«Con compagni del vostro valore posso tentare qualunque impresa, e ve lo mostrai ieri conducendovi ad una vittoria, ad onta del numero dei nemici ed attraverso le loro forti posizioni. Feci un giusto conto delle nostre baionette ben taglienti, e vedete che non mi sono ingannato.»Mentre deploro la triste necessità di dover combattere contro soldati italiani, debbo nullameno confessare di aver trovato una resistenza degna di una causa migliore. E tal fatto ci mostra quello che noi potremmo operare nel giorno, nel quale l’intiera famiglia italiana si radunerà intorno la gloriosa bandiera della redenzione.»Domani la Terraferma italiana sarà tutta in festa per celebrare la vittoria dei suoi figli liberi e dei nostri valorosi Siciliani.»Le vostre madri e le vostre amanti cammineranno per le strade alta la testa e con la faccia ridente, superbe di voi.»Il combattimento ci ha costato molti cari fratelli che cadevano nelle prime file. Nei fasti della gloria italiana risplenderanno eternamente i nomi di questi martiri della nostra santa causa.»Paleserò al vostro paese i nomi dei bravi che con sommo valore conducevano alla lotta i soldati i più giovani, i più inesperti, e che domani li guideranno alla vittoria sopra un campo più ampio; essi sono destinati a rompere gli ultimi anelli delle catene che tengono avvinta la nostra cara Italia.»Giuseppe Garibaldi.»
«Con compagni del vostro valore posso tentare qualunque impresa, e ve lo mostrai ieri conducendovi ad una vittoria, ad onta del numero dei nemici ed attraverso le loro forti posizioni. Feci un giusto conto delle nostre baionette ben taglienti, e vedete che non mi sono ingannato.
»Mentre deploro la triste necessità di dover combattere contro soldati italiani, debbo nullameno confessare di aver trovato una resistenza degna di una causa migliore. E tal fatto ci mostra quello che noi potremmo operare nel giorno, nel quale l’intiera famiglia italiana si radunerà intorno la gloriosa bandiera della redenzione.
»Domani la Terraferma italiana sarà tutta in festa per celebrare la vittoria dei suoi figli liberi e dei nostri valorosi Siciliani.
»Le vostre madri e le vostre amanti cammineranno per le strade alta la testa e con la faccia ridente, superbe di voi.
»Il combattimento ci ha costato molti cari fratelli che cadevano nelle prime file. Nei fasti della gloria italiana risplenderanno eternamente i nomi di questi martiri della nostra santa causa.
»Paleserò al vostro paese i nomi dei bravi che con sommo valore conducevano alla lotta i soldati i più giovani, i più inesperti, e che domani li guideranno alla vittoria sopra un campo più ampio; essi sono destinati a rompere gli ultimi anelli delle catene che tengono avvinta la nostra cara Italia.
»Giuseppe Garibaldi.»
Nel qual Manifesto però noteremo noi pure con uno storico,[55]che tanto erano dovuti gli elogi ai vincitori, quanto immeritati quelli dispensati ai vinti. Magnificare il valore de’ nemici per accrescere la gloria del proprio esercito è antico costume d’ogni Capitano, e Garibaldi fece ottimamente ad imitarlo; ma contro alla sentenza dettata dalla generosità o dalla convenienza, la verità storica tosto o tardi protesta e pronuncia in appello. Non è vero che la resistenza dei Napoletani a Calatafimi sia stata degna d’una causa migliore. Militarmente parlando, essa non fu degna d’alcuna causa. Combattere al sicuro, trincerati su posizioni quasi inespugnabili; accogliere gli assalitori finchè eran lontani con furiosi fuochi di fila nutriti colla precisione d’una piazza d’arme, ma appena che il ferro delle baionette garibaldine balenava sui loro occhi, ripiegarsi sopra una posizione più alta, e poscia sempre, colla stessa tattica, sopra una seconda, una terza, una quarta fino all’ultima, ecco tutto il valore, ecco la tattica loro. Non un contrassalto energico, non una diversione ardita, non una mossa qualsiasi che potesse far costar cara la vittoria agli avversari, e meritare il nome, a quella ininterrotta ritirata, di vera resistenza.
Nè con ciò vogliamo dire che ai vinti mancasse ogni prodezza: erano Italiani essi pure, e ci graverebbe il confessarlo, se anche fosse vero. Ma non è: i soldati sono dal più al meno uguali in tutti gli eserciti del mondo; quello che li fa diversi, è il diverso valore degli ufficiali, de’ generali principalmente; è sopra ogni cosa il diverso grado di quella forza morale, prodotta insieme dall’indole, dalle tradizioni, dallaeducazione, dal paese, dall’essenza della causa difesa, e dal color della bandiera drappellata, e che si chiama spirito militare. Ora diciamolo qui per non averlo a ridire mai più; ciò che mancava all’esercito borbonico erano appunto quelle siffatte doti, che sole potevan renderlo eccellente. Generali che non videro mai un campo di battaglia; ufficiali invecchiati nelle caserme, impigriti nelle guarnigioni, carichi di famiglia, schiavi del pane, senz’altra fede che la carriera, senz’altra speranza che la pensione; soldati, infine, cresciuti in una lunga tradizione di violenza e di servitù, serbati alternamente agli uffici di scaccini e di sgherri d’una dinastia feroce e bacchettona, e condannati alle parti di pretoriani del più abbietto fra i dispotismi, non daranno mai la vita per il loro Re e pel loro Paese; non vinceranno mai una battaglia; non salveranno mai nemmeno l’onore; fuggiranno come i Napoletani a Calatafimi, o capitoleranno come i Lanza, i Briganti, i Ghio, a Palermo, a San Giovanni, a Soveria, trascinando nella immeritata vergogna anche lo stuolo eletto dei valorosi.
Però quanto la sentenza di Garibaldi: «La vittoria di Calatafimi fu incontestabilmente decisiva per la Campagna del 1860» è contestabile nel rigoroso senso militare, altrettanto ne sembra vera e indiscutibile nel senso morale. Dal giorno di Calatafimi la superiorità della camicia rossa sul cappotto bigio fu inconcussamente stabilita. D’ora in avanti ogni Garibaldino sapeva che, vinta alla baionetta una posizione, nessuno tornava più a contrastargliela; mentre ogni soldato borbonico era certo che, appena si trovava petto a petto con un Garibaldino, toccava a lui a cedere, e i suoi stessi ufficiali sarebbero stati i primi a comandargli la ritirata. E poichè la fede della vittoria nell’unocorrispondeva esattamente alla certezza della sconfitta dell’altro, così la ragione del numero, l’unica che ancora militasse pei Regi, non aveva più valore, e non contava più che ad ingrossare le torme dei fuggenti, dei disertori e dei prigionieri: miserabile ingombro ai vincitori.
«Aiuto e pronto aiuto,» aveva scritto a Palermo, la sera stessa del 15, il general Landi; ma poi temendo che assai più dell’aiuto degli amici, fosse pronta una nuova visita dei nemici, alla prima alba del 16, in grandissima fretta, con raddoppiate cautele, diede le spalle anche a Calatafimi, e per la strada d’Alcamo e Partinico s’incamminava alla volta di Palermo. La sua partenza però ebbe ben presto più somiglianza di fuga che di ritirata. I Mille, spossati dalla cruenta fatica della vigilia, non avevan potuto inseguirlo; ma quello che essi tralasciarono, lo compierono i paesani. Gli abitanti di Partinico, infatti (fierissimi fra i Siciliani), esaltati dalle novelle di Calatafimi, s’erano accordati con alcuni sbrancati delle squadre di appostarsi fuori della città e al primo apparire della schiera aborrita piombarle addosso e finirla. Il disegno era temerario, e il successo prevedibile. I battaglioni regi ebbero presto ragione di quei contadini quasi inermi, e chi pagò per tutti fu la povera Partinico, che, abbandonata dallo stesso general Landi al ferro ed al fuoco, patì per tre ore tutti i flagelli del furore soldatesco. Ma il sangue frutta sangue; e appena il grosso della colonna nemica fu sfilata, guai agli sbandati, guai ai feriti, guai ai tardigradi! I Partinichesisbucano dalle case ancora crepitanti dal recente incendio, tornano dai campi, ridiscendono dai monti dove li aveva dispersi il terrore, e avventandosi colla voluttà d’un lungo odio che si disseta su quanti Borbonici cadono loro fra le mani, ne fanno orrendo macello. Nè soltanto sui vivi infuriò la immane vendetta, i cadaveri stessi non ottennero perdono; e due giorni dopo i Mille passando per di là videro ammucchiati nei fossati cataste di corpi borbonici arrostiti, e strascinati per le vie, putrido pasto a’ cani, frammenti d’ossa e lacerti di carni umane.[56]
Intanto anche Garibaldi s’era rimesso in cammino. Scritto a Rosolino Pilo per annunziargli la vittoria del 15 e «la speranza di rivederlo presto;[57]» inviato nuovamente il La Masa[58]a far nuova gente nei distretti di Misilmeri e di Corleone; spediti messaggi sul Continente per annunziare la vittoria, e chiedersoccorsi d’armi e munizioni;[59]il 17 di buon mattino riprese la marcia per Alcamo, dove, festeggiandosil’Assunta, fu dal Pantaleo condotto in chiesa a ricevere la benedizione; il 18 continuò per Partinico; il 19 infine salì per Borgetto al Passo di Renna, d’onde s’offerse agli sguardi attoniti de’ Mille tutto lo splendido panorama della Conca d’Oro, e in quella gloria di cielo e di mare, Palermo.
Colà però era mestieri arrestarsi: Ercole era al bivio: qualunque passo fuori di quella gola di Renna poteva essere decisivo. Appunto perchè la mèta appariva sì attraente e sì prossima, tanto più conveniva non lasciarsene ammaliare e guardarsi da tutti gli agguati che potevano circondarla. Molte erano le vie che conducevano a Palermo; ma non era per anco dimostrato che la più breve e la più diretta fosse la più sicura. Nulla di più ovvio a primo tratto che scender rapidi da Renna, calar improvvisi su Monreale, e di là , ripetendo le cariche di Calatafimi, entrare, commisti al fiotto de’ nemici sgominati, nell’agognata città ; ma chi assicurava che la tattica eroica sarebbe sempre la più fortunata, e non fosse invece da saggio e accorto Capitano scemare colla prudenza e coll’arte le difficoltà d’un cimento che poteva essere decisivo?
Questo il problema; e il solo avere ordinato quella sosta di Renna, dimostra che Garibaldi ne aveva presentito fin dalla prima tutta la gravità . Però non gli occorse gran tempo a risolverlo. Un rapido esame delle posizioni nemiche, un’occhiata alla carta ed al terreno l’avevano già fatto accorto di questi due fatti: che i Borbonici appostati a Monreale lo aspettavano da quella banda, sicchè ogni speranza di sorpresa dileguava; e che prendendo quella strada, all’aspetto più corta, egli andava a chiudersi in una specie di angiporto, nel quale, perduta una battaglia, tutto sarebbe perduto.
Era evidente infatti che, se il colpo di mano su Palermo falliva, i Mille venivano a trovarsi rinserrati tra il mare da un lato ed i forti presidii di Palermo e di Trapani dall’altro, senza alcuna possibilità di scampo e di salvezza veruna. Ora Garibaldi non era uomo da cadere in siffatto errore; e prontamente risolvendo come prontamente aveva giudicato, abbandonava ogni pensiero d’assalire Palermo dal lato occidentale, e deliberava di tentarla dal lato di mezzogiorno, trasportandosi celeremente a cavaliere delle due strade di Piana de’ Greci e di Misilmeri, e manovrando su quello scacchiere. Ad effettuare però l’ardito disegno una condizione era indispensabile: che il nemico non avesse sentore della sua marcia di fianco, e perdurasse fino all’ultimo istante nell’inganno che egli mirasse sempre ad attaccare la capitale dalla banda di Monreale, scendendovi direttamente dal campo di Renna. Necessario perciò mascherare di molte finte e accorgimenti la mossa vera; al che Garibaldi si apprestò con tutta l’arte, di cui era maestro.
Mandato avviso a Rosolino Pilo di accendere molti fuochi, e di simulare grandi movimenti sulla sua montagna affine di attirare sempre più da quel lato l’attenzione del nemico, ogni cosa predisposta in Renna per la levata del campo, scende egli stesso a capo d’una forte ricognizione fino al villaggio di Pioppo, col duplice fine di scoprire più davvicino gli andamenti dei Regi, e di ribadirgli nella mente ch’egli meditasse sempre di tentar Palermo per quella via. E ci riesce. I Borbonici, colti al grosso zimbello, escono a loro volta da Monreale ad affrontare il temerario nemico; le due avanguardie si scontrano, barattano alcune fucilate: ma non appena l’accorto Condottiero le vide bene alle prese, lascia l’ordine all’avanguardiasua, divenuta retroguardia, di ripiegar combattendo; risale rapidamente col grosso della colonna a Renna; spianta il campo, smonta i cannoni e li affida alle spalle di robusti montanari; alleggerisce quanto può i carriaggi, e sul calar del giorno piega a destra per una via asprissima di montagna, cammina l’intera notte, entro una tenebra fittissima, sotto un uragano diluviale, sopra un terreno stemperato da pioggie quatriduane, e riesce tuttavia ad afferrare colla intiera colonna, miracolosa di costanza, come là , era stata a Calatafimi di valore, le opposte alture di Parco e a fronteggiar Palermo dal lato di mezzogiorno.
«Io non ricordo (scriveva quindici anni dopo Garibaldi stesso), io non ricordo d’aver veduto una marcia simile e tanto ardua nemmeno nelle vergini foreste dell’America,[60]» e certo egli avrebbe potuto contare la giornata del 21 maggio come una delle sue più fortunate, se non gli fosse stata amareggiata da un crudele annunzio: nel giorno stesso Rosolino Pilo, mentre dalle alture di San Martino stava scrivendogli, era colto in fronte da una palla borbonica e stramazzava freddo sul colpo. Onore perpetuo alla magnanima sua ombra!
Della mossa del 21 però i vantaggi non potevano essere immediati: essa era un passo preparatorio, la condizione indispensabile al conseguimento dello scopo finale; ma non poteva ancora dirsi per sè sola decisiva.Garibaldi, con quella marcia, s’era sottratto, a dir così, alla vista del nemico, ponendosi «in più facile comunicazione coll’interno e la parte orientale dell’Isola;[61]» aveva guadagnato un terreno più acconcio alle utili manovre e che gli avrebbe permesso fin all’ultimo la scelta tra l’offensiva e la difensiva, tra l’attacco e la ritirata; ma l’ora e il modo della difesa o dell’offesa, anzi la stessa decisione tra l’assalto e la ritirata erano altrettanti termini nuovi d’un problema nuovo, e di cui soltanto gli eventi potevano suggerirgli la soluzione. Gli eventi però a que’ giorni correvano veloci.
Dopo avere per ben ventiquattro ore perduto ogni traccia di Garibaldi, anco i Regi s’erano raccapezzati, e scoperto alla fine il suo nuovo rifugio, parevan risoluti a non lasciargli più un sol giorno di tregua. Il general Lanza (inviato a Palermo Commissarioalter egodel Re a surrogare il Castelcicala revocato) aveva ordinato infatti che due colonne muovessero simultaneamente dalla capitale, la prima da sinistra per Monreale, la seconda di fronte per La Grazia, ad assalire il filibustiere nel suo campo di Parco, procacciando di chiudervelo dentro e di schiacciarlo d’un colpo. Ma il filibustiere vegliava, e scoperta egli stesso dalla cima del Pizzo del Fico la duplice mossa del nemico, n’aveva indovinato l’ultimo fine. Sulle prime però, o non avesse ben calcolato le forze del nemico, o confidasse nella forte postura, o sperasse soccorso dalle bande del La Masa che campeggiavano sui monti di Gibilrossa alla sua destra, parve deciso ad accettare la battaglia, e ne fece tutti gli apparecchi. Ma alla mattina del 24, meglio contati i nemici eavvistosi soprattutto che la colonna di sinistra, capitanata dai colonnelli Von Meckel e Bosco, camminando per le scorciatoie dei monti, minacciava di cader sulla sua via di ritirata; composta prontamente una forte retroguardia coi Carabinieri genovesi e due compagnie, e imposto loro di contrastar più a lungo che fosse possibile le alture di Parco, ripiega col grosso della colonna su Piana de’ Greci. I nemici tuttavia avevan già guadagnato molto terreno; i Carabinieri eran già stati forzati a cedere da Parco; i Cacciatori del Bosco comparivano già sulle cime di sinistra a piombo della strada di Piana. Urgeva il pericolo, e Garibaldi fu pronto ancora al riparo, rimandando quegl’infaticabili Carabinieri a coronar le alture fiancheggianti la via e ponendosi egli stesso sulla difesa all’entrata di Piana; ma confidando assai più sulla probabile stanchezza de’ persecutori e sull’appressarsi della sera, che sulle sue forze. Nè s’ingannò. Durava da alcune ore l’avvisaglia sulla montagna, e già i Carabinieri, estenuati dalla fatica e dalle perdite, più non reggevano al disuguale cimento; quando il Comandante borbonico, visto che annottava e stimando forse opportuno di attendere l’arrivo delle altre colonne, deliberò, nella certezza di chi tiene ormai la preda in pugno, di differire all’indomani l’assalto. Appunto domani era tardi.
Garibaldi, approfittando della breve tregua, traversa Piana de’ Greci senza sostarvi; bivacca alcune ore della notte in una boscaglia vicina; poi innanzi giorno ripiglia di nuovo la ritirata per la strada di Corleone. Giunto però al punto dove si stacca la strada di Marineo, affida le artiglierie, gli impedimenti e una compagnia di scorta all’Orsini, ordinandogli di continuare, senza spiegargli di più, lamarcia per Corleone;[62]mentre egli svolta rapido col forte della colonna per la traversa di Marineo, dove, riposatosi poche ore, contromarcia celerissimamente per Misilmeri, e si trova prima che la giornata del 25 tramonti, liberi i fianchi e le spalle da ogni nemico, sulla strada di Palermo.
All’alba del 25 però anche i Napoletani furono pronti alle armi; ma di quale maraviglia restassero colpiti nel veder Piana de’ Greci e tutti i dintorni vuoti di nemici, lo scrivano essi. Convinti però che oramai la sola paura sospingesse Garibaldi, si pongono risoluti sulle sue orme, e raccolto da paesani che cannoni, cannonieri e bagagli si son visti sfilare per la strada di Corleone, giustamente sillogizzando che con essi debba pure essere il maggior nerbo de’ ribelli, quindi il loro capo, ripigliano ad occhi chiusi la loro caccia spensierata, spacciando allegramente a Palermo ed a tutta l’Isola: «Garibaldi fuggiasco fra le montagne; prossima la sua totale disfatta.»
Era l’inganno, di cui Garibaldi aveva bisogno: era il compimento del suo disegno. Il qual disegno non nacque già tutto intero per miracolosa fecondità di genio, d’un sol getto e in un solo istante; ma fu lentamente covato, preparato, compÃto, perfezionato; il che ne accrescerà agli occhi degl’intendenti il pregio e la meraviglia.[63]
Fino alla marcia da Renna al Parco, Garibaldi non ebbe ben ferme in mente che queste due idee: portarsi sopra un terreno più propizio; tirare il nemico fuori di Palermo per batterlo divisamente, potendo, stancheggiarlo o scivolargli in mezzo, secondo l’opportunità e la forza.
Quando però la mattina del 24 si vide piombare addosso, per due vie convergenti, una mole di nemici anche più grossa della preveduta, e conobbe non restargli pel momento altro scampo che una subita ritirata, cammin facendo, meditando alla distretta in cui si trovava, e compiendo rapidamente l’analisi e la sintesi dei molti partiti che gli si affacciavano, allora gli balenò l’ardito concetto di farsi della ritirata lo strumento della vittoria, e intanto che il nemico allucinato inseguiva la sua ombra sulla strada di Corleone, marciare per l’opposta via all’assalto di Palermo.
Ma i mezzi? Per l’opera, a dir vero, infaticabile di Giuseppe La Masa, s’eran venuti raccogliendo sulla vetta di Gibilrossa, centro dei monti che serrano Palermo da sud-est, un grosso campo di squadriglie, armate e istruite come sappiamo, ma che per le loro marcie irrequiete, i loro fuochi numerosi, e gli innumerevoli e altisonanti proclami coi quali il loro capitano ne magnificava il numero e la fierezza, erano riuscite fino allora a tenere in allarme il presidio diPalermo, ed a coprire l’estrema destra del corpo garibaldino da subitanei assalti. A dir il vero la prima volta che queste bande ricevettero il battesimo del fuoco, non fecero buona prova: al Parco anzi la mattina del 26 chiamate in sostegno della minacciata destra garibaldina, avevan dato volta ai primi spari, gridando per giunta (insania della paura!) «al tradimento di Garibaldi,[64]» e spargendo la loro fola e il loro terrore fin dentro Palermo. Tuttavia erano intorno a tremila; rappresentavano l’eletta militante del paese; confusi nella turba battevano i cuori più intrepidi della Sicilia, e non sarebbe stato giustizia, oltre che prudenza, trascurarli. Garibaldi inoltre ne aveva bisogno; sicchè salita la mattina stessa del 26 Gibilrossa (da Misilmeri distante poche ore) e passato a rassegna tutto il campo, ne ritrae così buona impressione, che promette al La Masa di porre a capo della colonna destinata alla marcia imminente su Palermo i suoi «bravi Picciotti.»
Sceso però da Gibilrossa, ebbe uno scrupolo e volle adempiere una formalità . Chiamati a consiglio, cosa insolita, i suoi principali Luogotenenti, Sirtori, Türr, Bixio, La Masa, Crispi, quando li vide tutti raccolti, diresse loro questa breve parlata: «Voi sapete che non ho mai radunato Consigli di guerra, ma le circostanze in cui siamo mi vi inducono. Due vie ci stanno davanti: l’assalto di Palermo, o la ritirata nell’Isola. Scegliete.»
Taluno dicesi fu per la ritirata, i più per l’assalto,[65]che era in quel caso, non solo il più eroico, ma anche il più prudente partito, per non dirlo senz’altro l’unico effettuabile. Allora Garibaldi, fedele sempre altolle moras, riunita la sua colonna al campo di Gibilrossa e quivi raccolte tutte le sue forze, dà nella sera stessa gli ultimi ordini per la deliberata battaglia. L’assalto nel primo concetto doveva effettuarsi nel cuore della notte, la partenza quindi essere suonata per le prime ore della sera. Composte le ordinanze colle squadre del La Masa e uno stuolo de’ Mille per guida ed esempio alla testa; i battaglioni del Bixio e del Carini al centro; le squadre del Sant’Anna alla retroguardia; la colonna doveva scendere da Gibilrossa pel sentiero dei Ciaculli che va a cadere sulla strada di Porta Termini, poco lungida San Giovanni, e passato l’Oreto al Ponte dell’Ammiraglio camminar diritta sulla città . L’ordine era: marciar serrati e silenziosi; avvicinarsi quanto più era possibile al nemico; giuntogli dappresso, rovesciar alla baionetta ogni ostacolo e penetrare al più presto, comunque, in Palermo.
Se non che, come accade sovente anco agli eserciti meglio ordinati, la marcia non cominciò per l’appunto all’ora designata; il sentiero preso, soggiorno quasi aereo di caproni selvatici, era oltre al preveduto aspro e malagevole; i Picciotti posti alla fronte, inesperti di marcie militari, molto più delle notturne, s’arrestano ad ogni tratto per ombre ed allarmi immaginari; talchè al sommar di tutte queste ragioni la colonna assalitrice non potè sboccare sulla strada di Palermo che allo spuntar dell’alba. Tuttavia non era per anco stata avvertita da alcuno, e la sorpresa era sperabile sempre, quando i Picciotti dell’estrema avanguardia, giunti ai così dettiMolini della Scaffae scambiandoli forse per le prime case di Palermo, alzano, probabilmente per darsi coraggio, tale un clamore di grida, con accompagnamento di fuochi, non sapremmo dire se di paura o di gioia, che i Regi di guardia, appostati al Ponte dell’Ammiraglio, ne sono riscossi in sussulto e corrono, tutt’ora assonnati, alle armi.
Di colpo improvviso non era più a parlarne, e non restava che supplire colla subitaneità dell’assalto e la forza dell’impeto alla fallita sorpresa.
Lo comprese tosto Garibaldi; lo comprese Nino Bixio, suo braccio destro; lo compresero quanti in quella falange avevan anima di soldati e senso della terribilità del momento. E prima di tutti l’avevan compreso il prode Tükery e i suoi compagni dell’antiguardo; i quali al primo grido, alla prima ombra puòdirsi del nemico, s’avventano su di lui a testa bassa, e prima ch’egli abbia tempo di conoscere gli assalitori, lo sforzano ad accettare la pugna.
E da quel punto «avanti, addosso, alla carica tutti.» I Regi, fortemente asserragliati dietro il Ponte dell’Ammiraglio, spazzano con un turbine di moschetteria e di mitraglia la via ed i campi: i Picciotti, nuovi a quei cimenti a petto a petto, balenano, si sparnazzano, scompigliano col rigurgito le schiere sopravvenienti degli amici; ma non monta: il Bixio e il Carini colle coorti di Calatafimi sopraggiungono al rincalzo; i più animosi delle squadre stesse si mescolano agli agguerriti compagni e fanno valanga; i Regi già vacillano, già danno le spalle e il Ponte dell’Ammiraglio è conquistato.
Era un fausto preludio, ma non ancora la vittoria. Restava ancora Porta Termini, chiave della città ; restava una seconda linea di nemici gagliardamente appostati dietro case e barricate, protetti da numerose artiglierie, fiancheggiati da una forte squadra, liberi di piombare sui fianchi degli assalitori per le due strade che dalla Porta Sant’Antonino e da Porta de’ Greci convergono sulla via di Termini, e dentro una cerchia di fuoco schiacciarli. Ma non era sfuggito il pericolo a Garibaldi, il quale, provvedendo a un punto all’attacco ed alla difesa, mandava quanti branchi di squadre poteva raccogliere a custodire quelle due vie, mentre ordinava un ultimo disperato assalto alla Porta. E «al concitato imperio» non seguì mai sì pronto «il celere obbedir.»
Serrati, concordi, non contando i nemici, disprezzando la morte, gareggianti solamente a chi prima arriva, si slanciano di fronte i Mille: alla destra, avanzando arditamente tra vigneti e giardini, li fiancheggiano,condotti dall’intrepido Fuxa, manipoli di Siciliani; da sinistra altri Picciotti e Cacciatori misti insieme, guidati dal Sirtori e dal Türr, tengono in iscacco i difensori della Porta Sant’Antonino: procombono sul fulminato terreno, della bella morte de’ prodi, Tükery, Rocco La Russa, Pietro Inserillo e Giuseppe Lo Squiglio; giacciono feriti Benedetto Cairoli, Enrico Piccinini, Raffaello Di Benedetto, Leonardo Cacioppo; Bixio stesso, ferito al petto da una palla, se la estrae da sè; ma i Napoletani, quasi sopraffatti da superstizioso terrore, più non reggono alla diabolica irruzione. Nullo, il Fieramosca della schiera, a cavallo, ritto, intrepido, stupendo nella sua marziale eleganza di cavaliere antico, ha già varcato, primo de’ primi, la Porta, e dietro a lui, come torrente che rompa le dighe, penetra da cento bocche la piena procellosa degli assalitori, i quali dilagando rapidi per tutte le vie, scacciando da ritta e da manca i residui dei nemici resistenti, e portando in trionfo, più che seguendo, il loro fatato Capitano, mondano Fiera Vecchia, il cuore di Palermo. Eran forse le 6 del mattino; due ore eran bastate alla prodigiosa vittoria, e il sole del 27 maggio, il sole di San Fermo, illuminava un’altra volta uno de’ più memorabili portenti del valore italiano.
Palermo dormiva ancora. Sorpresi essi pure dall’inaspettato assalto, già tratti in inganno da falsi allarmi perfidamente simulati dalla Polizia, e minacciati di morte coloro che al tuonar del cannone fossero trovati per le vie, i Palermitani avevano alquanto esitato prima di prestar fede ad un risveglio tanto fortunato;e come gente non libera ancora dal sospetto d’un’insidia o dal timore d’un’imprudenza, si tennero chiusi e celati nelle loro case ad attendere che gli avvenimenti colla stessa luce del giorno si rischiarassero. Ma a poco a poco una finestra si socchiude; un uscio si apre; una, dieci, cento persone cominciano a far capolino; i più curiosi o i più animosi s’avventurano nella strada; altri corrono a’ campanili a dar nelle campane; la gran nuova si spande, il grande fatto si conferma, e finalmente tutta la più gagliarda e patriottica parte della popolazione (dir tutta la città sarebbe ancora troppo presto) si precipita festante sui passi dei liberatori, offre loro i primi conforti e i primi soccorsi e si mesce al gran fiume della rivolta.
Piano delle Operazioni sotto PALERMO (Versione più grande)
Piano delle Operazioni sotto PALERMO (Versione più grande)
E non v’era un istante da perdere. Alle 6 del mattino la situazione dei due belligeranti, per dirlo alla moderna, era questa: i ribelli occupavano precariamente Fiera Vecchia, e il tratto della città compreso tra la Porta Sant’Antonino e Porta Termini, meno alla destra la caserma di Sant’Antonino e, più a sinistra, i dintorni dell’Orto botanico; i Regi invece: Porta Montalto, Palazzo Reale, Porta Macqueda, il Castellamare, tutta la Marina; quanto dire quattro quinti della periferÃa.
E alla tattica bontà delle posizioni rispondeva la forza del numero e la ricchezza de’ mezzi di guerra. Per la rivolta ottocento camicie rosse[66]stremate, indigenti d’ogni cosa, e da tre ai quattromila Picciotti armati e agguerriti come sappiamo; per il Borboneventimila soldati ben istrutti, ben pasciuti, straricchi d’artiglierie, di munizioni, di viveri, d’ogni ben di Dio, fiancheggiati da quattro fregate, protetti da due forti e da numerose caserme, massiccie quanto i forti, padroni di tutte le loro comunicazioni, liberi d’essere soccorsi dal mare e dalla terra, quando che sia.
Però nulla di più precario, di più incompiuto, di più periglioso della vittoria garibaldina. Tutta la loro conquista poteva dirsi la conquista d’una mina, che da un istante all’altro poteva saltare e seppellirli sotto monti di rovine. Conveniva dunque strapparne subito al nemico le miccie o, per uscir di metafora, metter Palermo in istato di difesa, allargarvi quanto più era possibile la rivolta, rompere la cerchia nemica, occuparne i principali punti strategici, assicurarsi infine quelle tre condizioni indispensabili ad ogni guerra: posizioni per combattere; comunicazioni per manovrare; base d’operazione per rifornirsi.
E a tutto ciò fu, con maravigliosa rapidità , provveduto. Garibaldi, appena raccolta la sua gente, si inoltrava fino al Palazzo Pretorio e vi piantava il suo Quartier generale; occupava i quattro Cantoni, centro delle due grandi vie che segano in croce la città , e vi si asserragliava; istituiva un Comitato provvisorio, di cui faceva capo il dottor La Loggia e poco dopo una Commissione delle barricate, di cui eleggeva presidente il duca Della Verdura; chiamava di nuovo tutti i Palermitani alle armi, ed abbozzava un primo nucleo di guardie nazionali; spingeva, non senza combattimenti, i suoi avamposti verso Palazzo Reale fino a Piazza Bologna, e verso Porta Macqueda fino alla Villa Filippina; faceva nella giornata stessa attaccare la caserma di Sant’Antonino rimasta in potere dei Regi, e prima di sera se ne impadroniva; infine trasfondevain tutti i petti un raggio della sua serenità e una favilla della sua fede, forze inespugnabili.
E ciò non ostante il generale Lanza era sempre arbitro, purchè l’avesse voluto, del campo. Un istante d’energia, un contrassalto ben combinato, uno sforzo appena volonteroso di que’ ventimila uomini, e Palermo tornava sua. Ma era chieder troppo a siffatto Capitano ed a siffatto esercito. Però l’unica prodezza, di cui l’uno e l’altro furono capaci, fu il bombardamento; e già fin dalle 10 del mattino, dai forti di Castellamare e dalla Squadra ancorata di faccia a Toledo, cominciò a piovere sulla città , principalmente ne’ dintorni di Palazzo Pretorio, un nuovo diluvio di granate e di bombe; sprezzato, a dir vero, dai combattenti, e in sulle prime poco dannoso alla città , ma preludio di rovina maggiore.
L’indugio invece fu la fortuna dei ribellati. Giuseppe Sirtori, a capo d’una mano di Legionari e di Picciotti, fatta base il convento de’ Benedettini, riusciva ad impadronirsi del bastione di Montalto, punto avanzato sulla sinistra del Palazzo Reale; quasi contemporaneamente un’altra compagnia de’ Mille, Bergamaschi quasi tutti, guadagnava, non senza fiera lotta, la Piazza della Matrice e i dintorni del Burrone, del Papireto e di Porta Sant’Agata; sicchè per queste conquiste venivano tagliate le comunicazioni tra il Castello ed il Palazzo Reale, e gli approcci della rivolta avvicinati sempre più agli estremi baluardi della resistenza nemica. E quel che accresceva la maraviglia, era che ogni barricata sorgeva sotto il diluviare delle bombe; ogni palmo di terreno era guadagnato fra il crepitar degl’incendi, il crollar delle case, le urla delle vittime sepolte sotto le rovine, o trucidate nella fuga dalla ferina vendetta soldatesca.
Infatti il bombardamento dopo alcune ore di sosta aveva ripreso, nel 28 mattina, continuando fin nel cuore della notte con frenetica rabbia e facendo della miseranda, ma invitta città , un immane sterminio. Il vasto e ricco monastero di Santa Caterina ardeva tutto intero, assieme al lungo tratto di botteghe e di case che rispondevano sulla Strada Toledo: il Palazzo arcivescovile era saccheggiato, i ricchi monasteri dei Sette Angioli e della Badia Nuova saccheggiati e incendiati, il palazzo del principe di Carini distrutto; quelli del principe di Cutò e del marchese d’Artale smantellati. «In un remoto chiassuolo della città (scriveva un egregio Palermitano, spettatore della terribile tragedia[67]), presso alla Via del Pizzuto, la esplosione d’una sola bomba cagionava lo scempio di ventidue innocenti, ed erano in maggior parte donne e bambini: orrendo spettacolo quello di corpi oscenamente mutilati e squarciati, spettacolo commovente e pietoso quello d’intere famiglie, nude, raminghe, con vecchi e infermi che trascinavansi a stento e fuggivano gli abbattuti lor tetti. D’un subito, nella zona superiore della città , a dritta del Palazzo regio, sollevasi un vortice caliginoso di fiamme: ed è il bruciamento e la distruzione di tutto un quartiere. Dal Palazzo le napoletane milizie procedono verso la Piazza Grande e la Piazzetta de’ Tedeschi: la insurrezione ha preso appena a minacciar da quel lato; ed ecco i soldati trapassare di casa in casa, scassinare le porte, saccheggiare e disperdere quanto vi si trovasse per entro, macellarvi i sorpresi e sbigottiti abitanti edappiccarvi l’incendio. A chi fuggiva sì traea co’ moschetti; a chi chiedeva mercede s’insultava, poi si dava la morte: s’inducevano i miseri a ricattarsi svelando le preziosità e le masserizie nascoste, e, appagata la rapace ingordigia, seguivano le ferite e il sangue; si stupravano donne e fanciulle, poi scannavansi, e dopo loro i padri, i mariti, i fratelli: il nome del Re suonava da’ manigoldi acclamato fra le strida che sfuggÃano alle vittime: e di quelle immanità e di quei fatti potrebbero allegarsi senza fine gli esempi, e non era guerra, ma eccidio efferato e vilissimo eccidio, non da uomini, ma da bestie crudeli. Il fuoco infuriava quel giorno per vasto recinto di edifici e di strade; infuriava nella notte e ne’ due giorni seguenti; e in quell’accesa fornace cuocevano e soffocavano umane creature, senza difesa e senza scampo immolate.»
Mille e trecento furono le bombe lanciate dal Castello e dalla Squadra senza contar le palle e la mitraglia: cinquecento trentasette i cadaveri ufficialmente numerati fino al 12 giugno.[68]Orrendo scempio che Lord Brougham nel Parlamento inglese pareggiava al neroniano e Lord Palmerston aggiungeva: «indegno del nostro tempo e della nostra civiltà .[69]»
La mattina del 29, con gran stupore dei bombardati, il bombardamento taceva; ma dell’inattesa tregua varie le cagioni, nessuna di pietà . Nella nottedal 28 al 29 due piroscafi della Squadra regia portavano da Termini a Palermo un reggimento di Bavaresi, col rinforzo de’ quali il Generalissimo borbonico aveva contato di tentare una sortita generale di tutte le sue forze, onde ricuperare i posti perduti la vigilia. Ora così per non molestare il passaggio dalla Marina al Palazzo Reale de’ nuovi arrivati, come per evitare il rischio di colpire i propri soldati durante il premeditato assalto, il generale Lanza aveva dato l’ordine che il bombardamento rallentasse per alcune ore, limitandosi a battere i dintorni di Castro Pretorio, nido della rivolta.[70]Ma invano. Per tutta quellagiornata si combattè nuovamente al bastione di Montalto, all’Annunciata, ai Benedettini, al Duomo: in quest’ultimo punto anzi i Regi, sorpresi i Picciotti del Sant’Anna, ebbero alcune ore di sopravvento; ma poi sopraggiunti gli ormai terribili Cacciatori, riannodatesi le squadre, apparso Garibaldi, tutti i posti furono o conservati o ripresi, ed ai Regi toccò nuovamente di riparare a’ loro quartieri, più che vinti disperati di vincere; e riadorni soltanto di quei sanguinosi allori, a cui oramai sembravano aspirare: il saccheggio di nuove case e l’eccidio di nuove vittime.
Gli è che i soldati del Borbone non si battevano più. Quei tre fatti miracolosi della vittoria di Calatafimi, della ritirata del Parco e della sorpresa di Palermo avevano ispirato ne’ loro petti tale un superstizioso terrore, che era oggimai più forte d’ogni legge di disciplina e d’ogni punto d’onore. Per essi Garibaldi era ormai invincibile; vedevano in lui un essere privilegiato, protetto da una potenza sovrumana, contro la quale ogni forza terrestre doveva soccombere. Si spacciavano sul suo conto le più strane fole: chi lo diceva stregato; chi aggiungeva che fin da bambino fosse stato inoculato con un’ostia consacrata; e poichè gli ufficiali stessi per onestare la loro dappocaggine accreditavano queste insensatezze, non era più a sperarsi da siffatto esercito alcun atto, non che di energia, di decorosa resistenza.
Il Lanza però non aveva confidato soltanto sulla forza: un po’ di frode ad assodar l’opera gli era parsagiovevole. Infatti fin dal 28 mattina egli si era rivolto, per mezzo d’un ufficiale della regia Marina, all’ammiraglio Mundy, comandante in capo della Squadra inglese,[71]per pregarlo d’un favore, all’apparenza innocentissimo: di voler soltanto ricevere al suo bordo due Generali dell’esercito regio incaricati di conferire con lui; procacciando unicamente che, durante le conferenze, i ribelli sospendessero le ostilità e i due Generali potessero aver libero passo traverso le linee nemiche sotto la protezione della bandiera britannica.
L’agguato era ben preparato, e se gli riusciva, il Generale borbonico otteneva in un colpo solo parecchi scopi: metteva in tutela della bandiera britannica l’assisa, quanto dire, la causa borbonica; otteneva dai ribelli, mercè una mediazione potente, una sospensione d’armi, e ciò senza essere costretto a richiederla egli stesso al disprezzato avventuriero. Ma quanto il laccio era sottile, altrettanto era acuto l’occhio dell’Inglese, e scivolandogli in mezzo con destrezza e prudenza, faceva al Commissario del Re questa risposta: «Prontissimo alla conferenza, lietissimo di ricevere a bordo della sua ammiraglia i due Generali che gli erano annunziati; ma quanto al loro passaggio traverso le linee degl’insorti, necessario richiederlo al generale Garibaldi che solo aveva diritto di darlo.[72]» Non era questa la conclusione che il Borbonico s’aspettava, anzi era precisamente quella che più di tutte aborriva; ma ciò non ostante, per quanto egli tornasse all’assalto con nuove missive anche più ambigue e capziose, l’Ammiraglio non si smosse d’una linea dalla primasua risposta, sventando così colla sua accorta tenacia una trama che intendeva a fare lui complice, e l’Inghilterra stromento della politica borbonica.[73]
Astretto da questa repulsa a non confidare più che nell’armi; ma nell’armi, dopo i falliti assalti del 29, non avendo più fiducia, il Generale borbonico si sentì a un tratto mancare quell’ultimo residuo, non diremo certo di coraggio, che non ebbe mai, ma di dignità umana e di pudore soldatesco che ancora gli era rimasto, e senza nulla dire al Mundy, all’improvviso, come preso da subitaneo terrore, scrisse al filibustiere, fino a ieri schernito, questa lettera quasi incredibile:
«Il generale Lanza a S. E. il general Garibaldi.»Palermo, 30 maggio 1860.»Avendomi l’Ammiraglio inglese fatto sapere che riceverebbe con piacere a bordo del suo vascello due de’ miei Generali, affine di aprire con Lei una conferenza, della quale l’Ammiraglio stesso sarebbe il mediatore, purchè Ella consenta a conceder loro un passaggio traverso le sue linee; io la prego di farmi conoscere se vuole consentirvi, e in caso affermativo (supponendo le ostilità sospese da ambe le parti), io la prego di farmi sapere l’ora in cui la detta conferenza dovrà cominciare. Sarebbe allo stesso tempo utile che Ella accordasse una scorta ai summenzionati due Generali, dal Palazzo Reale alla Sanità , dove essi s’imbarcheranno per andare a bordo.»In attesa d’una sua risposta, ec.»Ferdinando Lanza.[74]»
«Il generale Lanza a S. E. il general Garibaldi.
»Palermo, 30 maggio 1860.
»Avendomi l’Ammiraglio inglese fatto sapere che riceverebbe con piacere a bordo del suo vascello due de’ miei Generali, affine di aprire con Lei una conferenza, della quale l’Ammiraglio stesso sarebbe il mediatore, purchè Ella consenta a conceder loro un passaggio traverso le sue linee; io la prego di farmi conoscere se vuole consentirvi, e in caso affermativo (supponendo le ostilità sospese da ambe le parti), io la prego di farmi sapere l’ora in cui la detta conferenza dovrà cominciare. Sarebbe allo stesso tempo utile che Ella accordasse una scorta ai summenzionati due Generali, dal Palazzo Reale alla Sanità , dove essi s’imbarcheranno per andare a bordo.
»In attesa d’una sua risposta, ec.
»Ferdinando Lanza.[74]»
«Quale non doveva essere l’avvilimento dell’esercito regio (scrive lo stesso ammiraglio Mundy), perchè l’alter egod’un Sovrano acconsentisse a scrivere una lettera sì umiliante. L’uomo che fino a quel momento era stato stigmatizzato cogli epiteti più vituperosi dell’umana natura e denunziato nei proclami come un pirata, un ribelle, un filibustiere, eccolo elevato al titolo ed al rango di Generale e d’Eccellenza! Ciò equivaleva ad una ricognizione del suo carattere d’uguale,e ad una confessione d’impotenza di sottometterlo colla forza.[75]»
E questo pure dovette sentire Garibaldi; ma disprezzando in cuor suo le antiche e nuove codardÃe del suo avversario e pensando solo a trarne profitto, rispose all’istante al Commissario di Francesco II esser pronto alla propostagli conferenza; fissarla per le due pomeridiane del giorno stesso; avrebbe fatto immediatamente sospendere il fuoco de’ suoi, e accordato il passo e la scorta a’ due Generali regi.
Se non che verso le 10 antimeridiane dello stesso giorno (30 maggio), dopo cioè che Garibaldi ebbe mandato a tutti i suoi posti l’ordine di cessare da ogni ostilità , un inatteso avvenimento rischiava di mettere in forse con un sol colpo tutta la conquistata fortuna. La colonna di Von Meckel e del Bosco, in maggior parte composta di Bavaresi, dopo aver per tre giorni perseguÃto vanamente l’Orsini (il quale, inchiodati i cannoni e bruciati gli affusti, era riuscito a scamparla, sperdendosi per le campagne al di là di Giuliana), quella colonna, dicevamo, risaputa alla fine la notizia[76]che quel Garibaldi, da essi sognato fuggiasco sulla strada di Corleone, accampava già in Palermo, era tornata quanto più veloce aveva potuto sui suoi passi, e appunto la mattina del 30 maggio compariva innanzia Porta Termini[77]e ne assaliva la barricata che la custodiva. Le squadre di guardia al posto ributtarono, com’era debito loro, l’inatteso nemico; questi incalzò più risoluto che mai, e la fucilata si accese vivacissima da ambe le parti. Indarno il luogotenente Wilmot,ufficiale di bandieradell’ammiraglio Mundy, che per caso di là passava diretto al Castro Pretorio, sventolava il suo bianco fazzoletto e gridava agli assalitori: una tregua essere pattuita; fedifrago l’assalto; doverosa la ritirata; que’ Bavaresi, o avessero meditato un’insidia o la temessero, non vollero intendere ragione. Allora il combattimento si accanì più che mai: e a chi contava il numero soverchiante degli aggressori non era difficile prevederne il risultato. I Picciotti resistevano del loro meglio; una compagnia de’ Mille, guidata dall’intrepido Carini, tratteneva ancora per alcuni istanti quella piena irrompente; ma ferito gravemente ad un braccio lo stesso Carini, caduti molti de’ suoi, crescente l’irruzione nemica, la barricata sarebbe stata certamente perduta ela via aperta fino a Fiera Vecchia, se la fortuna non avesse voluto che presso il generale Garibaldi stesse in quel momento, inviato dal Lanza, l’ufficiale di Stato Maggiore regio, Nicoletti, il quale, udito l’evento e invitato con acerbe parole dallo stesso Garibaldi a cessare quella perfidia, accorse sul luogo del conflitto e colla sua assisa ed autorità riuscì a persuadere quei, non sappiamo se testardi o astuti Tedeschi, se non a ritirarsi, come avrebbero dovuto, a restar nei posti indebitamente conquistati.[78]
Superato anche questo nuovo periglio, indossata ancora la sua vecchia uniforme di Generale piemontese (divenuta buona un’altra volta), accompagnato dal solo Crispi,[79]poco prima delle due pomeridiane si mosse per recarsi al convegno fissato. Al Molo della Sanità l’aspettava la lancia dell’Hannibal: quivi il caso volle che arrivassero nello stesso punto il generale Letizia ed il generale Chretien; sicchè la medesima barca li tragittò insieme al bordo dell’Ammiraglio inglese. Colà giunti, i Generali borbonici lasciarono il passo a Garibaldi; l’Ammiraglio, così a lui, come a’ suoi avversari, fece rendere i dovuti onori militari e li invitò ad entrare nella sua cabina.[80]Non appena radunati però, quasi preliminare al trattato che stava per cominciare, sorse un singolare litigio, che qualificòsubitamente agli occhi dell’Inglese il diverso carattere de’ negoziatori da lui ospitati al suo bordo.
L’ammiraglio Mundy per rendere più solenne la conferenza e porne la fede sotto il suggello di autorevoli testimonianze, aveva invitato ad assistere alla conferenza anche i Comandanti dei legni da guerra Francese, Americano e Sardo ancorati nello stesso porto, ed essi, accettato l’invito, stavano già sul ponte all’arrivo de’ negoziatori ed eran loro stati presentati. Quando però il generale Letizia li vide entrare assieme a tutti gli altri nella cabina dell’Ammiraglio e disporsi ad assistere alla conferenza, si fece innanzi e dichiarò ch’egli non era preparato ad intraprendere alcun negoziato alla presenza di quei Capitani stranieri, sicchè richiedeva formalmente che si ritirassero. Nè a questo si fermò. Soggiunse, «che quantunque egli avesse consentito a incontrare il generale Garibaldi a bordo della nave britannica, egli non intendeva riconoscergli alcuna officiale capacità , nè molto meno conferire con lui sopra qualsivoglia soggetto. Ogni mediazione, continuava egli, doveva aver luogo tra l’Ammiraglio inglese, lui ed il suo collega; e al generale Garibaldi non restava che confermare o disapprovare le parole del trattato che si fossero per usare. Queste le istruzioni da lui ricevute dal generale Lanza e dalle quali egli non poteva nè voleva dipartirsi.[81]»
A questa inattesa parlata, il cui senso era aggravato dal tuono dittatorio con cui era proferita, la sorpresa fu generale. L’Ammiraglio però, rotto per il primo il silenzio e raccomandata la calma e la temperanza, stimava suo debito chiedere prima d’ognicosa, se anche il generale Garibaldi aveva da muovere qualche obbiezione circa alla presenza dei Comandanti stranieri. A cui Garibaldi rispose che ogni concerto preso dall’Ammiraglio inglese gli sarebbe stato gradito, e che quanto ai signori Comandanti era lieto di vederli rimanere. Ma nemmeno a questa lezione di tolleranza e cortesia il generale Letizia volle darsi per vinto, e arzigogolando cavillosamente sulle parole della lettera scritta la mattina dal generale Lanza, ribadì la sua tèsi che «i negoziati dovevano correre tra l’inglese Ammiraglio e gli incaricati napoletani, e il generale Garibaldi non dover prendervi alcuna parte.» Alla caparbia malafede del Napoletano proruppero indignati, tanto il capitano francese Lefebre, quanto l’americano Palmer; «solo il marchese D’Aste, antico ufficiale sardo, restò silenzioso;[82]» finalmente lo stesso ammiraglio Mundy interveniva a cessare l’alterco, protestando apertamente che, «se il generale Letizia non consentiva a trattar personalmente col generale Garibaldi e in presenza dei Capitani esteri, egli sarebbe obbligato di rimandare tutti a terra, e dichiarare rotti i negoziati.[83]»
A sì aperto e risoluto linguaggio il generale Letizia finì col rassegnarsi, e riconosciuta al generale Garibaldi la parte che gli spettava, le trattative s’avviarono. I quattro primi articoli della convenzione proposta passarono senza contraddizione o discussione di sorta; giunti al 5º: «Che la Municipalità rassegnasse un’umile petizione a Sua Maestà il Re, esprimendogli i reali bisogni della città .» — «No!» proruppe con veemenza Garibaldi; e alzandosi di scatto soggiunse: «Il tempo delle umili petizioni o al Re, o achicchessia, è passato; inoltre non ci sono più Municipalità .... La Municipalità sono io. Io rifiuto il mio consenso. Passiamo alla sesta ed ultima proposta.»
All’udir queste parole sdegno e stupore si dipingono sul volto del generale Letizia, e sgualcendo la carta che stava spiegata sulla tavola, esclama: «Allora se questo articolo non è concesso, ogni comunicazione cessa fra di noi.[84]»
Garibaldi, il quale fino all’enunciazione del quinto articolo avea sempre serbato un calmo e imperturbato contegno, a quell’ultima albagiosa dichiarazione del suo avversario non seppe più frenarsi. «Egli denunciò in termini eccessivi[85]la mancanza di buona fede, anzi l’infamia della Reale Autorità nel permettere che truppe mercenarie, mentre una bandiera di tregua sventolava, attaccassero le italiane, le quali avevano avuto l’ordine di cessare il fuoco. Ed altre cose anche più appassionate soggiunse Garibaldi; a cui replicò con violenza non disuguale, ma certo con minor giustizia il suo antagonista. Sicchè l’Ammiraglio fu costretto di nuovo ad interporsi non solo per rimettere la calma fra i disputanti, ma per raddrizzarele torte argomentazioni, con cui il negoziatore napoletano continuava a sillogizzare.»
A tal punto Garibaldi, credendo ormai compiuta la rottura de’ negoziati, si levò dalla sua sedia e fece atto di disporsi alla partenza; «ma tale non appariva in alcuna guisa l’intenzione del Generale borbonico.[86]» Anzi dopo essersi consultato alquanto col suo collega, si rivolse di nuovo al suo avversario, annunziandogli che egli consentirebbe a cassare il quinto articolo della convenzione, quantunque sapesse che per quella concessione egli incontrerebbe il disfavore del suo Generale in capo.
E dopo questa dichiarazione tanto maravigliosa ed inattesa, quanto lo erano state fino allora tutte le parole del negoziatore regio, l’armistizio fu prolungato fino alle nove del mattino seguente, al solo fine di concordare definitivamente i punti controversi e di ottenere dal Commissarioalter egodel Re la ratifica dei già patteggiati. Prima di lasciar l’Hannibalperò il generale Garibaldi, cogliendo il momento in cui l’ammiraglio Mundy s’era stretto in privato colloquio co’ due Inviati regi, si traeva in un canto col capitano Palmer e col marchese D’Aste, e susurrò loro in tutta fretta e in gran secretezza: essere allo stremo di munizioni; questo il suo pensiero più tormentoso; lo soccorressero, se potevano, in quella necessità ; avrebbe pagato un pacco di cartuccie a peso d’oro. Il capitano D’Aste non volle dare neanche un grano di polvere; il Capitano americano crediamo che desse la poca che aveva; al resto pensò la Provvidenza!
Ma sia che l’ultima impressione ricevuta da Garibaldi fosse che il pattuito armistizio non potessedurare oltre il vegnente mattino; sia ch’egli mirasse a trar profitto delle pretese esorbitanti del nemico, e della sua sdegnosa risposta per infiammare vieppiù gli animi già accesi de’ Palermitani, giunto a Palazzo Pretorio fece tosto pubblicare questo Manifesto: