero, più confidenze ricevevo. Non facevo che ascoltare, attentamente, religiosamente. L'importanza che negavo alle cose mie, la trovavo nelle altrui. Chi aveva una speranza da formulare, una gioia da espandere, un dolore da alleviare, se ne veniva da me. Mi chiamavano laspugna. M'imbevevo di confessioni. Ero credulo. Quelle speranze, quelle gioie, quegli stessi dolori li invidiavo, e la mia piccolezza, la mediocrità mia mi parevano più grandi.
«Divago; domando perdono. Questo è per far comprendere il mio carattere, ma importa fino ad un certo punto.
«Per certo, io non credevo che un giorno avrei pigliato moglie. Nel matrimonio, vedevo l'amore; e l'amore mi pareva una cosa molto difficile e molto rara. Dapprima, avevo nutrito qualche speranza…. una di quelle speranze che non dicevo a nessuno, e che dico ora soltanto. Leggevo dei versi, ed un'eco me ne restava dentro. Avrei voluto farne, più belli, più sonori, più eterni; avrei voluto farli per qualcuno…. Chimere. Chi è stato giovane, capirà. Ebbi una volta un piccolo romanzo; siccome è molto corto, lo narrerò. Uno dei tanti amici che mi avevano preso per confidente, aveva avuta una relazione in Francia con una Americana. Come io sapevo l'inglese, oltre che da confidente gli servivo da interprete e da segretario. Gli traducevo le lettere che riceveva dall'amante, e rispondevo per lui. A furia di leggere e di scrivere frasi di amore per conto d'altri, finii per attribuirle e adoperarle per conto mio. Quando l'ignota corrispondente mandò il suo ritratto, me ne innamorai addirittura. Ma un bel giorno l'amico mio comperò una grammatica Ollendorf e prese un maestro d'inglese. Allora il mio romanzo finì.
«In fondo, ragionavo. Mi avevano insegnato dei comandamenti—per ubbidirli, supponevo. Uno di questi comandamenti diceva: Non desiderare la moglie altrui. Quanto al desiderio—sono giusto—qualche volta io lo avevo; come impedirlo? Non facevo però nulla per tradurlo ad effetto. Non so se un casuista mi avrebbe assolto; ma io mi sentivo in pace con la mia coscienza. Offendere un uomo, perdere una donna, distruggere una famiglia mi parevano dei delitti che niente può scusare. Lapredestinazione, ilcolpo di fulminemi facevano l'effetto di pretesti belli e buoni. Io mi sentivo libero e padrone di me stesso, in amore come nel resto. Quando vedevo molte donne riunite in qualche posto, a teatro, per esempio, od alla passeggiata, io mi domandavo; «Chi ameresti tu fra queste?»—E con una mano sulla coscienza, mi rispondevo: «Tutte, meno le vecchie, le gobbe e le troppo brutte.» Ora, perchè io ne amassi realmente qualcuna, perchè il desiderio vago ed indeterminato si concretasse e fosse conseguito, che cosa occorreva? Due cose: primo: che una di quelle donne amasse me; secondo: che quell'amore fosse permesso. Per la prima cosa mi dicevano timido; per la seconda, ingenuo. Io lasciavo dire.
«Dunque, la moglie d'altri: no. Restava una moglie per me. Ma, dicevo, bisogna trovare una che mi ami; ed io non la trovavo. Poi, io non ero esente da qualche inquietudine. La mamma non mi consigliava il matrimonio. Era una donna di poche lettere, ma di molto buon senso. Il babbo, felice memoria, faceva un gran conto dei suoi consigli e dichiarava di essersene trovato sempre bene. Ora, la mamma mi diceva: «Figliuolo mio, tu sei della stoffa con cui si fanno i mariti disgraziati.» Come si vede, la santa donna non aveva peli sulla lingua. Io le davo ragione; ma, naturalmente, non avevo nessun impegno che glie la dessero i fatti….
«Così, passarono molti anni. Non vorrei intanto che mi si accusasse di presunzione e di darmi a credere come un modello di virtù. Feci ancor io qualcuna di quelle che si chiamano scappate forse perchè non ne entra nulla: cose senza conseguenze, in cui niente di serio era impegnato. Chi non è stato giovane, pronunzii la condanna….
«In questa calma trascorsi la mia gioventù. Poi, la mia buona mamma passò a miglior vita. Fu il mio più grande dolore. Ragazzo, quando i terrori notturni mi presentavano l'imagine della morte, pensando al mio povero babbo che non avevo conosciuto, io pregavo fervidamente il Signore di farmi morire nello stesso preciso momento della mamma; con un terremoto, per esempio, che ci avrebbe sepolti, abbracciati, sotto un monte di rovine. Non potevo assuefarmi all'idea di sopravviverle, di restarsolonella nostra casa. Pur troppo dovetti restarvi! Ma allora, per la prima volta, provai il bisogno di una donna che mi stesse al fianco. Dove trovarla?… Scorse dell'altro tempo. Avevo trentacinque anni, una buona salute, una discreta fortuna, qualche reputazione di intelligenza e di onestà, quando incontrai una fanciulla alla quale non parvi indifferente. In che modo? Non saprei ridirlo. Queste cose si fanno capire, più che non si dicano. Io però non mi contentavo di capire soltanto; non potevo ingannarmi? Lasciavo quindi che il tempo mi portasse la conferma o la smentita del fatto. Non nascondo che la conferma mi sarebbe stata molto gradita; quella fanciulla mi piaceva, al fisico ed al morale; ne ricercavo la compagnia, l'amavo anche, se si vuole…. non tanto però da incatenarla al mio fianco quando non fossi stato sicuro dei suoi sentimenti a mio riguardo. Questi sentimenti non erano ostili; me ne persuadevo sempre più. Come prima se ne presentò l'occasione, io le tenni press'a poco questo discorso: «Signorina, io sono solo; vorrei associare la mia vita a quella di un'altra persona. Sarei felicissimo se questa persona foste voi. Ma, se non vi piaccio, è quasi certo che non mi ammazzerò. Il vostro rifiuto non vi procurerebbe dunque dei rimorsi. Ora, volete rispondermi?» Ella, di sua libera elezione, senza pressioni di sorta, disse di sì.
«Ci furono di mezzo, naturalmente, i parenti. Io fui aggradito, vennero sistemati gl'interessi e ogni cosa fu stabilita. La nostra unione era fatta sul piede della più perfetta eguaglianza. Nessuno di noi faceva una generosità all'altro, accettandolo. Nè io nè lei, finanziariamente, fisicamente, intellettualmente e socialmente, avevamo nulla di straordinario o di superiore. Essendoci conosciuti, ci eravamo convenuti; nient'altro. La mia fidanzata non era nè bella nè brutta, nè ignorante nè dotta, nè umile nè superba: così com'era, mi piaceva. Se in vece sua avessi conosciuta un'altra donna, avrei amato probabilmente quell'altra; ma avevo conosciuto lei, e glie lo dicevo.
«Anch'ella mi amava; me lo ripeteva sempre, me lo scriveva continuamente—malgrado ci vedessimo ogni giorno, aveva voluto che ogni giorno ci scrivessimo. Ciò mi faceva piacere. Pensavo: c'è qualcuno che si ricorda sempre di me, che sempre mi aspetta—e questo pensiero mi colmava di tenerezza. Quando la vedevo, pensavo ancora:È mia…. Per dir meglio: sarebbe stata…. Intanto si preparava il corredo, la casa. Io le lasciavo la direzione di tutto. Tutto ciò che faceva, era ben fatto. Che fosse contenta lei, questo era l'interessante. Alla sottoscrizione del contratto, feci un piccolo colpo di testa: le regalai dei gioielli di qualche valore; data la nostra condizione economica, una pazzia. Che importava, purchè ella fosse contenta? Ella ne fu contentissima; corse a guardarsi allo specchio ornata di quei monili, i suoi occhi sfavillavano di gioia, e non cessava dal prodigarmi ringraziamenti caldissimi. Questi mi parevano superflui; se fossi stato più ricco, avrei certamente fatto di più.
«La felicità m'irradiò tutto, quando fummo uniti per sempre. Allora io capii che cosa volesse dire:è mia. Quell'essere, quella gioventù, quella grazia mi appartenevano. Io potevo prenderla fra le mie braccia quando volevo, carezzare i suoi capelli, baciare la sua fronte, le sue mani, la sua bocca. Io la sentivo parlare, la vedevo andare e venire per la casa—per lanostracasa—ridere, vestirsi, dormire. Io vedevo le cose che ella vedeva, toccavo ciò che ella toccava, usavo gli stessi oggetti, leggevo gli stessi libri: una dolcezza incredibile.
«Bambino, la mia felicità consisteva nel possedere una scatola di soldatini di piombo, col comandante a cavallo, i tamburi e il porta-bandiera. Io li schieravo sopra un tavolo, e li facevo manovrare per due, per quattro, a plotoni contrapposti; ed il pensiero che tutte quelle piccole imagini di esseri mi appartenevano, mi riempiva di orgoglio e di contento. Ora, in cambio dei soldati, avevo una creatura di carne e d'ossa, e non v'era bisogno di spingerla per farla manovrare. Mia moglie non stava due minuti ferma in un atteggiamento, mutava di abiti tre o quattro volte il giorno, si appoggiava al mio braccio, mi sedeva sulle ginocchia. Io possedevo una cosa nuova, meravigliosa, inapprezzabile:una vita.
«Come l'avevo acquistata? Dando in cambio la mia. Io ero tutto per lei, nelle opere e nei pensieri. Vedevo delle altre donne, più belle di lei, più seducenti, più corteggiate; ma mi trovavo dinanzi ad esse nella posizione di uno che avendo già un mazzolino di viole all'occhiello, ammira delle rose, dei giacinti, delle camelie, ma non saprebbe che cosa farne. Il mio cuore e la mia casa erano vuoti; ella li aveva popolati; non c'era più posto per nessuno. Il codice che il signor sindaco ci aveva letto, parlava dei diritti del marito, degli obblighi della moglie, e che so io. Queste cose mi parevano assurde. In casa nostra non si comandava nè si ubbidiva. Con qual dritto avrei ingiunto a mia moglie: Fai questo o quest'altro? Coi soldatini, passi; li potevo schierare come volevo, raggrupparli, sbandarli, rovesciarli. Ma i soldatini stavano sempre a spall'arme. Mia moglie aveva dei muscoli, dei nervi, una volontà; e in ogni atto della vita la sua volontà valeva quanto la mia. L'uomo e la donna mi parevano due esseri diversi, ma equivalenti. Quando eravamo d'accordo, la questione era risolta. Nel caso contrario, io mi uniformavo al suo giudizio. Contrariarla, avrebbe forse potuto dispiacerle; secondarla, faceva certo piacere a me.
«Io non sono un'aquila d'ingegno, tuttavia spesso, nelle nostre discussioni, mi accorgevo della mia superiorità intellettuale. Ma rinunziavo a sfoggiare il mio sapere per darla vinta a lei. Talvolta, ella fraintendeva i miei ragionamenti e mi faceva la lezione; preferivo passare per sciocco, anzichè dimostrarle che aveva torto.
«Quanto all'economia della casa, era stata lei a rifiutarne la direzione; diceva che non vi aveva testa. Amministrando la sua dote, io ne prendevo soltanto quel che rappresentava la quota di lei nelle spese comuni; tutto il resto era a sua disposizione, veniva investito in proprietà sua personale.
«Ella m'era riconoscente di tutto questo; mi diceva che mai più avrebbe sperato di trovare un uomo come me. Io non credevo far nulla di straordinario; avrei davvero voluto farlo per dimostrarle il bene che le volevo. Certe mie fanciullaggini dei primi tempi le parevano molto care; io ne trovavo sempre di nuove finchè mi accorsi che cominciavano a stancarla. Infine, non era ragionevole che ella passasse le sue serate in casa a sentirsi dire che l'amavo. Le visite, gli spettacoli, il giuoco—che so io—tutta la vita esteriore aveva poche o punte attrattive per me; per una signora la cosa era diversa. Ella aveva delle relazioni da mantenere, una figura da fare. A teatro, io soffrivo qualche poco nel vederla, con le braccia nude, la gola scoperta, fatta segno agli sguardi indiscreti della folla. Volevo bene che ella splendesse, ma sentivo una gran voglia di dire a quei curiosi: «Imbecilli, che cosa state a guardare? Ella non è per voi.» Ancora, ella aveva un certo modo di mettersi il mantello, dinanzi al davanzale del palco, che mi pareva iniziasse la gente al mistero della sua toletta; mi pareva che, vedendola coprirsi a quel modo, la gente l'imaginasse che si svestiva….
«Al ballo, era peggio. Degli uomini potevano passarle un braccio alla vita, tenerla per mano, parlarle all'orecchio. Avrei voluto una restaurazione borbonica per essere ministro di polizia e proibire quell'uso; non far ballare nessuno perchè non ballasse lei. Poi, mi pareva che quanta più gente la conoscesse, quanta più gente potesse sentire la sua voce, stringere la sua mano, entrare nella sua intimità, tanto minor prezzo avrebbero avute queste cose, tanto meno ella sarebbe stata mia. Tutto questo me lo tenevo per me; capivo che erano delle fisime, ed ero anzi il primo a proporle di andare in società. Non volevo increscerle con le mie gelosie; perchè le volevo bene non era già una ragione che l'annoiassi.
«Dicono che i mariti sieno gli ultimi a sapere dei casi loro. Sarà; la mia esperienza mi prova tutto il contrario. I miei casi, non solamente io non li sapevo degli ultimi, ma li prevedevo. Vi era una persona che io avrei voluto specialmente non far conoscere a mia moglie: un ex-ufficiale che era stato mandato a casa per aver fatto dei torti domestici ad un suo superiore, e che ora, dopo essere passato per il giornalismo e per le lettere, si era dato alla politica. Non si parlava che di lui, del suo coraggio, dei suoi duelli, del suo stile affascinante, della sua meravigliosa eloquenza, dei suoi successi con le donne. Non volevo che mia moglie si trovasse in presenza di costui. Ella mi aveva domandato di presentarglielo. Le avevo promesso di sì, ma finsi una malattia il giorno che si doveva andare ad una festa di beneficenza organizzata da lui. Un'altra volta, al caffè, feci mostra di non riconoscerlo. Mia moglie mi aveva chiesto: «Non è quello?» La sua premura a notarlo mi aveva messo un verme nel cervello. Io avrei voluto prenderla per mano, e dirle: «Vediamo: che cosa vuoi farne di questa conoscenza? È un uomo pericoloso. Se tu sei sicura di te stessa, vuol dire che ti è indifferente; se non sei sicura, bisogna evitarlo.» Questa mi pareva logica, ma la tenevo per me. Le avevo invece portati certi libri di quel tale, gonfii e vuoti come vesciche, nell'idea ch'ella si persuadesse del loro valore. Dichiarò che erano bellissimi, e innanzi alla gente insistette sulla diversità dei nostri gusti. La cosa, ripetuta, era venuta necessariamente all'orecchio dell'autore; egli mostrava di non badare a mia moglie, non ci salutava quando eravamo insieme.
«Un giorno, ella lo incontrò da una sua amica. Tornando a casa, me lo disse; io le manifestai la mia compiacenza. Dentro, mi rodevo. Mandavo al diavolo quell'amica, avrei voluto partire immediatamente per evitare che colui venisse in casa mia. Lasciò soltanto, dentro la settimana, una carta di visita. Una seconda volta s'incontrarono, me assente. Questa volta ella non me lo disse.
«La giustizia considera gli atti, non le intenzioni. Si arresta chi ha commesso un crimine, non chi va a commetterlo. Ciò è giusto; però, se si arrestasse prima, il crimine non sarebbe commesso. Così, per essere troppo elementari, certe verità fanno ridere…. Quell'uomo, dunque, voleva rubarmi mia moglie. Fingeva di non osservarla perchè lo osservasse lei. Il suo giuoco riusciva. Se io fossi andato dal procuratore del re, questi si sarebbe messo a ridere. «Lasciate che ci sieno dei colpevoli, e la giustizia seguirà il suo corso.» Se io fossi andato dal ladro, il ladro si sarebbe potuto offendere per giunta. Avremmo potuto anche batterci. Probabilmente avrei avuto la peggio; sarei stato ridicolo. Se lo avessi ferito, egli sarebbe stato compianto. Restava mia moglie.
«Mia moglie diceva che i mariti hanno torto a prendersela cogli amanti; questi non otterrebbero, anzi non domanderebbero nulla, se la donna non fosse disposta a concedere, e se non lo facesse capire. Ella aveva ragione. Il ladro fa il suo mestiere, che è quello di rubare. Quando si tratta di un oggetto, ci sono le casse forti. Trattandosi di una persona, bisogna che questa abbia l'intenzione di non lasciarsi prendere. Ora, mia moglie aveva o non aveva questa intenzione. Se l'aveva, i miei discorsi sarebbero stati inutili, anzi dannosi, perchè la avrebbero offesa. Se non l'aveva, glie l'avrebbero fatta venire.
«Così diceva il ragionamento. Poi, io avevo voglia di strapparmi i capelli. Io non volevo che mi rubassero mia moglie. Quell'altro aveva avuto ed aveva molte donne, quante glie ne piacevano; io avevo lei sola. Era la donna mia; mi apparteneva, perchè io le apparteneva. Io non l'avevo rubata; io ero in regola con la mia coscienza, col mondo, con lei; con tutto e con tutti.
«Non avevo il coraggio di dirle: «Tu pensi a tradirmi.» Mi pareva una umiliazione per entrambi. Per risparmiarla a lei, mi umiliavo io. Spiavo le mosse di quell'uomo, gironzavo intorno a casa mia, intercettavo la posta. Un giorno trovai una lettera nascosta dentro un giornale di mode sotto fascia. Mi parve d'impazzire. Presi la lettera e la consegnai a lei senza aprirla. Le chiesi soltanto chi le scrivesse. Ella arrossì, rispose di non conoscere il carattere, lesse la lettera e la stracciò dicendo che era un anonimo impertinente.
«Mi dava ora maggiori dimostrazioni di affetto, mi parlava dei pericoli a cui una donna si trova esposta, voleva che io la sostenessi. Era il mio dovere ed il mio piacere. Per un poco, parvero ritornati i tempi della luna di miele. Durò meno dell'altra. Ella era divenuta inquieta, nervosa. Pareva l'avesse con me. Io non facevo nulla da dispiacerle.
«Verso capo d'anno, fu annunziata la visita di quel tale. Io mi feci coraggio; le dissi: «Non lo ricevere.» Rispose che sarebbe stata una sconvenienza. Non passai di là; li lasciai soli.
«Egli faceva il suo mestiere di ladro; io non potevo afferrarlo pel colletto e condurlo al posto di guardia. Vedevo la situazione nettissimamente, non mi accecava nè l'amore, nè la fiducia, nè la gelosia. Calcolando tutto, vedendo la freddezza crescente di lei, indovinando il pericolo, un giorno le dissi press'a poco così: «Siamo stati felici finora, nè io potrei esserlo più senza di te. Però, se tu non mi vuoi più bene, se sei stanca di me, se ti dispiaccio, io non voglio fare la tua infelicità. Non abbiamo figliuoli; ritorna a casa tua. Resteremo buoni amici, serberemo un bel ricordo dei giorni passati insieme.» Che cosa potevo fare?
«Ella protestò, commossa, che era sempre quella di prima, che le facevo male parlando così. Allora le proposi di andar via insieme; accettò. Partimmo. Il ladro ci venne dietro—come un ladro, di nascosto, senza farsi vedere. Un giorno, lo incontrammo faccia a faccia. Io dissi a mia moglie: «Hai visto chi ci ha seguito?» Dapprima, parve non avesse capito; poi si mostrò offesa: chi mi aveva dato il diritto di sospettare? Poteva dire alla gente di restarsene a casa?
«A casa, ci tornammo noi. Poichè non riuscivo a sbarazzarmi di colui, non valeva la pena di andar girando per il mondo. Io non amavo quella vita instabile, pensavo alla tranquillità delle mie abitudini, alle dolcezze del focolare domestico. Di queste dolcezze, mia moglie era sempre la più grande; fuori di lì mi pareva che mi appartenesse meno.
«Passò così del tempo. Qualche volta, io ero triste per lei come al pensiero di una persona cara che sia affetta da una malattia incurabile…. Non avevo testa da far nulla, un freddo mi passava da capo a piedi e mi pareva che il mondo stesse per finire. Vedevo quel che si preparava, e temevo di comprendere che era lei a volerlo. Allora, che cosa potevo farci?… Poi, mi persuadevo d'ingannarmi, speravo che tutto questo fosse un prodotto della mia fantasia, della mia paura. Ella non era nè triste, nè lieta; mi pareva un poco annoiata. Con me, era piuttosto fredda; capivo che il pericolo sarebbe stato nel caso contrario. Quell'uomo era ingolfato in affari politici, agitava il paese, non aveva tempo da scrivere una lettera.
«Le lettere anonime sono una provvidenza. Data la fondamentale vigliaccheria umana, è provvidenziale che si possa far risapere una cosa o dare un consiglio senza arrischiar nulla. Mi scrissero che mia moglie era andata, un certo giorno, in una certa casa, a trovare quell'uomo.
«Quando si dice che una cosa è inverosimile, che non vi si può credere, si fanno delle frasi. Io vi credetti subito. Mia moglie era lì, dinanzi a me, e ad un tratto mi parve che ella fosse tutta macchiata, tutta contaminata, e che se io l'avessi toccata soltanto con un dito quella bruttura mi si sarebbe attaccata addosso…. Le mostrai la lettera. Come ella mi vide gli occhi, si alzò di scatto. Io le domandai che cosa avesse fatto quel giorno. Sostenne il mio sguardo: perchè le facevo quella domanda? Le dissi io quello che aveva fatto. Negò altamente, mi accusò di prestar fede alle calunnie. Allora, io le ripetei tutti i particolari della lettera, e come li enumeravo, ella si turbava. Finì per ricascare sulla sedia, col viso tra le mani. Continuando, io le dissi: «Perchè hai fatto questo? Avevi da lagnarti di me? delle rappresaglie da esercitare? Non mi accettasti tu forse di tua libera elezione? Ti ho forse voluto bene meno di prima? Non ti avevo lasciato libera di andartene? Che cosa ti ho fatto?»
«Qui, mi cadde ai piedi, domandandomi perdono. Non c'era stato nulla di male, me lo giurava dinanzi a Dio; era andata perchè quell'altro minacciava di ammazzarsi, di fare uno scandalo, di provocarmi. Era stata leggera, ne conveniva; avrebbe dovuto consigliarsi con me; se ne pentiva amaramente, mi domandava perdono….
«Sì, il perdono…. Ero io sicuro che ella non avesse ragione, che non l'avessi sospettata a torto?… Poi, io non potevo cacciarla via, io non potevo vivere senza di lei….
«Di questo ella ora mi minacciava. I miei sospetti l'avevano offesa, ed il perdono non era bastato. Ella era diventata irritabile, insofferente, trovando ogni giorno una ragione di muover lite, asserendo che morta la fiducia, la vita in comune non poteva più durare. Io mi facevo sempre più umile, sempre più paziente, sempre più premuroso; la vita senza di lei mi sarebbe parsa una nera cosa…. Poi, avrei voluto dirle che sapevo il motivo di quella sua irritabilità, di quelle sue provocazioni, che il motivo era il pensiero dell'altro, di cui ella non si era scordata…. ma non lo dicevo, per non soffiare sul fuoco. Ero molto triste, ma nascondevo la mia tristezza; se no, che merito avrei avuto del mio perdono?
«Un giorno, passando nella sua stanza da lavoro, le annunziai: «C'è di là Filippo.» Filippo era il giardiniere; anchequell'altrosi chiamava così. Come ella fece un moto repentino e mal represso, io le dissi, tranquillamente, quasi ridendo: «Non è lui, è il giardiniere….» Ella scattò in piedi, mi colmò di rimproveri, andò a chiudersi in camera. Aspettavo impazientemente l'ora del desinare; ero pentito di quel che avevo detto, volevo abbracciarla, domandarle scusa, dirle infine che tutto questo non era ragionevole…. Quando fu l'ora, ella non comparve. Era andata via da sua madre; la mia casa era deserta….
«Quella casa, lanostracasa, come aveva potuto lasciarla? Il colpo fu duro; mi pareva come una morte, come quando la mamma se ne era andata. Poi mi facevo una ragione: se non voleva più stare con me, potevo obbligarvela con la forza?
«Un giorno, ricevetti la visita di sua madre. Mi annunziava che ella aveva presentata domanda di separazione; che allo stato in cui erano le cose era il meglio che si poteva fare. Sta bene, non mi sarei opposto; domandavo soltanto, per curiosità, per quella curiosità che gli ammalati hanno delle cause dei loro mali, che cosa ella aveva da dire contro di me. Mi rispose questo: che io non l'amavo più…. «Ed è lei che lo dice? e quale prova ne dà?» La prova era questa: che io non ero geloso…. Mi venivano in bocca delle parole amare; le ingoiai. Le recriminazioni mi sono sempre parse inutili, qualche volta un poco ridicole per giunta.
«Comparimmo, dapprima separatamente, dinanzi al signor presidente per l'esperimento della conciliazione. Dissi al magistrato tutta la verità; la verità ha un accento che la fa riconoscere: egli comprese che non mentivo. Condannava però il mio consenso alla separazione: lasciata a sè sola, quella donna si sarebbe perduta. Fummo messi in presenza l'uno dell'altra, la rividi…. Ella non potè sostenere il mio sguardo; se lo avesse sostenuto, vi avrebbe letto un dolore infinito…. Il presidente era deciso a spuntarla, vi metteva la sua coscienza di uomo onesto ed il suo amor proprio di funzionario. Ella era imbarazzata, confusa, intimidita. Ad uno ad uno, egli ribattè tutti i suoi fiacchi argomenti, la fece convenire del suo inganno, e la costrinse a confessare di essere stata messa su, di aver tutto da perdere nel lasciarmi…. La riebbi.
«Credevo di aver fatto un brutto sogno. Ritrovandola al mio fianco, in casa mia, come ai giorni lontani, mi sentivo tornare da morte a vita. Ero stato pazzo di lasciarla libera di abbandonarmi! Riconoscevo la mia parte di colpa. Ella aveva avuto ragione accusandomi di non esser geloso; la gelosia è una prova d'amore. Io ero stato geloso in silenzio, dentro di me, per timore di increscerle; avevo sbagliato. Le donne, alle volte, vogliono essere dominate.
«Come le dimostrai la mia gelosia, come le dissi soltanto chequell'uomoera indegno di lei, si mostrò offesa, non mi parlò per due giorni…. Ella mi aveva mentito: aveva dato retta a quell'uomo, era stata da lui indotta a lasciare la mia casa, e non avendo resistito alla prova del confronto dinanzi al magistrato, teneva ore secrete conferenze con un avvocato, per riprendere il processo di separazione….
«Non potevo più illudermi: era un'indegna, e non sapevo vivere senza di lei. Misurando tutta la mia abiezione, presi un giorno il mio revolver e pensai di uccidermi. Scrissi un testamento, che esiste ancora, e fui per eseguire il mio disegno. Sul punto di morire, volli tentare un ultimo passo. Chiamai mia moglie in camera mia e chiusi l'uscio. Come mi vide fare quell'atto, come scorse il revolver ancora sul tavolo, si slanciò verso la finestra, per chiamare aiuto…. Io l'afferrai alla vita, le caddi in ginocchio, le baciai le mani, dicendole tutta la stoltezza della sua paura. Parlai, parlai, parlai. Le tenni il linguaggio dell'amore, della speranza, del comando, della preghiera, della fede, del perdono; le ricordai il passato, la feci libera dell'avvenire, le dissi che volevo uccidermi…. Ella si scosse. Ancora una volta, avevo vinto.
«Mezz'ora dopo, andò fuori. Io rimasi in camera mia, a pensare. Sul tardi, rincasò e mi venne incontro. L'avvocato era con lei. Veniva per dirmi che voleva andarsene via, che non voleva restare con me. Come?… ancora?… perchè?… Le domande mi si affollavano alla mente. Non domandai nulla. Dissi: «Sia pure….»
«Come la vidi allontanarsi, mi slanciai contro di lei. Volevo almeno abbracciarla un'ultima volta, volevo almeno vederla, se partiva per sempre…. Ella dette un grido, chiamando al soccorso. Due guardie, rimaste in sala, comparvero.
«Come vidi le guardie in casa mia, corsi al tavolo, afferrai il revolver, l'uccisi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
«Questo direi ai signori giurati, se l'avessi uccisa. Io non l'ho uccisa, l'ho vista andare via per sempre, vivo da lunghi giorni nel deserto di questa casa ancora tutta odorante di lei, apro ogni tanto l'album che racchiude il suo ritratto, lo bacio e piango.»
Mentre Anastasio Natali dava gli ultimi tocchi al suo quadro dellaGinestra—un orrido e deserto paesaggio vulcanico, tutto asperità, crepacci, lastroni, fra i quali, a mazzi, a ciuffi, a boschetti, i gialli fiorellini mettevano come una nevicata d'oro—la tenda che mascherava l'uscio d'entrata fu rimossa, e la figura del maestro Albani apparve a metà.
—È permesso?
—Avanti.
L'Albani entrò, col cappello in mano; si avvicinò rapidamente al cavalletto, e dato uno sguardo alla pittura, disse:
—Bellissimo, perfetto, meraviglioso, sublime.
Nel pronunziare questa progressione di aggettivi ammirativi, la sua voce non era salita di un tono. Con maggiore espressione si sarebbe detto: Buon giorno, ti saluto; stai bene?
Come restava lì, impalato, dietro le spalle del Natali, questi cominciò a soffiare, e abbassando pennelli e tavolozza:
—Se non ti levi di lì—esclamò—non potrò fare più nulla.
—Sarebbe un peccato.
E, scostatosi, l'Albani si guardò attorno, in cerca di una sedia. L'impresa non era agevole. Un'artistica confusione regnava nello studio, e i drappi dai colori smaglianti, i costumi antichi, i libri dalle ricche legature, gli album di fotografie, le scatole dei colori si ammonticchiavano sopra le quattro o cinque sedie spaiate e di vecchio modello che parevano perdute nella vastità dello stanzone. Solo un teschio mancante delle mascelle troneggiava sopra uno sgabello di legno scolpito, accanto alla mensolarococo. L'Albani si diresse da quella parte, prese il teschio per le occhiaie e si mise a sedere.
Allora, il silenzio si fece profondo. Nascosto in fondo a un aranceto, invisibile dalla stradicciuola per la quale i carri non potevano passare, lo studio del Natali era un vero romitaggio.
—Ci siamo!—esclamò finalmente il pittore, dopo una mezz'ora di lavoro silenzioso, e buttati da canto tavolozza e pennelli, levatosi in piedi e indietreggiando di qualche passo con una mano sugli occhi a guisa di visiera, si mise ad esaminare l'opera propria. Luigi Albani lasciò anche lui di misurare in tutti i sensi il cranio che teneva ancora sulle ginocchia, lo posò sulla mensola, vi adattò sopra il suo cappello e si fece incontro all'amico.
—Dunque, ti piace davvero?—chiese il pittore.
—È un imbratto.
Il Natali lo guardò un istante. Poi, scrollando le spalle:
—Ah, sì; hai ragione! Dimenticavo di parlare col maestro Albani.
—Cioè, col critico più acuto dell'ex-regno delle Due Sicilie,—rispose l'altro, senza scomporsi. E avvicinatosi al quadro, accompagnando le proprie parole con gesti sobrii e compassati, riprese:
—Prima di tutto, questa lava è di cioccolata; comeréclamenelle scatole del Suchard sarebbe impagabile. Poi, il cielo è oleografico e le nuvole sono di bambagia. Toccale, e vedrai che si sfilaccicano. Ora, bisognerebbe parlare del soggetto….
—Eh! parliamone pure!—esclamò il pittore sorridendo. E accesa una sigaretta, sedette incrociando una gamba sull'altra e guardando curiosamente l'Albani.
—Il soggetto, a tuo vedere, dovrebbe essere pieno di filosofia; il fiore nel deserto, l'antitesi eterna della natura che sorride mentre tende le sue insidie, o che insidia mentre sfoggia i suoi sorrisi—a piacere. Sta bene. Solamente, per maggiore intelligenza, ti consiglierei di imitare quel pittore polacco che, esponendo un quadro rappresentanteL'ultima composizione di Mozart, faceva eseguire, da suonatori nascosti dietro la tela, laMarcia funebredel maestro. Se vuoi, potrei declamare io stesso i versi del Leopardi.
E, passando dall'altro lato del cavalletto, il maestro Albani cominciò:
—Qui mira e qui ti specchia,Secol superbo e sciocco,Che il calle insino alloraDal risorto pensier segnato innantiAbbandonasti….
Non potè continuare. Anastasio Natali rideva a crepapelle, con le mani ai fianchi, rovesciando indietro la sua forte testa dagli arruffati capelli castagni.
—Ah! ah! ah!… bellissimo!… ah! ah! ah!… Non c'è che il maestroAlbani per avere di queste idee!…
L'altro lasciò il suo posto, e aspettato che l'amico si calmasse, riprese a parlare passeggiando lentamente per lo studio:
—Tu ti credi moderno, ma sei più antico del tuo Leopardi, che si è sbagliato di venti secoli. Con questo sistema delle antitesi e delle allegorie, ti potrebbe finir male. Se vuoi fare della filosofia, scrivi un trattato, non dipingere un quadro….
—Eh! il discorso non è poi tanto da matto!
—E se ti sta tanto a cuore l'espressione, cercala dove va cercata….
—Cioè?
—Nelle nobili fattezze del re del creato.
L'abituale freddezza d'accento di Luigi Albani si era fatta ancora più grande, e nel tono strascicante con cui aveva pronunziate quelle parole quasi ripetendo una frase mandata a memoria, v'era un'ironia così sottile ed acuta, che il Natali si voltò a guardarlo. Ora, egli si dirigeva in fondo allo stanzone, verso la mensola. Arrivato lì vicino, ricominciò:
—Le nobili fattezze del re del creato sono ancora piene d'espressione dopo distrutte. Ecco, per esempio, un quadro molto espressivo: questa mensola Luigi XV, con questo cappello 1887 sopra un teschio che può essere di tutti i tempi e di tutti i paesi.—Poi, preso il teschio e mettendosi a considerarlo attentamente.—Ed ecco un altro quadro: il problema d'Amleto, essere o non essere, cioè se è meglio…. Tu dovresti fare il mio ritratto così.
Anastasio Natali scosse le spalle e si fregò fortemente le mani, segno che stava per rimettersi al lavoro.
—A noi due, stravagante; ho un'ora perduta, e se mi prometti di star buono e di lasciare in pace il teschio, ti butto giù un pastello.
—Vorrà essere una cosa molto originale.
Il Natali mise a sedere l'amico, dispose il cartone sopra una tavoletta, prese la scatola dei pastelli, sedette anche lui, e cominciò a tracciare, con la sua febbrile impazienza di meridionale nervoso, le prime linee. Però, a misura che il suo lavoro avanzava, l'attività dell'artista andava rallentando. Ora egli si fermava ad ogni tratto, buttava il corpo indietro per giudicare dell'effetto, guardava lungamente il modello, e aveva un piccolo aggrinzamento delle guancie che dimostrava chiaramente il suo malcontento.
—Scusa, tirati più indietro…. no, più avanti…. Alza un poco il capo…. così…. no, come prima.
Tornato al lavoro, ricominciarono le sue esitazioni. La figura era già tutta abbozzata, la rassomiglianza in certo modo conseguita; mancava una cosa soltanto: l'espressione.
—Apri un po' gli occhi…. non così, più chiusi…. insomma, non ti sforzare…. E chiudi la bocca, se no c'entreranno le mosche!…
A poco a poco, il Natali cominciava a indispettirsi; gli pareva cheLuigi Albani si prendesse giuoco di lui.
—Insomma, vuoi star composto, o mando tutto per aria?
—Ti prego di credere che sono compostissimo.
Ed era quello, dunque, il suo atteggiamento naturale? Dacchè era tornato da Roma, il Natali non aveva ancora guardato l'amico così attentamente; non aveva ancora esaminati quegli occhi smorti, senza sguardo, quei muscoli flaccidi, quasi cascanti, quelle labbra leggermente dischiuse, quella carnagione scialba, quell'aria di stanchezza, d'indifferenza, di noia, di vacuità diffusa sopra una fisonomia impossibile a definire. Conosceva le sue bizzarrie, le sue eccentricità che gli avevano fatta una reputazione di mattoide nei cenacoli artistici; ma non lo sapeva ancora così strano, così inafferrabile, come ora gli si rivelava non solo alla conversazione, ma financo all'aspetto. Nondimeno, si rimise al lavoro, e dette ancora alcuni tocchi; poi, ad un tratto, strappò il cartone e lo buttò da canto.
—Cominciamo daccapo.
Era proprio impossibile ch'egli afferrasse quella fisonomia? Il Natali ci si arrabbiava. A corto di risorse, egli mise in opera un espediente disperato per uno come lui, avvezzo a non poter lavorare se non nel più assoluto silenzio.
—Parla,—disse all'Albani,—racconta qualche cosa!
—Di che cosa vuoi parlare? d'arte?
L'Albani sviluppava le sue teorie, citava degli esempii, dava dei consigli: ma nulla, nei suoi lineamenti, tradiva una qualunque attività cerebrale; si sarebbe detto uno scolaro sonnacchioso in atto di ripetere la sua lezione. Il pittore si era messo a contraddire tutto quello ch'egli diceva, ad irritarlo, a provocarlo, nella speranza che l'ardore della discussione mettesse almeno una scintilla in quello sguardo. L'Albani non si dava per vinto, teneva testa alle opposizioni, agli scherzi, ai sarcasmi dell'amico, ma il suo sguardo restava freddo come la sua voce lenta, monotona, a momenti irritante.
Anastasio Natali non seppe più contenersi.
—Insomma, o sono imbecillito io, o sei tu che hai l'aria d'uno scemo.
Come un velo d'ombra passò sul viso del maestro Albani. Il pittore alzò gli occhi al lucernario: era una nube che aveva oscurato il sole?… La giornata era sempre tersissima.
—Che cos'hai? Ti senti male?
L'Albani si era passata una mano tremante sulla fronte.
—Non è niente, è che hai ragione…. Io sono stato un anno pazzo….
Il pittore stava per dire: «Un anno soltanto? vuoi dire un po' sempre….» ma era tanta la tristezza dipinta in volto all'Albani, che chiese invece premurosamente:
—Tu?
—Io stesso.
—E come?… perchè?… Mentre io sono stato fuori?… Nessuno me ne ha detto niente…. E come?… perchè?…
—Perchè?… Per aver voluto innalzarmi da terra, per aver voluto stringere delle nubi, per essermi dimenticato che ero la più miserabile delle creature: un uomo!…
Dimenticando il suo pastello, Anastasio Natali esclamò:
—Allora, sentiamo.
** *
L'Albani lasciò cadere la testa sul petto, socchiudendo gli occhi.Poi, scuotendosi:
—Ti aspetti tu forse qualcosa di straordinario? delle avventure rare od intricate?… È una storia semplicissima, la storia di una passione come se ne possono vedere tutti i giorni. Soltanto, era la mia prima passione….
—O tua moglie?
—Mia moglie? Ah, tu credi che io l'abbia amata di amore? che io l'abbia presa di mia propria volontà?…. Me l'hanno data a diciannove anni, perchè era mia cugina, perchè avevano stabilito che dovesse esser così…. Le ho voluto bene, in un certo modo. Che cosa sapevo della vita fino a venticinque anni? Che cosa sapevo in quel miserabile paese, dove un libro era un oggetto della più grande rarità? Eppure, qualcosa bolliva dentro il mio cervello!… Si venne a Napoli…. Il mio scontento, l'irrequietezza, l'aspirazione a qualcosa d'aspettato, di quasi promesso, ma che non veniva ancora, diventava tormentosa. Intorno a me, non sentivo parlare che di una cosa, del solo grande affare della vita: l'amore…. E l'amore io non lo conoscevo se non di nome o nelle fanciullaggini dei quindici anni….
Preso dall'interesse della narrazione, Anastasio Natali aveva dimenticato il suo disegno, e coi gomiti sulle ginocchia e la testa fra le mani, pareva pendere dalle labbra dell'amico.
—L'affetto di mia moglie—riprese l'Albani—mi irritava, come una delusione, come una catena; non era mai stata bella, la maternità l'aveva sciupata. Gli strilli dei bambini m'impedivano di studiare, le poche volte che ne avevo voglia. L'arte mi pareva una finzione suprema. Avevo già pronto il libretto di un gran melodramma,Isaura di Valenza; non sapevo intanto mettere una nota dopo l'altra. Quella poesia mi faceva l'effetto di una convenzione, di una menzogna, di una ipocrisia…. Quando, un giorno, mi capitarono fra le mani i versi dell'Attesa, ti ricordi?
Ora dove sei tu, predestinata,Da tanto attesa e non trovata ancor?
Un lampo era passato negli sguardi del maestro Albani. Il Natali, senza far rumore, si era alzato, aveva scelta una tela e dispostala sul cavalletto si era nuovamente seduto dinanzi ad esso con la tavolozza passata al pollice della mano sinistra.
—Sì che me ne ricordo!—e, preso posto dinanzi al cavalletto, si era messo di nuovo a studiare la figura dell'amico.
—La romanza fu composta in un'ora—riprese l'Albani.—Dissero che era una rivelazione; credo che abbia fatto il giro d'Italia. A che?… a che?…—mi domandavo. Fu invece essa che mi dischiuse il paradiso promesso. Mia moglie aveva regalato una copia della composizione ad una sua amica, che io non conoscevo. Non volevo veder nessuno, fuggivo le distrazioni, avevo la fama di un orso, di uno stravagante, di un mattoide; non è vero?… Quest'amica volle conoscermi; cercai di evitarla quanto più fu possibile; un giorno c'incontrammo. Credi tu che vi possano essere degli sguardi coi quali un uomo e una donna che non si conoscono, che si vedono per la prima volta, si dicano immediatamente: Noi saremo l'uno dell'altra?… Uno di questi sguardi brevi, profondi, fulminatori, fu quello che noi scambiammo…. Un mese dopo, il 20 maggio, la nostra muta promessa era compiuta….
—Come fu?—chiese il Natali che, lavorando attorno alla sua figura, non perdeva nè una parola nè un moto dell'amico.
—Che cosa importa?… Si doveva andare in giro, tutti e tre, con mia moglie; all'ultima ora l'indisposizione d'un bambino la trattenne. Andammo soli, fuori Grotta, a Pozzuoli, a Baja…. Che cielo! che mare!… Conosci tu il boschetto che sta dietro il lago Lucrino, sulla via della grotta della Sibilla? Il terreno è in pendenza; si procede a caso, scostando i rami che vi sfiorano il viso. Attraverso il fogliame del castagneto filtra una luce verde, fantastica, daféerie; par di nuotare in mezzo allo smeraldo fluido…. Il 20 maggio!…
Era de maggio e te cadeano 'nzinoA schiocche a schiocche le cerase rosse….
Le rosse, le dolci, le fresche ciriegie erano le sue labbra….
Il maestro Albani si era alzato, di scatto, guardando fisso dinanzi a sè, con un tremito in tutta la persona.
—Eccola lì, la simpatia, la leggiadria, la fantasia, la frenesia!… il sogno fatto persona!… l'ideale conseguito!… Come l'amavo? Come è impossibile dire!… L'arte? mia moglie? i miei figli? l'avvenire? Dimenticato tutto, tutto! I pensieri di ogni istante, i sogni di tutte le notti, erano per lei, per lei salute e morte mia! Le parole d'amore che non avevo detto a nessuna, i baci d'amore che non avevo dato, i tesori d'amore che avevo accumulato cupidamente in fondo all'anima, io volevo spenderli per lei, tutti in una volta, con la pazza prodigalità dell'avaro che guarisce del suo vizio! Io volevo darle tutto il mio sangue! confondere la mia vita nella sua! inabissare eternamente il mio essere nel suo!… O miseria! miseria!… Io dimenticavo di essere un uomo, una creatura materiale soggetta alle miserabili leggi della materia…. La mia fibra s'infiacchiva, la mia mente cominciava a smarrirsi, i miei ricordi a confondersi; io ero malato, malato dilei…. Mia moglie era messa a piangere in un cantuccio; io la lasciavo, per andarla a trovare…. Il mio bambino agonizzava; io lo lasciai per seguirla ancora…. A misura che il mio male cresceva, più imperioso si faceva il bisogno di lei…. Che cosa avrei fatto della salute, io che volevo annientarmi stringendola al mio petto, bevendo il suo profumo, suggendo il miele delle sue labbra? O miseria! io non potevo annichilirmi fra le sue braccia, io non potevo darle dell'amor mio sconfinato quell'unica dimostrazione adeguata!…
Il maestro Albani si era nuovamente lasciato cadere sulla seggiola, intanto che il Natali lavorava febbrilmente alla sua figura.
—Invece, i miei amici mi ammonivano, mi scongiuravano di fuggirla, di tornare ai miei monti, per rifarmi, per combattere ancora le battaglie dell'arte…. L'arte? Quale arte?… Un giorno mi condussero per forza a S. Pietro a Majella; vi intesi dei frastuoni, delle cacofonie irritanti…. Fuggirla? io? io che le stavo attaccato come l'ombra? io che parlavo di lei a mia moglie, enumerandole le dolcezze deisuoibaci, le furie dellesuestrette, i languori deisuoisguardi? io, che al pensiero di lei mi mettevo a tremare da capo a piedi, come una foglia?… Intanto, la vitalità che a poco a poco io perdevo, pareva concentrarsi in lei; mai io l'avevo vista così floridamente bella, in una così magnifica fioritura di tutto il suo essere…. Io sentivo ora che sarei morto per lei; non come avevo sognato, ma d'una morte lenta, continua, di tutti i giorni…. Sì, era questo! Che cosa importava? Nessuna morte sarebbe stata più invidiabile!… Qualche volta, subitamente ispirato, mi proponevo di scrivere qualcosa di grande, di sublime, il canto del cigno, un'opera immortale che avrebbe attestato alla posterità la forza di quella passione, ed in cui io sarei sopravvissuto. Non era in quell'amore l'ispirazione attesa, affrettata coi voti più ardenti, senza la quale il mio ingegno non avrebbe potuto dare i frutti promessi?… E mi mettevo al pianoforte; ma le idee si confondevano, una nausea mi vinceva, non ero buono a nulla; e davo dei pugni sui tasti, delle pedate allo strumento, e stracciavo rabbiosamente stampe e manoscritti… La gente che mi attorniava raddoppiava d'insistenze, diceva delle menzogne: che ella era indegna dell'amor mio! che ella mi tradiva!… Non mi davano più pace: una persecuzione!… Come non capivano che facevano peggio? Che cosa volevano da me? Non mi importava di perdere l'ingegno, non m'importavano i suoi tradimenti, come dovevo dirlo?… E, infine, chi erano tutti costoro?… Fuori!… via!… io non li conoscevo, non sapevo che farmi di loro;ellami aspettava, comprendevano o no!… Un giorno, arrivò mia madre. Appena mi ebbe visto, scoppiò in pianto. Anche lei?… Perchè era venuta! Chi l'aveva chiamata? Chi aveva bisogno di lei?… Afferrata al mio braccio, ella cercava di trattenermi; io la urtai, violentemente…. Della gente mi afferrò; mi dibattei, detti dei morsi, caddi….
** *
Stanco, sfinito, anelante, il maestro Albani tacque un istante.Anastasio Natali non gli diè tempo di prender fiato:
—E poi?… e poi?…
—Poi, niente…. un gran vuoto nero, con qualche sprazzo di luce di tratto in tratto…. Fui portato in una casa di salute…. Capisci? aver sognato di non esser più in terra, di aver varcato le anguste frontiere dentro cui si aggira l'umanità lamentosa, e risvegliarsi paralizzato di corpo e di spirito, incapace di muoversi e di pensare, ridotto un oggetto di compassione o di scherno!… Non ricordo più nulla…. sì, il sorriso straziante di mia moglie, le grida festanti dei miei bambini che giuocavano in giardino, le grida dei bambini vestiti di nero…. perchè? Era la mamma che aveva finito di piangere per me…. lo seppi più tardi, quando dissero che ero guarito…. Guarito? Io non avevo mai sofferto come allora. Io sonnecchiavo in una incapacità spirituale che formava il mio tormento; passavo le mie giornate a lottare con la memoria recalcitrante, con l'intelligenza assonnata, con le visioni che venivano incessantemente a turbarmi….
Come l'Albani tacque ancora, Anastasio Natali che continuava nervosamente nel suo lavoro, ripetè:
—E poi?… e poi?…
—Poi, ho finito.
—Ma la guarigione?
—Ah, sì! È avvenuta da qualche mese soltanto, e non è ancora, come vedi, completa. Ero andato a passare qualche tempo al mio paese, a respirare quell'aria balsamica, a riposare gli occhi nella contemplazione del verde. Del mio paese io avevo dimenticato tutto: la posizione, le strade, gli abitanti, la pronunzia. A poco a poco i miei ricordi si districavano, si facevano meno confusi; mi sentivo tornare alla coscienza di me stesso.
Un giorno, incontrai un compagno d'infanzia che non stentai molto a riconoscere. Questa scoperta mi riempi di soddisfazione, e come l'amico mi aveva pregato di andarlo a trovare, mi avviai verso la sua casa. Aggirandomi per quelle viuzze strette, in salita, dove, ragazzo, avevo tanto trottato, provavo una tenerezza, una contentezza, che assaporavo deliziosamente, senza scoprirne la ragione. Come feci a rintracciare la strada? Non lo so; io andavo, andavo, senza pensare alla meta, ma sicuro di non mancarla…. Quando mi trovai nella via in cui abitava l'amico, quando finalmente alzai gli occhi alla sua casa, quello stato d'animo si fece più intenso. Che cosa mi dicevano quelle mura? Niente, non sapevo dirlo; ma mi pareva che la Serenità dimorasse lì. Salendo le scale, dovetti più volte fermarmi per dare ascolto a ciò che sentivo dentro di me. Sai certi preludii chiari, freschi, leggieri, che ti cullano, ti sollevano, ti trasportano lentamente su, su, per gli spazii dell'etere? Dentro di me sentivo un che di simile. Senza saper come nè perchè, ero nell'attesa di qualche cosa che mi avrebbe colmato di gioia, ma in un'attesa che non aveva nulla di tormentoso o di semplicemente irrequieto. Entrai…. Passavo di meraviglia in meraviglia. Al preludio, era successo un canto sommesso, delicatissimo, ineffabile. Io mi muovevo in mezzo a quelle vibrazioni sonore…. Il mio amico si avanzava verso di me additandomi una donna il cui viso restava nell'ombra. Come ella si voltò a guardarmi, il canto cessò e una gran luce si fece in tutto il mio spirito…. Il mio primo amore! la fanciulla che io avevo amata nella purezza dell'adolescenza e che ora rivedevo, egualmente bella, egualmente serena, cullare il suo bambino! la via di dove io ero passato tante volte! la casa familiare! le scale che io avevo salito tremante, con un mazzolino di fiori dei campi in mano! le finestre che io avevo divorato cogli occhi, nell'attesa della diletta!… la casa che aveva conservato il suo aspetto raccolto, sereno, mentre il fanciullo fatto uomo ne derideva il ricordo e perdeva la ragione nel tumulto della grande città!… Ella mi accolse come una sorella maggiore; aveva saputo la mia storia, e mentre si girava per le stanze e si scendeva in giardino, io sorprendevo in lei uno sguardo pieno di pietoso interesse…. Io mi sentivo rivivere, sentivo la mente schiarirsi, gli avvenimenti scordati rinascere nella memoria, i più piccoli, i più insignificanti; mi pareva di essere tornato al tempo felice della mia fanciullezza. Da quel momento, la pace si è cominciata a fare nel mio spirito; da quel momento io sono ridiventato un uomo, e l'arte….
Anastasio Natali si alzò, di scatto, aprendo le braccia in croce con un gran sospiro di sollievo.
—Ora, basta. Il ritratto è impostato….
All'esposizione della Promotrice, il ritratto del maestro Albani, la cuiIsaura di Valenzaera stato il successo della stagione, ottenne il primo premio.
—La signora duchessa ha chiamato?
—Rimandate la carrozza. Portate via quei fiori. Non sono in casa per nessuno, avete capito?
E come il cameriere si era inchinato a quegli ordini pronunziati con voce breve e concitata, la duchessa di Neli si lasciò cadere sullavénitienne.
Una mezza luce filtrava delle stuoie abbassate ed il raccoglimento era tutt'intorno profondo. I soffici tappeti, le tendine pesanti isolavano ancora più completamente quel remotoboudoirche la duchessa preferiva per passare il suo tempo leggendo o lavorando, e dove ora restava, abbandonata, con le mani sul viso, mentre l'ultimo romanzo del Bourget mostrava il tagliacarte di tartaruga posto fra le pagine, e un filo di seta partente da un canestrino e perdentesi sotto uno sgabello tradiva ancora il gesto scomposto che aveva fatto ruzzolare il gomitolo del ricamo.
A un tratto la duchessa si scosse, si levò in piedi e si diresse verso lo specchio. Giunta lì dinanzi, sporse il capo; poi lo ritirò. Pareva avesse una tentazione di guardarsi, ma ne fosse trattenuta dalla paura di vedere uno spettacolo raccapricciante…. Ora teneva il gomito appoggiato allo spigolo del caminetto, e l'indice fra le labbra, rodendosi lentamente l'unghia e battendo con vivacità la punta del piede. Ancora una volta si strappò alla sua cogitazione; avanzossi verso la finestra, la schiuse e tirò su la stuoia. Alla chiara luce che inondò ilboudoirazzurro ella si riaffacciò, questa volta risolutamente, allo specchio e vi restò a lungo, guardandosi.
….Nessun dubbio era più possibile. Aveva sperato un momento che fosse stata un'allucinazione, un giuoco di luce, un riflesso; ora il dubbio non era più possibile. I suoi capelli imbiancavano, sulle tempie, sulla fronte, dove si potevano meno nascondere! Da principio, qualche anno innanzi, erano stati dei fili d'argento per cui si erano destate in lei le prime vaghe malinconie del tramonto, ma che ella aveva presto dimenticati dopo aver dato loro la caccia, strappandoli dalla radice, con cura scrupolosa, senza dimenticarne uno solo. Per un pezzo non erano ricomparsi. Poi, timidamente, nascosti, perduti tra le selve folte e nerissime, i fili bianchi erano spuntati di nuovo; ma così pochi, così radi, che ella, veramente, non se n'era curata. A trentotto anni la marchesa Crollanza non ricorreva alle tinture? E la piccola Annina Fiorelli, a diciotto anni—una bambina!—non era quasi grigia? Che meraviglia dunque se, alla sua età, qualche filo d'argento s'intrecciava fra le chiome corvine?… Però, da quella volta, non si era più guardata attentamente, come di consueto; mentre la cameriera la pettinava, ella volgeva altrove gli sguardi; un movimento istintivo le faceva evitare di rivedere quelle macchie che le annunziavano la prossima fine della propria bellezza. Ed ecco che quel giorno, avvicinatasi inavvertitamente allo specchio accusatore, aveva scoperto le ciocche bianche miste al lucente ebano della sua chioma!…
Il dubbio non era più possibile, l'illusione non era più permessa, eppure ella non sapeva rassegnarsi alla triste scoperta…. Con un gesto nervoso, portò le mani alla testa, buttò via il pettine a palo e le forcine, e cominciò a disfare rapidamente il sapiente edifizio della sua acconciatura. Dapprima le due grosse bande della nuca caddero, disciolte, sulle spalle; poi quelle delle tempie le velarono il viso. Visti così, un poco a distanza, in masse copiose, i suoi capelli erano sempre meravigliosamente belli; bisognava avvicinarsi allo specchio, bisognava prenderne delle ciocche in mano, dividerle, allargarle, perchè i fili deturpatori apparissero. Quanti!… Quanti!… Come non se ne era accorta finora? E ad ogni nuovo ciuffo che ne scopriva, una vampa le saliva al viso. Avrebbe voluto chiudere gli occhi, sottrarsi a quella vista angosciosa; ma non glie ne restava la forza nella specie di fascinazione, di ipnotismo che le aveva spalancato gli occhi e inchiodato lo sguardo.
Ella invecchiava! Fatalmente, inesorabilmente, il fiore della sua bellezza intristiva, appassiva, moriva! Oggi erano i capelli che imbiancavano, domani sarebbero state le rughe che si sarebbero scavate nel marmo della fronte, nel velluto delle guancie; poi gli smalti dei denti che si sarebbero scossi, che sarebbero caduti…. Era finita! Il suo regno di donna cessava. Cessava allo stesso modo con cui era cominciato: inutilmente….
—Inutilmente!
La parola, pronunziata con accento di profonda amarezza, si perdette nel silenzio delboudoir. La duchessa di Neli si tolse dallo specchio, e riannodati alla meglio i capelli andò a rovesciarsi sulla sedia lunga. Ora tutta la sua vita, la sua vita monotona e vuota di donna onesta le sfilava dinanzi. Meglio così!—si diceva—meglio la vecchiaia! meglio la bruttezza! poichè bellezza e gioventù non erano valse a nulla. Meglio che i suoi capelli imbiancassero: qualcuno forse se ne sarebbe accorto, glie lo avrebbe detto! Che cosa avrebbe dunque fatto di quella carnagione soave come polpa di frutta mature, di quella bocca grande, vermiglia, odorosa, di quelle mani aristocraticamente scarne, dalle dita lunghe e sfilate, di quelle braccia forti e delicate ad un tempo, di quelle forme agili, eleganti, piene di grazia; che cosa ne avrebbe fatto, lei che nessuno aveva amato, che nessuno amerebbe? Avrebbe dovuto esser ancora bella per suo marito, per quell'egoismo fatto persona, per quell'uomo che le procurava tutti i fastidii della gelosia senza nessuno dei compensi dell'amore?… Erano dieci anni che durava la sua condanna, dieci anni durante i quali un coro di lodi e di ammirazioni le si era levato dintorno. Il gran pro che ella aveva ricavato dalla sua onestà! La gratitudine di cui l'aveva pagata suo marito, le avventure del quale formavano la favola della provincia e la colmavano di ridicolo!… Infine, le era diventata di peso quella inutile onestà! Una voce di ribellione le saliva alle labbra. Erano dieci anni che durava la sua condanna, ma ella ne aveva trentacinque, degli anni! Trentacinque, nè più nè meno; perchè nasconderlo ancora? perchè mentire ancora a sè stessa? con quale profitto? Non lo portava ora scritto nella persona, in quei capelli bianchi che fra poco avrebbero preso il sopravvento? E a trentacinque anni ella era ridotta ancora a fantasticare come a quindici! Nell'età in cui le altre cominciavano a vivere di ricordi, ella era condannata a nutrirsi di speranze, di speranze che si facevano ogni giorno più chimeriche, e di cui presto ella stessa avrebbe apprezzato tutto il ridicolo!
Ancora una volta, la duchessa di Neli si scosse dalla sua meditazione e sollevò la testa. Una semioscurità regnava nella stanza. Ella si alzò e si fece alla finestra. La giornata si era coperta; dei nuvoloni grigiastri si rincorrevano, sospinti da un vento che scuoteva le foglie appassite dagli alberi del viale, e le spargeva turbinosamente dintorno. Non una carrozza, non un passante. Il grigio plumbeo di quel cielo autunnale pareva pesasse sulla terra, la opprimesse, togliesse il respiro ad ogni creatura vivente.
—Meglio così….—disse ancora a bassa voce la duchessa di Neli, guardando quel cielo schiacciato, la cerchia ristretta dell'orizzonte, gli alberi mezzo spogli, e trovando una secreta corrispondenza fra la malinconia delle cose in quella stagione e la disposizione del proprio spirito. Era l'autunno che oramai le conveniva, l'autunno in campagna, dove è ancor più visibile il mancare del verde, il ritirarsi del sole, tutti i sintomi dell'agonia della natura.
E come ella si compiaceva di aver fatto portar via il mazzo recatole dal suo giardiniere, il domestico comparve di nuovo sull'uscio.
—La signora duchessa è servita.
Passata nella sala da pranzo, preso posto alla tavola dove il duca batteva la marcia con le posate, fiutando ogni cosa, allungando la testa da una parte e dall'altra come un ragazzo malavvezzo, la duchessa disse, con voce breve:
—Domani andrò in villa.
Il marito la guardò, sorpreso da quell'insolito accento di risoluzione. Ma un sentimento di soddisfazione gli si dipinse subito in volto.
—Era quello….—Poi, quasi pentito.—Non è una bella stagione. Del resto, fai come ti piace. Puoi dare gli ordini opportuni.
Nulla dispone lo spirito alle lunghe fantasticherie, alle lente evocazioni del passato, quanto certe grigie giornate d'ottobre, allorchè le nuvole sfilano in processione, le une sulle altre, confuse e nondimeno distinte, allo stesso modo che le imagini degli avvenimenti trascorsi. Gli uni sugli altri, i ricordi passano pel cielo della memoria e, lieti o tristi, è in essi sempre un'intima malinconia, forse come effetto della stessa inazione in cui sono lasciate le vive energie dell'organismo.
In un simile stato d'animo si trovava Guido Olderico nella spianata del romitorio di San Francesco, sull'orlo della ripida scoscesa da cui l'occhio dominava l'immensa verde vallata cosparsa di ville e di casolari che, da quella distanza, prendevano l'aspetto di giocattoli disseminati a casaccio dalla mano irrequieta d'un capriccioso fanciullo. Il cielo era coperto, ma l'aria mite, e il verde degli sterminati vigneti ancor fresco. Di tanto in tanto, da un campanile di villaggio, arrivavano i suoni delle ore; dei galli cantavano nella lontananza; nessun altro suono turbava la pace di quella solitudine. Seduto sopra un sasso, coi gomiti appoggiati alla balaustra che girava tutt'intorno alla spianata, l'Olderico pareva una statua, come il S. Francesco che benediva dall'alto del cornicione della chiesetta. Nella quiete della campagna, egli sentiva finalmente sedarsi l'agitazione dei suoi nervi tormentati; e, vista da quella distanza, la vita turbolenta della grande città, la ricerca compiacente delle sensazioni raffinate ed acute alla quale egli si era dato, gli facevano un effetto molto meschino. L'inverno si avvicinava, gli anni volavano via, ed egli pensava che sarebbe ben presto arrivato il tempo in cui la rinunzia a quel genere di vita non avrebbe avuto più nulla di meritorio da parte sua. In quella disposizione dell'animo, l'inoltrarsi dell'autunno in campagna non gli procurava nessuna secreta angoscia; mentre, gli altri anni, il raggio di sole che si raccorciava ogni giorno un poco sulla parete del suo salottino, gli dava una stretta al cuore malgrado le mille distrazioni della città.
«Sol di settembre, tu nel cielo staiCome l'uom che i migliori anni finìE guarda triste innanzi: i dolci raiTu stendi verso i nubilosi dì.»
Egli si ripeteva i versi del Carducci, ma non più col muto strazio d'una volta, sibbene con una specie di commiserazione per quella natura che si sarebbe tra breve assiderata, per tutti gli esseri che la morte aspettava e per sè stesso ancora….
A un tratto, s'intese un rumore di passi sull'acciottolato della viottola. Come l'Olderico si voltò, vide due dame avanzarsi per la spianata.
—Signora marchesa!
—Oh, voi, Olderico! Quale fortuna!… Ci accompagnerete fra gli orrori di questo speco, non è vero? Noi veniamo a farci monaci, come Eleonora nellaForza del Destino. Voi non vi conoscete? Il cavaliere Guido Olderico…. la duchessa di Neli Valformio…. O da che parte si va pel romitorio?…
—Ecco, da questa parte….
L'Olderico dava la destra alla duchessa, che restava così in mezzo. Ella portava un abito grigio, di lana, semplicissimo; dei guanti grigi, e unacappottinagrigia ancor essa. Non un gioiello, nè orecchini, nè braccialetti. Unabrochea ferro di cavallo le fermava soltanto il colletto un poco alto, che le dava un'aria quasi maschile.
—Se questi buoni frati—diceva la marchesa di Crollanza—mi dessero un terno, un terno piccino piccino, io mi dichiarerei soddisfatta della mia passeggiata. Non parlo del vostro incontro, Olderico, che è un altro terno. Lo giocherete anche voi, quello dei frati; non è vero? Io vorrei vincere un milioncino….
La duchessa guardava il paesaggio tutt'intorno, distratta, come un poco infastidita da quel chiacchierio.
—Con Enrichetta si diceva che cosa si sarebbe fatto se trovassimo un milioncino, in tanti biglietti, per terra, in mezzo alla strada. Per me, dico la verità, mi farebbe molto comodo; lo intascherei!… Non farebbe anche comodo a voi?
—Ohibò! Io lo consegnerei al signor questore e mi prenderei gli elogi dei cronisti!…
Ma, ridendo con la marchesa, egli aveva gli occhi alla sua compagna, sempre seria e un po' triste.
Come egli ebbe picchiato al portone, la figura di un fratello dall'ispida barba nerissima si affacciò al finestrino.
—È permesso visitare il romitorio?
La testa scomparve, e il portone si schiuse a mezzo. Per la prima, risolutamente, la duchessa di Neli entrò. La marchesa esitava, si guardava attorno, guardava l'Olderico, quasi a rassicurarsi. Finalmente raccolse la sua gonna dipeluche mousse, a larghe bande di ricamo a rilievo; chinò un poco la testa su cui portava un cappello a larghe tese in feltro oliva, con una ricca guarnizione di piumemoussea sfumature cascanti da un lato, e si decise a seguire l'amica.
Nella corte, le foglie secche dei castagni avevano formato un grosso tappeto su cui le vesti femminili sfrusciavano. Il fratello, con la schiena curva, il rosario ballante dalla cintura di cuoio, i piedi nudi negli zoccoli di legno, faceva strada in silenzio. Dinanzi alla scala, le paure della marchesa si rinnovarono. La sua amica era già scomparsa, che ella non aveva ancora salito un gradino. Il suo chiacchierio era completamente cessato.
—Che idea, quell'Enrichetta, di venire a cacciarsi qui dentro!Olderico, statemi vicino.
Salendo, ella si fermava ogni tanto, e si voltava indietro ad accertarsi ch'egli fosse lì. In quella sua paura, era seducentissima; però il rumore dei passi della duchessa distraeva l'Olderico.
In cima alla scala, il corridoio lungo e stretto, dalle vôlte basse, fiocamente illuminato dalla finestra posta all'altra estremità, mostrava le due file di porticine vecchie, tarlate, controsegnate da un numero. La duchessa andava sempre avanti, accanto al fratello che narrava a bassa voce i miracoli di S. Francesco, cogli occhi per terra, fermandosi ogni tanto a mostrare con la mano ossuta e callosa un quadricino polveroso, dove si distingueva a stento un bastimento in mezzo ad una tempesta, o degli uomini piagati, con una piccola imagine del santo circondata di nubi in un angolo.
La marchesa avanzava lentamente, gettando intorno degli sguardi ansiosi, e tenendosi vicino all'Olderico. Arrivati al crocicchio formato da un altro corridoio che tagliava il primo ad angolo retto, s'intese di scatto un rumor sordo, quasi un rantolo.
—Olderico!… datemi il braccio!…—e vi si abbandonò tutta.
Era un orologio invisibile, al quale scoccavano le ore.
Come i suoni cessarono, una porta si aprì, lontano, e una fila di frati, con la testa china, passò biascicando incomprese preghiere.
—Ho paura!—disse ancora la marchesa al suo compagno—portatemi via….
L'Olderico la sentì che gli si stringeva al fianco; ma egli era sorpreso della propria indifferenza innanzi a quella seduzione; i suoi occhi seguivano sempre la figura della duchessa che procedeva serenamente, chinando la testa e facendo con la mano il segno del bacio dinanzi alle imagini sacre.
Erano già in capo al corridoio. Come il fratello aprì la finestra, l'Olderico esclamò:
—Guardi che bella vista!
La marchesa, che seguendo gli sguardi del suo cavaliere aveva scoperto l'oggetto di quella attenzione, lasciò bruscamente il suo braccio.
—Proprio! Meravigliosa!—esclamò con una piccola intonazione di dispettoso sarcasmo.
Il panorama era davvero bellissimo, assai più vasto che dalla spianata, da cui il versante dei monti coperti di boschi in basso e di nevi nell'alto non si scopriva.
Dinanzi al grandioso paesaggio, la duchessa di Neli non diceva nulla. Un velo di malinconia pareva ricoprisse il suo volto, e un'espressione di stanchezza era in tutta la sua persona.
Come Guido Olderico le si trovò di faccia, vicinissimo, scorse ad un tratto i suoi capelli della fronte tutti filettati di bianco.
—Verrà?… Non verrà?…
Passeggiando rapidamente da un capo all'altro della terrazza della sua villa, la duchessa di Neli si rivolgeva per la centesima volta, da che aveva incontrato l'Olderico, quella domanda. Ella aveva ancora dinanzi la sua figura aristocratica, dai gesti agevoli e corretti; sentiva ancora il suono della sua voce quando, al ritorno dal romitorio, preso posto nellandaudella marchesa, si era intavolata una discussione sulle cose dell'arte e della letteratura, ed egli aveva svolto delle opinioni e manifestati dei gusti delicati, squisiti, quasi femminili. Aveva ancora promesso di mandare dei libri alle signore, e la duchessa contava su di questo perchè quella relazione si annodasse. Ora ella si pentiva di non avergli dato ad intendere che la sua compagnia le sarebbe stata molto gradita, e che lo avrebbe rivisto con piacere in casa propria. Come era stata fredda, rigida, antipatica! Doveva certamente aver fatto un effetto di repulsione invincibile. Già, era così mal messa! Quella povera vesticciuola grigia!… Quellacappottinadell'altro anno!… Non aveva sorriso neppure una sola volta, non aveva dischiuso abbastanza le labbra perchè, in mancanza di gioielli, egli vedesse almeno le perle dei suoi denti.
—Verrà?… Non verrà?…
Malgrado i suoi timori e i suoi pentimenti, la duchessa serbava ancora qualche speranza. Nella solitudine di quella villeggiatura fuori mano, l'Olderico avrebbe probabilmente colta con premura l'occasione di stringere una nuova relazione. E poi, e poi…. trentacinque anni, è vero; dei capelli bianchi…. ma, con una mano sulla coscienza, la duchessa sentiva di esser cento volte preferibile a quella povera marchesa, che sprecava ormai invano tutta la sua civetteria!… Sentiva però nello stesso tempo che ella non aveva ancora molto da aspettare, e che bisognava decidersi. Per l'appunto, la rigida sorveglianza del duca si era in quel momento rallentata. Suo marito la lasciava lunghe giornate sola, per andare in città, dove lo chiamava una sua tresca che era dappertutto il discorso del giorno. Egli non la giudicava più pericolosa! La sua gelosia veniva meno, perchè egli non credeva più che ella fosse desiderabile! Glie lo aveva detto, in uno di quei suoi scherzi feroci dienfant terrible! Ah, ella era vecchia? ella aveva i capelli bianchi?… Gli avrebbe fatto veder lei, se tutti avrebbero giudicato a quel modo!