Del vero prezzo dell'oro e dell'argento, e come ognuno d'essi è prezzo dell'altro.
Pare assai evidente, da quanto nel capitolo precedente si è discorso, ch'essendo la varia abbondanza o caristia d'oro rispetto all'argento causa della proporzione con che uno si baratta all'altro, dunque l'uno dell'altro necessariamente dire si debba prezzo e misura; e maggiormente che, essendo queste le due materie che piú universalmente in tutto il mondo sono in uso di moneta, che vuol dire sono la misura del valore delle altre cose, nulladimeno, essendo che questo nome di «valor intrinseco» de' metalli è preso spesse volte da alcuni per certo fantasma che non capiscono, sembra difficile capire come possono questi metalli uno esser misura dell'altro vicendevolmente, di modo che non piuttosto abbia da essere qualche cosa nel mondo che sia misura comune d'ambidue.
Imperocché, se io dimando quanto vale una libbra d'oro, e mi venga risposto 14 libbre e tre quarti d'argento; ed io di nuovo chiegga:—Dunque, quanto vale una libbra d'argento?—pare sia improprietá il dire ch'ella vale 4/59 d'una libbra d'oro, e molto piú proprio sembrerebbe l'aver un'altra comune misura del prezzo d'ambidue, alla quale si riferissero. Ma io domando: se ciò fosse, questa tal cosa, che fosse misura della valuta dell'oro e dell'argento, da che averebbe ella il valore? E questo suo valore sarebbe egli certo, fisso e stabile, o incerto e mutabile? Se incerto e mutabile, dunque v'averá bisogno d'una quarta cosa certa e stabile, che misuri il valore di tutte le tre, e cosí in infinito. Ma, se sará cosa ch'abbia valor certo e stabile, due cose dimando. In primo luogo: dov'è questa cosa, che abbia un certo, fisso ed immutabil valore? Io non la trovo nel mondo, secondo questo modo d'intendere. La seconda è: in che consiste questo valore di questa terza cosa, che sia una valuta cosí immutabile, che possa esser regola del valore di tutte le altre? Io per me assegnerò bensí una cosa che serve di regola a tutte le valute, e l'ho accennata di sopra: ma niuna piú di lei è instabile ed a piú varietá è soggetta; ed è l'umano disiderio. Si tronchino una parte dei disidèri mondani: subito l'oro e l'argento sará di meno valore; perché, non essendo piú prezzabili le cose che non sono piú disiderate, resta la stessa quantitá d'oro nel mondo ch'era prima, e le cose contrattabili o disiderate sono in minor quantitá, e si dá maggior quantitá d'oro per esse. Cosí l'abbondanza d'oro in Roma dopo la guerra macedonica fece crescere di prezzo i campi; e lo stesso ha fatto in Europa tutta dopo scoperta l'America, da cui tante centinaia di milioni si sono travasati nella cristianitá.
Ma i disidèri umani quanto sono mutabili! Ogni moda nuova fa parere piú bello ciò che di nuovo è posto in uso e lo fa valer piú, e fa valer meno ciò che prima era in uso ed in prezzo. La guerra fa valer piú l'arme e i cavalli e gli abiti di dante; la pace innalza il prezzo a' pennacchi, a' ricami ed alle delizie. E l'assuefazione universale aggiunge o stima o disprezzo alle cose: in modo che si racconta che, per l'abito di duolo portato a Parigi piú d'un anno per la morte di Enrico secondo, non erano scorsi pochi mesi, che gli abiti di seta erano sprezzati, quasi che fosse un uomo di poco conto colui che non avesse l'abito di duolo ad uso della corte; e chi voleva esser creduto di condizione distinta dalla plebe, vestiva lana di duolo e non seta. Or come sta dunque che questo valore delle cose e de' metalli, con cui le compriamo, debba essere cosí incerto ed incostante? Io non posso spiegarmi abbastanza su questo passo, se non adduco, avanti la soluzione, un altro simile inconveniente nel mondo.
Il tempo è misura del durar delle cose e del moto loro, e il moto è misura del tempo. Se voglio misurare il tempo, io mi servo d'un orologio, o d'acqua, come furono i primi, o da polvere o da ruote o da sole, insomma di qualche stromento che si muova egualmente, quanto è possibile; dal moto di cui dico:—Sono giá scorse tante ore, e tanti minuti passati sono.—Viceversa, se voglio misurar il moto d'una cosa, mi servo del tempo, e dico: la nave aver camminato tante miglia, perché si ha mosso col tal vento o con la tale velocitá, in tante ore, in tanti minuti. Quel corriero ha camminato tanto piú veloce di quell'altro, perché in tante ore ha fatto piú miglia. E se io non supponessi il moto eguale, non avrei la misura del tempo. Ora, perché ambidue sono incerti, né posso accertarmi delle ore, che siano eguali, né del moto, che sia sempre dello stesso tenore; dove sará quella terza cosa, che misuri il tempo e il moto, ed abbia in sé tale certezza di misura, che non possiamo di lei dubitare? Mi dicono alcuni questa misura comune essere il moto de' cieli, anzi non essere il tempo stesso che il moto pure de' cieli. Sia come a loro piace per ora: perché fino a ricevere il moto del cielo per misura la meno ineguale del tempo, io mi ci ridurrò forse; ma che il tempo non sia altro che questo moto de' cieli, sicché, cessando i cieli di moversi, cessarebbe d'esser il tempo, non ho ordigni nel mio cervello per capirlo, e non so come non possano durar le cose, quando anche non si movessero i cieli, mentre io trovo che, per allungare il giorno piú del solito, Iddio fermò i cieli a' prieghi di Giosué. Sia pure per ora come vogliono: io dimando ancora se questo moto de' cieli è uguale o ineguale. Mi risponde l'astronomia che i giorni sono fra loro disuguali, eziamdio i naturali, sicché le 24 ore d'oggi, che siamo a 14 luglio, sono piú brevi delle 24 ore di qualsivoglia giorno di dicembre, eziamdio che si contino di mezzo in mezzo dí, perché il moto diurno del sole non è uguale da un giorno all'altro, né da una stagione all'altra. Altri mi suggeriscono che il moto del primo mobile è in tutto e per tutto eguale, ed io farò loro servizio se l'ammetto: perché, se lo negassi, non averebbono altra prova per chiarirmene che l'aver fin qua tutti cosí supposto; poiché per altro non abbiamo al mondo misura cosí certa, che basti per verificare le misure del moto e del tempo.
Dunque tutto sta nell'incertezza? E non possiamo noi sapere accertata misura di queste cose cosí importanti? Io rispondo di no; e se cercheremo le misure d'altre cose, come sono le lunghezze de' piedi, braccia, passi, miglia ed altri, troveremo le stesse difficoltá: se ne' pesi, pure lo stesso incontreremo. Ma dunque che si ha da stabilire? I filosofi c'insegneranno che le relazioni richiedono per necessitá due termini, uno de' quali mancando, manco la stessa relazione; come in quella di padre e figlio, morendo il figlio, l'uomo non si dice piú «padre», perché è mancato quel termine a cui riferivasi la paternitá. Cosí ogni quantitá, in quanto è misurata, si dice maggiore o minore, tanta o tanta, secondo il termine a cui si riferisce, che è quello con cui vien misurata; e se quella affatto manca, anche la quantitá cessa d'aver quella relazione di maggiore o minore, o di tale o tanta quantitá. E se quella tal misura, invece di mancare, riceve alterazione, s'altera istessamente la relazione di quel primo termine. Onde quel panno, che misurato in Roma fu cento canne, in Venezia diventa 200 braccia, perché s'ha alterato o mutato il termine a cui la prima volta si riferiva, ch'era la canna romana, succedendo in sua vece il braccio veneziano: anzi la canna stessa romana, a poco a poco alterandosi la sua misura, col tempo altererá insensibilmente la relazione che prima correva tra essa e le cose misurate; e però il piè romano moderno non corrisponde piú all'antico stabilito da Vespasiano o a quello de' secoli antecedenti. Cosí il valore delle monete, particolarmente dell'oro e dell'argento, è una relazione, che hanno insieme questi due metalli in ordine alla quantitá che di loro si trova in mano agli uomini, destinata al commercio ed alla stima che essi ne fanno nel farne baratto da uno con l'altro o d'ambiloro colle cose disiderate da loro.
Or, come questi due metalli ormai da quasi tutte le nazioni del mondo sono destinati a quest'uffizio, il valore, che chiamiamo delle monete, non è altro che quella relazione che ha uno d'essi all'altro in ordine alla stima che ne fanno gli uomini: e quando vogliamo dire il valore d'una libbra d'oro, non abbiamo piú certa misura, per ispiegarlo, quanto riferendolo all'argento; ma, se ci accade avere a dinotare il valore dell'argento, subito con l'altro suo piú comune relato lo significhiamo, dicendo che una libbra d'argento vale 4/59 d'una libbra d'oro, o vogliamo grani 468-3/5 d'oro. Vero è che, potendo il valore dell'uno e l'altro metallo equipararsi anche ad altre cose, del valore delle quali egli è misura; come Diomede e Glauco, i quali, come dicemmo, barattarono l'armature, valutando quella d'uno, ch'era piú ordinaria, 9 buoi, e l'altra, ch'era d'oro, dice Omero che valeva 100 buoi: in questo caso il numero de' buoi ebbe luogo di moneta in quel contratto, come quello che fu misura del comune valor delle cose contrattate. E nello stesso modo si potrebbe d'ogn'altra cosa il valore esprimere con ogn'altra cosa.
Ma, per meglio ancora intendere ciò che vuol dire questa parola «valore», «prezzo», «valuta», ecc., figuriamoci non trovarsi al mondo altro metallo o materia a proposito per questo uffizio, fuorché l'argento. Come mai diremo esser caro o a buon prezzo l'argento, se non in paragone delle cose in cui si baratta? Per modo che, quando sará abbondanza di cose contrattabili e scarsezza d'argento, ognuno, che averá merci, proccurerá venderle, per avere con che comprarne dell'altre per suo bisogno, e, non potendo per due paia di buoi aver molto argento, li dará per poco; e diremo l'argento esser caro. All'incontro, se maggior copia d'argento del suo solito si trovasse nel mondo, chi ne avesse, non guarderebbe sí al sottile, come prima, per provvedersi di sue necessitá; e direbbesi esser a buon prezzo l'argento, mentre con un paio di buoi se ne ha piú che prima non si trovava con due paia: esperienza che ogni giorno vediamo ne' mercanti e nelle fiere e nelle piazze di mercanzie piú ricche, ove da una settimana all'altra, giusta l'abbondanza e la scarsezza di danaro da disporre, o si alza o s'abbassa il cambio ed i prezzi delle cose.
Né qui parrebbe sí difficile la quistione per ricercare qual sia la vera essenza delle monete; perché, non essendoci altra moneta che l'argento, l'argento valerebbe cose, e le cose valerebbero argento; uno sarebbe misura dell'altre: onde altro non vi sarebbe da discorrere, se non forse da' metafisici, co' quali qui non ragiono. Ora egli è per accidente che l'oro ed il rame anch'essi concorrano all'officio dell'argento, servendo di moneta: ed in quel modo che, a misurare una distanza, posso valermi del braccio da seta, del piede, de' passi, canne e di tant'altre misure fra loro discordi; cosí, a misurare il valore delle cose o la stima che ne fanno i nostri disidèri, avviene di valersi ora dell'oro, or dell'argento, ora del rame o d'altra materia, che l'uso e l'autoritá del principe autorizzano per moneta. E, siccome le varie misure de' piedi, passi, braccia, ecc., hanno anco fra loro stesse una proporzione, con che la loro quantitá le altera, e diciamo 5 piedi far un passo, ecc.: cosí fra l'oro e l'argento corre quella proporzione, che la loro quantitá e la comune estimazione ha posto in uso, e diciamo 14 once 3/4 d'argento valere quanto una d'oro, od una d'oro valer quanto 14-3/4 d'argento, perché tutte le cose, che posso comprare con 14 once e 3/4 d'argento, le posso avere altresí con una d'oro; e, se voglio cambiare quella d'oro in argento, trovo chi me ne dá 14-3/4. Ora in una sola cosa pare che zoppichino queste similitudini, ed è che le proporzioni de' piedi e braccia, ecc. non variano fra loro che insensibilmente nel corso di molti secoli; e quelle dell'oro all'argento qualche volta in meno di un secolo si fanno sensibili, come dal 1578 in qua, che, per testimonio del Bodino e delle ordinazioni di molte zecche di quel tempo da me vedute e lette colla proporzione dell'oro all'argento come 12 ad 1, è passata, dal 12 ad 1, al 14-3/4 ad uno. Ma la ragione si è perché le misure de' piedi, ecc. dipendono dalla determinazione de' principi, che in quel paese le mantengono quanto si può le stesse; ed il valore de' metalli dipende dalla quantitá che ne hanno tutte le nazioni in commercio, la quale, per natura e senza il volere di alcuno, varia quando a un modo e quando ad un altro.
Varie cagioni che ponno alterare la proporzione della valuta dell'oro a quella dell'argento.
Se l'oro e l'argento non fosse ad altri usi adoperato che a fabbricar monete e stassero queste sempre in commercio, io non vedo quasi alcuna ragione per cui dovesse alterarsi la proporzione del loro valore fuor di quella della quantitá, che ne viene dalle miniere, la quale talora si varia. Ma, perché sono eglino impiegati a tanti altri lavori, egli è forza che vada variandosi la valuta loro, non conforme la quantitá loro che dalle viscere de' monti se ne estrae alla luce, ma secondo la quantitá che da' lussi mondani n'avanza. Certa cosa è però che il primo impulso alla mutazion del valore lo dá l'abbondanza d'uno piú che dell'altro metallo, e che, se un anno non comparirá in Italia dalla Spagna o da altre province altro che argento e non oro, resterá piú caro l'oro, per un'oncia del quale si daranno piú once d'argento che prima non si davano; e se capitasse solo oro e non argento, con un'oncia d'oro si comprerebbe minor quantitá d'argento che prima. Ma anche il vario consumo, che si fa de' medesimi metalli, influisce non poco a questa proporzione. Il numero de' vasellami d'argento, che, e per le credenze e per le tavole non piú de' principi solo, ma de' cavalieri ordinari e fino de' mercanti si fa; quello che per servizio delle chiese fuor d'ogni proporzione d'antico costume, sebbene lodevolmente, si adopra; quello che per pizzi, riccami ed altre manifatture si malmette: raccolto tutto insieme in moneta, cangerebbe ben tosto la proporzione.
Ma dall'altro canto l'oro, che dal lusso moderno si consuma non solo in gioie, catene ed annella, ma per dorature, cosí de' piú vili metalli come del legno stesso, che, in varie guise intaglio, adorna i nostri soffitti, le nostre pitture e fino le carrozze, che ogni persona di ben comuni facoltá, al di sotto ancor de' mercanti, vuol niente di meno pompose di quel che fossero gli antichi carri trionfali; questo pure da tutta la massa dell'oro, che è nel mondo, ne detrae non picciola parte. La prima volta che i romani indorassero i soffitti (e furono que' del Campidoglio) fu dopo aver distrutta Cartagine: ma, dopo il Campidoglio passò alle camere dei grandi e dei cesari il lusso; onde si narrano inaudite cose del gran palazzo di Nerone e d'altri sfoggi del fasto romano.
Anche i naufragi pur troppo frequenti portano dell'uno e dell'altro i tributi al mare e ponno or dell'uno or dell'altro alterar anch'essi la proporzione.
Ma d'ogni lusso, d'ogni strapazzo, che si faccia dell'oro, molto maggiore è il consumo che ne fanno; con uso sempre detestabile, quegli avari non solo, che, sottratto dal pubblico commercio, lo condannano in vita alle carceri de' loro forzieri; ma quelli ancora, che, occultandolo di nuovo sotto terra a masse ben grandi, ingiuriano la natura e Dio, che l'ha creato e ci ha dato l'ingegno e gl'indizi per dissotterarlo di dove nasce e valersene agli usi nostri. Sono pochi nulladimeno i cristiani, che d'un sí vile e sordido sacrilegio siano colpevoli, in proporzione delle altre nazioni, e de' turchi particolarmente ed indiani mogori, i quali, ben sapendo non dover essere se non per gran fortuna i figliuoli loro eredi delle facoltá loro, tutto cadendo per loro morte al regio fisco, nascondono sotterra immensi tesori, con proposito di manifestarli a' figli avanti la morte; il che non riuscendo sempre a talento, restano quei metalli di nuovo in seno alla terra, da cui furon generati.
E questo è il fine, anzi la morte, che fa l'oro; il quale, concetto nelle viscere della terra piú profonde, estrattone con taglio cesareo dalle marre e da' picconi de' mineralisti, educato nel fuoco e fatto adulto nelle zecche, dopo aver vissuto, Dio sa quanti secoli, ne' commerci mondani ed aver girato in piú viaggi la metá del mondo, colpevole di mille delitti e tradimenti, ne' quali ha avuto parte, va finalmente a incanutire nelle oscure carceri de' casná de' monarchi orientali, oppur a restar affogato nelle piú cupe voragini dell'oceano, o ad esser sepolto di nuovo sotterra da chi, per troppo zelo di conservarlo, lo leva del mondo.
Ed in vero, io non saprei come meglio rispondere alla domanda di coloro, a' quali pare sí gran paradosso il vedere quanta gran massa d'oro ogn'anno dalle miniere di tutti i paesi s'estrae, e come in niun luogo apparisce ch'egli cresca ed abbondi in quella proporzione ch'egli doverebbe, ma sempre la stessa e piú tosto minor quantitá par che se ne trovi. Le sete, che (non ostante che tante se ne lavorino in Europa) vengono sí copiose dalla Persia, dalle Indie, dal Mogore e sino dalla Cina stessa in Europa; le spezierie tutte, che dalle Indie orientali ci sono condotte; tante altre droghe, tante altre merci, che ogni anno ne portano i vascelli portoghesi, inglesi ed ollandesi; le gioie piú preziose, diamanti, perle, zaffiri ed altre, che da quei regni stessi a noi sono portate: con che altro si comprano che col contante? Niuno quasi di quei vastissimi imperi compra merci d'Europa se non con altre sue merci; sicché in molto maggior quantitá ne cola d'Europa in quelle parti, che non quello che di lá ne sia trasportato: eppure vi sono regni che ne hanno abbondantissime miniere. In Turchia stessa, che pur troppo è la piú vicina a noi, non corre quasi altra moneta che reali di Spagna, zecchini veneti ed ongari d'Allemagna; ed all'incontro, ancorché sia vero che i reali di Spagna sono sempre in giro di mercanzia e commercio, onde ne ritornano spesse volte somme grandi in cristianitá, sono rarissimi i sultanini. Chi mi fa vedere un aspro d'argento, se non è per fortuna in mano di chi per sola curiositá lo conserva? Segno ben manifesto che le nostre monete, i nostri ori ed argenti colano tutti in quelle parti senza far piú ritorno: onde, se non fosse il costume barbaro di quei tiranni, d'appropriare a se stessi i beni di ciascuno che muore, privandone i figli del defonto, dal che nasce poi il restarne sepolta sí gran quantitá d'oro sotterra di quei ricchi che lo nascondono, sarebbe fra loro cosí abbondante l'oro come fra noi il ferro. Anzi vi sono regni nell'Asia colá verso la Tartaria, ove i ricchi, non per lasciarlo a' figli, ma per uso proprio nell'altro mondo, ove credono ciecamente potersene valere, ne seppelliscono quanto ne possono adunare.
Ora ciascuna di queste cause, che in qualunque maniera riceva alterazione, può alterare i prezzi di questi metalli, e far che l'oro ora per piú ora per meno si baratti. E forse niun'altra ragione addur si può dell'esser divenuto piú caro l'oro dell'argento dal tempo che scrive il Bodino, ch'egli valeva dodici d'argento, al tempo nostro, che ne vale quasi quindici, se non che il commercio di Levante, che avanti Francesco primo era quasi solo in mano de' veneziani e genovesi, apertosi a' francesi e spagnuoli ancora, per mezzo degli ebrei, scacciati di Spagna e ricovrati in Turchia, che hanno cominciato di lá a venir ne' porti di cristianitá a mercantare, ha portato via sempre piú d'oro che d'argento: mentre, sebbene l'argento ci va, resta però egli in giro di mercanzia; ma l'oro, caduto che sia una volta nelle mani de' grandi e nel casná del gran signore, mai piú rivede il sole, non che la patria.
Delle monete di rame e delle altre d'argento di bassa lega, e loro proporzione con quelle d'oro e d'argento.
Oltre le monete d'oro e d'argento fino, si costumano altre minori di bassa lega, cioè di rame e d'argento mischiato in varia proporzione, e talune di rame schietto, l'uso delle quali è principalmente per le spese minute della plebe, essendo che molte cose sono, che vagliano meno di quanto vale il piú picciolo pezzo d'argento che comodamente possa usarsi. Giovanni Bodino racconta che in Lorena furono giá fatte monete d'argento fino, chiamate «angenini», cosí picciole, che d'una marca se ne contavano 8000 pezzi. Io dubito piú tosto errar di stampa o di calcolo in questo racconto, che lasciarmi persuadere monete cosí picciole che pesino meno d'un grano l'una, quando non so se di sei grani od otto non fossero anche troppo picciole. Gli aspri de' turchi, che sono minutissime monete d'argento, di bontá di undici once e 1/4 per libbra, pesano 12 grani l'uno; e dicono molti che infatti per la picciolezza riescono incomode, e chi volesse introdurne di simili in cristianitá, non sarebbono al certo molto gradite da' poveri, per la facilitá di perderle e d'ingannarsi nel numerarle. Noi vediamo quanta sia la picciolezza de' quarti di paolo nello Stato ecclesiastico e nella Toscana, sebbene poca quantitá tuttora se ne veda; eppure pesano piú di due aspri l'uno e sono stimati per la picciolezza incomodi anch'essi, non meno che i piccioli soldi d'argento veneziani. E lipfennigd'Austria e d'altre parti d'Allemagna, benché non siano d'argento cosí fino, ma di lega assai inferiore, sono però di poco minor grandezza degli aspri, onde sono anche poco graditi dalla plebe per la facilitá di smarrirli. Ora l'aspro turco, ragguagliato alle nostre monete, valeva giá quanto un baiocco di Roma e due soldi veneziani in circa, perché 80 aspri valevano una pezza da otto di Spagna; ma, dopo che li bassá delle province lontane da Costantinopoli hanno cominciato a farne battere di lega bassa, accordandosi con partitanti ebrei per cavarne profitto privato per sé, hanno cominciato a correre sino a 120 aspri per una pezza da otto, che sono 4 quattrini di Bologna, o sia un soldo e 1/2 di Venezia per aspro.
Queste sí picciole monete d'argento non sono però di cosí picciola valuta, che basti per la povera plebe ed alle sue minute spese, perché noi vediamo quanto frequente sia nello Stato veneto l'uso de' bezzi, de' quali quattro farebbero a fatica un aspro di buon argento: onde un povero uomo, con un aspro diviso in quattro parti, comprarebbe quattro cose diverse per suo uso, e, per non avere se non aspri intieri, non ne compra che una, o spende quattro aspri per averne quattro. E nella Lombardia i sesini di Milano e de' duchi; in Roma, Bologna e Toscana il quattrino; e insomma per tutta la cristianitá la moneta minuta (che, forse per essere fatta di metallo basso e vile, è detta da' francesi, spagnuoli e da molte altre nazioni «viglione», e che si divide in pezzi di valuta molto minore dell'aspro d'argento), è cosí necessaria, che, sebbene in Turchia, ove non è in uso, se la passano i poveri con pazienza, non ispendendo meno d'un aspro in cosa che sia, non sarebbe però sí facile il privarne questi altri popoli, che di giá nell'uso d'essa son nati ed invecchiati; e li miserabili, che vivono di limosina, molte volte ne resterebbero privi, perché colui al quale non è grave donare un bezzo, un soldo, non potendo donar meno d'una moneta d'argento di quattro bezzi, tralasciarebbe di darla. La regina Elisabetta d'Inghilterra volle una volta levare il viglione a' suoi popoli, riducendo il commercio in monete d'oro ed argento; ma il suo popolo si rissentí cosí fieramente dell'incomodo, non avendo monete di quel minimo valore di che aveva bisogno, che, a forza di popolari commozioni, fu necessitata a rimetterlo[29].
Or, siccome di questa sorte di monete non si trova quasi nazione che abbia osservato ed osservi cosí esatta la proporzione dell'intrinseca bontá alle monete maggiori, che possa dirsi contener elleno quel tanto di valore di metallo quanto sono dal principe valutate, è quistione ben importante, ed insieme non affatto decisa finora, se sia necessaria in queste ancora la proporzione suddetta.
Ogni moneta ha, come si dirá piú chiaro in avanti, due sorti di valuta, interna ed esterna. L'interna s'appoggia alla quantitá del metallo fino, che contiene il peso di tutto il prezzo, ragguagliato alla quantitá e peso dell'altro metallo inferiore e maggiore in quello di molta lega. L'esterna poi si appoggia all'autoritá del principe, che comanda ch'ella si spenda e non sia ricusata.
Se uno Stato non avesse punto di commercio con gli altri e vivesse delle sole comoditá che produce il suo terreno, come ha fatto tanto tempo la Cina ed alcuni altri popoli, potrebbe il principe valutar le sue monete quanto a lui piacesse, e fossero di che materia si volessero. Onde quei tartari del Catai, che Marco Polo e dopo lui tant'altri ancor moderni raccontano aver in uso monete di carta sigillata dal loro re ed altri ministri, non ne sentono incomodo alcuno, mentre comunemente fra loro sono accettate. E sebbene, in que' pochi contratti che fanno con gente estranea, sono forzati a valersi di monete d'oro e d'argento, di che non hanno per tali occorrenze carestia, fra di loro però si valutano quelle di carta, al pari di quelle d'ogni metallo, conforme le valuta il re; né vi è quasi differenza dall'uso di esse all'uso delle polizze de' mercanti, con le quali girano i pagamenti tra loro, senza contare, il piú delle volte, monete in gran numero, servendo in luogo di quelle il credito di quel mercante che s'ha formato debitore colla sua sottoscrizione, o pure le partite di bancogiro in quelle cittá ove si costuma. Perciò quel principe, i sudditi del quale non contrattassero con gli esteri, potrebbe dar valore alle sue monete conforme a lui piacesse, senza far pregiudizio a' sudditi; e potrebbe dire d'aver la vera alchimia e la vera pietra filosofale, mentre la sua sottoscrizione valerebbe tanto quanto a lui paresse di valutarla. Li spartani, allorché Licurgo vietò loro ogni moneta fuorché di ferro, se la passarono qualche centinaia d'anni con quella, tutto che pesante ed incomoda, non ostante che per comprarsi una berretta lor bisognasse condur seco un facchino carico di quella moneta, per pagarla. Ma le guerre esterne avevano bisogno d'oro e d'argento, perché in terre aliene, ove gli altri popoli non si contentavano di vivere alla spartana: gli stessi spartani avevano bel mostrare moneta di ferro, che, se altra non avevano, non averebbono a' bisogni del vivere potuto provvedere.
Se dunque un principe vuole che le proprie monete d'argento e d'oro siano accettate da' popoli stranieri, sicché possano i sudditi aver commercio con essi, non può egli valutarle se non giusta l'interna bontá e valore: altrimenti gli altri principi non vorranno giá ricevere allo stesso prezzo l'argento fino e quello di bassa lega, né i mercanti forestieri vorranno ricevere moneta che, a spenderla nuovamente in altri luoghi, porti discapito. E questa è la ragione, che impone necessitá quasi precisa a tutti i principi di valutar le loro monete giusta l'intrinseca valuta e bontá loro, senza vantaggio della propria borsa in altro che in quel poco di signoraggio, che, oltre la spesa di zecca, scarsamente si pigliano; nel che fra loro passa per consuetudine certa convenienza, o ne tolerano i popoli il poco danno, che dal trasporto di quelle monete ne' Stati alieni ne vien loro. Anzi, perché si ragguagliano le monete forestiere, per lo piú, non al metallo non coniato, ma al valore dell'altre coniate, viene quel poco di avanzo a restare anche quasi senza considerazione.
Per due ragioni però può egli fare qualche maggiore provecchio sulle monete basse e minute che su quelle d'argento e d'oro. Una si è, perché queste non si adoprano d'ordinario se non ne' contratti piccioli e nelle minute spese da' suoi popoli, che fra loro le riceveranno sempre a quel prezzo ch'egli vorrá loro imporre co' suoi editti. L'altra si è, perché, qualunque siasi la bontá loro, queste picciole monete di bassa lega sono quasi da' principi confinanti bandite e rifiutate, non solo perché forse non contengono il valore per cui si spendono, ma perché gli altri principi anch'essi vogliono godere lo stesso vantaggio nello Stato loro di battere il viglione, o sia moneta minuta, per uso delle loro plebi con loro profitto, e perciò proibiscono il viglione forestiere: onde, o buono o cattivo che sia il viglione, i contratti de' suoi sudditi con gli estranei non si pareggiano per lo piú con altra moneta che con quella d'oro e d'argento. Ma in questo guadagno fa ben di bisogno al principe di misurar giustamente l'occorrenze del suo popolo e non battere le monete basse piú di quello che possano mantenersi in giro fra la plebe per le sue minute occorrenze: altrimenti ogni eccesso, in che egli incorra, ridonda in danno cosí del popolo che del principe stesso. Perché, siccome la carestia delle monete minute rende incomodo a tutta la mercatura, per la difficoltá di barattar monete d'oro e d'argento per far certe minute spese o per aggiustar altri pagamenti maggiori, ne' quali entrano spezzamenti; cosí la troppa abbondanza delle monete basse rende scarsezza di quelle d'oro e d'argento. E li mercanti minori, che vendono cose a minuto, non raccogliendo da' compratori che di tali minute monete, per far poscia pagamenti all'ingrosso ad altri mercanti, e molto piú per mandare fuori di Stato, hanno bisogno di monete maggiori, e, per averne a baratto di quelle minute, le pagano piú di quanto è stabilito che valer debbano; onde cresce il prezzo di quelle, e ne seguono gl'inconvenienti che porta seco l'alzamento delle monete, de' quali a lungo si parlerá piú avanti.
Secondo queste ragioni, pare assai chiaro non esser necessario che la moneta minuta sia battuta dal principe a quella intrinseca bontá che all'intrinseca valutazione corrisponda, purché non ne batta piú di quello che basta per l'uso del suo popolo, e piuttosto scarsamente che con eccesso; onde l'autoritá d'esso principe, che in tutte le altre monete è ristretta ne' limiti della proporzione fra l'oro e l'argento, senza la quale, invece di far guadagno per sé, ne acquista danno e per sé e per i suoi sudditi, in questa specie però di monete basse pare che abbia campo di dilatarsi, facendo valere le picciole monete, ancorché di rame schietto fossero, come se contenessero qualche porzione d'argento, e cavandone non isprezzabile profitto, giusta la quantitá de' popoli che egli regge e de' commerci ch'egli ha. Ma non può egli, senza suo pregiudizio e de' popoli, spargerne fra loro piú di quella che può portar il loro corrente bisogno. Anche il bancogiro, che in molte cittá mercantili s'è introdotto e che serve a comodo de' mercanti, i quali, invece di contar moneta a' lor creditori, assegnano con una partita su quei libri tanto del credito che hanno quivi (sicché si vanno del continuo girando quelle partite, senza dar mano al danaro, ch'è stato quivi da' medesimi a questo fine depositato), ha certa prefissa quantitá di contante, che sta quivi, si può dir, morto, mentre corre solo per le punte delle penne di quei giovani di banco che girano le partite: onde il principe può subentrare depositario di quella somma e valersene a' suoi usi. Ma io so una cittá d'Italia, il principe della quale, dopo averne preso forse 800.000 scudi senza che il banco ne sentisse incomodo, quando per altro bisogno ne levò altri 400.000, cagionò che il banco, non potendo a chi chiedeva il contante somministrarlo, cominciò a discreditarsi, e li mercanti, che avevano crediti in banco, non trovarono con che contrattare, senza lasciare un tanto per cento per la difficoltá di riscuotere: onde, nascendone manifesti pregiudizi al commercio, fu forza che il principe rimettesse il di piú che aveva preso della prima somma, perché quella cittá non girava in commercio de' mercanti piú di quella somma di 800.000 scudi.
Lo stesso avviene della moneta bassa. Se il principe ne va battendo sol quanto basta all'uso del suo popolo, può batterla di quell'intrinseca bontá ch'egli vuole, perché queste monete non servono che nello Stato suo, fuori del quale non si accetta che oro ed argento; ma, se ne battesse piú del bisogno, a guisa di vaso pieno, che lascia trabboccare il soverchio a danno di chi lo versa, cagiona a sé ed a' suoi Stati pregiudizio maggiore del profitto che vorrebbe cavarne. Non è però anche tanto lunga, anzi larga, in questa parte la libertá del principe; imperocché la malizia degli uomini, anche in questa parte, ne ha loro cosí ristretto il potere, che nemmeno nelle monete piú vili possono far guadagno molto considerabile, sotto pena di vederlo convertito in perdita molto maggiore, non meno propria che de' sudditi. Ciò non proviene che da' falsatori, genere di uomini il peggiore che viva a danno del ben pubblico, perché i sicari stessi e gli assassini sono a poco numero di persone funesti e sono facili a scoprirsi e ad essere castigati. Ma li falsatori assassinano tutto il popolo od una nazione ad un tratto, con sí nascoste maniere, che per lo piú camminano e praticano tuttodí per le piazze non conosciuti per tali, e perciò non puniti. Donde nasce che, nonostante il pericolo della vita e dell'onore, di cui sono irremissibilmente privati qualora sono scoperti, ad ogni modo sempre ve ne sono e sempre ne saranno, finché sará nel mondo l'interesse. E tanto piú, perché a costoro non mancano mai altre persone, che, abusandosi delle proprie fortune ed autoritá, prestano loro occulti favori e protezione, non avendo mai avuto questo privilegio il sangue nobile, tuttoché sempre degno di rispetto e venerazione, di non produrre, a guisa di frumento, qualche spica di pessimo loglio. Ogni volta adunque che un principe batte moneta inferiore, o di rame schietto o di poca lega, e la fa valere piú dell'intrinseco suo valore, in modo che sia grande il guadagno che se ne può fare, egli si sottopone al pericolo che ne sia battuta della stessa sorte da' falsari, anche senza alterarne la bontá, e ne sia riempito a poco a poco il suo Stato; dal che nasce poi la penuria d'altre monete d'argento e d'oro e l'alzamento di quelle, con tutti i danni che ne vanno in conseguenza. E non è sí facile lo scoprire la falsitá di tali monete, ogni volta che siano fatte della bontá di quelle del principe: perché, quanto a' conii, siccome nella zecca si mutano spesso, perché si consumano, ed il maestro ne rifá un altro, imitando in tutto e per tutto il primo senza differenza sensibile; cosí nelle zecche nascoste hanno pur troppo gente che li sa altrettanto imitare, onde il popolo non può distinguere i veri dai falsi. E se coloro, che, giá dieci o dodici anni sono, sparsero tanti soldoni falsi per lo Stato veneto, non avessero anco nel peso e nell'intrinseca bontá voluto far guadagno, sarebbe stato molto difficile il rimediar al male che introducevano; ma la sottigliezza ed il colore ben presto furono presi in pratica da' popoli per distinguerli e rifiutarli, onde ne passò di poi quantitá in Ferrara ed in Bologna, ove gli ho veduti io lungo tempo aver corso per un quattrino l'uno, che non era il terzo del soldo che nello Stato veneto avevano tentato d'imitare. Cosí certe monete bolognesi, dette «moraiole», che valevano due bolognini l'una, furono imitate ora sono sedici anni incirca, in modo però che, sebbene a chi non sapeva leggere parevano le stesse, dalle lettere però d'intorno si conosceva esser diverse ed aver il nome d'altra legittima zecca. E prima che se ne scoprisse la fraude, n'erano introdotte giá molte frammischiate colle buone; ma la sottigliezza ed il colore, che massimamente nel consumarsi acquistavano, le palesò ben presto; onde furono bandite e ricusate dal popolo, prima che il male crescesse. Chiaro sta dunque che nemmeno nelle monete inferiori possono i principi sottrarsi molto dalla proporzione dell'intrinseca valuta per cavarne profitto per sé, senza pericolo d'addossare a sé ed a' sudditi danno non isprezzabile.
Ma qui succede però un'altra considerazione a favor loro, ed è che l'interesse de' falsari non va colle misure delle zecche reali; e, quando il falsatore non ha guadagno grande, non guadagna nulla, perché sono tanto maggiori le sue spese. Quel conio, che ad un principe non costa un quarto di pezza da otto, ad un falsario costa spesse volte quattro e sei doppie: perché chi serve alla zecca pubblica non azzarda la vita, e riceve quel solo prezzo ch'è proporzionato alla fatica; ma, se un artefice ha da fabbricar conii di nascosto con pericolo di tutto l'esser suo, non si lascia persuadere che a forza di molto oro. Ed io ho veduto alcuni ponzoni maestri, trovati in casa di un falsario, che in processo si rilevò essere stati pagati dieci doppie l'uno, e non valevano una fra tutti, se fossero stati fatti nella zecca del principe. Cosí gli operari, o sieno mantenuti dal falsario, o sia ch'egli operi di sua mano, che però tutto non può fare da sé, costano di gran lunga piú che al principe; onde nasce poi ch'egli non tresca volentieri a lavorar monete di poco valore, perché non meno fattura va a fare un soldo che a fare un zecchino.
E perciò, quando il principe sa che non vi sia gran guadagno a falsare il suo viglione, può star sicuro dalla loro iniquitá e godersi quel moderato utile, che da limitata quantitá di quello gli può provenire; né in ciò ha meno aggravio di coscienza, mentre al suo suddito non ne nasce dentro a questi temperamenti detrimento veruno. Perciò ha sempre prodotto ottimi effetti e nessun danno la moneta bassa di Bologna, che, sebbene tutta di rame, è però grossa e pesante, onde non ci trovano buon conto i falsari a lavorarne; e la sua grossezza fa che, quando ella fosse ancor accettata in Romagna ed altri luoghi, non è però se non scarsamente e solo per accidente asportata fuori: onde poca somma battuta serve lungo tempo agli usi del popolo; e se non admettessero per abuso talora viglione forestiero, che ha qualche somiglianza col loro, mai non succederebbe disordine alcuno per questa parte. Per lo contrario la troppa copia che ne battono i principi di Lombardia e il troppo guadagno che hanno permesso nel peso e nella lega, a' partitanti ebrei particolarmente, che con ispeciosi progetti hanno preso in affitto le loro zecche, ha mantenuto e mantiene i disordini, che sono palesi nelle loro monete buone, alterandosene di mese in mese la valuta. Ma di ciò diremo piú avanti a suo luogo.
Che se il principe ricusa di far alcun guadagno nelle monete minute, e le batte di tal lega e bontá intrinseca, che corrisponda all'esterna valutazione che vuol dargli, trattone le fatture, non vorrei che paresse un paradosso ad alcuni, se io dirò che può nascere da ciò un giorno qualche sconcerto nelle monete maggiori. Ma la prova è sí facile, che non voglio tacerla.
Succede molte volte che le monete minute, quando sono alla bontá proporzionata col prezzo, sono introdotte ancora ne' paesi forestieri: nel qual caso il principe, che l'ha battute, è forzato batterne nuovamente per supplire a' bisogni del suo Stato, ed in questo modo ne va mandando lungo tempo fuori di sua zecca grossa quantitá; che, se gli altri principi, nelli Stati de' quali si sono introdotte, per qualche altro loro fine le bandiscono, tornano tutte nello Stato del primo, che le fece battere. Quivi fatte copiose, cominciano quei mercanti particolarmente, che vendono a minuto, a non ricevere quasi mai altro che viglione: e, perché vien loro bisogno di monete d'oro e d'argento per mandar fuori e ne trovano scarsezza, sí perché gli estranei nel rimandare quelle monete basse hanno, sebben con pagar qualche agio, asportato via le monete migliori, sí perché tanti piú ricchi, veduto il disordine dell'abbondanza del viglione, a bello studio fanno caristia degli ori ed argenti per cavarne profitto; onde chi ne ha bisogno dá loro a baratto maggior quantitá di viglione, e quindi nasce alzamento delle monete migliori. Né altro rimedio resta in quel caso, se non che il principe, che la batte, la ritiri nuovamente a sé, dando in suo cambio monete maggiori e ritenendola per darla nuovamente fuori a poco a poco, secondo che porta l'occorrenza, per mantenere sempre ne' suoi popoli quella quantitá di esse che fa bisogno, e senza eccesso.
Resta dunque manifesto, tanto da' precedenti che dal presente capitolo, che sulle monete d'oro e d'argento, come quelle che nell'universal commercio corrono da uno Stato o da un regno nell'altro, non può il principe partire da quelle proporzioni che sono universalmente usate dagli altri ancora, e che nel viglione o monete basse non può egli eccedere la quantitá di cui ha bisogno lo Stato suo per gli usi minuti; ma dentro a questa misura può d'un onesto guadagno provecchiarsi, senza danno de' sudditi. Onde pare che possa dirsi che all'oro ed argento dá la valuta il ius delle genti, o sia il comun consenso delle nazioni, del quale non ha potere un principe particolare; ma alla moneta minuta dá prezzo il principe, che può a' suoi popoli imporre a suo arbitrio la legge: ma deve imporla tale, che non pregiudichi a' medesimi né a se stesso.
Del valore delle monete paragonate alle lire e scudi di ciascun paese, che sono per lo piú immaginarie.
Sono adunque i due piú ricchi metalli la vera misura e prezzo delle cose vendibili; e, se il rame o la moneta minuta e di lega inferiore ha corso in commercio, non serve che come fanno l'once, le dramme e i grani nel pesar le mercanzie a pesi grossi, imperocché s'espongono le quantitá di esse prima a pesi maggiori di libbre, pesi, rotoli, ecc., e solo le minuzie di piú spiegano con l'once e le dramme. Che però il vero prezzo e valore d'una cosa non in altro consiste, secondo le precedenti dottrine, che nell'egualitá di stima che fanno gli uomini di quella tal cosa e di un tanto oro, o in sua vece proporzionatamente d'un tanto argento; ed allora si dice prezzo giusto, quando comunemente gli uomini quel tanto oro ed argento darebbono in quel paese per quella tal cosa, se facesse loro di bisogno. E resta chiaro ancora ciò che vuol dire «valore», «prezzo caro» e «buon mercato», ecc. Conciossiaché queste voci altro non suonano che la misura della stima che di quelle cose, siansi monete o merci, fanno comunemente gli uomini in quel paese. E, perché la misura di questa stima dicemmo esser la moneta, e fra le monete l'oro e l'argento sono i metalli che camminano nella stima degli uomini piú proporzionatamente, e sono quelli che, abbiano qual impronto si voglia, sono per tutto il mondo piú universalmente accettati: perciò, quando si parla di merci, il loro valore, prezzo, ecc. non può piú giustamente esprimersi che in tant'oro e in tanto argento. Ma, quando si parla di monete, se sono d'oro, s'esprime il loro valore in argento; se d'argento, s'esprime in oro, perché sono misura propria uno dell'altro. Onde, se io dimando quanto vale in Spagna la doppia, e mi sia risposto, per esempio, che vale 750 maravedi, ch'è moneta picciola di rame usata in Spagna, io non imparo niente, perché in quelli maravedi non si trova valor vero ed intrinseco del metallo, o sia misura universale della stima in che gli uomini li prezzano, perché fuori di Spagna non li pigliarebbono che a peso di rame vecchio, con perdita grande: ma, se dicono che la doppia vale 30 reali d'argento, allora imparo, perché sono monete d'argento, ed hanno corso per tutto il mondo, ed è nota la loro bontá, peso e valore. Molto peggio di far questo paragone colle monete inferiori si fará con cert'altra moneta, che il piú delle volte è solo immaginaria, e chiamasi «lira» o «scudo» del tal paese; perché allora vi s'incontreranno grandissime difficoltá ed oscuritá, che renderanno confusione non ordinaria a chi ha necessitá di maneggiar queste materie. Onde fa di mestieri di queste ancora trattare, e per chiarezza ripigliarne un poco piú di lontano il discorso.
Questo nome di «lira» non è che un'ombra o immagine restata dall'antica libra o asse romano, che da Servio Tullo fu battuta a principio di rame, di peso di una libbra, che, sebbene poscia era subdivisa in monete minori, detti «simbelli», «trienti», «quadranti», «sestanti», «once», «sestoli», ecc., conforme la qualitá del loro peso, ve n'erano però anco delle maggiori, che pesavano due libbre l'una, dette «dupondi», ecc.
Correva in que' tempi questa bella usanza, di far monete incomode da portare, forse ad imitazione di quelle di Licurgo, di cui parlammo; né manco chi dice che Servio Tullo battesse anch'egli moneta di ferro, oltre quelle di rame. Polluce de' bizantini lo stesso narra. Né dee maravigliarsi alcuno se la moneta acquistò anche il nome di «stipe» dal verbo «stipare», che vuol dire «accatastare» o «comporre in massa», perché chi molte ne aveva, non le riponeva in scrigni, ma ne faceva cataste in stanze a posta; e perciò la paga de' soldati fu poscia detta «stipendium», che, passato nella nostra lingua, ha poi servito per ogni sorte di provvigione annua o mensuale, che si dá per qualsivoglia impiego. E siccome dal rame ebbe il nome d'«erario» l'antica tesoreria romana, cosí le pene costituite dalle leggi a certi misfatti si esprimevano in libbre di rame grave, come Livio nel quinto della prima deca narra, d'Aulo Virginio e Quinto Pomponio tribuni della plebe, che «pessimo exemplo innoxii decem millibus gravis aeris damnati sunt». E lo stesso narra che, l'anno 549 dall'edificazione di Roma, avendo determinato la prima volta di dar paga a' soldati, e perciò imposto un tributo al popolo contro il parere e consenso de' tribuni della plebe, i senatori, per muovere con l'esempio gli altri, mandarono i primi all'erario la loro porzione; «et quia—segue—nondum argentum signatum erat, aes grave plaustris quidam ad aerarium convehentes speciosam etiam collationem faciebant».
Ma nella prima guerra cartaginese, essendo ormai quasi vuoto l'erario, fu decretato di battere in avvenire gli assi di due once sole; onde, guadagnatovi d'ogni sei cinque, pagarono i debiti e soddisfecero alle loro spese: il che fu loro facile, per lo poco commercio che avevano con estere nazioni, contentandosi i romani, nella sobrietá del loro vivere, di ciò che somministrava l'ubertá del loro terreno. Onde, se chi aveva assi libbrali fu costretto a portarli alla zecca per riaverli di due once l'uno, niun danno ve ne riportò, perché per lo stesso valore li spendeva col mezzo della pubblica autoritá, né aveva occasione di far pagamenti a chi da Ollanda le tele, i panni di Francia, le drapperie d'Italia, e d'altri paesi altre merci gli portasse. Non cosí dunque succederebbe oggidí, quando sí pochi si trovano, e questi anche segregati dal mondo ne' chiostri, che di vivere alla spartana, benché con fini piú alti e santi, si contentino. Che se il popolo romano avesse avuto a contrattare con gli esteri, non poteva non sentirne il danno; e perciò un tale consiglio, che fu allora la salute della repubblica romana, non poté ne' tempi assai posteriori aver luogo, quando in istrettezze urgentissime fu proposto da Livio Druso, tribuno della plebe, di mescolare nell'argento, per far monete, l'ottava parte di rame, e fu rigettata la proposta, non senza discredito dell'autore appresso la plebe. E a tempi nostri la Polonia, che, dopo le guerre co' svezzesi, restò, l'anno 1658, carica di debiti con le milizie, per aver usato questo ripiego, ben ne ha pagato con gravissimi danni il pregiudizio: di che diremo altrove.
Lo stesso ripiego fu praticato di nuovo da' romani nella dittatura di Fabio Massimo, che ridusse gli assi al peso di un'oncia, onde raddoppiarono di nuovo i romani la valuta; e non molto dipoi per la legge Papiria furono battuti di mezz'oncia, e successivamente pare credibile che a poco a poco, ad arbitrio di chi battere li faceva, abbiano mutato peso: mentre non si trovano giá, ch'io sappia, di quegli assi d'una libbra e di due, che piú anticamente usarono; ma molti, massimamente a tempo de' primi imperadori, che solo un quarto d'oncia, anzi un sesto pesano a fatica. Né si legge che di quest'ultime diminuzioni traesse alcun profitto la repubblica: anzi è da credere che danno, non minore di quello che si prova a' tempi nostri, ella ne rissentisse; mentre il popolo ne rigettò, come dissi, i ripieghi a' tempi di Livio Druso, mercecché, introdotto ormai il commercio cogli esteri ed introdotte le monete d'argento, non potevano i particolari soffrire che fosse lor data per prezzo dal principe quella moneta, che, passando in paese forestiero, scemasse tanto di valore a loro scapito.
Certa cosa è che l'argento, sin da quando fu coniato in Roma la prima volta, cominciò, non so se devo dir bene, a dare o ricevere la valuta del rame, mentre uno era divenuto misura dell'altro; e però furono prima battuti li denari, che cosí furono detti, che valevano dieci assi o libbre di rame, indi i quinari, che cinque libbre, ed i sesterzi, che due libbre ed un s. (che «semis» o «mezza» significava in questo «L. L. S.»); e vi fu anche la libbra d'argento, che, per esser la decima parte d'un denaro e perciò assai picciola, «libella» si chiamò, e valeva una libbra od asse di rame. Quindi s'introdusse l'uso di parlare a sesterzi, come oggi si parla a lire, a reali, a fiorini, ecc.
Qual anno fosse prima battuto l'argento, Plinio dice il 585, Livio il 484; ed io non voglio rivedere questo conto, sebbene mi accosterei piú facilmente forse a Livio, potendo essere quello di Plinio errore dal 4 al 5, per scorso di penna o di stampa.
A principio improntavano sul danaro d'argento le bighe o quadrighe, cioè carri da due o da quattro cavalli tirati, aggiuntavi la nota di «X.» o «S.», secondo che denari o quinari essi erano, onde furon detti «bigati» o «quadrigati»; ed i quinari, dopo che, ad imitazione d'altri della Dalmazia, furono segnati con l'effigie di una Vittoria, furono detti «vittoriati»: de' quali nomi frequentemente usò Tito Livio. Ma dipoi a capriccio de' provveditori di zecca o, come dicevano, triumviri monetali, furono con vari altri impronti battuti, ed infine cominciò a costumarsi in tutti l'effigie dell'imperadore: onde Cristo Signor Nostro dimandò a' farisei maligni di chi era l'effigie della moneta del tributo: dissero:—Di Cesare.—Di questi denari 84 facevano in peso una libbra romana, cioè sette all'oncia; e tali furono battuti anche nel consolato di Cicerone e sino a' tempi d'Augusto e di Tiberio[30]: ma dipoi a poco a poco furono diminuiti, riducendosi prima ad otto all'oncia, all'uso de' greci, che d'una dramma l'uno li fecero; e successivamente diminuendoli, conforme l'avarizia cresceva e le buone leggi del governo nella decadenza dell'imperio s'andavano perdendo.
Ora, per ridurmi alle cose proposte, il denaro d'argento, che a principio fu valutato per dieci assi di rame o sia dieci lire, a' tempi di Fabio Massimo dittatore fu valutato sedici assi, restandogli nondimeno il nome di «denaro»; e però il quinario non cinque, ma otto lire valeva, ed il sesterzo non piú due lire e mezza, ma quattro lire o sia assi di rame si prezzava. Ed ecco come il sesterzo e gli altri, anzi le lire stesse diventarono immaginarie; perciocché, sebbene erano cosí nominate, non contenevano però piú quel valore né quel peso che il loro nome indicava. Giá l'asse di rame, che pesò a principio una lira, era ridotto solo a mezz'oncia, e nondimeno «libbra» chiamavasi; e il denaro d'argento, che doveva valer dieci, era passato a 16 lire. Ridotta dunque la lira a questa immaginaria denominazione, che dubbio v'ha egli che chi avesse avuto una delle antiche lire di rame, che 24 delle piú moderne ne conteneva nel peso, poteva computarle 24 lire immaginarie, cioè 24 di quelle correnti, che non erano piú vere lire, ma mezz'once? Anzi, quando furono finalmente fatti gli assi quadrantali, cioè d'un quarto d'oncia l'uno, poteva un antico asse, di vero peso di una libbra, valerne 48 di nuovi; e, se avesse portato il corso del commercio che molto argento sortisse dall'imperio romano, comeché gli esteri non averebbono valutato a quella proporzione il loro rame battuto, li mercanti romani averebbero pagato il denaro d'argento non solo sedici, ma venti e piú libbre di rame, contate però d'un quarto d'oncia l'una, e perciò immaginarie.
Potrei però nello stesso modo esaminare le monete d'oro paragonate a quelle di rame e a quelle d'argento, e far vedere come il solido, oggi detto «soldo», fu pur una moneta d'oro, settantadue de' quali una libbra romana facevano (onde pesavano 106 grani l'uno incirca, a peso romano, in tempo di Valente e di Valentiniano imperadori); che a poco a poco, passando per cento e mille vicende di leggi, nazioni e domini, è divenuto moneta immaginaria, anzi nudo nome applicato a diverse monete basse, che, sotto nome di «soldo», quasi per tutta l'Italia e nella Francia corrono, con valute fra loro ed in ordine all'interna bontá sproporzionatissime; altro essendo il soldo di Venezia da quello di Milano e da quello di Firenze e di Piemonte, da quelli di Genova, Reggio, Parma, Mantova e di tanti altri Stati, che tutti variano fra loro, mentre oggidí lo scudo d'oro in Spagna, o sia la sua mezza doppia, vale in Venezia 300 soldi, in Milano 240, in Genova 188, in Firenze 207, in Reggio 510, in Roma…, in Mantova 540, in Piemonte 150, in Francia 110: varietá cosí grandi, che non lasciano luogo a dire che il soldo sia moneta reale, quantunque corrano in ciascuno di questi paesi monete basse, sotto nome di «soldi». E tanto piú, che nello stesso paese si danno or meno, or piú soldi della stessa specie per uno scudo d'oro, essendo pur troppo vero che mezza doppia di Spagna valeva del 1678 soldi 460 in moneta, ed ora del 1683 ne vale 80 di piú; onde hanno li soldi mantovani mutato valore come di 22 a 23, ed io perciò li chiamo «immaginari», cosí come anche le lire e certi scudi di quel paese si chiamano.
Ma, perché, oltreché spesse volte sono pur anche solo nell'immaginazione quelle ancora che hanno vera esistenza, la loro valuta piú dall'immaginazione ed opinione del volgo che dall'intrinseca bontá prende il suo essere: ond'è che, alzandosi di prezzo le monete d'argento e d'oro, i soldi e le lire restano nell'esser loro, fondato nell'immaginazione del popolo e nell'autoritá delle leggi del principe; e frattanto le monete, che sotto quel nome correvano, nuovo valore acquistavano. In Venezia furono, giá tempo, battute lire d'argento basse, che, dal doge allora vivente, «mocenighi» furono dette, e valevano, secondo il consueto, 20 soldi l'una. Si alzarono le monete a poco a poco, e queste lire passarono da 21 a 22, e fino a 24 soldi di valuta salirono; onde, per distinguerle dalle lire, che i popoli sempre per una somma di 20 soldi intendevano, furono dette «lirazze», e con questo nome ancora copiosamente corrono in commercio, benché dall'antico uso consumate e declinate dal giusto peso: ch'è stato cagione che in questi tempi, alzando l'altre monete, non si alzano di piú queste. Cosí il ducato veneto, che ne' suoi principi fu lo stesso che lo scudo d'oro detto «zecchino», e valeva tre lire, a poco a poco cresciuto sino a sei lire e quattro soldi, fu stabilito che per l'avanti rimanesse a quel prezzo, e tanto fosse a dire 6.4 come un ducato veneto. Ma, per la solita infermitá delle monete che crescono di valore, non potutosi contenere a quel prezzo, restò però in uso di pagare sei lire e quattro soldi in luogo di un ducato di debito vecchio; e, comeché li contratti e scritture erano tutte concepite a ducati da 6.4, seguitò a parlarsi e contrattarsi a ducati da 6.4: onde questo tal ducato restò immaginario, salendo frattanto a maggiori valute il zecchino, sicché al presente egli vale piú di tre ducati. Nello stesso modo fu altre volte battuto il ducato di Santa Giustina, per memoria della gran vittoria contro de' turchi alle Curzolari, ed era d'argento, valutato sei lire e quattro soldi; ma esso ha lasciato ancora il ducato immaginario nel suo valore ed è salito cosí bene in alto, che oggidí vien detto non piú «ducato», ma «ducatone», e corre in commercio sino a nove lire. Ed il nuovo ducato pure veneto, che fu battuto dal 1665 in qua, insieme con le lire pure d'argento, al valore quello di 6.4, e queste di una lira, affine che non restassero immaginari questi nomi di «lira» e «ducato», ma si mantenessero nel loro primo valore, insieme con l'altre monete hanno rotte le catene delle pubbliche leggi, e sono salite, benché sinora senza pubblica approvazione, il ducato a 6.10, e le lire a 21 soldo poco staranno a giungere.
Nello stesso modo corre in Padova uno scudo immaginario ne' contratti de' cavalli, buoi ed altri animali, valutato sette lire di moneta veneta (benché i forestieri, per maggior loro facilitá sulle fiere, piú volentieri parlino a doppie d'oro), e questo scudo immaginario non muta giammai numero da quelle sette lire, vadano come vogliono co' suoi accrescimenti le monete vere d'oro e d'argento. Cosí in Modona lo scudo da 5.3, in Bologna lo scudo da 4, in Mantova da 6, e cosí in molti altri paesi altri scudi, che sono del tutto immaginari; dal che nasce poi che, quando le vere valute delle monete d'oro e d'argento ricevono alterazione, valutandosi piú del solito in questa immaginaria moneta, si confondono insieme seco le valute delle cose vendibili e i contratti vecchi e nuovi, con perpetuo incomodo e pregiudizio pubblico e de' privati.
Che, quando si dice crescer di valore le monete, perché si valutano piú lire o soldi immaginari, piú propriamente si deve intendere che le lire, soldi, scudi immaginari scemino di prezzo.
Sembra a molti un paradosso questa proposizione, ch'io spero di provare non solo verissima, ma di servirmene con profitto a render chiare le ragioni vere dell'alterazione delle monete.
Abbiamo ne' capitoli antecedenti fatto vedere che l'oro e l'argento sono l'uno dell'altro misura e prezzo: sicché, preso l'oro come mercanzia, si dice ch'egli vale tanto argento l'oncia; e preso l'argento altresí per mercanzia, si dice che vale tant'oro alla libbra. E, qualora le monete dell'uno e l'altro siano a suo giusto valore tassate secondo la proporzione che corre piú universalmente nel traffico mondano, uno per l'altro si baratta giusta quella loro tassazione o valuta ch'è loro destinata. E da queste sole monete giá mostrammo doversi prendere il vero prezzo e valore delle cose, non da quelle di rame o di bassa lega, le quali non hanno in sé intrinsecamente quel valore che per sola autoritá del principe rappresentano.
Dunque, se ci figuriamo che valesse la dramma d'oro fino, o pur vogliamo dire il zecchino di Venezia, sei anni fa 360 soldi, ed oggi si spende per 400, quali di questi due propriamente ha mutato valore: il zecchino o il soldo? Se il vero valore delle cose sta nell'oro e nell'argento, ed il zecchino non valerá piú quantitá d'argento di quello valeva prima, ma solo si valuterá piú soldi o piú lire immaginarie, conservando in se stesso la stessa bontá e peso che aveva prima, dunque non averá mutato valore, ma bensí l'averanno mutato i soldi e le lire immaginarie, delle quali ne vanno tante piú a fare un zecchino, che prima non andavano. Che ciò sia vero, vedesi che, all'alzare che fa una moneta, come è stato il zecchino, s'alzano quasi immediatamente tutte le altre, cosí d'oro come d'argento. Onde lo scudo anch'egli è passato da 192 a 200 soldi; ed il ducato effettivo da 124 soldi, ch'era il valore anche del ducato immaginario, è passato a 130; e la doppia di Spagna, che valeva 28 lire, è passata al valore di 30; e cosí tutte le altre monete; e sino la liretta d'argento, che valeva 20 soldi, in oggi val quasi 21 soldi, mentre ha quattro e sino quattro e mezzo d'aggravio per cento, di modo che per 100 lire effettive si trova chi dá 104, anzi 104 1/2 lire di soldi.
Ma, per chiarezza maggiore, facciamo un calcolo fra lo scudo ed il ducato. Sei anni sono, valeva lo scudo d'argento in Venezia soldi 192 ed il ducato effettivo 124; in oggi, che lo scudo vale soldi 200, anche il ducato effettivo vale soldi 130: onde con scudi 100, che sono soldi 20.000, averò ducati effettivi 153, con di piú soldi 110: onde non v'è differenza che soldi 118 ogni cento scudi da 200 l'uno, ch'è poco piú di mezzo per cento. Ma, se guardiamo la differenza ch'è restata fra lo scudo e la moneta bassa, essendo passato lo scudo da 192 a 200 soldi, sono quattro per cento di svario; ed è tanto piú a buon mercato restata la moneta bassa o, vogliamo dire, s'è avvilita di prezzo, mentre, per avere con soldi effettivi a baratto scudi effettivi, bisogna darne quattro per cento di piú che prima non si davano. La doppia di Spagna di peso valeva lire 28.10, e con 100 doppie, che erano lire 2810, io aveva scudi d'argento, di giusto peso a 9.12 l'uno, numero 297 manco 24 soldi: ora, che la doppia è passata a 30 e lo scudo a 10 lire, averò con 100 doppie 300 scudi giusti, ch'è lo svario d'un per cento in circa. Ma, paragonando la doppia alle lire immaginarie ed a' soldi ed altre monete basse, se ogni 28.10 diventa 30, ogni 100 diventa 105 1/4 in circa; onde sono divenute piú vili le lire immaginarie, i soldi ed altre monete basse, perché di loro ne va sin 4 e 5 per cento di piú del solito a far la valuta delle stesse pezze d'oro e d'argento.
Qui però è da notare che non sono cresciute con la stessa proporzione fra loro le monete d'oro e d'argento, essendovi restato, come abbiamo veduto, dove mezzo e dove uno per cento di svario fra esse. Ma ciò non da altra causa procede che da quella medesima che le ha fatte alzare tutte, ch'è la sproporzione con che erano state valutate negli ultimi bandi, ne' quali l'oro all'argento aveva proporzione appena d'un'oncia d'oro per once 14 7/20 d'argento, e, secondo le piazze di Genova, di Milano ed altre, doveva averla di uno a 14 2/3 almeno. Ma come ciò succeda, si spiegherá diffusamente nel capitolo seguente.
Dunque quello, che chiamiamo alzamento delle monete, non è altro, a propriamente parlare, che un abbassamento della valuta delle monete inferiori e della lira immaginaria; e cosí delli scudi e ducati immaginari de' paesi, li quali mantengono bensí la medesima denominazione di lire da venti soldi l'una, di scudi da 7 lire e da 6 lire l'uno o altro, e cosí di ducati da 6.4 e simili; ma perdono della loro stima in paragone della vera valuta e prezzo delle cose, ch'è l'oro e l'argento. Il che molto chiaramente si conosce, a chi considera che del 1605 in Venezia valeva il zecchino dieci lire; onde se, per dar un esempio, ad un lettore dello studio di Padova si davano 1200 fiorini all'anno di stipendio, come appunto davano a quei tempi, fra gli altri, al dottissimo Marcantonio Ottelio iurisconsulto e professore di prima catedra del ius cesareo la mattina, essendo il fiorino una moneta immaginaria di sei lire veneziane, dunque 1200 fiorini importavano 7200 lire, che erano 720 zecchini all'anno. Abbiasi dunque un altro lettore al presente 1200 fiorini l'anno, questi valutati a 6 lire l'uno: valendo il zecchino 20 lire, fanno solo 360 zecchini l'anno. Dunque un fiorino immaginario non vale adesso se non la metá di quello valeva 80 anni sono; anzi chi con attenzione considererá che cosa sia in effetto quello che scema e per cui diciamo alzarsi l'oro e l'argento, vedrá non esser altro che quella valuta d'opinione che dá il principe alle sue monete basse, nella quale consiste tutto il guadagno ch'egli può fare nella sua zecca. Perciocché, non essendo, ne' soldi, ne' sesini o nell'altre monete di bassa lega de' principi quel tanto metallo, che vaglia in proporzione delle monete d'oro e d'argento quanto quel principe le fa valere; e la mercatura col suo giro facendo lo stesso effetto che i corpi fluidi che comunicano insieme, i quali, come si disse di sopra, finalmente si livellano fra loro in un istesso piano: ogni volta che il principe non mantiene fra gli argini dello Stato proprio le sue monete basse, battendone sol tante quante ne ponno capire, e tenendo in giusto livello con l'altre piazze l'oro e l'argento, elle da sé, dopo molti ondeggiamenti, trovano il loro livello, ma non senza danno del principe.
Quante volte (per dare un esempio) alcuni Stati di Lombardia si sono quasi affatto vuotati d'argento e d'oro per la troppa copia di monete basse battute da' quei principi, le quali non avendo corso se non ne' loro Stati, erano forzati li cittadini e mercanti, ove di mandar monete fuori di Stato loro occorreva, di portar fuori l'oro e l'argento: onde chi non n'aveva, pagava la doppia, come altre volte s'è detto, qualche soldo o lira di piú di quella moneta bassa; e perciò, se tanta di piú ne voleva a far il valore d'una doppia, era ben ella divenuta piú vile.
Né qui vedo altro potersi opporre a questa dottrina, se non se alcuno dicesse che anzi il vero valore delle monete d'oro e d'argento deve paragonarsi colle cose vendibili, non con le monete basse e con gli scudi e lire immaginarie; ed il zecchino, per esempio, valendo 18 lire, bastava per comprar diciotto cose da una lira l'una: ora col medesimo, che ne vale 20, ne comprerò due di piú. Ma io rispondo che ciò pur troppo si verifica nelle spese minute con danno del principe, come mostrerò nel capitolo seguente; ma non perciò si deve dire che il zecchino vaglia piú di prima, perché anzi, restando egli della stessa quantitá e bontá d'oro ch'egli era, né valendo di piú di prima ne' paesi forestieri, non si può dire cresciuto. Che, se bene per qualche tempo sembra nelle cose vili, ed in particolare in quelle che spettano al vitto, comprarsi piú cose col zecchino, quando egli vale piú lire immaginarie; nelle piú importanti però i mercanti alzano proporzionatamente i prezzi alle mercanzie forestiere, ben sapendo che, per quanto siano cresciute di valore le monete nello Stato proprio, paragonate alle monete basse ed alle immaginarie, non perciò potrá un mercante veneziano pagare a Milano il debito fatto per quelle merci, se non con la stessa quantitá delle stesse monete d'oro e d'argento, che prima le valevano. E perciò resta il danno solo alla plebe ed all'erario del principe, che tira i suoi dazi ed altre entrate a ragione di tanti soldi, ecc., come si vedrá.
Qual effetto produca la proporzione dell'oro all'argento, male osservata nella valutazione delle monete.
Ancorché nel precedente capitolo siasi abbastanza, a mio credere, fatto conoscere che quello, che diciamo «alzamento» delle monete d'oro e d'argento, non è altro, propriamente, che un abbassamento della valuta delle monete inferiori e delle immaginarie; nulladimeno, per fuggire ogni oscuritá, seguiteremo a chiamarlo «alzamento» od «accrescimento» delle monete istesse. Che però, per quanto molte siano le cause che fanno alzar le monete d'oro e d'argento di prezzo, come s'anderá distintamente mostrando, nulladimeno la proporzione, con cui talora, o per innavvertenza o per altri fini, in alcune zecche sono valutate, è una delle maggiori e che piú evidente ne produce l'effetto. Hanno le monete, cosí dell'uno che dell'altro metallo, due qualitá essenziali, che dánno la misura al loro giusto valore. Una è la bontá e finezza del metallo di che son formate, che «valore» e «bontá intrinseca» da alcuni vien detta; e l'altra è il peso, che «valore intrinseco» vien dimandato da certi, sebbene con piú ragione chiamano altri «valore» quello che si potrebbe cavarne, vendendola, non come moneta, ma come tanto peso d'argento di tanta finezza. È estrinseco poi quello che ad essa dá l'autoritá del principe, facendola spendere a un determinato prezzo; ed in questo modo l'intenderemo ancora noi per l'avvenire.
Per quello adunque che tocca alla bontá intrinseca, sará bene di sapere che dicesi oro di 24 caratti quello che non ha alcuna impuritá o mistura d'altro metallo, ma che tutto quanto è vero oro; ma all'incontro, quando egli ha altra mistura, si dice oro di 23 caratti, che delle 24 parti della sua mole ne ha seco mescolata una d'altro inferior metallo, siasi argento o rame (non essendo solito mescolarsi con altri che con questi due). Cosí sará di 22 caratti quell'oro che d'ogni 24 parti ne ha due di altra mistura; e di 18 caratti quello che d'ogni 24 ne ha sei, e d'ogni quattro ne ha una d'impuro; e cosí secondo tutte le proporzioni. Anzi, per maggior sottigliezza, ogni caratto vien diviso in grani 24: onde, se una moneta o massa d'oro fosse tale, che di 24 parti del tutto vi fosse una parte e 3/4 d'impuritá, si direbbe oro di caratti 22 grani 18; e cosí secondo ogni proporzione. E quella materia, che con l'oro si mischia, si dice «lega», ed «alligare» oro con rame o con argento vuol dire mescolarne seco porzione; onde si dice «oro di bassa lega» quello che ha molta porzione d'altro metallo.
Nello stesso modo si dice dell'argento, se non quanto la sua finezza si divide in 12 parti solamente, chiamate once, e «denari» si dicono i ventiquattresmi d'oncia. Onde argento di 12 once si dice quello ch'è tutto puro, e si chiama anche argento «di copella», essendo la copella un vasetto fatto di certe ceneri, che, posto nel fuoco con argento e piombo, e tenutovi liquefatto certo tempo, il metallo succhia solo il piombo e col piombo ogn'altra impuritá, che aveva l'argento, e lo lascia puro di 12 once, cioè d'intiera perfezione. Ma, se nell'argento sará allegato rame od altro metallo, si dice di tante once di bontá quante in una libbra ne sono d'argento fino; onde «argento di bassa lega» si dice ancora quello che ha molta lega di altro metallo, come si dice dell'oro. Ed è da notare che l'oro comunemente suole allegarsi con metá d'argento e metá rame, perché con argento schietto biancheggia troppo e con rame schietto troppo rosseggia; ma, con metá per sorte, riesce migliore e meno dissomigliante dal vero oro la composizione. Ed all'incontro l'argento solo col rame s'allega, avendo seco non so qual analogia, che fa buon composto; laddove lo stagno e il piombo lo incrudiscono e rendono facile a spezzarsi piuttosto che ricevere impronto.
In Venezia però e sua zecca si ragguaglia in altro modo la bontá delle monete, figurandosi una marca, ch'è ott'once, cosí d'oro, come d'argento, contenere caratti 1152, perché ogni oncia è caratti 144. Ogni caratto in grani 24 si divide. Onde spiegano la bontá de' medesimi metalli col dire «oro ed argento dipezo(cioè peggio) 60», e vuol dire che ogni marca contiene 60 caratti d'altro metallo peggiore; «pezo150» vorrá dire che ogni 1152 ne sono 150 di lega; e «pezonulla» vuol dire oro di 24 caratti od argento di copella, ecc. E cosí secondo ogni proporzione, eccettuato quando l'oro o l'argento fosse minor quantitá della metá della massa; perché allora non contano ilpezo, ma il fino: onde diranno che i traeri, o siano grossi d'Allemagna, hanno di fino 492, quando d'ogni marca, che contiene 1152 caratti, ne sono solo 492 d'argento fino, ecc.
La bontá dunque del metallo delle monete s'intende quella quantitá di metallo fino, che in esse si contiene in proporzione dell'intiero tutto. E la valuta intrinseca delle medesime da questa e dal giusto peso dipende; ed allora si dice una moneta non esser di giusta bontá, quando o nella bontá del metallo o nel peso è manchevole di quello dev'essere secondo la legge del principe. E di qui hanno origine due specie di falsari: quelli, cioè, che, levandone dal metallo, o col tagliarne attorno o in altro modo, le levano del peso, e sono detti «tosatori di monete»; e quelli che, falsamente fabbricandole di nascosto ed imitando il conio pubblico, le fanno di materia inferiore o di bassa lega, e sono nomati «monetari falsi». Questa giusta lega e giusta bontá delle monete, dunque, deve esser da' principi cosí regolata nel valutarle intrinsecamente, cioè nel dichiarar a quante lire o soldi delle monete inferiori elle debbano spendersi, essendo questa la valuta intrinseca loro, che non si scosti da quella proporzione universale che fra' mercanti comunemente corre nei prezzi dell'oro ed argento. Imperciocché, se, per esempio, un principe, che ha suoi scudi d'oro, che solevano valere 15 lire l'uno, e con una marca di tali scudi si comprano 14 marche e 1/2 d'argento in scudi da 8 lire l'uno; se, dico, lascia crescere il valore dello scudo d'oro alle 18 lire e stabilisce che anche gli scudi d'argento si spendano a 9.12, torna la stessa proporzione di prima, perché, anche a questo prezzo, per una marca d'oro averò 14 marche e mezza d'argento. E questo è mantenere la proporzione, non mantenere la valuta estrinseca, perché si può mutare la valuta e mantenere la proporzione; e se egli muta tal proporzione, senza che tutte l'altre piazze siano d'accordo in mutarla, ne nascono sconcerti grandi negli Stati di quelli che dalla comune misura s'allontanano. Imperciocché, se per esempio corre in Genova e nelle altre piazze il prezzo piú comune dell'oro a 14 once e 3/4 d'argento per una d'oro, ed un'altra zecca d'Italia, per esempio quella di Venezia, valutasse le monete d'oro e d'argento in modo che tanto valesse un'oncia d'oro quanto once 14 1/4 d'argento, tutti li mercanti dell'altre piazze manderebbono le monete d'argento a Venezia per avere in cambio altrettanta valuta in oro; imperciocché, se per ogni 14 once e 1/4 d'argento in moneta ponno in Venezia aver un'oncia d'oro, che nel suo paese vale 14 once e 3/4 d'argento, v'è mezz'oncia di argento ogni 14 1/4, che sarebbero due once ogni 57, e sono quasi 4 per cento: onde, trattene le spese e provvigioni al mercante che seco corrisponde, ne porta via ad ogni modo circa 3 per cento di guadagno per sé, guadagnati non in un anno, ma in quelle poche settimane che ci vogliono al trasporto dell'una e dell'altra moneta; e, replicando tali traffichi, a capo d'un anno ne fa guadagno non picciolo. Lo stesso vien praticato da' mercanti stessi del paese, i quali, vedendo questo disordine nelle determinazioni del principe, prontamente se ne approfittano, mandando fuori di Stato tutto l'oro che ponno raccogliere, per ricevere la valuta in tanto argento: perché, se con una marca d'oro trovano in altre piazze 14 marche e 3/4 d'argento, che in sua mano vale un'oncia d'oro, e ne avanza mezz'oncia d'argento, vi guadagnano gli stessi 3 in 4 per cento. E perché anche uno per cento basta loro, mentre ponno almen due volte il mese replicar il cambio, perciò comprano piú care le doppie, onde queste crescono di valuta; il che tutto è in danno de' sudditi di quel principe che ha mal regolate le sue monete. Imperciocché, venendo asportato l'oro in altro Stato, e convenendo dipoi ad altri mercanti mandar fuori di Stato danaro per far pagamenti, e trovando che in altri luoghi l'oro è prezzato piú, onde vi è quasi 4 per cento di danno mandando argento, essi cercano le doppie ed altre monete d'oro; e chi non le ha di proprio e non le trova altrimenti, le baratta in aggio d'uno e di due e poi di tre per 100 di piú, mercecché gli altri mercanti, che conoscono la strettezza che ha d'oro la piazza, ne raccolgono quanto ponno, per venderlo piú caro di quanto l'ha valutato il principe: ed in questo modo la doppia cresce di prezzo. E lo stesso viceversa succede dell'argento, quando in alcun paese viene valutato piú del suo dovere.
E vi sono pur troppo mercanti de' piú danarosi in tutta l'Italia, che, sebbene s'impiegano apparentemente in altre marcanzie, tutto il grosso però del loro traffico fanno sulle monete, col quale piú presto e con piú sicurezza si fanno ricchi. Ora io non so se sia stato mai ponderato abbastanza il danno grandissimo che apporta agli Stati questo traffico, che fanno molti de' piú ricchi mercanti sopra le monete. So bene che, non essendo loro vietato, hanno ragione d'approvecchiarsene quanto ponno; imperciocché ella è una mercanzia che non è sottoposta ad alcuna di quelle disgrazie a cui soggiaciono le altre, fuori delle mani de' ladri. Per altro ella non patisce umido ne' magazzini; non è suddita del tempo, che la corrompa o guasti; non è soggetta, se non rarissime volte e per poca cosa, a scemar di valore, e piuttosto sempre piú cresce; non si consuma fra le mani de' sensali; è sempre bella e venduta a contante, perché ella stessa è contante e tien poco luogo per tutto. E chi lascerá mai di trafficar questa sorte di monete, anzi merce, per impiegare i suoi capitali in seta, in droghe, in lana od altre mercanzie, e, quello ch'è peggio, in far lavorar manifatture, il guadagno delle quali si disperde quasi tutto negli operari?
Io per me lodo la sagacitá di coloro, che, non avendo obbligo di pensare se non al proprio profitto, scelgono quella sorte di mercatura che piú pronto e meno pericoloso lo produce; e dico che non fanno errore alcuno a star cogli occhi attenti se in alcun luogo nasce l'apertura di mandar monete a cambio d'altre con guadagno, e tener corrispondenze, che d'ogni altra pubblica determinazione e bando de' principi in materia di moneta lor diano avviso, e di subito, con penna aritmetica ben sottile, scandagliare qual vantaggio ne possono trarre, barattando questa con quella spezie di moneta. Anzi non biasimo se, per ciò fare con tanto piú di diligenza e prestezza, pigliano ad interesse danaro da altri; e se hanno l'occhio (particolarmente nelle piazze di confine, ove la necessitá di vicinanza molte volte dá il corso alle monete inferiori d'un paese nell'altro), se stanno, dico, attenti se qualche moneta forestiera si insinua a poco a poco fra la plebe a maggior valuta o prezzo del giusto; e se, per darle credito, arrischiano qualche cosetta a pigliarla a maggior valuta essi ancora in principio, ch'ella non meriterebbe, acciò, vedendo la plebe e gli artigiani che i mercanti non la rifiutano, piú facilmente la ricevano: onde, tantosto ch'ella ha cominciato a correre comunemente, ne fanno venire gran quantitá di casse dal paese ove è battuta, lasciando qualche porzione di guadagno ancora a chi la manda, e, prima che i magistrati s'avvedano del pregiudizio e risolvano del rimedio, ne riempiono in breve tutto lo Stato, mandando nello stesso tempo fuori di Stato la moneta migliore.