L'AZIONE DI GIULIANO CONTRO IL CRISTIANESIMOFinchè Giuliano visse sotto le minacce di Costanzo o come suo rappresentante nel Governo della Gallia, egli tenne celate le sue idee, la sua fede ed i suoi eventuali propositi, dato che un giorno avesse in sua mano la somma delle cose. Durante tutti quegli anni di necessario infingimento, il giovane entusiasta, che, in mezzo alle cure della guerra e del governo, non dimenticava mai lo studio e la meditazione, s'infervorava nel suo amore per l'Ellenismo, nel suo desiderio di poterlo salvare dalle minacce del Cristianesimo invadente, con un ardore intimo, reso, direi quasi, più intenso dall'impossibilità di espandersi apertamente. Ma egli non si è mai compromesso con un atto che potesse poicreargli, nella pericolosa posizione in cui si trovava davanti a Costanzo, difficoltà insuperabili. Anzi, noi abbiamo veduto come, già creato imperatore dai suoi soldati, mentre però ancora non s'era risoluto alla guerra civile e sperava in un accordo con Costanzo, partecipasse, con una prudenza tanto grande che può dirsi simulazione, alla festa solenne dell'Epifania.[pg!268]Ma, quando, svanita ogni illusione di accordo, Giuliano si gettò nell'avventura, che doveva parer disperata, di marciare contro Costanzo, egli depose la maschera, e, risoluto di giocare il tutto pel tutto, si rivelò restauratore della religione antica. Non è ben chiaro ch'egli facesse atto pubblico di fede politeista, prima della sua partenza dalla Gallia, ma, durante il viaggio dalla Gallia a Sirmio, diede apertamente, con una certa ostentazione, alla sua spedizione il carattere di un'impresa posta sotto il patrocinio degli dei. Giuliano stesso ce lo dice, in una lettera da lui diretta al suo venerato maestro, il filosofo Massimo, e scritta, appunto, mentre egli era in marcia verso i Balcani. In mezzo alle cure urgenti da cui è premuto, Giuliano è grato agli dei che gli permettono di poter scrivere a Massimo, e che spera gli permetteranno di rivederlo. Egli protesta, e chiama in testimonio gli dei, di esser diventato imperatore contro la sua volontà 262. Poi, con quella facilità e grazia di descrizione che gli è naturale, racconta l'incontro da lui fatto, con un inviato di Massimo stesso, e gli esprime tutta l'ansia che aveva provata al pensiero dei pericoli ai quali il maestro e l'amico del Cesare ribelle poteva esser esposto. Infine chiude la lettera parlando del favore con cui gli dei accompagnano la sua impresa che si compie senza violenza e con grande facilità , e così finisce: «Noi adoriamo gli dei apertamente, e la maggior parte dell'esercito che mi accompagna è devoto ad essi. Noi sacrifichiamo in faccia a tutti, ed offriamo agli dei il dono di molte ecatombi. Gli dei mi comandano di santificare ogni mia azione, ed io obbedisco con [pg!269] tutta l'anima, ed essi mi assicurano grandi frutti della mia impresa, pur che si persista»263. Qui si sente la fiducia e l'entusiasmo del riformatore che è ai primi suoi passi, ed a cui tutto par facile e pieno di speranze. Basteranno pochi mesi a fargli perdere le illusioni, così da indurlo a scrivere quello sfogo di amarezza che è ilMisobarba!Morto il cugino, Giuliano, proclamato imperatore, pel consenso di tutti, fatto il solenne ingresso in Costantinopoli, diede alla sua volontà la sanzione della legge. «Scomparso — scrive Ammiano Marcellino — ogni pericolo ed acquistata la facoltà di fare tutto ciò che volesse, Giuliano aperse i segreti del suo cuore e, con chiari e precisi decreti, stabilì che si spalancassero i templi, si presentassero le vittime agli altari, si restituisse il culto degli dei»264.Che Giuliano prendesse queste risoluzioni, appena avuta la piena libertà d'azione, era nell'ordine naturale delle cose. Ma quale è stata la sua condotta nei rapporti col Cristianesimo, in cui vedeva un odiato nemico col quale iniziava un duello mortale? Qui è il punto più interessante dello studio che stiamo facendo sulla persona e sulle azioni dell'imperatore Giuliano. La prima mossa ch'egli fece indicò chiaramente l'indirizzo che intendeva di prendere. Mentre provvedeva alla riapertura dei templi ed alla restaurazione del culto pagano, chiamava nel suo palazzo i capi della Chiesa cristiana, divisa, come sappiamo, in due partiti che si detestavano a vicenda, ed, in presenza della plebe cristiana, ammessa anch'essa al cospetto dell'imperatore, li ammoniva cortesemente, [pg!270] affinchè, sopite le discordie, ognuno servisse la propria religione, senza paura di nessun divieto —ut, discordiis consopitis, quisque, nullo vetante, religioni suæ serviret intrepidus—265. Con questo discorso ai Cristiani di Costantinopoli, Giuliano riprendeva quel principio di tolleranza religiosa che, inaugurato da Costantino col decreto di Milano, poi da lui dimenticato, doveva spegnersi con Giuliano per non risorgere che dopo quindici secoli di completo oscuramento. A tale principio, Giuliano è rimasto fedele in tutta la sua breve carriera. I polemisti e gli storici cristiani, Gregorio di Nazianzo, Socrate, Sozomene, Rufino, si battono i fianchi per porre in cattiva luce l'azione dell'imperatore, ma non riescono, in nessun modo, a farne un persecutore. Certo, qualche atto di violenza è avvenuto, durante il breve suo regno. Ma era la conseguenza inevitabile delle passioni partigiane e delle abitudini del tempo. L'acerbo Gregorio insinua che Giuliano era lieto di lasciar mano libera al popolo, per riservare a sè stesso la parte più nobile di chi vuol convertire con la persuasione, e afferma che il suo scopo era di far violenza ai Cristiani, senza però dare ad essi l'opportunità di atteggiarsi a martiri266, ciò che, in realtà , equivale al riconoscimento, da parte del polemista, che non è constatabile nessuna violenza, voluta dall'imperatore. Rufino deve pur ammettere che Giuliano, più astuto dei suoi predecessori, invece delle inutili crudeltà , applicava le lusinghe, i premi, le esortazioni. E Socrate che usa la parolapersecuzione, dichiara ch'egli comprende, sotto quel nome, qualsiasi [pg!271] atto che possa disturbare, anche nel più lieve modo, delle persone tranquille267.Certo, gli storici ecclesiastici ci narrano alcuni episodi, da cui risulterebbe giustificata la taccia di persecutore attribuita a Giuliano. Ma, non bisogna dimenticare che quegli storici scrivevano un secolo dopo la morte di Giuliano, quando la leggenda si era già formata, e che, privi, com'erano, di ogni senso critico, quanto più una notizia era inverosimile, e tanto più era loro accetta. Di alcune di quelle storie il carattere leggendario è troppo evidente, perchè si possa, in alcun modo, prenderle sul serio; di altre, che forse contengono qualche elemento di verità , non si deve far risalire la responsabilità all'imperatore. Che Giuliano, avuto il potere in sua mano, tendesse ad usarne a vantaggio della causa ch'egli difendeva, che, pertanto, nei suoi giudizî, non adoperasse coi due partiti, una bilancia assolutamente eguale, che le sue preferenze pei Pagani si rivelassero con segni manifesti, lo si può riconoscere e si può anche scusare, perchè, infine, Giuliano era un uomo che mirava ad un determinato scopo, ed era inevitabile che, nello studio per raggiungerlo, si lasciasse trascinare qualche passo più in là di quello che una rigorosa imparzialità avrebbe voluto. Ma questa non può dirsi persecuzione. La persecuzione consiste nel ricercare e nel punire gli avversari solo perchè avversari, nel prendere l'iniziativa di atti diretti a distruggerli, nell'usare la violenza come arma regolare e legittima. Ora, di ciò non è traccia nella condotta di Giuliano. Se fu presa, durante il suo breve regno, qualche misura di rigore, ciò fu opera quasi sempre di prefetti [pg!272] che interpretavano, a loro modo, l'intenzione dell'imperatore, e, quello che più conta, fu la conseguenza di tumulti e di disordini, di cui i Cristiani avevano la colpa principale. Così, dato anche che fosse esatta la notizia, in parte evidentemente leggendaria, riferita da Socrate, del martirio di Teodulo e di Taziano, per ordine del prefetto della provincia di Frigia, bisogna notare che quei due, infiammati di zelo, si erano posti alla testa di una sommossa di Cristiani e, penetrando in un tempio appena riaperto nella città di Mero, avevano spezzate tutte le statue degli dei268. Pretendere che il governo di Giuliano assistesse impassibile ad azioni come questa, e chiamarlo persecutore, perchè un suo magistrato ne ha puniti gli autori, è cosa da polemista, non è cosa da storico.Giuliano, come tutti i riformatori si sarà illuso che il giorno in cui egli potesse manifestare la sua idea ed inaugurare un'era nuova, il mondo gli sarebbe caduto ai piedi. Ma, invece, toccato il potere, egli trovò un'inaspettata resistenza e sentì che l'impresa era assai più ardua di quanto imaginasse. Da qui un turbamento nel suo giudizio, ed un sentimento di irritazione che diede una certa asprezza alla sua azione, nell'ultimo periodo nel suo regno. Ma non si può dire ch'egli rinnegasse mai i principi razionali a cui s'era ispirato e che partecipasse al cieco pregiudizio che aveva promosso la spietata e stolta persecuzione degli imperatori precedenti. Del resto, la moderazione di Giuliano è riconosciuta, esplicitamente, come osservammo, dallo stesso Socrate, il quale dice che Giuliano, avendo constatato che le recenti vittime della persecuzione di Diocleziano erano onorate dai Cristiani [pg!273] e che, col loro esempio, li eccitavano ad affrontare il martirio, prese una via diversa. Depose la crudeltà di Diocleziano, ma non per questo si astenne dal perseguitare, perchè, soggiunge Socrate, «io chiamo persecuzione il disturbare, in qualsiasi modo, la gente tranquilla»269.Ora i modi con cui Giuliano disturbava la gente tranquilla ed esercitava la sua persecuzione sarebbero stati, secondo Socrate, il famoso divieto ai Cristiani di insegnare lettere greche — e di questo parleremo, più avanti, — il non volere nella reggia, presso la sua persona, dei soldati cristiani, il non voler affidare ai Cristiani il governo delle provincie, il cercar di persuadere, con le blandizie e coi doni, i Cristiani oscillanti a ritornare al culto degli dei, e, finalmente, l'essersi procurato un tesoro di guerra, per la spedizione di Persia, col mezzo di multe inflitte ai Cristiani che si ostinavano a non convertirsi. Di questi modi di persecuzione, è chiaro che solo l'ultimo potrebbe dirsi propriamente riprovevole, sebbene sempre assai lontano dall'abituale atrocità degli imperatori che davvero avevano perseguitato. Ma di questo provvedimento tirannico non abbiamo nessuna prova contemporanea, nessun accenno nè in Libanio, nè in Ammiano, nè in Giuliano stesso. Che ci sia stato qualche atto di prevaricazione è assai probabile, ma una propria e vera legge che ponesse i Cristiani in una difficile condizione finanziaria non esistette che nella fantasia degli storici posteriori.Sozomene, come al solito, si attiene all'esposizione di Socrate, amplificandola ed intensificando il colorito leggendario. Le scene di martirio, da lui narrate, anche [pg!274] se fossero veritiere, non si potrebbero far risalire alla responsabilità dell'imperatore, senza porre in contraddizione con sè stessi Socrate e Gregorio, i quali riconoscono la tolleranza di Giuliano, pur attribuendola ad un calcolo perfido. Una notizia interessante che troviamo in Sozomene è quella dell'abolizione dei privilegi di cui godeva il clero cristiano, abolizione che, certo, sarà stata considerata acerba persecuzione. Giuliano tolse ad esso l'esenzione di cui godeva delle imposte e le prebende di cui era stato investito da Costantino e da Costanzo, ed obbligò i suoi membri a rientrare, se chiamati, nei consigli comunali, ciò che era quasi sempre un forte gravame, per la responsabilità dei singoli consiglieri nel pagamento delle tasse e delle spese municipali, un gravame a cui i cittadini cercavano ansiosamente di sfuggire. Questa persecuzione amministrativa è lamentata da Sozomene, come poco meno dannosa della crudeltà degli antichi imperatori. Ma la storia imparziale deve pur riconoscere che il meno che Giuliano potesse pretendere, dal momento che voleva restaurare il Paganesimo, era di togliere i privilegi dei Cristiani e di porre tutti i cittadini sul piede dell'eguaglianza270.â¦La tolleranza di Giuliano è dimostrata e commentata da Libanio, nel discorso necrologico, in modo da non lasciar dubbio che essa costituisse propriamente, per l'imperatore, un principio fondamentale di condotta. [pg!275] Dopo aver narrato come Giuliano rendesse i dovuti onori alla salma del suo nemico Costanzo, Libanio ci dice ch'egli inaugurava il culto degli dei «rallegrandosi di coloro che lo seguivano, deridendo gli oppositori, tentando di persuadere, ma non lasciandosi mai indurre a far violenza»271. Eppure, continua Libanio, non gli mancavano gli eccitamenti a rinnovare le sanguinose persecuzioni d'un tempo, ma Giuliano stette fermo, convinto che «non è col ferro e col fuoco che si può imporre la rinuncia ad un falso concetto degli dei, poichè se anche la mano sacrifica, la coscienza rimprovera272ed allora si ha un'ombra di conversione, non già un cambiamento di opinione273. E poi avviene che, più tardi, costoro ottengono il perdono, mentre quelli che furono uccisi, vengono onorati al pari degli dei. Persuaso dunque di tutto ciò, e vedendo che dalla persecuzione la causa dei Cristiani ha giovamento, se ne astenne. Coloro che volevano il bene, egli li addusse alla verità , ma non fece violenza a quelli che amavano il male274..... Egli godeva nel visitare le città che avevano conservati i templi, e le credeva meritevoli dei suoi benefici; quelle che, in tutto o in parte, si erano staccate dal culto degli dei, egli le riteneva impure, ma dava loro, come agli altri sudditi, ciò di cui avevano bisogno, certo non senza dispiacere»275.[pg!276]Giuliano, nella sua carriera, non ebbe che un solo momento di rigore eccessivo, al dire dello stesso Ammiano, un momento in cui lasciò libero sfogo allo sdegno che gli si era accumulato nel cuore. Entrato in Costantinopoli, trovò il palazzo imperiale pieno dei cortigiani di Costanzo. Costoro formavano una casta che, fattasi opulenta con le spoglie dei templi e con ogni abuso, dava un esempio spaventoso di corruzione, di lusso e di vizio276. Giuliano li cacciò via, con una precipitazione che, secondo l'onesto Ammiano Marcellino, gli tolse la serenità del giudizio e la possibilità di qualsiasi scelta. Ma, insieme a costoro, Giuliano trovava gli alti ufficiali e consiglieri di Costanzo, primo, fra tutti, quello sciagurato eunuco Eusebio, che era stato l'istigatore dell'assassinio di Gallo e il più implacabile nemico ch'egli avesse presso il cugino. Giuliano non seppe trattenere il desiderio della vendetta, e nominò una commissione inquirente e giudicante, a cui deferirli, e questa, credendo di seguire le intenzioni dell'imperatore, infierì contro gli accusati, macchiando di sangue, non sempre giustamente sparso, l'esordio del regno277.La corte di Costanzo era stata tutta cristiana, perchè Costanzo era un cristiano intollerante, che non avrebbe permessa, vicino a sè, la presenza di un cortigiano che fosse rimasto fedele alla religione antica, e cristiani erano, dunque, gli intimi suoi consiglieri di cui Giuliano si prese vendetta. Ma ci voleva davvero l'acciecamento partigiano di Gregorio per insinuare che Giuliano, nell'infliggere le pene, era spinto non già dall'odio contro i consiglieri di Costanzo quanto dall'odio [pg!277] contro i Cristiani, come se fosse possibile che l'imperatore iniziasse una persecuzione sanguinosa proprio nei giorni in cui chiamava i Cristiani alla sua Corte, per invitarli alla concordia e per annunciar loro la piena e sicura libertà di culto! Che i cortigiani di Costanzo fossero cristiani e che, da questa circostanza, Giuliano traesse una ragione per condannare, nel suo giudizio, anche il Cristianesimo, è chiaro e naturale. Ma ciò non toglie che, nella sua condotta, egli fosse mosso da sentimenti in cui il parteggiamento religioso non entrava per nulla. Ciò vediamo, in tutta luce, in una lettera da lui diretta all'amico Ermogene, proprio nei giorni in cui aveva nominata la Commissione inquirente: «Permettimi di esclamare, come un parlatore poetico. — Oh! io che non sperava d'essere salvato, non sperava di udire che tu sei scampato dall'idra dalle tre teste! — Per Giove, non credere che io parli di Costanzo! Costui era quello che era. Voglio parlare di quelle belve che erano intorno a lui e che spiavano tutti, e che lo rendevano ancor più crudele: e sì che, per sè stesso, non era affatto mite, sebbene a molti paresse tale. Ma a lui, dal momento che è morto, sia lieve la terra, come si dice. Quanto a coloro, Giove lo sa, io non vorrei che avessero a soffrire contro giustizia. Ma, siccome si presentano molti accusatori, io ho istituito un tribunale. Tu, intanto, amico mio, vieni, e cerca di affrettarti più che puoi. È già da tempo che io supplico gli dei che ti possa vedere, ed ora che tu sei salvo, con massima letizia ti esorto a venire«278.E in un'altra lettera, deplorando certi soprusi sofferti [pg!278] dagli Ebrei, Giuliano ne dà la responsabilità a coloro che «barbari nel giudizio, empi nell'anima, sedevano alla sua mensa, e che io, prendendo nelle mie mani, ho annientati, scagliandoli nel baratro, così che io non abbia più a sopportare nemmeno la memoria della loro scelleraggine»279.È indubitabile, pertanto, che anche questo, che pure fu il solo atto duro e spietato, commesso da Giuliano, non può dirsi, per nessun modo, un episodio di persecuzione. Giuliano, come vedremo dalle sue lettere, è rimasto fedele al principio da lui posto, inaugurando il suo regno, il principio della tolleranza religiosa. Questo principio armonizzava con le tendenze del suo spirito equanime e ragionatore, al quale ripugnava la violenza. Egli aveva l'amore della discussione e del dibattito logico, e, del resto, doveva comprendere, anche senza il recente insuccesso di Diocleziano, come dovesse riuscire del tutto inefficace, anzi, impossibile una persecuzione contro una religione che aveva ormai invasa, certo, più della metà dell'impero. Ma noi crediamo, però, che vedesse pur bene ed acutamente Ammiano Marcellino, quando attribuiva la tolleranza religiosa di Giuliano anche ad un calcolo di abilità opportunista280. Le discordie intestine del Cristianesimo erano un lievito potente di dissoluzione, erano l'impedimento più forte alla costituzione di una Chiesa che potesse imporsi con un'autorità assoluta ed indiscussa. La tolleranza era una virtù che il Cristianesimo ignorava affatto, una virtù che era in contraddizione con le sue tendenze essenziali, una virtù che [pg!279] diventava per lui un vizio. L'intolleranza dogmatica era un fenomeno nuovo nel mondo, era la conseguenza necessaria del fatto che, intorno al nucleo monoteista della fede, si formava un complesso di dottrine metafisiche, le quali venivano a far parte integrante della religione, come una manifestazione di verità divina. Da qui la conseguenza che l'eresia diventava una colpa, che i dissensi intestini nel Cristianesimo non potevano essere tollerati, e che i Cristiani di parti avverse si guardavano e si combattevano gli uni gli altri, con un odio assai maggiore di quello che tenevano in serbo pei Pagani. Ora, Giuliano, abilmente, ed era arte di buona guerra, volle e seppe approfittare di tale condizione di cose per indebolire il nemico. E, siccome l'Arianesimo, avendo stretta alleanza con Costanzo, era diventato potentissimo, era diventato una vera religione di Stato, che aveva perseguitati e cacciati in bando i vescovi atanasiani. Giuliano non esitò un istante a pubblicare un decreto con cui concedeva agli esigliati la facoltà del ritorno in patria281, non dubitando, e con ragione, che, dal contatto delle due parti, si sarebbe immediatamente riacceso il foco delle ire e delle lotte. Qui stava propriamente il pericolo pel Cristianesimo. E Giuliano qui mostrava una grande acutezza. Se Giuliano fosse ritornato vittorioso dalla Persia ed avesse avuto un lungo regno, il Cristianesimo, abbandonato a sè stesso, divorato dalle sue discordie, poteva consumarsi e forse trasformarsi essenzialmente. Il Cristianesimo, fosse ariano, fosse atanasiano, aveva ormai bisogno del braccio imperiale. Il Cristianesimo, tralignato dalle sue origini, non poteva vivere che a [pg!280] patto d'essere intollerante. E l'intolleranza, per essere efficace, richiede d'aver per sè la forza materiale. La morte prematura di Giuliano rese possibile, pochi anni dopo, a S. Ambrogio di dare, con l'aiuto di Graziano e di Teodosio, la vittoria definitiva al dogmatismo cattolico.â¦Le lettere di Giuliano, fra le quali, insieme a confidenze amichevoli, troviamo decreti e manifesti imperiali, ci danno il modo migliore e più sicuro di penetrare nelle intenzioni di lui e di giudicare la sua condotta nelle sue relazioni coi Cristiani. Che, malgrado l'odio cordiale che sentiva per questi, Giuliano volesse astenersi da ogni atto di violenza contro la loro persona e non esitasse a condannar questi atti, quando avvenivano all'infuori della sua volontà e per effetto di passioni popolari, è dimostrato dai più chiari documenti. Ad Artabio egli scrive: «Per gli dei, io voglio che i Galilei non siano uccisi nè maltrattati contro giustizia, nè che abbiano a soffrire danno alcuno. Dico solo che si devono tenere in maggior conto gli adoratori degli dei, poichè, la stoltezza dei Galilei ci manderebbe in rovina, se non fossimo salvati dalla benevolenza degli dei»282. E in un manifesto diretto agli abitanti di Bostra, in occasione di minacciati tumulti fra Cristiani e Pagani, così conclude: «Mettetevi d'accordo e nessuno commetta violenza od ingiustizia. I traviati [pg!281] non devono offendere chi adora gli dei rettamente e giustamente, secondo le norme date a noi da tutta l'eternità , e gli adoratori degli dei, dal canto loro, non devono assalire le case di quelli che errano più per ignoranza che per convinzione. Dobbiamo persuadere ed istruire gli uomini con la ragione, non già con le percosse, con le violenze o coi tormenti del corpo. Ora, come già da tempo, io esorto coloro che procedono nella via della vera pietà di non recar danno alle turbe dei Galilei, di non dar loro addosso, di non far loro violenza. Noi dobbiamo non già odiare, ma compiangere coloro che hanno una cattiva condotta nelle cose di suprema importanza. Ora, il massimo dei beni è la pietà , e il massimo dei mali è l'empietà . Coloro che, abbandonando il culto degli dei, si son dati a quello dei morti e delle reliquie trovano in sè stessi il loro castigo. Noi dobbiamo compiangerli, come compiangiamo chi è affetto da qualche malattia, mentre ci rallegriamo di quelli che dagli dei furono liberati e salvati»283.Certo, non si può essere più espliciti, più ragionevoli e temperati, dirò anche, più moderni di quello che è Giuliano nelle sue dichiarazioni: più moderni, perchè il principio di tolleranza religiosa, posto dal restauratore del Paganesimo, non doveva rivivere se non quando fosse caduto l'impero del dogmatismo infallibile. Ma Giuliano doveva trovare qualche difficoltà ad applicare intieramente quel suo principio, in mezzo alle accese passioni popolari. I Cristiani, diventati, dopo Costantino, dominatori della posizione, eran diventati a loro volta persecutori, ed avevano, in più luoghi, distrutti e saccheggiati i templi antichi. Era, [pg!282] dunque, inevitabile che nascesse nei Pagani tornati al potere, il desiderio della rappresaglia. Ma la situazione, già intricata per sè stessa, lo diventava ancor di più per le discordie intestine del Cristianesimo, discordie che, come notammo, tornavano a vantaggio di Giuliano, ma che pure egli non poteva lasciar divampare, senza ferir quel principio di rispetto e tolleranza reciproca che doveva essere il perno della sua politica religiosa. Come Giuliano si destreggiasse in mezzo a queste difficoltà , lo vediamo nell'episodio dell'uccisione del vescovo Giorgio d'Alessandria.Sotto il regno di Costanzo era governatore d'Alessandria un suo fidato consigliere, Artemio, e vescovo l'ariano Giorgio. L'uno e l'altro, per le loro delazioni al sospettoso imperatore e per la tirannia crudele del loro governo, erano odiati dal popolo di una città , la quale, come dice Ammiano Marcellino, il verace narratore dell'episodio284, era sempre pronta alle sommosse, appena se ne presentasse l'occasione. Successo Giuliano, egli fece venire a Costantinopoli Artemio, che, trovato reo di grandi delitti, fu condannato a morte. Gli Alessandrini, che avevano, per qualche tempo, vissuto nel timore di un possibile ritorno di Artemio e di una ripresa del suo crudele arbitrio, avuta la notizia della sua morte, insorsero contro il vescovo Giorgio, il quale poi era specialmente odioso alla parte pagana della popolazione alessandrina, perchè eccitava i Cristiani alla distruzione dei templi. Giorgio fu miseramente massacrato dalla turba furente, e lo furono con lui due suoi compagni di fede e di intrighi, Draconzio e Diodoro. I cadaveri furono bruciati, e le ceneri disperse nel mare, pel timore che le loro tombe, [pg!283] come quelle dei martiri, diventassero luoghi sacri. Ammiano osserva che i Cristiani, se avessero voluto, avrebbero potuto impedire il misfatto, ma rimasero, invece, spettatori inerti. Probabilmente questi inerti Cristiani erano i fautori di Atanasio, ai quali la morte dell'ariano Giorgio non sarà stata sgradita.Giuliano, che confondeva in un odio solo, e col solo nome spregiativo di Galilei, Ariani ed Atanasiani, non doveva, dal suo punto di vista di restauratore del Paganesimo, essere scontento di una così chiara prova dello zelo degli Alessandrini. Ma egli era imperatore e si atteggiava a reggitore imparziale e giusto. Non poteva, quindi, lasciar passare impunito il delitto. E Ammiano ci narra che, infatti, egli era risoluto a infliggere il meritato castigo. Ma gli amici, che gli stavano al fianco, e che, come sempre avviene, erano più imperialisti dell'imperatore, lo persuasero a limitarsi all'invio di un editto, che rimproverasse gli Alessandrini, lasciandoli, nel fatto, impuniti. Questo editto, che ci è conservato integralmente, è di un grande interesse per la conoscenza di Giuliano e del suo indirizzo governativo:«L'imperatore Cesare Giuliano Massimo Augusto al popolo degli Alessandrini».«Se anche voi non rispettate il vostro fondatore Alessandro e, meglio ancora, il grande e santissimo dio Serapide, come mai, vi domando, non vi venne il pensiero del vostro dovere davanti all'Impero ed all'umanità ? Aggiungerò anche il pensiero di noi, che gli dei tutti e, fra i primi, il grande Serapide, credettero degni di governare la Terra? Di noi, che avevamo il diritto di istituire il processo contro coloro che vi avevano offeso? Ma, forse, vi trasse in inganno l'ira e la passione, la quale è solita [pg!284] a fare il male ed a sconvolgere il giudizio, così che voi, malgrado il vostro impulso che, sulle prime vi aveva ben consigliato, siete poi corsi a trasgredire la legge, e non vi vergognaste di commettere, tutti insieme, quei delitti, che, giustamente, condannaste negli altri.«In nome di Serapide, ditemi, per quale colpa inferociste contro Giorgio? Risponderete, certo, che egli eccitava contro di voi Costanzo, e introdusse un esercito nella città sacra, e indusse il governatore dell'Egitto ad impadronirsi del tempio più venerato del dio, violando le imagini, le offerte votive e gli ornamenti sacri. Contro di voi che, infiammati di uno sdegno ben naturale, tentavate di difendere il dio, dirò meglio, la proprietà del dio, il governatore, iniquamente, illegalmente ed empiamente, mandò i suoi soldati, temendo, più che Costanzo, Giorgio, il quale lo sorvegliava, se mai si comportasse con voi, non già tirannicamente, ma con temperanza e civiltà . Irritati, perciò, contro quel nemico degli dei che era Giorgio, avete deturpata la sacra città , mentre voi potevate consegnarlo ai voti dei giudici. E così non vi sarebbe stata uccisione nè delitto, ma giustizia perfetta, che avrebbe difeso voi innocenti, e punito quello scellerato sacrilego, e, insieme, resi saggi tutti gli altri, quanti sono, che non rispettano gli dei, e non hanno riguardo a città come la vostra, ed a popoli fiorenti, e ritengono la crudeltà quasi un'appendice della loro potenza. Confrontate questa mia lettera con quella che vi mandai, ora è poco tempo, e vedete la differenza! Quante lodi io vi faceva! E anche ora vorrei lodarvi, ma non lo posso, per la vostra trasgressione. Il popolo vostro ha osato, come i cani, sbranare un uomo; e poi non si è vergognato [pg!285] di innalzare agli dei delle mani lorde di sangue! Ma Giorgio, voi dite, meritava questo castigo. Certo, io rispondo, anzi uno più grave e più acerbo. Per causa vostra, voi direte. Lo ammetto. Ma se voi diceste, per mano vostra, io direi di no. Poichè vi sono leggi che ognuno di voi deve onorare ed amare. E, se avviene che taluno le trasgredisce, voi, nella vostra maggioranza, dovete seguirle ed obbedirle, e non traviare da ciò che in antico fu provvidamente istituito. Siete ancora fortunati, o Alessandrini, di aver commessa la colpa vostra, sotto l'impero mio, poichè, per rispetto alla divinità e per riguardo al mio zio e mio omonimo, che ha governato l'Egitto e la vostra città , io serbo per voi una benevolenza fraterna. Ma una autorità rigorosa e pura tratterebbe l'audacia colpevole del popolo come una grave malattia che bisogna risanare con acerba medicina. Eppure io vi presento, per le ragioni che ho testè dette, ciò che vi sarà ben più grato, esortazioni e ragionamenti, dai quali ben so che voi sarete persuasi, se voi siete, come mi si dice, Greci d'antica stirpe e se di quella origine rimane ancora la traccia mirabile e gentile nell'animo vostro e nelle vostre abitudini.«Ciò si renda noto ai miei cittadini di Alessandria»285.Quando si riflette che questo editto è uscito dalla penna del più convinto nemico che abbia avuto il Cristianesimo, non è possibile non vedervi un esempio di moderazione e di padronanza delle passioni. Il vescovo Giorgio doveva essere doppiamente odioso a Giuliano, e come cristiano intollerante, e come amico e confidente di Costanzo. Pertanto la sommossa [pg!286] degli Alessandrini poteva esser considerata da lui come una prova di zelo e di devozione, come la dimostrazione più solenne del favore che la restaurazione, da lui iniziata, trovava nella capitale del commercio e del pensiero d'Oriente. Ma Giuliano, fedele al suo programma, non vuole nè sangue, nè violenze, nè turbolenze. Egli, certo, non permetteva la violenza dei Cristiani che correvano a perseguitare chi non credeva ciò che essi credevano, ma non permetteva nemmeno la violenza dei Pagani che da sè stessi si facevano giustizia. L'ordine nella tolleranza reciproca era il suo programma, ed egli ancor s'illudeva che il Paganesimo avesse in sè tanta forza d'attrazione che, riposto nella libertà della sua azione e del suo svolgimento, avrebbe visto ritornare a lui le turbe guarite del loro traviamento!Se non che l'ordine nella tolleranza non era facile a conservarsi, in mezzo alle passioni esaltate. L'esempio degli Alessandrini fu seguito, a quel che narra Sozomene286, in altre città , a Gaza, ad Aretusa di Siria, dove avvennero tumulti e scene di sangue, promosse da Pagani che si vendicavano di Cristiani, mentre altrove i Cristiani, non spaventati, anzi, parrebbe, irritati dall'inaspettata risurrezione del Politeismo, si riponevano con maggior ardore a distruggere i templi. Il fatto più grave fu quello di Cesarea di Cappadocia, dove la popolazione, in grande maggioranza, cristiana, dopo aver abbattuti i templi di Giove e di Apollo, distruggeva, regnante Giuliano, il tempio della Fortuna287. L'imperatore non rispose alla sfida che con [pg!287] castighi, certo, assai gravi, ma d'indole amministrativa. Depose il Prefetto della Cappadocia, confiscò i beni delle chiese cristiane, impose una multa pesante e tolse alla città i suoi privilegi. Ma sarebbe ingiustizia il dare a tale procedimento il carattere di una persecuzione. Dato il compito ch'egli si era imposto, Giuliano poteva lasciar tranquilli i suoi nemici, ma non poteva permettere che impunemente gli si ribellassero, e lo ferissero in ciò che più gli stava a cuore.â¦Coloro che accusano Giuliano di violenza e di persecuzione per questi atti di difesa dimenticano che il Cristianesimo, appena ottenuta, con Costantino, la vittoria, non seppe sottrarsi alle condizioni dei tempi e dei costumi, e divenne tosto persecutore a sua volta. Come saggio della intolleranza dei primi imperatori cristiani e della persecuzione da loro iniziata, valga questo decreto di Costanzo e Costante, promulgato nell'anno 353. «Decretiamo che, in ogni luogo ed in ogni città , siano chiusi i templi, che nessuno vi possa entrare, e che sia negata agli empi la licenza di delinquere. Vogliamo che tutti si astengano dal far sacrificio. Se taluno perpetrasse qualche cosa di simile sia ucciso con la spada vendicatrice. Decretiamo che le sostanze dell'ucciso siano attribuite al fisco, e vogliamo che siano puniti i governatori delle Provincie che fossero negligenti nel reprimere i delitti»288. Certo, nè un Decio nè un Diocleziano potevano [pg!288] far meglio. Ma il documento più interessante per farci conoscere l'oppressione esercitata dai Cristiani sui Pagani, è il discorsointorno ai templidiretto da Libanio all'imperatore Teodosio. Sebbene questo discorso sia posteriore di alcuni anni al regno di Giuliano, pure esso dipinge una condizione di cose che, già da tempo, esisteva, ed è sintomatico dello stato degli animi in mezzo al conflitto di due religioni ancora rivali. L'origine del discorso è questa. L'imperatore Teodosio, con parecchi decreti, e specialmente con uno diretto al Prefetto d'Oriente, Cinegio, nel 385, aveva confermata la disposizione dei precedenti imperatori, vietante i sacrificî. Tollerava però la continuazione di alcuni riti, come l'incensamento e la preghiera, e non aveva imposta e nemmeno incoraggiata la distruzione dei templi. Ma i Cristiani, tale incoraggiamento, pare lo trovassero nella logica delle cose, e, quindi, senza aspettare nè leggi, nè ordini imperiali, si ponevano all'opera di abbattere i templi, fra i quali insigni monumenti, coprendo, coll'apparenza del fanatismo religioso, privati interessi ed avidità di guadagno. Contro tale abuso Libanio innalza la sua voce in un discorso da lui diretto all'imperatore, la cui data può determinarsi nei sei anni che corsero dal 385 al 391289.Leggendo quel discorso si raccolgono le prove della decadenza, della corruzione morale in cui era precipitato il Cristianesimo, appena diventato dominatore. Questa impressione, che abbiamo già raccolta da tutti i documenti contemporanei, è confermata fortemente dal discorso di Libanio. Perchè costui potesse rivolgersi ad un imperatore, di fede cristiana, e quale [pg!289] imperatore! accusando così esplicitamente i Cristiani, e in particolare modo i chierici ed i monaci, di ogni sorta di soprusi, per la smania del lucro, bisogna pur dire che la verità dell'accusa fosse, almeno in parte, tanto lampante, da togliere ogni pericolo per chi osasse esporla e dichiararla. Noi vediamo, in Libanio, come il Politeismo si fosse ritirato dalle città nei campi, dov'era gelosamente conservato dai coloni, dagli agricoltori, i quali, con la tenacità della gente semplice e lontana dai perturbamenti sociali, adempivano le antiche cerimonie e chiamavano le note e care divinità a proteggere i loro lavori. È contro costoro che maggiormente si esercitava la prepotenza del clero cristiano che poi si arricchiva di spogliazioni, compiute in nome di un principio divino! Queste sono rivelazioni preziose. Per comprendere un movimento, come quello tentato da Giuliano, bisogna, dunque, ricordare che il Cristianesimo, perdendo affatto il suo carattere di rivendicazione morale e di sublime eroismo, si era abbassato alle condizioni del tempo, ed era diventato, nella realtà , una religione alla cui ombra pullulavano tutte le passioni e tutti i vizî che essa, se avesse effettivamente rigenerata la società , avrebbe dovuto estinguere.Ma, prendiamo qualche fiore dal mazzo di scherni e di accuse che ci offre Libanio. «Tu — egli dice, rivolgendosi a Teodosio — tu non hai ordinato che si chiudessero i templi, nè che nessuno vi avesse accesso, nè che si allontanassero dagli altari il fuoco e l'incenso o l'onore di altri profumi. Ma quella gente, vestita di nero, che mangia più degli elefanti, e che, per le ripetute bicchierate, dà un gran da fare a coloro che, quando canta, la provvedono di vino, e nasconde tutto ciò sotto una pallidezza artificiale, [pg!290] ad onta della legge, o imperatore, corre ai templi, alcuni portando bastoni e sassi e ferri, altri senza di ciò, nell'intento di adoperare le mani e i piedi. Quindi abbattono i tetti, scavano le pareti, strappano le statue, spezzano gli altari. E i sacerdoti devono o tacere o morire. Distrutti i primi templi, corrono ai secondi, poi ai terzi, e, contro la legge, accumulano trofei su trofei. Ciò si osa fare nelle città , ma molto più nei campi... Li percorrono, come torrenti, devastandoli, sotto il pretesto di distruggere i templi. E quando, in un campo, hanno abbattuto il tempio, è come se ne spegnessero ed uccidessero l'anima. Poichè, o imperatore, i templi sono l'anima dei campi, e furono il primo nucleo delle costruzioni cresciute, attraverso molte generazioni, fino allo stato presente. E nei templi son poste le speranze degli agricoltori per la prosperità degli uomini, delle donne, dei figli, dei buoi, delle seminagioni e delle messi. Un campo che ha sofferto tale danno, è rovinato, ed è perduta, insieme alle speranze, la confidenza degli agricoltori. Vano credono il loro lavoro, quando son privati degli dei che lo rendono proficuo... Così l'audacia di quella gente, che si esercita scelleratamente nei campi, conduce ai più deplorevoli risultati. Dicono di far guerra ai templi; ma la guerra si risolve nel rubare, nello strappare ai poverelli ciò che loro appartiene, le loro provviste, raccolte dal suolo, pel loro nutrimento, e se ne partono, portando via, come conquistatori, le spoglie dei debellati. E non basta, chè si appropriano la terra del primo malcapitato, dicendo che è terra sacra, e così molti, per questa parola falsa, son privati dei beni paterni. Ed essi, che pretendono di servire, così dicono, col digiuno il loro dio, gozzovigliano nei [pg!291] mali altrui. E se poi gli sventurati, andando alla città , si lamentano col Pastore (così chiamano un uomo tutt'altro che buono) ed espongono le loro sofferenze, il Pastore loda gli offensori e licenzia gli offesi, dicendo che hanno fatto un guadagno nel non aver sofferto di più. Eppure, o imperatore, anche questi infelici fan parte del tuo impero, e son tanto più utili dei loro offensori, di quanto i lavoratori son più utili degli oziosi. Quelli son simili alle api e questi ai calabroni. Appena essi hanno notizia di qualcuno che possegga un campicello di cui lo si può spogliare, tosto affermano che colui sacrifica e fa cose riprovevoli, e che bisogna far impeto contro di lui, ed ecco entrano in scena imoralisti290, poichè questo è il nome che danno ai ladri, se pure io non dico troppo poco, poichè i ladri cercano di nascondersi, e negano ciò che osano fare, e si ritengono offesi se li chiami ladri. Ma quelli invece si vantano di ciò che fanno, e sono rispettati, e lo narrano a chi lo ignora, e affermano di essere degni di premio..... E perchè mai, o imperatore, tu raccogli tanta forza, e prepari le armi, e chiami a consiglio i generali, e li spedisci dove maggiore è il bisogno, e a questi scrivi, a quelli rispondi? E perchè queste nuove mura, questi lavori estivi? A che mira, a che serve tutto ciò per le città e pei campi? A vivere senza timore, a riposare tranquillamente, a non esser turbati dalle minacce dei nemici, ad esser certi che, se alcuno ci venisse addosso, se ne andrebbe dopo aver subìto più che recato danni. E dunque se, mentre tu raffreni i nemici esterni, alcuni tuoi sudditi maltrattano altri che sono pure sudditi tuoi, e non permettono [pg!292] loro di godere dei beni comuni, non è, forse, vero che essi offendono la tua provvidenza, la tua saggezza e le tue cure? Non è, forse, vero che, con le loro azioni, essi fan guerra alla tua volontà ?»291.In questo appello, nel quale lo scherno si unisce all'invettiva ed al ragionamento, Libanio ci pare davvero eloquente e pieno di abilità . E si sente nella parola dell'oratore un accento di verità , il sentimento di un diritto offeso, il grido dei vinti ingiustamente calpestati. Gli uomini non mutano nelle loro passioni. I Cristiani, diventati vittoriosi, avevano preso il posto dei dominatori di prima, e rinnovavano, in nome di un nuovo principio, quei procedimenti e quegli eccessi che già erano stati compiuti, in nome di un principio opposto. E Libanio, da pagano perseguitato, confuta energicamente l'argomento che i Cristiani persecutori presentavano a difesa delle loro violenze, cioè, che con esse costringevano i Pagani a convertirsi. Con tale procedimento, dice Libanio, non si ottengono che [pg!293] conversioni di apparenza. Ed allora, esclama Libanio, quale vantaggio ne avranno i Cristiani, se i nuovi convertiti lo saranno a parole, ma nol saranno a fatti? «In cose di questa natura bisogna persuadere e non costringere. Colui che, non potendo persuadere, usa la violenza, sebbene creda di riuscire, in realtà non riesce a nulla»292. Ma la colpa di questa tristissima condizione di cose non è di Teodosio, pel quale l'abile e prudente Libanio non ha che parole di lode, ma di un perfido consigliere. E par che Libanio voglia indicare Cinegio, prefetto d'Oriente, marito di Acantia, matrona che godeva fama di santità . «Questo uomo ingannatore, empio e nemico degli dei, e crudele e avaro, funesto alla terra che lo riceve, godendo di una fortuna irragionevole e male usandone, è servo della moglie, a cui compiace in ogni cosa, a cui tutto subordina. E costei deve, a sua volta, obbedire a coloro che le si impongono, e che fanno pompa di virtù coll'indossare vesti di lutto, anzi, per pompa ancor maggiore, vesti di quella tela di cui i tessitori fanno i sacchi. Questa combriccola inganna, illude, agisce sotto mano, e dice il falso»293. Curioso, davvero, questo quadretto di un prefetto d'Oriente che è guidato dalla moglie, la quale, a sua volta, è guidata dai monaci! E come è strana la diversità dei giudizî degli uomini, a seconda del colore della lente passionale con cui guardano gli oggetti! Libanio vede la perfidia ed il ridicolo, là dove un Gregorio ed un Atanasio avranno veduto l'espressione più pura della santità delle intenzioni e della condotta![pg!294]Ma Teodosio, dice Libanio, non ha mai emanata nessuna legge che sanzionasse questi eccessi. «Tu non hai mai imposto questo giogo all'anima umana. E se credi che il culto del tuo dio sia preferibile al culto degli altri, non hai dichiarato che questo sia un'empietà , e che giustamente lo si possa vietare». Chè, anzi, egli chiama presso di sè, come consiglieri e commensali, uomini notoriamente devoti agli dei, e non diffida di un amico, perchè ripone negli dei le sue speranze. E, ricordando Giuliano, la cui imagine non è mai lontana dal pensiero di Libanio, egli esclama: «tu non ci perseguiti, imitando colui che, coll'armi ha sconfitti i Persiani, ma coll'armi non ha perseguitati quelli dei suoi sudditi che gli erano nemici.»294.â¦Durante il soggiorno di Giuliano in Antiochia avvenne un fatto che lo ha singolarmente irritato. Non v'era cosa che fosse più ripugnante a Giuliano del culto che i Cristiani rendevano ai sepolcri dei loro martiri, dei loro uomini illustri. Questa adorazione dei morti, com'egli la chiamava, offendeva il suo senso estetico di antico greco, gli pareva assurda, e probabilmente gli era odiosa come uno dei mezzi più efficaci per esaltare gli animi in un'aspirazione devota. Quando viene a toccare di questo culto dei morti, egli ha sempre qualche parola di disprezzo o di sarcasmo, e, più ancora, che la distruzione delle chiese, egli desiderava la scomparsa o l'abbandono di quelle tombe che erano diventate luoghi sacri. Tale era appunto la [pg!295] tomba del martire Babila che si trovava nel sobborgo di Dafne, presso Antiochia. Quel sobborgo era un luogo di delizie per la bellezza delle piante e dei fiori, per la vista e la giocondità dell'aura. La leggenda narrava che lì la ninfa Dafne, fuggendo da Apollo, si fosse trasformata in lauro. E questa memoria, congiunta all'eccitante amenità del luogo, faceva dei boschetti di Dafne il ritrovo degli amanti. «Chi — dice Sozomene — passeggiava per Dafne, senz'essere accompagnato da un'amante, era considerato come un uomo stolto e rozzo»295. E, in mezzo a quei boschi, sorgeva la più bella statua d'Apollo, e vicino uno splendido tempio di marmo, dedicato al dio.Se non che, quando Gallo, il fratello di Giuliano, fatto Cesare da Costanzo, e investito del governo d'Oriente, si stabilì in Antiochia, gli venne il pensiero, da quell'esaltato cristiano ch'egli era, di togliere il prestigio a quel famoso santuario dell'Ellenismo, e, per riuscirvi, pensò di costrurre, in faccia al tempio d'Apollo, un tabernacolo e di portarvi le reliquie del martire Babila. Pare che lo scopo, voluto da Gallo, fosse stato raggiunto. La presenza delle reliquie del martire, chiamando nei boschetti profumati di Dafne le turbe devote dei Cristiani, allontanava gli amanti, e spargeva un'aria di tristezza in cui spariva il sorriso del raggio apollineo.Avvenuta la rivoluzione religiosa, Giuliano, entrato in Antiochia, volle restituire all'antico splendore il tempio ed il culto d'Apollo, e ciò non poteva farsi se non si trasportavano altrove le reliquie del martire, che deturpavano il luogo sacro. Ed infatti ordinò che si eseguisse il trasporto. Quest'ordine fu causa di [pg!296] una grande dimostrazione dei Cristiani d'Antiochia, i quali, al dire di Sozomene, accompagnarono in folla, cantando salmi, per quaranta stadi, la cassa dove giaceva il martire. Giuliano fu per questa dimostrazione irritatissimo e si sarebbe lasciato andare ad atti di rappresaglia, se non fosse stato rimesso sulla buona strada dal prefetto Sallustio. Se non che, pochi giorni dopo, un terribile incendio divorava il tempio d'Apollo. I Cristiani affermarono che un fulmine mandato da Dio aveva posto in fiamme il tempio, ma Giuliano non dubitò un istante a darne la colpa ai Cristiani. Con grande amarezza egli ricorda, nelMisobarba, questo fatto, e pone a raffronto la condotta degli Antiochesi con quella di altre città in cui si rialzavano i templi e si distruggevano le tombe degli atei, cioè dei Cristiani, e si giungeva contro questi ad eccessi ch'egli deplorava. Gli Antiochesi, invece, rovesciavano gli altari appena rialzati, e la mitezza con cui egli li ammoniva a nulla aveva giovato. «Infatti, quando noi facemmo trasportare il cadavere, quelli di voi che non rispettavano le cose divine, consegnarono il tempio del dio agli sdegnati pel trasporto delle reliquie, e questi, non so se nascosti o no, accesero quel fuoco che negli stranieri destò orrore, e nel vostro popolo piacere, e che lasciò e lascia ancora indifferente il vostro Senato!»296. E, forse, fu sotto l'impressione di questo fatto che Giuliano diede l'ordine, con un decreto riportato da Sozomene, di distruggere due santuari di martiri che si costruivano, in Mileto, presso il tempio di Apollo297.[pg!297]â¦Tutte queste violenze parziali, che hanno un carattere episodico e che non erano che l'inevitabile rappresaglia vicendevole di due partiti pressochè equivalenti, non bastano a togliere il fatto sostanziale della tolleranza religiosa che Giuliano confidava di poter usare come lo strumento più efficace della restaurazione da lui iniziata. Noi abbiamo già parlato di quel provvedimento così interessante e così caratteristico, preso da Giuliano, del richiamo in patria dei Cristiani, esigliati da Costanzo, in causa dei dissensi teologici. Nelle lettere di Giuliano,troviamonotizie veramente curiose ed istruttive intorno a quel provvedimento.Il partito che aveva dominato alla corte di Costanzo non era quello dell'Arianesimo puro, ma, bensì, di un Arianesimo opportunista, il quale non ammetteva la consostanzialità del Padre e del Figlio, voluta da Atanasio e dal Concilio di Nicea, ma non affermava nemmeno la distinzione e la subordinazione del Figlio al Padre voluta dagli Ariani schietti. Costanzo, come sappiamo, aveva accettata la così detta formolaomoica, che diceva esser il Figlio simile al Padre, secondo le Scritture, e vietava ogni analisi e determinazione di tale somiglianza. Costanzo impose questa formola ai due Concilî di Rimini e di Seleucia, nel 359, e poi mandò in esiglio tutti i vescovi, tanto dell'estrema destra atanasiana, quanto dell'estrema sinistra ariana, che non si piegavano ad essa. Giuliano li richiamava, tutti insieme, senza distinzione. Però è singolare la diversità di trattamento ch'egli usa verso due eroi di [pg!298] quelle lotte teologiche, il diacono Aezio che rappresentava l'Arianesimo intransigente, ed il grande Atanasio, il legislatore del Concilio di Nicea. Al primo, Giuliano manda questo biglietto298.«Io richiamai dall'esiglio tutti coloro, quali essi siano, che da Costanzo furono esigliati, per la stoltezza dei Galilei. Quanto a te, non solo ti richiamo, ma, ricordando la nostra antica conoscenza e consuetudine, t'invito a venir da me. Tu potrai servirti pur di giungere al mio accampamento, della vettura di Stato e di un cavallo di rinforzo».Chi era quest'Aezio che Giuliano tratta con speciali riguardi? Era una vecchia conoscenza dell'imperatore. Ma guardiamolo, per un istante; poi gli porremo accanto la grande figura di Atanasio, e così avremo davanti a noi due profili caratteristici del tipo cristiano del secolo quarto. Aezio, Siro di origine, si era dato, in gioventù, alle arti più varie. Era stato fonditore di metalli, poi medico, ed, a poco a poco, si era fatto conoscere per l'inquietudine del suo spirito e per la singolare attitudine alle discussioni teologiche che erano la passione intellettuale del tempo. Se dobbiamo creder a Socrate, egli era assai più versato nella dialettica di Aristotele che nella conoscenza degli scrittori cristiani, e professava il disprezzo per Clemente ed Origene299. Allontanato da Antiochia come disturbatore della pace religiosa, Aezio, soggiornando in Cilicia e, specialmente, a Tarso, strinse amicizia coi seguaci delle idee lucianiste e ne divenne un apostolo ardente.[pg!299]Ritornato poi in Antiochia, Aezio si fa amico del presbistero Leonzio che apparteneva alla medesima scuola lucianista. Corre poi ancora in Cilicia, quindi ad Alessandria, a disputare con gnostici e manichei, finchè, diventato Leonzio vescovo di Antiochia, ritorna a metterglisi al fianco, ed è fatto diacono. Ma egli desta intorno al vescovo tale un turbinio di discordie e di dispute, che Leonzio è costretto a tenerlo lontano dalle sacre funzioni, conservandogli, però, l'ufficio d'insegnante. Pare che egli prendesse parte, nel 351, al Sinodo di Sirmio, dove avrebbe ferocemente combattuto gli Atanasiani. Questi avrebbero cercato di muovere contro di lui i sospetti di Gallo, il fratello di Giuliano, che, come sappiamo, era stato dall'imperatore Costanzo eletto alla dignità di Cesare. Ma non ci sarebbero riusciti. Infatti Aezio è tanto padrone della situazione e della fiducia di Gallo che costui lo manda, più volte, come suo confidente, al fratello Giuliano. Da qui la relazione fra il principe ed il diacono ariano, e gli speciali riguardi ch'egli ha per lui, appena salito al trono. Gregorio di Nissa accusa Aezio di essere stato consigliere di Gallo nell'uccisione del prefetto Domiziano e del questore Monzio, delitto orribile che poi ebbe per conseguenza la catastrofe di Gallo. Ma quale fede si possa avere nella narrazione del vescovo atanasiano, non è dato saperlo, poichè atanasiani ed ariani si accusavano, gli uni gli altri, senza punto scrupoli. Nel 356 Aezio va ad Alessandria, il gran focolare delle ire teologiche, e prende posizione come un ariano intransigente e di estrema sinistra, e vi parla e scrive come uno dei capi di un giovane Arianesimo. Richiamato in Antiochia dal vescovo Eudossio, lo compromette per modo, con la sua politica irritante, che i semiariani finiscono per aver [pg!300] buon gioco sull'animo di Costanzo, ed ottengono l'allontanamento del vescovo e l'esiglio di Aezio in Frigia. Un anno dopo, nel 360, avendo Costanzo, risolutamente presa in mano la formola omoica, con cui s'illudeva di imporre la pace ai partiti che squarciavano la Chiesa, si accrebbero i rigori contro Aezio che dal Sinodo di Costantinopoli fu dichiarato decaduto dal suo diaconato, e dall'imperatore confinato in Pisidia. Venuto al trono Giuliano, le sorti di Aezio volsero al meglio. Richiamato dall'esiglio, dichiarata nulla la sua deposizione, fu riconsacrato da un sinodo raccolto in Antiochia, insieme ad altri Ariani. Il focoso polemista morì, probabilmente, poco dopo, perchè di lui non si ha più traccia.Noi non sappiamo se Aezio abbia accettato l'invito dell'imperatore che, mentre lo chiamava a sè, qualificava di stoltezza il Cristianesimo, ma, se ha accettato, non è riuscito a farlo parteggiare a favore dell'Arianesimo. Giuliano era affatto indifferente ed imparziale per tutte le sette cristiane ch'egli confondeva in un odio comune. E che di tale odio gli Ariani avessero la parte a loro spettante, ce lo prova una lettera, scritta in occasione di tumulti promossi, in Edessa, dagli Ariani, che è tanto giusta nella sua ispirazione quanto acerba nella sua ironia.«Ad Ecebolio. — Io tratto i Galilei tutti con tanta mitezza e filantropia che nessuno ebbe mai a soffrire violenza, e non voglio che siano trascinati al tempio, o costretti a cosa alcuna contraria alla loro intima convinzione. Ma quelli della Chiesa ariana, inorgogliti della loro ricchezza, assalirono i Valentiniani, e commisero, in Edessa, disordini tali, quali non dovrebbero mai verificarsi in una savia città . Se non che, siccome una legge mirabilissima insegna [pg!301] loro che bisogna esser poveri per aver più facile l'accesso al regno dei cieli, così, per aiutarli, noi comandiamo che tutti i beni della Chiesa degli Edesseni siano confiscati e distribuiti ai soldati, e le sue terre aggregate ai nostri domini. Per tal modo, impoveriti, diverranno saggi ed otterranno lo sperato regno dei cieli!»300.Bisogna, dunque, dire che la sua cortesia per Aezio avesse proprio solo un movente di simpatia personale, e non possiamo dedurre che Giuliano arianeggiasse, ciò che sarebbe stato veramente inesplicabile, dato che, nella corte semiariana di Costanzo, egli aveva avuto i suoi più fieri avversari. Tuttavia, il personaggio che destava, nell'imperatore, la più implacabile antipatia, si trovava nel campo opposto, ed era nientemeno che il grande Atanasio, il fondatore dell'ortodossia cattolica. Questi due uomini, geniali l'uno e l'altro, di cui l'uno rappresentava il passato e l'altro l'avvenire, l'uno l'Ellenismo risorgente, l'altro il Cristianesimo dominatore, erano incompatibili l'uno all'altro. Il fatto che Giuliano tanto si incollerisce contro Atanasio, che era stato una vittima di Costanzo, mostra che, malgrado la sua giovinezza, egli conosceva a fondo gli uomini e vedeva dove stava il pericolo. Egli sentiva che la forza del Cristianesimo non stava già nel corrotto Arianesimo, sebbene dominasse sovra metà del mondo cristiano; ma bensì, nell'energia entusiasta del partito che, sventolando il vessillo del mistero mistico della Trinità , si stringeva intorno alla grande figura del vescovo d'Alessandria. Se Atanasio fosse scomparso, l'ortodossia cattolica non si sarebbe fondata, e il Cristianesimo non avrebbe avuta quella [pg!302] organizzazione che lo fece traviare dal suo carattere originale, ma che pur gli era necessaria per vivere.Per comprendere l'importanza del duello fra Giuliano ed Atanasio, diamo un'occhiata alla figura di quest'ultimo.Nessuna esistenza più burrascosa e più eroica di quella d'Atanasio. Un romanziere, di fervida fantasia, un Sienkiewicz, potrebbe costruirgli intorno un epico racconto. Nulla può servire a dare un'idea viva dell'ambiente del secolo quarto meglio che lo studio di questa grande figura e delle sue tempestose avventure. L'uomo era grande davvero, era un carattere dominatore per eccellenza, una tempra inflessibile di combattente, un'anima dal volo largo e potente. C'è molta analogia fra Atanasio ed Ambrogio. Ma Ambrogio si è trovato in condizioni assai meno difficili e pericolose. Ambrogio non trovò contrasti nell'esercizio della sua autorità , fuor che durante la reggenza di Giustina. Ma il vescovo era troppo forte in confronto all'imperatrice, per poter dubitare della vittoria finale. All'infuori di quest'urto passaggero, Ambrogio dominò sovrano, ed ebbe, nella guerra contro l'Arianesimo, a sua disposizione l'aiuto del potere imperiale. Graziano e Teodosio furono due strumenti nelle sue mani, coi quali egli è riuscito ad erigere l'ortodossia cattolica a religione dello Stato. Atanasio, invece, ebbe una vita di lotte incessanti e gigantesche. Egli aveva l'impero contro di sè. Se si eccettui Costantino, ai tempi del Concilio di Nicea, e il fuggevole Gioviano, egli ebbe persecutori tutti gli imperatori che vide succedersi nella sua lunga vita, sul trono di Costantinopoli, Costanzo, Giuliano, Valente.Nato negli ultimi anni del secolo terzo, Atanasio passava la sua prima giovinezza in Alessandria, al [pg!303] fianco del vescovo Alessandro, di cui fu l'ispiratore in quei primi dissensi fra il vescovo ed il presbitero Ario, che poi condussero alla guerra civile nel seno del Cristianesimo. Al Concilio di Nicea, Atanasio era già una figura dominante, e l'Arianesimo potè vedere in lui il più poderoso dei suoi nemici. Morto Alessandro, fu eletto nel 328 vescovo di Alessandria. Ma l'opposizione del clero che arianeggiava si destò così energica, e tali furono le accuse che piombarono sul capo del neoeletto, che Costantino, il quale, intanto, visto l'insuccesso della politica ortodossa, stava piegando all'Arianesimo, chiamò l'accusato a giustificarsi prima davanti a lui a Nicomedia, poi, rinnovandosi ancora le accuse, davanti ad un Concilio raccolto a Cesarea, nel 334. Ma Atanasio indugiò a presentarsi e, sottomano, riusciva a persuadere Costantino della sua innocenza ed a riguadagnarsene il favore. Se non che, i suoi nemici avevano giurata la sua rovina. Eusebio di Nicomedia, il futuro educatore di Giuliano che viveva presso l'imperatore, lo indusse a convocare, nel 335, un altro sinodo a Tiro, che giudicasse il vescovo d'Alessandria. Questi si presentò al Concilio, con un seguito imponente di cinquanta vescovi, ma, convintosi che l'assemblea avrebbe sentenziato contro di lui, non aspettò il verdetto di destituzione, e s'imbarcò per Costantinopoli, fidando nell'influenza della sua persona sull'animo di Costantino. Nè s'ingannava, chè l'imperatore, posto fra il Concilio ed Atanasio, inclinava più a questo che a quello, quando Eusebio mosse al rivale una nuova accusa, questa volta, d'indole non teologica, e tale che doveva far grande impressione sull'animo dell'imperatore; accusò Atanasio di aver minacciato di far sospendere l'annuale provvista di granaglie che [pg!304] da Alessandria giungeva a Costantinopoli. Costantino non volle più udire Atanasio, e, senz'altro, lo esigliò a Treviri, in Germania, dove, del resto, trovò cortese accoglienza dal figlio dell'imperatore, ed un ardente collega di opinioni teologiche nel vescovo Massimino.Morto Costantino nel maggio del 337, Atanasio ritornò trionfante in Alessandria, e riprese il suo ufficio. Fu il segnale di una nuova tempesta. Atanasio, che, certo, non era un uomo tollerante, depose dagli uffici ecclesiastici tutti coloro che erano stati suoi avversari e li sostituì con amici, infiammando sempre di più la collera degli Ariani. Sul trono di Costantinopoli sedeva Costanzo, semiariano, il quale non vedeva che con gli occhi di Eusebio. Mandò, pertanto, ad Alessandria un nuovo vescovo Gregorio, e lo fece accompagnare da una scorta militare, onde imporlo con la forza se si trovasse resistenza. Infatti, la venuta di Gregorio fu causa di sommosse e di scene di violenza. Ma Atanasio vedendo inutile ogni sforzo, nel marzo del 340, partiva, pel suo secondo esiglio, e si recava a Roma presso il vescovo Giulio. In Occidente, Atanasio trovava amici ed appoggio, cominciando dall'imperatore Costante che, diversamente del fratello Costanzo, era propenso all'ortodossia. Per cinque anni, l'infaticabile Atanasio, protetto dall'imperatore, si agita a difesa ed a gloria della fede da lui professata con sì eroica convinzione. A Milano, nelle Gallie, ad Aquileja, egli è il legislatore religioso. Ma, intanto, anche in Oriente, le cose volgevano al meglio per lui. Costanzo, stimando conveniente di non staccarsi troppo aspramente dal fratello, accennava ad un più mite contegno; così che, morto nel 345 il vescovo Gregorio, Atanasio potè presentarsi a Costanzo in Antiochia, ed [pg!305] ottenere da lui di esser ripristinato nella sua sede di Alessandria. Nel 346, egli, infatti, vi rientrava fra il giubilo del popolo. Ma la pace ebbe breve durata. Morto Costante nel 350, Costanzo non ebbe più ritegno a parteggiare per l'Arianesimo. E, di conseguenza, ricominciò la guerra contro Atanasio, accusato di essere il disturbatore della tranquillità della Chiesa. Vari tentativi per impadronirsi della persona del vescovo riuscirono vani pel minaccioso atteggiamento della popolazione alessandrina. Ma, finalmente, nella notte del 9 febbraio del 356, il governatore Siriano, con buon nerbo di soldati, riesce a penetrare nella chiesa, dove il vescovo celebrava un servizio divino. Ne viene un sanguinoso tumulto, durante il quale Atanasio sparisce. Gli Ariani, vittoriosi, riprendono tutti gli uffici che erano stati costretti ad abbandonare, e alla sede vescovile è nominato quel Giorgio, di cui abbiamo già fatta la triste conoscenza.Durante questo terzo esiglio, che durò dal 356 al 361, Atanasio visse negli eremi dell'alto Egitto, ritornando, però, di nascosto, più volte in Alessandria, dove egli alimentava il suo partito con gli scritti che andava componendo nella sua feconda solitudine. Per verità , se si dovesse prestar fede a Sozomene, il fiero vescovo avrebbe passato meno duramente questo lungo periodo di rinnovata persecuzione. Narra lo storico che Atanasio rimase in Alessandria, nascosto presso una vergine di singolare bellezza, di tale bellezza che nessuna donna d'Alessandria poteva esserle eguagliata. Ma riproduciamo le parole di Sozomene che ci presentano uno strano manicaretto di santità e di romanzo, una miscela che a noi pare eterogenea, e che pur riusciva prelibata ai palati letterari del secolo quarto. «A quanti vedevano quella vergine, essa [pg!306] appariva un miracolo, ma coloro che ci tenevano alla fama di temperanza e di saggezza la fuggivano, pel timore che si sospettasse di loro. Poichè era proprio nel fiore dell'età , e supremamente dignitosa e modesta... Ora, Atanasio, mosso a salvarsi da una visione divina, si rifugiò presso quella vergine. E, se io investigo l'evento, mi par proprio di vedervi la mano di Dio, il quale non voleva che gli amici di Atanasio soffrissero molestia, se mai alcuno volesse interrogarli intorno a lui o costringerli a giurare, mentre, intanto, Atanasio se ne stava nascosto presso colei, la cui bellezza era troppo grande per permettere il sospetto che il sacerdote potesse trovarsi con lei301. Essa lo ricevette con coraggio e lo salvò con la prudenza, e fu una custode così fedele ed una servente così premurosa, da lavargli i piedi, da provvedere essa sola al cibo, ed a tutte le altre cose che la natura ci rende indispensabili negli urgenti bisogni302. Di più si procurava dagli altri i libri che gli erano necessari. E malgrado che ciò durasse lunghissimo tempo, nessuno dei cittadini di Alessandria mai lo seppe»303.Del resto, sia che Atanasio si rifugiasse nei nascondigli del deserto, sia che rimanesse celato nei penetrali della casa verginale della bellissima fanciulla, la sua azione e la presenza erano spiritualmente sentite nell'ambiente eccitato di Alessandria; così che il vescovo Giorgio, il quale, come sappiamo, era un imprudente, non aveva la vita tranquilla, ed era, ad [pg!307] ogni istante, esposto alle sommosse di una popolazione irritata contro di lui, finchè giunto al trono Giuliano, le ire ammassate scoppiarono terribili e lo trascinarono alla catastrofe, alla quale gli Atanasiani assistettero impassibili e, probabilmente, conniventi.Pubblicato il decreto di Giuliano che permetteva il rimpatrio ai vescovi esigliati dall'ariano suo antecessore, Atanasio, non solo ritornò in Alessandria, ma rioccupò, senz'altro, il seggio vescovile, e riprese, con rinnovata energia, la sua azione di propaganda e di combattimento.Ora, la condotta di Atanasio disturbava la politica di Giuliano, il quale voleva tenere i due partiti cristiani sul piede d'eguaglianza, e di reciproca tolleranza, nella previsione che si sarebbero indeboliti a vicenda. Ma nulla era più lontano dalle sue intenzioni che il dar mano forte all'ortodossia per vincere l'Arianesimo, e nessuno, pertanto, poteva essergli più sospetto e più odioso dell'ardente Atanasio. Egli, pertanto, s'inalberò davanti alla ricomparsa brillante del vescovo d'Alessandria e sentì di non poterla tollerare. Vide in Atanasio un nemico più forte di lui, che avrebbe reso vano il tentativo a cui aveva dedicata la sua vita, e decise di soffocarlo. Cominciò la persecuzione col pretesto che Atanasio era uscito dalla legge. Infatti l'imperatore aveva, con un editto, concesso il rimpatrio dei Cristiani esigliati, ma, in quell'editto, non era detto che potessero riprendere il governo delle rispettive chiese. Atanasio, invece, non aveva esitato un istante a mettersi al posto del massacrato Giorgio. Ed ecco che Giuliano manda tosto questo nuovo decreto agli Alessandrini. «Un uomo, esigliato da tanti decreti di tanti imperatori, avrebbe dovuto aspettare una speciale autorizzazione, prima di rientrare in patria, [pg!308] e non già offendere, con audacia e con follia, le leggi, quasi non avessero valore. Noi abbiamo concesso ai Galilei, esigliati da Costanzo, non già il ritorno nelle loro chiese, ma, bensì, il ritorno in patria. Ed ora apprendo che l'audacissimo Atanasio, gonfiato dall'abituale impudenza, ha ripreso quello che essi chiamano il trono vescovile, ciò che non è poco sgradevole al pio popolo di Alessandria. Noi, pertanto, gli ordiniamo di uscire dalla città , immediatamente nel giorno in cui avrà ricevuto questa lettera, che si deve considerare come un segno della nostra mitezza. Ma, s'egli rimane, noi gli decreteremo maggiori e più molesti castighi».304Pare che Atanasio restasse, malgrado le minacce, ed, anzi, non pago di combattere gli Ariani, facesse opera di feconda propaganda presso i Pagani, guadagnando al Cristianesimo sopratutto le donne. Giuliano, furente, manda al governatore dell'Egitto, Edichio, questo biglietto:«Se non volevi scrivermi d'altra cosa, dovevi però scrivermi di quel nemico degli dei che è Atanasio, tanto più che ti è noto ciò che, già da tempo, fu da me saviamente stabilito. Io giuro pel grande Serapide che se, prima delle calende di Decembre, quell'Atanasio, nemico degli dei, non se n'è andato dalla città , anzi, da tutto l'Egitto, io imporrò alla provincia da te amministrata una multa di cento libbre d'oro. Tu sai quanto io sia lento nel condannare, ma molto più lento nel perdonare, se ho una volta condannato».Pare che fin qui, Giuliano, dettasse il suo decreto ad un segretario. Preso da un subitaneo impulso di sdegno, afferra lui lo stilo, e scrive: «Di mia propria [pg!309] mano. — A me duole assai essere disobbedito. Per tutti gli dei, nulla potresti farmi di più grato che lo scacciare, da ogni angolo d'Egitto, Atanasio, quello scellerato che ha osato, me imperante, battezzare le donne greche di illustri cittadini. Sia perseguitato!»305.Nel primo decreto agli Alessandrini, l'imperatore comandava che Atanasio fosse bandito dalla città . Ora, ciò non gli basta, deve esser esigliato da tutto l'Egitto. E questo nuovo ordine, trasmesso al governatore con quel biglietto di poche frasi iraconde, è poi svolto largamente in questo proclama al popolo d'Alessandria:«Giuliano agli Alessandrini».
L'AZIONE DI GIULIANO CONTRO IL CRISTIANESIMOFinchè Giuliano visse sotto le minacce di Costanzo o come suo rappresentante nel Governo della Gallia, egli tenne celate le sue idee, la sua fede ed i suoi eventuali propositi, dato che un giorno avesse in sua mano la somma delle cose. Durante tutti quegli anni di necessario infingimento, il giovane entusiasta, che, in mezzo alle cure della guerra e del governo, non dimenticava mai lo studio e la meditazione, s'infervorava nel suo amore per l'Ellenismo, nel suo desiderio di poterlo salvare dalle minacce del Cristianesimo invadente, con un ardore intimo, reso, direi quasi, più intenso dall'impossibilità di espandersi apertamente. Ma egli non si è mai compromesso con un atto che potesse poicreargli, nella pericolosa posizione in cui si trovava davanti a Costanzo, difficoltà insuperabili. Anzi, noi abbiamo veduto come, già creato imperatore dai suoi soldati, mentre però ancora non s'era risoluto alla guerra civile e sperava in un accordo con Costanzo, partecipasse, con una prudenza tanto grande che può dirsi simulazione, alla festa solenne dell'Epifania.[pg!268]Ma, quando, svanita ogni illusione di accordo, Giuliano si gettò nell'avventura, che doveva parer disperata, di marciare contro Costanzo, egli depose la maschera, e, risoluto di giocare il tutto pel tutto, si rivelò restauratore della religione antica. Non è ben chiaro ch'egli facesse atto pubblico di fede politeista, prima della sua partenza dalla Gallia, ma, durante il viaggio dalla Gallia a Sirmio, diede apertamente, con una certa ostentazione, alla sua spedizione il carattere di un'impresa posta sotto il patrocinio degli dei. Giuliano stesso ce lo dice, in una lettera da lui diretta al suo venerato maestro, il filosofo Massimo, e scritta, appunto, mentre egli era in marcia verso i Balcani. In mezzo alle cure urgenti da cui è premuto, Giuliano è grato agli dei che gli permettono di poter scrivere a Massimo, e che spera gli permetteranno di rivederlo. Egli protesta, e chiama in testimonio gli dei, di esser diventato imperatore contro la sua volontà 262. Poi, con quella facilità e grazia di descrizione che gli è naturale, racconta l'incontro da lui fatto, con un inviato di Massimo stesso, e gli esprime tutta l'ansia che aveva provata al pensiero dei pericoli ai quali il maestro e l'amico del Cesare ribelle poteva esser esposto. Infine chiude la lettera parlando del favore con cui gli dei accompagnano la sua impresa che si compie senza violenza e con grande facilità , e così finisce: «Noi adoriamo gli dei apertamente, e la maggior parte dell'esercito che mi accompagna è devoto ad essi. Noi sacrifichiamo in faccia a tutti, ed offriamo agli dei il dono di molte ecatombi. Gli dei mi comandano di santificare ogni mia azione, ed io obbedisco con [pg!269] tutta l'anima, ed essi mi assicurano grandi frutti della mia impresa, pur che si persista»263. Qui si sente la fiducia e l'entusiasmo del riformatore che è ai primi suoi passi, ed a cui tutto par facile e pieno di speranze. Basteranno pochi mesi a fargli perdere le illusioni, così da indurlo a scrivere quello sfogo di amarezza che è ilMisobarba!Morto il cugino, Giuliano, proclamato imperatore, pel consenso di tutti, fatto il solenne ingresso in Costantinopoli, diede alla sua volontà la sanzione della legge. «Scomparso — scrive Ammiano Marcellino — ogni pericolo ed acquistata la facoltà di fare tutto ciò che volesse, Giuliano aperse i segreti del suo cuore e, con chiari e precisi decreti, stabilì che si spalancassero i templi, si presentassero le vittime agli altari, si restituisse il culto degli dei»264.Che Giuliano prendesse queste risoluzioni, appena avuta la piena libertà d'azione, era nell'ordine naturale delle cose. Ma quale è stata la sua condotta nei rapporti col Cristianesimo, in cui vedeva un odiato nemico col quale iniziava un duello mortale? Qui è il punto più interessante dello studio che stiamo facendo sulla persona e sulle azioni dell'imperatore Giuliano. La prima mossa ch'egli fece indicò chiaramente l'indirizzo che intendeva di prendere. Mentre provvedeva alla riapertura dei templi ed alla restaurazione del culto pagano, chiamava nel suo palazzo i capi della Chiesa cristiana, divisa, come sappiamo, in due partiti che si detestavano a vicenda, ed, in presenza della plebe cristiana, ammessa anch'essa al cospetto dell'imperatore, li ammoniva cortesemente, [pg!270] affinchè, sopite le discordie, ognuno servisse la propria religione, senza paura di nessun divieto —ut, discordiis consopitis, quisque, nullo vetante, religioni suæ serviret intrepidus—265. Con questo discorso ai Cristiani di Costantinopoli, Giuliano riprendeva quel principio di tolleranza religiosa che, inaugurato da Costantino col decreto di Milano, poi da lui dimenticato, doveva spegnersi con Giuliano per non risorgere che dopo quindici secoli di completo oscuramento. A tale principio, Giuliano è rimasto fedele in tutta la sua breve carriera. I polemisti e gli storici cristiani, Gregorio di Nazianzo, Socrate, Sozomene, Rufino, si battono i fianchi per porre in cattiva luce l'azione dell'imperatore, ma non riescono, in nessun modo, a farne un persecutore. Certo, qualche atto di violenza è avvenuto, durante il breve suo regno. Ma era la conseguenza inevitabile delle passioni partigiane e delle abitudini del tempo. L'acerbo Gregorio insinua che Giuliano era lieto di lasciar mano libera al popolo, per riservare a sè stesso la parte più nobile di chi vuol convertire con la persuasione, e afferma che il suo scopo era di far violenza ai Cristiani, senza però dare ad essi l'opportunità di atteggiarsi a martiri266, ciò che, in realtà , equivale al riconoscimento, da parte del polemista, che non è constatabile nessuna violenza, voluta dall'imperatore. Rufino deve pur ammettere che Giuliano, più astuto dei suoi predecessori, invece delle inutili crudeltà , applicava le lusinghe, i premi, le esortazioni. E Socrate che usa la parolapersecuzione, dichiara ch'egli comprende, sotto quel nome, qualsiasi [pg!271] atto che possa disturbare, anche nel più lieve modo, delle persone tranquille267.Certo, gli storici ecclesiastici ci narrano alcuni episodi, da cui risulterebbe giustificata la taccia di persecutore attribuita a Giuliano. Ma, non bisogna dimenticare che quegli storici scrivevano un secolo dopo la morte di Giuliano, quando la leggenda si era già formata, e che, privi, com'erano, di ogni senso critico, quanto più una notizia era inverosimile, e tanto più era loro accetta. Di alcune di quelle storie il carattere leggendario è troppo evidente, perchè si possa, in alcun modo, prenderle sul serio; di altre, che forse contengono qualche elemento di verità , non si deve far risalire la responsabilità all'imperatore. Che Giuliano, avuto il potere in sua mano, tendesse ad usarne a vantaggio della causa ch'egli difendeva, che, pertanto, nei suoi giudizî, non adoperasse coi due partiti, una bilancia assolutamente eguale, che le sue preferenze pei Pagani si rivelassero con segni manifesti, lo si può riconoscere e si può anche scusare, perchè, infine, Giuliano era un uomo che mirava ad un determinato scopo, ed era inevitabile che, nello studio per raggiungerlo, si lasciasse trascinare qualche passo più in là di quello che una rigorosa imparzialità avrebbe voluto. Ma questa non può dirsi persecuzione. La persecuzione consiste nel ricercare e nel punire gli avversari solo perchè avversari, nel prendere l'iniziativa di atti diretti a distruggerli, nell'usare la violenza come arma regolare e legittima. Ora, di ciò non è traccia nella condotta di Giuliano. Se fu presa, durante il suo breve regno, qualche misura di rigore, ciò fu opera quasi sempre di prefetti [pg!272] che interpretavano, a loro modo, l'intenzione dell'imperatore, e, quello che più conta, fu la conseguenza di tumulti e di disordini, di cui i Cristiani avevano la colpa principale. Così, dato anche che fosse esatta la notizia, in parte evidentemente leggendaria, riferita da Socrate, del martirio di Teodulo e di Taziano, per ordine del prefetto della provincia di Frigia, bisogna notare che quei due, infiammati di zelo, si erano posti alla testa di una sommossa di Cristiani e, penetrando in un tempio appena riaperto nella città di Mero, avevano spezzate tutte le statue degli dei268. Pretendere che il governo di Giuliano assistesse impassibile ad azioni come questa, e chiamarlo persecutore, perchè un suo magistrato ne ha puniti gli autori, è cosa da polemista, non è cosa da storico.Giuliano, come tutti i riformatori si sarà illuso che il giorno in cui egli potesse manifestare la sua idea ed inaugurare un'era nuova, il mondo gli sarebbe caduto ai piedi. Ma, invece, toccato il potere, egli trovò un'inaspettata resistenza e sentì che l'impresa era assai più ardua di quanto imaginasse. Da qui un turbamento nel suo giudizio, ed un sentimento di irritazione che diede una certa asprezza alla sua azione, nell'ultimo periodo nel suo regno. Ma non si può dire ch'egli rinnegasse mai i principi razionali a cui s'era ispirato e che partecipasse al cieco pregiudizio che aveva promosso la spietata e stolta persecuzione degli imperatori precedenti. Del resto, la moderazione di Giuliano è riconosciuta, esplicitamente, come osservammo, dallo stesso Socrate, il quale dice che Giuliano, avendo constatato che le recenti vittime della persecuzione di Diocleziano erano onorate dai Cristiani [pg!273] e che, col loro esempio, li eccitavano ad affrontare il martirio, prese una via diversa. Depose la crudeltà di Diocleziano, ma non per questo si astenne dal perseguitare, perchè, soggiunge Socrate, «io chiamo persecuzione il disturbare, in qualsiasi modo, la gente tranquilla»269.Ora i modi con cui Giuliano disturbava la gente tranquilla ed esercitava la sua persecuzione sarebbero stati, secondo Socrate, il famoso divieto ai Cristiani di insegnare lettere greche — e di questo parleremo, più avanti, — il non volere nella reggia, presso la sua persona, dei soldati cristiani, il non voler affidare ai Cristiani il governo delle provincie, il cercar di persuadere, con le blandizie e coi doni, i Cristiani oscillanti a ritornare al culto degli dei, e, finalmente, l'essersi procurato un tesoro di guerra, per la spedizione di Persia, col mezzo di multe inflitte ai Cristiani che si ostinavano a non convertirsi. Di questi modi di persecuzione, è chiaro che solo l'ultimo potrebbe dirsi propriamente riprovevole, sebbene sempre assai lontano dall'abituale atrocità degli imperatori che davvero avevano perseguitato. Ma di questo provvedimento tirannico non abbiamo nessuna prova contemporanea, nessun accenno nè in Libanio, nè in Ammiano, nè in Giuliano stesso. Che ci sia stato qualche atto di prevaricazione è assai probabile, ma una propria e vera legge che ponesse i Cristiani in una difficile condizione finanziaria non esistette che nella fantasia degli storici posteriori.Sozomene, come al solito, si attiene all'esposizione di Socrate, amplificandola ed intensificando il colorito leggendario. Le scene di martirio, da lui narrate, anche [pg!274] se fossero veritiere, non si potrebbero far risalire alla responsabilità dell'imperatore, senza porre in contraddizione con sè stessi Socrate e Gregorio, i quali riconoscono la tolleranza di Giuliano, pur attribuendola ad un calcolo perfido. Una notizia interessante che troviamo in Sozomene è quella dell'abolizione dei privilegi di cui godeva il clero cristiano, abolizione che, certo, sarà stata considerata acerba persecuzione. Giuliano tolse ad esso l'esenzione di cui godeva delle imposte e le prebende di cui era stato investito da Costantino e da Costanzo, ed obbligò i suoi membri a rientrare, se chiamati, nei consigli comunali, ciò che era quasi sempre un forte gravame, per la responsabilità dei singoli consiglieri nel pagamento delle tasse e delle spese municipali, un gravame a cui i cittadini cercavano ansiosamente di sfuggire. Questa persecuzione amministrativa è lamentata da Sozomene, come poco meno dannosa della crudeltà degli antichi imperatori. Ma la storia imparziale deve pur riconoscere che il meno che Giuliano potesse pretendere, dal momento che voleva restaurare il Paganesimo, era di togliere i privilegi dei Cristiani e di porre tutti i cittadini sul piede dell'eguaglianza270.â¦La tolleranza di Giuliano è dimostrata e commentata da Libanio, nel discorso necrologico, in modo da non lasciar dubbio che essa costituisse propriamente, per l'imperatore, un principio fondamentale di condotta. [pg!275] Dopo aver narrato come Giuliano rendesse i dovuti onori alla salma del suo nemico Costanzo, Libanio ci dice ch'egli inaugurava il culto degli dei «rallegrandosi di coloro che lo seguivano, deridendo gli oppositori, tentando di persuadere, ma non lasciandosi mai indurre a far violenza»271. Eppure, continua Libanio, non gli mancavano gli eccitamenti a rinnovare le sanguinose persecuzioni d'un tempo, ma Giuliano stette fermo, convinto che «non è col ferro e col fuoco che si può imporre la rinuncia ad un falso concetto degli dei, poichè se anche la mano sacrifica, la coscienza rimprovera272ed allora si ha un'ombra di conversione, non già un cambiamento di opinione273. E poi avviene che, più tardi, costoro ottengono il perdono, mentre quelli che furono uccisi, vengono onorati al pari degli dei. Persuaso dunque di tutto ciò, e vedendo che dalla persecuzione la causa dei Cristiani ha giovamento, se ne astenne. Coloro che volevano il bene, egli li addusse alla verità , ma non fece violenza a quelli che amavano il male274..... Egli godeva nel visitare le città che avevano conservati i templi, e le credeva meritevoli dei suoi benefici; quelle che, in tutto o in parte, si erano staccate dal culto degli dei, egli le riteneva impure, ma dava loro, come agli altri sudditi, ciò di cui avevano bisogno, certo non senza dispiacere»275.[pg!276]Giuliano, nella sua carriera, non ebbe che un solo momento di rigore eccessivo, al dire dello stesso Ammiano, un momento in cui lasciò libero sfogo allo sdegno che gli si era accumulato nel cuore. Entrato in Costantinopoli, trovò il palazzo imperiale pieno dei cortigiani di Costanzo. Costoro formavano una casta che, fattasi opulenta con le spoglie dei templi e con ogni abuso, dava un esempio spaventoso di corruzione, di lusso e di vizio276. Giuliano li cacciò via, con una precipitazione che, secondo l'onesto Ammiano Marcellino, gli tolse la serenità del giudizio e la possibilità di qualsiasi scelta. Ma, insieme a costoro, Giuliano trovava gli alti ufficiali e consiglieri di Costanzo, primo, fra tutti, quello sciagurato eunuco Eusebio, che era stato l'istigatore dell'assassinio di Gallo e il più implacabile nemico ch'egli avesse presso il cugino. Giuliano non seppe trattenere il desiderio della vendetta, e nominò una commissione inquirente e giudicante, a cui deferirli, e questa, credendo di seguire le intenzioni dell'imperatore, infierì contro gli accusati, macchiando di sangue, non sempre giustamente sparso, l'esordio del regno277.La corte di Costanzo era stata tutta cristiana, perchè Costanzo era un cristiano intollerante, che non avrebbe permessa, vicino a sè, la presenza di un cortigiano che fosse rimasto fedele alla religione antica, e cristiani erano, dunque, gli intimi suoi consiglieri di cui Giuliano si prese vendetta. Ma ci voleva davvero l'acciecamento partigiano di Gregorio per insinuare che Giuliano, nell'infliggere le pene, era spinto non già dall'odio contro i consiglieri di Costanzo quanto dall'odio [pg!277] contro i Cristiani, come se fosse possibile che l'imperatore iniziasse una persecuzione sanguinosa proprio nei giorni in cui chiamava i Cristiani alla sua Corte, per invitarli alla concordia e per annunciar loro la piena e sicura libertà di culto! Che i cortigiani di Costanzo fossero cristiani e che, da questa circostanza, Giuliano traesse una ragione per condannare, nel suo giudizio, anche il Cristianesimo, è chiaro e naturale. Ma ciò non toglie che, nella sua condotta, egli fosse mosso da sentimenti in cui il parteggiamento religioso non entrava per nulla. Ciò vediamo, in tutta luce, in una lettera da lui diretta all'amico Ermogene, proprio nei giorni in cui aveva nominata la Commissione inquirente: «Permettimi di esclamare, come un parlatore poetico. — Oh! io che non sperava d'essere salvato, non sperava di udire che tu sei scampato dall'idra dalle tre teste! — Per Giove, non credere che io parli di Costanzo! Costui era quello che era. Voglio parlare di quelle belve che erano intorno a lui e che spiavano tutti, e che lo rendevano ancor più crudele: e sì che, per sè stesso, non era affatto mite, sebbene a molti paresse tale. Ma a lui, dal momento che è morto, sia lieve la terra, come si dice. Quanto a coloro, Giove lo sa, io non vorrei che avessero a soffrire contro giustizia. Ma, siccome si presentano molti accusatori, io ho istituito un tribunale. Tu, intanto, amico mio, vieni, e cerca di affrettarti più che puoi. È già da tempo che io supplico gli dei che ti possa vedere, ed ora che tu sei salvo, con massima letizia ti esorto a venire«278.E in un'altra lettera, deplorando certi soprusi sofferti [pg!278] dagli Ebrei, Giuliano ne dà la responsabilità a coloro che «barbari nel giudizio, empi nell'anima, sedevano alla sua mensa, e che io, prendendo nelle mie mani, ho annientati, scagliandoli nel baratro, così che io non abbia più a sopportare nemmeno la memoria della loro scelleraggine»279.È indubitabile, pertanto, che anche questo, che pure fu il solo atto duro e spietato, commesso da Giuliano, non può dirsi, per nessun modo, un episodio di persecuzione. Giuliano, come vedremo dalle sue lettere, è rimasto fedele al principio da lui posto, inaugurando il suo regno, il principio della tolleranza religiosa. Questo principio armonizzava con le tendenze del suo spirito equanime e ragionatore, al quale ripugnava la violenza. Egli aveva l'amore della discussione e del dibattito logico, e, del resto, doveva comprendere, anche senza il recente insuccesso di Diocleziano, come dovesse riuscire del tutto inefficace, anzi, impossibile una persecuzione contro una religione che aveva ormai invasa, certo, più della metà dell'impero. Ma noi crediamo, però, che vedesse pur bene ed acutamente Ammiano Marcellino, quando attribuiva la tolleranza religiosa di Giuliano anche ad un calcolo di abilità opportunista280. Le discordie intestine del Cristianesimo erano un lievito potente di dissoluzione, erano l'impedimento più forte alla costituzione di una Chiesa che potesse imporsi con un'autorità assoluta ed indiscussa. La tolleranza era una virtù che il Cristianesimo ignorava affatto, una virtù che era in contraddizione con le sue tendenze essenziali, una virtù che [pg!279] diventava per lui un vizio. L'intolleranza dogmatica era un fenomeno nuovo nel mondo, era la conseguenza necessaria del fatto che, intorno al nucleo monoteista della fede, si formava un complesso di dottrine metafisiche, le quali venivano a far parte integrante della religione, come una manifestazione di verità divina. Da qui la conseguenza che l'eresia diventava una colpa, che i dissensi intestini nel Cristianesimo non potevano essere tollerati, e che i Cristiani di parti avverse si guardavano e si combattevano gli uni gli altri, con un odio assai maggiore di quello che tenevano in serbo pei Pagani. Ora, Giuliano, abilmente, ed era arte di buona guerra, volle e seppe approfittare di tale condizione di cose per indebolire il nemico. E, siccome l'Arianesimo, avendo stretta alleanza con Costanzo, era diventato potentissimo, era diventato una vera religione di Stato, che aveva perseguitati e cacciati in bando i vescovi atanasiani. Giuliano non esitò un istante a pubblicare un decreto con cui concedeva agli esigliati la facoltà del ritorno in patria281, non dubitando, e con ragione, che, dal contatto delle due parti, si sarebbe immediatamente riacceso il foco delle ire e delle lotte. Qui stava propriamente il pericolo pel Cristianesimo. E Giuliano qui mostrava una grande acutezza. Se Giuliano fosse ritornato vittorioso dalla Persia ed avesse avuto un lungo regno, il Cristianesimo, abbandonato a sè stesso, divorato dalle sue discordie, poteva consumarsi e forse trasformarsi essenzialmente. Il Cristianesimo, fosse ariano, fosse atanasiano, aveva ormai bisogno del braccio imperiale. Il Cristianesimo, tralignato dalle sue origini, non poteva vivere che a [pg!280] patto d'essere intollerante. E l'intolleranza, per essere efficace, richiede d'aver per sè la forza materiale. La morte prematura di Giuliano rese possibile, pochi anni dopo, a S. Ambrogio di dare, con l'aiuto di Graziano e di Teodosio, la vittoria definitiva al dogmatismo cattolico.â¦Le lettere di Giuliano, fra le quali, insieme a confidenze amichevoli, troviamo decreti e manifesti imperiali, ci danno il modo migliore e più sicuro di penetrare nelle intenzioni di lui e di giudicare la sua condotta nelle sue relazioni coi Cristiani. Che, malgrado l'odio cordiale che sentiva per questi, Giuliano volesse astenersi da ogni atto di violenza contro la loro persona e non esitasse a condannar questi atti, quando avvenivano all'infuori della sua volontà e per effetto di passioni popolari, è dimostrato dai più chiari documenti. Ad Artabio egli scrive: «Per gli dei, io voglio che i Galilei non siano uccisi nè maltrattati contro giustizia, nè che abbiano a soffrire danno alcuno. Dico solo che si devono tenere in maggior conto gli adoratori degli dei, poichè, la stoltezza dei Galilei ci manderebbe in rovina, se non fossimo salvati dalla benevolenza degli dei»282. E in un manifesto diretto agli abitanti di Bostra, in occasione di minacciati tumulti fra Cristiani e Pagani, così conclude: «Mettetevi d'accordo e nessuno commetta violenza od ingiustizia. I traviati [pg!281] non devono offendere chi adora gli dei rettamente e giustamente, secondo le norme date a noi da tutta l'eternità , e gli adoratori degli dei, dal canto loro, non devono assalire le case di quelli che errano più per ignoranza che per convinzione. Dobbiamo persuadere ed istruire gli uomini con la ragione, non già con le percosse, con le violenze o coi tormenti del corpo. Ora, come già da tempo, io esorto coloro che procedono nella via della vera pietà di non recar danno alle turbe dei Galilei, di non dar loro addosso, di non far loro violenza. Noi dobbiamo non già odiare, ma compiangere coloro che hanno una cattiva condotta nelle cose di suprema importanza. Ora, il massimo dei beni è la pietà , e il massimo dei mali è l'empietà . Coloro che, abbandonando il culto degli dei, si son dati a quello dei morti e delle reliquie trovano in sè stessi il loro castigo. Noi dobbiamo compiangerli, come compiangiamo chi è affetto da qualche malattia, mentre ci rallegriamo di quelli che dagli dei furono liberati e salvati»283.Certo, non si può essere più espliciti, più ragionevoli e temperati, dirò anche, più moderni di quello che è Giuliano nelle sue dichiarazioni: più moderni, perchè il principio di tolleranza religiosa, posto dal restauratore del Paganesimo, non doveva rivivere se non quando fosse caduto l'impero del dogmatismo infallibile. Ma Giuliano doveva trovare qualche difficoltà ad applicare intieramente quel suo principio, in mezzo alle accese passioni popolari. I Cristiani, diventati, dopo Costantino, dominatori della posizione, eran diventati a loro volta persecutori, ed avevano, in più luoghi, distrutti e saccheggiati i templi antichi. Era, [pg!282] dunque, inevitabile che nascesse nei Pagani tornati al potere, il desiderio della rappresaglia. Ma la situazione, già intricata per sè stessa, lo diventava ancor di più per le discordie intestine del Cristianesimo, discordie che, come notammo, tornavano a vantaggio di Giuliano, ma che pure egli non poteva lasciar divampare, senza ferir quel principio di rispetto e tolleranza reciproca che doveva essere il perno della sua politica religiosa. Come Giuliano si destreggiasse in mezzo a queste difficoltà , lo vediamo nell'episodio dell'uccisione del vescovo Giorgio d'Alessandria.Sotto il regno di Costanzo era governatore d'Alessandria un suo fidato consigliere, Artemio, e vescovo l'ariano Giorgio. L'uno e l'altro, per le loro delazioni al sospettoso imperatore e per la tirannia crudele del loro governo, erano odiati dal popolo di una città , la quale, come dice Ammiano Marcellino, il verace narratore dell'episodio284, era sempre pronta alle sommosse, appena se ne presentasse l'occasione. Successo Giuliano, egli fece venire a Costantinopoli Artemio, che, trovato reo di grandi delitti, fu condannato a morte. Gli Alessandrini, che avevano, per qualche tempo, vissuto nel timore di un possibile ritorno di Artemio e di una ripresa del suo crudele arbitrio, avuta la notizia della sua morte, insorsero contro il vescovo Giorgio, il quale poi era specialmente odioso alla parte pagana della popolazione alessandrina, perchè eccitava i Cristiani alla distruzione dei templi. Giorgio fu miseramente massacrato dalla turba furente, e lo furono con lui due suoi compagni di fede e di intrighi, Draconzio e Diodoro. I cadaveri furono bruciati, e le ceneri disperse nel mare, pel timore che le loro tombe, [pg!283] come quelle dei martiri, diventassero luoghi sacri. Ammiano osserva che i Cristiani, se avessero voluto, avrebbero potuto impedire il misfatto, ma rimasero, invece, spettatori inerti. Probabilmente questi inerti Cristiani erano i fautori di Atanasio, ai quali la morte dell'ariano Giorgio non sarà stata sgradita.Giuliano, che confondeva in un odio solo, e col solo nome spregiativo di Galilei, Ariani ed Atanasiani, non doveva, dal suo punto di vista di restauratore del Paganesimo, essere scontento di una così chiara prova dello zelo degli Alessandrini. Ma egli era imperatore e si atteggiava a reggitore imparziale e giusto. Non poteva, quindi, lasciar passare impunito il delitto. E Ammiano ci narra che, infatti, egli era risoluto a infliggere il meritato castigo. Ma gli amici, che gli stavano al fianco, e che, come sempre avviene, erano più imperialisti dell'imperatore, lo persuasero a limitarsi all'invio di un editto, che rimproverasse gli Alessandrini, lasciandoli, nel fatto, impuniti. Questo editto, che ci è conservato integralmente, è di un grande interesse per la conoscenza di Giuliano e del suo indirizzo governativo:«L'imperatore Cesare Giuliano Massimo Augusto al popolo degli Alessandrini».«Se anche voi non rispettate il vostro fondatore Alessandro e, meglio ancora, il grande e santissimo dio Serapide, come mai, vi domando, non vi venne il pensiero del vostro dovere davanti all'Impero ed all'umanità ? Aggiungerò anche il pensiero di noi, che gli dei tutti e, fra i primi, il grande Serapide, credettero degni di governare la Terra? Di noi, che avevamo il diritto di istituire il processo contro coloro che vi avevano offeso? Ma, forse, vi trasse in inganno l'ira e la passione, la quale è solita [pg!284] a fare il male ed a sconvolgere il giudizio, così che voi, malgrado il vostro impulso che, sulle prime vi aveva ben consigliato, siete poi corsi a trasgredire la legge, e non vi vergognaste di commettere, tutti insieme, quei delitti, che, giustamente, condannaste negli altri.«In nome di Serapide, ditemi, per quale colpa inferociste contro Giorgio? Risponderete, certo, che egli eccitava contro di voi Costanzo, e introdusse un esercito nella città sacra, e indusse il governatore dell'Egitto ad impadronirsi del tempio più venerato del dio, violando le imagini, le offerte votive e gli ornamenti sacri. Contro di voi che, infiammati di uno sdegno ben naturale, tentavate di difendere il dio, dirò meglio, la proprietà del dio, il governatore, iniquamente, illegalmente ed empiamente, mandò i suoi soldati, temendo, più che Costanzo, Giorgio, il quale lo sorvegliava, se mai si comportasse con voi, non già tirannicamente, ma con temperanza e civiltà . Irritati, perciò, contro quel nemico degli dei che era Giorgio, avete deturpata la sacra città , mentre voi potevate consegnarlo ai voti dei giudici. E così non vi sarebbe stata uccisione nè delitto, ma giustizia perfetta, che avrebbe difeso voi innocenti, e punito quello scellerato sacrilego, e, insieme, resi saggi tutti gli altri, quanti sono, che non rispettano gli dei, e non hanno riguardo a città come la vostra, ed a popoli fiorenti, e ritengono la crudeltà quasi un'appendice della loro potenza. Confrontate questa mia lettera con quella che vi mandai, ora è poco tempo, e vedete la differenza! Quante lodi io vi faceva! E anche ora vorrei lodarvi, ma non lo posso, per la vostra trasgressione. Il popolo vostro ha osato, come i cani, sbranare un uomo; e poi non si è vergognato [pg!285] di innalzare agli dei delle mani lorde di sangue! Ma Giorgio, voi dite, meritava questo castigo. Certo, io rispondo, anzi uno più grave e più acerbo. Per causa vostra, voi direte. Lo ammetto. Ma se voi diceste, per mano vostra, io direi di no. Poichè vi sono leggi che ognuno di voi deve onorare ed amare. E, se avviene che taluno le trasgredisce, voi, nella vostra maggioranza, dovete seguirle ed obbedirle, e non traviare da ciò che in antico fu provvidamente istituito. Siete ancora fortunati, o Alessandrini, di aver commessa la colpa vostra, sotto l'impero mio, poichè, per rispetto alla divinità e per riguardo al mio zio e mio omonimo, che ha governato l'Egitto e la vostra città , io serbo per voi una benevolenza fraterna. Ma una autorità rigorosa e pura tratterebbe l'audacia colpevole del popolo come una grave malattia che bisogna risanare con acerba medicina. Eppure io vi presento, per le ragioni che ho testè dette, ciò che vi sarà ben più grato, esortazioni e ragionamenti, dai quali ben so che voi sarete persuasi, se voi siete, come mi si dice, Greci d'antica stirpe e se di quella origine rimane ancora la traccia mirabile e gentile nell'animo vostro e nelle vostre abitudini.«Ciò si renda noto ai miei cittadini di Alessandria»285.Quando si riflette che questo editto è uscito dalla penna del più convinto nemico che abbia avuto il Cristianesimo, non è possibile non vedervi un esempio di moderazione e di padronanza delle passioni. Il vescovo Giorgio doveva essere doppiamente odioso a Giuliano, e come cristiano intollerante, e come amico e confidente di Costanzo. Pertanto la sommossa [pg!286] degli Alessandrini poteva esser considerata da lui come una prova di zelo e di devozione, come la dimostrazione più solenne del favore che la restaurazione, da lui iniziata, trovava nella capitale del commercio e del pensiero d'Oriente. Ma Giuliano, fedele al suo programma, non vuole nè sangue, nè violenze, nè turbolenze. Egli, certo, non permetteva la violenza dei Cristiani che correvano a perseguitare chi non credeva ciò che essi credevano, ma non permetteva nemmeno la violenza dei Pagani che da sè stessi si facevano giustizia. L'ordine nella tolleranza reciproca era il suo programma, ed egli ancor s'illudeva che il Paganesimo avesse in sè tanta forza d'attrazione che, riposto nella libertà della sua azione e del suo svolgimento, avrebbe visto ritornare a lui le turbe guarite del loro traviamento!Se non che l'ordine nella tolleranza non era facile a conservarsi, in mezzo alle passioni esaltate. L'esempio degli Alessandrini fu seguito, a quel che narra Sozomene286, in altre città , a Gaza, ad Aretusa di Siria, dove avvennero tumulti e scene di sangue, promosse da Pagani che si vendicavano di Cristiani, mentre altrove i Cristiani, non spaventati, anzi, parrebbe, irritati dall'inaspettata risurrezione del Politeismo, si riponevano con maggior ardore a distruggere i templi. Il fatto più grave fu quello di Cesarea di Cappadocia, dove la popolazione, in grande maggioranza, cristiana, dopo aver abbattuti i templi di Giove e di Apollo, distruggeva, regnante Giuliano, il tempio della Fortuna287. L'imperatore non rispose alla sfida che con [pg!287] castighi, certo, assai gravi, ma d'indole amministrativa. Depose il Prefetto della Cappadocia, confiscò i beni delle chiese cristiane, impose una multa pesante e tolse alla città i suoi privilegi. Ma sarebbe ingiustizia il dare a tale procedimento il carattere di una persecuzione. Dato il compito ch'egli si era imposto, Giuliano poteva lasciar tranquilli i suoi nemici, ma non poteva permettere che impunemente gli si ribellassero, e lo ferissero in ciò che più gli stava a cuore.â¦Coloro che accusano Giuliano di violenza e di persecuzione per questi atti di difesa dimenticano che il Cristianesimo, appena ottenuta, con Costantino, la vittoria, non seppe sottrarsi alle condizioni dei tempi e dei costumi, e divenne tosto persecutore a sua volta. Come saggio della intolleranza dei primi imperatori cristiani e della persecuzione da loro iniziata, valga questo decreto di Costanzo e Costante, promulgato nell'anno 353. «Decretiamo che, in ogni luogo ed in ogni città , siano chiusi i templi, che nessuno vi possa entrare, e che sia negata agli empi la licenza di delinquere. Vogliamo che tutti si astengano dal far sacrificio. Se taluno perpetrasse qualche cosa di simile sia ucciso con la spada vendicatrice. Decretiamo che le sostanze dell'ucciso siano attribuite al fisco, e vogliamo che siano puniti i governatori delle Provincie che fossero negligenti nel reprimere i delitti»288. Certo, nè un Decio nè un Diocleziano potevano [pg!288] far meglio. Ma il documento più interessante per farci conoscere l'oppressione esercitata dai Cristiani sui Pagani, è il discorsointorno ai templidiretto da Libanio all'imperatore Teodosio. Sebbene questo discorso sia posteriore di alcuni anni al regno di Giuliano, pure esso dipinge una condizione di cose che, già da tempo, esisteva, ed è sintomatico dello stato degli animi in mezzo al conflitto di due religioni ancora rivali. L'origine del discorso è questa. L'imperatore Teodosio, con parecchi decreti, e specialmente con uno diretto al Prefetto d'Oriente, Cinegio, nel 385, aveva confermata la disposizione dei precedenti imperatori, vietante i sacrificî. Tollerava però la continuazione di alcuni riti, come l'incensamento e la preghiera, e non aveva imposta e nemmeno incoraggiata la distruzione dei templi. Ma i Cristiani, tale incoraggiamento, pare lo trovassero nella logica delle cose, e, quindi, senza aspettare nè leggi, nè ordini imperiali, si ponevano all'opera di abbattere i templi, fra i quali insigni monumenti, coprendo, coll'apparenza del fanatismo religioso, privati interessi ed avidità di guadagno. Contro tale abuso Libanio innalza la sua voce in un discorso da lui diretto all'imperatore, la cui data può determinarsi nei sei anni che corsero dal 385 al 391289.Leggendo quel discorso si raccolgono le prove della decadenza, della corruzione morale in cui era precipitato il Cristianesimo, appena diventato dominatore. Questa impressione, che abbiamo già raccolta da tutti i documenti contemporanei, è confermata fortemente dal discorso di Libanio. Perchè costui potesse rivolgersi ad un imperatore, di fede cristiana, e quale [pg!289] imperatore! accusando così esplicitamente i Cristiani, e in particolare modo i chierici ed i monaci, di ogni sorta di soprusi, per la smania del lucro, bisogna pur dire che la verità dell'accusa fosse, almeno in parte, tanto lampante, da togliere ogni pericolo per chi osasse esporla e dichiararla. Noi vediamo, in Libanio, come il Politeismo si fosse ritirato dalle città nei campi, dov'era gelosamente conservato dai coloni, dagli agricoltori, i quali, con la tenacità della gente semplice e lontana dai perturbamenti sociali, adempivano le antiche cerimonie e chiamavano le note e care divinità a proteggere i loro lavori. È contro costoro che maggiormente si esercitava la prepotenza del clero cristiano che poi si arricchiva di spogliazioni, compiute in nome di un principio divino! Queste sono rivelazioni preziose. Per comprendere un movimento, come quello tentato da Giuliano, bisogna, dunque, ricordare che il Cristianesimo, perdendo affatto il suo carattere di rivendicazione morale e di sublime eroismo, si era abbassato alle condizioni del tempo, ed era diventato, nella realtà , una religione alla cui ombra pullulavano tutte le passioni e tutti i vizî che essa, se avesse effettivamente rigenerata la società , avrebbe dovuto estinguere.Ma, prendiamo qualche fiore dal mazzo di scherni e di accuse che ci offre Libanio. «Tu — egli dice, rivolgendosi a Teodosio — tu non hai ordinato che si chiudessero i templi, nè che nessuno vi avesse accesso, nè che si allontanassero dagli altari il fuoco e l'incenso o l'onore di altri profumi. Ma quella gente, vestita di nero, che mangia più degli elefanti, e che, per le ripetute bicchierate, dà un gran da fare a coloro che, quando canta, la provvedono di vino, e nasconde tutto ciò sotto una pallidezza artificiale, [pg!290] ad onta della legge, o imperatore, corre ai templi, alcuni portando bastoni e sassi e ferri, altri senza di ciò, nell'intento di adoperare le mani e i piedi. Quindi abbattono i tetti, scavano le pareti, strappano le statue, spezzano gli altari. E i sacerdoti devono o tacere o morire. Distrutti i primi templi, corrono ai secondi, poi ai terzi, e, contro la legge, accumulano trofei su trofei. Ciò si osa fare nelle città , ma molto più nei campi... Li percorrono, come torrenti, devastandoli, sotto il pretesto di distruggere i templi. E quando, in un campo, hanno abbattuto il tempio, è come se ne spegnessero ed uccidessero l'anima. Poichè, o imperatore, i templi sono l'anima dei campi, e furono il primo nucleo delle costruzioni cresciute, attraverso molte generazioni, fino allo stato presente. E nei templi son poste le speranze degli agricoltori per la prosperità degli uomini, delle donne, dei figli, dei buoi, delle seminagioni e delle messi. Un campo che ha sofferto tale danno, è rovinato, ed è perduta, insieme alle speranze, la confidenza degli agricoltori. Vano credono il loro lavoro, quando son privati degli dei che lo rendono proficuo... Così l'audacia di quella gente, che si esercita scelleratamente nei campi, conduce ai più deplorevoli risultati. Dicono di far guerra ai templi; ma la guerra si risolve nel rubare, nello strappare ai poverelli ciò che loro appartiene, le loro provviste, raccolte dal suolo, pel loro nutrimento, e se ne partono, portando via, come conquistatori, le spoglie dei debellati. E non basta, chè si appropriano la terra del primo malcapitato, dicendo che è terra sacra, e così molti, per questa parola falsa, son privati dei beni paterni. Ed essi, che pretendono di servire, così dicono, col digiuno il loro dio, gozzovigliano nei [pg!291] mali altrui. E se poi gli sventurati, andando alla città , si lamentano col Pastore (così chiamano un uomo tutt'altro che buono) ed espongono le loro sofferenze, il Pastore loda gli offensori e licenzia gli offesi, dicendo che hanno fatto un guadagno nel non aver sofferto di più. Eppure, o imperatore, anche questi infelici fan parte del tuo impero, e son tanto più utili dei loro offensori, di quanto i lavoratori son più utili degli oziosi. Quelli son simili alle api e questi ai calabroni. Appena essi hanno notizia di qualcuno che possegga un campicello di cui lo si può spogliare, tosto affermano che colui sacrifica e fa cose riprovevoli, e che bisogna far impeto contro di lui, ed ecco entrano in scena imoralisti290, poichè questo è il nome che danno ai ladri, se pure io non dico troppo poco, poichè i ladri cercano di nascondersi, e negano ciò che osano fare, e si ritengono offesi se li chiami ladri. Ma quelli invece si vantano di ciò che fanno, e sono rispettati, e lo narrano a chi lo ignora, e affermano di essere degni di premio..... E perchè mai, o imperatore, tu raccogli tanta forza, e prepari le armi, e chiami a consiglio i generali, e li spedisci dove maggiore è il bisogno, e a questi scrivi, a quelli rispondi? E perchè queste nuove mura, questi lavori estivi? A che mira, a che serve tutto ciò per le città e pei campi? A vivere senza timore, a riposare tranquillamente, a non esser turbati dalle minacce dei nemici, ad esser certi che, se alcuno ci venisse addosso, se ne andrebbe dopo aver subìto più che recato danni. E dunque se, mentre tu raffreni i nemici esterni, alcuni tuoi sudditi maltrattano altri che sono pure sudditi tuoi, e non permettono [pg!292] loro di godere dei beni comuni, non è, forse, vero che essi offendono la tua provvidenza, la tua saggezza e le tue cure? Non è, forse, vero che, con le loro azioni, essi fan guerra alla tua volontà ?»291.In questo appello, nel quale lo scherno si unisce all'invettiva ed al ragionamento, Libanio ci pare davvero eloquente e pieno di abilità . E si sente nella parola dell'oratore un accento di verità , il sentimento di un diritto offeso, il grido dei vinti ingiustamente calpestati. Gli uomini non mutano nelle loro passioni. I Cristiani, diventati vittoriosi, avevano preso il posto dei dominatori di prima, e rinnovavano, in nome di un nuovo principio, quei procedimenti e quegli eccessi che già erano stati compiuti, in nome di un principio opposto. E Libanio, da pagano perseguitato, confuta energicamente l'argomento che i Cristiani persecutori presentavano a difesa delle loro violenze, cioè, che con esse costringevano i Pagani a convertirsi. Con tale procedimento, dice Libanio, non si ottengono che [pg!293] conversioni di apparenza. Ed allora, esclama Libanio, quale vantaggio ne avranno i Cristiani, se i nuovi convertiti lo saranno a parole, ma nol saranno a fatti? «In cose di questa natura bisogna persuadere e non costringere. Colui che, non potendo persuadere, usa la violenza, sebbene creda di riuscire, in realtà non riesce a nulla»292. Ma la colpa di questa tristissima condizione di cose non è di Teodosio, pel quale l'abile e prudente Libanio non ha che parole di lode, ma di un perfido consigliere. E par che Libanio voglia indicare Cinegio, prefetto d'Oriente, marito di Acantia, matrona che godeva fama di santità . «Questo uomo ingannatore, empio e nemico degli dei, e crudele e avaro, funesto alla terra che lo riceve, godendo di una fortuna irragionevole e male usandone, è servo della moglie, a cui compiace in ogni cosa, a cui tutto subordina. E costei deve, a sua volta, obbedire a coloro che le si impongono, e che fanno pompa di virtù coll'indossare vesti di lutto, anzi, per pompa ancor maggiore, vesti di quella tela di cui i tessitori fanno i sacchi. Questa combriccola inganna, illude, agisce sotto mano, e dice il falso»293. Curioso, davvero, questo quadretto di un prefetto d'Oriente che è guidato dalla moglie, la quale, a sua volta, è guidata dai monaci! E come è strana la diversità dei giudizî degli uomini, a seconda del colore della lente passionale con cui guardano gli oggetti! Libanio vede la perfidia ed il ridicolo, là dove un Gregorio ed un Atanasio avranno veduto l'espressione più pura della santità delle intenzioni e della condotta![pg!294]Ma Teodosio, dice Libanio, non ha mai emanata nessuna legge che sanzionasse questi eccessi. «Tu non hai mai imposto questo giogo all'anima umana. E se credi che il culto del tuo dio sia preferibile al culto degli altri, non hai dichiarato che questo sia un'empietà , e che giustamente lo si possa vietare». Chè, anzi, egli chiama presso di sè, come consiglieri e commensali, uomini notoriamente devoti agli dei, e non diffida di un amico, perchè ripone negli dei le sue speranze. E, ricordando Giuliano, la cui imagine non è mai lontana dal pensiero di Libanio, egli esclama: «tu non ci perseguiti, imitando colui che, coll'armi ha sconfitti i Persiani, ma coll'armi non ha perseguitati quelli dei suoi sudditi che gli erano nemici.»294.â¦Durante il soggiorno di Giuliano in Antiochia avvenne un fatto che lo ha singolarmente irritato. Non v'era cosa che fosse più ripugnante a Giuliano del culto che i Cristiani rendevano ai sepolcri dei loro martiri, dei loro uomini illustri. Questa adorazione dei morti, com'egli la chiamava, offendeva il suo senso estetico di antico greco, gli pareva assurda, e probabilmente gli era odiosa come uno dei mezzi più efficaci per esaltare gli animi in un'aspirazione devota. Quando viene a toccare di questo culto dei morti, egli ha sempre qualche parola di disprezzo o di sarcasmo, e, più ancora, che la distruzione delle chiese, egli desiderava la scomparsa o l'abbandono di quelle tombe che erano diventate luoghi sacri. Tale era appunto la [pg!295] tomba del martire Babila che si trovava nel sobborgo di Dafne, presso Antiochia. Quel sobborgo era un luogo di delizie per la bellezza delle piante e dei fiori, per la vista e la giocondità dell'aura. La leggenda narrava che lì la ninfa Dafne, fuggendo da Apollo, si fosse trasformata in lauro. E questa memoria, congiunta all'eccitante amenità del luogo, faceva dei boschetti di Dafne il ritrovo degli amanti. «Chi — dice Sozomene — passeggiava per Dafne, senz'essere accompagnato da un'amante, era considerato come un uomo stolto e rozzo»295. E, in mezzo a quei boschi, sorgeva la più bella statua d'Apollo, e vicino uno splendido tempio di marmo, dedicato al dio.Se non che, quando Gallo, il fratello di Giuliano, fatto Cesare da Costanzo, e investito del governo d'Oriente, si stabilì in Antiochia, gli venne il pensiero, da quell'esaltato cristiano ch'egli era, di togliere il prestigio a quel famoso santuario dell'Ellenismo, e, per riuscirvi, pensò di costrurre, in faccia al tempio d'Apollo, un tabernacolo e di portarvi le reliquie del martire Babila. Pare che lo scopo, voluto da Gallo, fosse stato raggiunto. La presenza delle reliquie del martire, chiamando nei boschetti profumati di Dafne le turbe devote dei Cristiani, allontanava gli amanti, e spargeva un'aria di tristezza in cui spariva il sorriso del raggio apollineo.Avvenuta la rivoluzione religiosa, Giuliano, entrato in Antiochia, volle restituire all'antico splendore il tempio ed il culto d'Apollo, e ciò non poteva farsi se non si trasportavano altrove le reliquie del martire, che deturpavano il luogo sacro. Ed infatti ordinò che si eseguisse il trasporto. Quest'ordine fu causa di [pg!296] una grande dimostrazione dei Cristiani d'Antiochia, i quali, al dire di Sozomene, accompagnarono in folla, cantando salmi, per quaranta stadi, la cassa dove giaceva il martire. Giuliano fu per questa dimostrazione irritatissimo e si sarebbe lasciato andare ad atti di rappresaglia, se non fosse stato rimesso sulla buona strada dal prefetto Sallustio. Se non che, pochi giorni dopo, un terribile incendio divorava il tempio d'Apollo. I Cristiani affermarono che un fulmine mandato da Dio aveva posto in fiamme il tempio, ma Giuliano non dubitò un istante a darne la colpa ai Cristiani. Con grande amarezza egli ricorda, nelMisobarba, questo fatto, e pone a raffronto la condotta degli Antiochesi con quella di altre città in cui si rialzavano i templi e si distruggevano le tombe degli atei, cioè dei Cristiani, e si giungeva contro questi ad eccessi ch'egli deplorava. Gli Antiochesi, invece, rovesciavano gli altari appena rialzati, e la mitezza con cui egli li ammoniva a nulla aveva giovato. «Infatti, quando noi facemmo trasportare il cadavere, quelli di voi che non rispettavano le cose divine, consegnarono il tempio del dio agli sdegnati pel trasporto delle reliquie, e questi, non so se nascosti o no, accesero quel fuoco che negli stranieri destò orrore, e nel vostro popolo piacere, e che lasciò e lascia ancora indifferente il vostro Senato!»296. E, forse, fu sotto l'impressione di questo fatto che Giuliano diede l'ordine, con un decreto riportato da Sozomene, di distruggere due santuari di martiri che si costruivano, in Mileto, presso il tempio di Apollo297.[pg!297]â¦Tutte queste violenze parziali, che hanno un carattere episodico e che non erano che l'inevitabile rappresaglia vicendevole di due partiti pressochè equivalenti, non bastano a togliere il fatto sostanziale della tolleranza religiosa che Giuliano confidava di poter usare come lo strumento più efficace della restaurazione da lui iniziata. Noi abbiamo già parlato di quel provvedimento così interessante e così caratteristico, preso da Giuliano, del richiamo in patria dei Cristiani, esigliati da Costanzo, in causa dei dissensi teologici. Nelle lettere di Giuliano,troviamonotizie veramente curiose ed istruttive intorno a quel provvedimento.Il partito che aveva dominato alla corte di Costanzo non era quello dell'Arianesimo puro, ma, bensì, di un Arianesimo opportunista, il quale non ammetteva la consostanzialità del Padre e del Figlio, voluta da Atanasio e dal Concilio di Nicea, ma non affermava nemmeno la distinzione e la subordinazione del Figlio al Padre voluta dagli Ariani schietti. Costanzo, come sappiamo, aveva accettata la così detta formolaomoica, che diceva esser il Figlio simile al Padre, secondo le Scritture, e vietava ogni analisi e determinazione di tale somiglianza. Costanzo impose questa formola ai due Concilî di Rimini e di Seleucia, nel 359, e poi mandò in esiglio tutti i vescovi, tanto dell'estrema destra atanasiana, quanto dell'estrema sinistra ariana, che non si piegavano ad essa. Giuliano li richiamava, tutti insieme, senza distinzione. Però è singolare la diversità di trattamento ch'egli usa verso due eroi di [pg!298] quelle lotte teologiche, il diacono Aezio che rappresentava l'Arianesimo intransigente, ed il grande Atanasio, il legislatore del Concilio di Nicea. Al primo, Giuliano manda questo biglietto298.«Io richiamai dall'esiglio tutti coloro, quali essi siano, che da Costanzo furono esigliati, per la stoltezza dei Galilei. Quanto a te, non solo ti richiamo, ma, ricordando la nostra antica conoscenza e consuetudine, t'invito a venir da me. Tu potrai servirti pur di giungere al mio accampamento, della vettura di Stato e di un cavallo di rinforzo».Chi era quest'Aezio che Giuliano tratta con speciali riguardi? Era una vecchia conoscenza dell'imperatore. Ma guardiamolo, per un istante; poi gli porremo accanto la grande figura di Atanasio, e così avremo davanti a noi due profili caratteristici del tipo cristiano del secolo quarto. Aezio, Siro di origine, si era dato, in gioventù, alle arti più varie. Era stato fonditore di metalli, poi medico, ed, a poco a poco, si era fatto conoscere per l'inquietudine del suo spirito e per la singolare attitudine alle discussioni teologiche che erano la passione intellettuale del tempo. Se dobbiamo creder a Socrate, egli era assai più versato nella dialettica di Aristotele che nella conoscenza degli scrittori cristiani, e professava il disprezzo per Clemente ed Origene299. Allontanato da Antiochia come disturbatore della pace religiosa, Aezio, soggiornando in Cilicia e, specialmente, a Tarso, strinse amicizia coi seguaci delle idee lucianiste e ne divenne un apostolo ardente.[pg!299]Ritornato poi in Antiochia, Aezio si fa amico del presbistero Leonzio che apparteneva alla medesima scuola lucianista. Corre poi ancora in Cilicia, quindi ad Alessandria, a disputare con gnostici e manichei, finchè, diventato Leonzio vescovo di Antiochia, ritorna a metterglisi al fianco, ed è fatto diacono. Ma egli desta intorno al vescovo tale un turbinio di discordie e di dispute, che Leonzio è costretto a tenerlo lontano dalle sacre funzioni, conservandogli, però, l'ufficio d'insegnante. Pare che egli prendesse parte, nel 351, al Sinodo di Sirmio, dove avrebbe ferocemente combattuto gli Atanasiani. Questi avrebbero cercato di muovere contro di lui i sospetti di Gallo, il fratello di Giuliano, che, come sappiamo, era stato dall'imperatore Costanzo eletto alla dignità di Cesare. Ma non ci sarebbero riusciti. Infatti Aezio è tanto padrone della situazione e della fiducia di Gallo che costui lo manda, più volte, come suo confidente, al fratello Giuliano. Da qui la relazione fra il principe ed il diacono ariano, e gli speciali riguardi ch'egli ha per lui, appena salito al trono. Gregorio di Nissa accusa Aezio di essere stato consigliere di Gallo nell'uccisione del prefetto Domiziano e del questore Monzio, delitto orribile che poi ebbe per conseguenza la catastrofe di Gallo. Ma quale fede si possa avere nella narrazione del vescovo atanasiano, non è dato saperlo, poichè atanasiani ed ariani si accusavano, gli uni gli altri, senza punto scrupoli. Nel 356 Aezio va ad Alessandria, il gran focolare delle ire teologiche, e prende posizione come un ariano intransigente e di estrema sinistra, e vi parla e scrive come uno dei capi di un giovane Arianesimo. Richiamato in Antiochia dal vescovo Eudossio, lo compromette per modo, con la sua politica irritante, che i semiariani finiscono per aver [pg!300] buon gioco sull'animo di Costanzo, ed ottengono l'allontanamento del vescovo e l'esiglio di Aezio in Frigia. Un anno dopo, nel 360, avendo Costanzo, risolutamente presa in mano la formola omoica, con cui s'illudeva di imporre la pace ai partiti che squarciavano la Chiesa, si accrebbero i rigori contro Aezio che dal Sinodo di Costantinopoli fu dichiarato decaduto dal suo diaconato, e dall'imperatore confinato in Pisidia. Venuto al trono Giuliano, le sorti di Aezio volsero al meglio. Richiamato dall'esiglio, dichiarata nulla la sua deposizione, fu riconsacrato da un sinodo raccolto in Antiochia, insieme ad altri Ariani. Il focoso polemista morì, probabilmente, poco dopo, perchè di lui non si ha più traccia.Noi non sappiamo se Aezio abbia accettato l'invito dell'imperatore che, mentre lo chiamava a sè, qualificava di stoltezza il Cristianesimo, ma, se ha accettato, non è riuscito a farlo parteggiare a favore dell'Arianesimo. Giuliano era affatto indifferente ed imparziale per tutte le sette cristiane ch'egli confondeva in un odio comune. E che di tale odio gli Ariani avessero la parte a loro spettante, ce lo prova una lettera, scritta in occasione di tumulti promossi, in Edessa, dagli Ariani, che è tanto giusta nella sua ispirazione quanto acerba nella sua ironia.«Ad Ecebolio. — Io tratto i Galilei tutti con tanta mitezza e filantropia che nessuno ebbe mai a soffrire violenza, e non voglio che siano trascinati al tempio, o costretti a cosa alcuna contraria alla loro intima convinzione. Ma quelli della Chiesa ariana, inorgogliti della loro ricchezza, assalirono i Valentiniani, e commisero, in Edessa, disordini tali, quali non dovrebbero mai verificarsi in una savia città . Se non che, siccome una legge mirabilissima insegna [pg!301] loro che bisogna esser poveri per aver più facile l'accesso al regno dei cieli, così, per aiutarli, noi comandiamo che tutti i beni della Chiesa degli Edesseni siano confiscati e distribuiti ai soldati, e le sue terre aggregate ai nostri domini. Per tal modo, impoveriti, diverranno saggi ed otterranno lo sperato regno dei cieli!»300.Bisogna, dunque, dire che la sua cortesia per Aezio avesse proprio solo un movente di simpatia personale, e non possiamo dedurre che Giuliano arianeggiasse, ciò che sarebbe stato veramente inesplicabile, dato che, nella corte semiariana di Costanzo, egli aveva avuto i suoi più fieri avversari. Tuttavia, il personaggio che destava, nell'imperatore, la più implacabile antipatia, si trovava nel campo opposto, ed era nientemeno che il grande Atanasio, il fondatore dell'ortodossia cattolica. Questi due uomini, geniali l'uno e l'altro, di cui l'uno rappresentava il passato e l'altro l'avvenire, l'uno l'Ellenismo risorgente, l'altro il Cristianesimo dominatore, erano incompatibili l'uno all'altro. Il fatto che Giuliano tanto si incollerisce contro Atanasio, che era stato una vittima di Costanzo, mostra che, malgrado la sua giovinezza, egli conosceva a fondo gli uomini e vedeva dove stava il pericolo. Egli sentiva che la forza del Cristianesimo non stava già nel corrotto Arianesimo, sebbene dominasse sovra metà del mondo cristiano; ma bensì, nell'energia entusiasta del partito che, sventolando il vessillo del mistero mistico della Trinità , si stringeva intorno alla grande figura del vescovo d'Alessandria. Se Atanasio fosse scomparso, l'ortodossia cattolica non si sarebbe fondata, e il Cristianesimo non avrebbe avuta quella [pg!302] organizzazione che lo fece traviare dal suo carattere originale, ma che pur gli era necessaria per vivere.Per comprendere l'importanza del duello fra Giuliano ed Atanasio, diamo un'occhiata alla figura di quest'ultimo.Nessuna esistenza più burrascosa e più eroica di quella d'Atanasio. Un romanziere, di fervida fantasia, un Sienkiewicz, potrebbe costruirgli intorno un epico racconto. Nulla può servire a dare un'idea viva dell'ambiente del secolo quarto meglio che lo studio di questa grande figura e delle sue tempestose avventure. L'uomo era grande davvero, era un carattere dominatore per eccellenza, una tempra inflessibile di combattente, un'anima dal volo largo e potente. C'è molta analogia fra Atanasio ed Ambrogio. Ma Ambrogio si è trovato in condizioni assai meno difficili e pericolose. Ambrogio non trovò contrasti nell'esercizio della sua autorità , fuor che durante la reggenza di Giustina. Ma il vescovo era troppo forte in confronto all'imperatrice, per poter dubitare della vittoria finale. All'infuori di quest'urto passaggero, Ambrogio dominò sovrano, ed ebbe, nella guerra contro l'Arianesimo, a sua disposizione l'aiuto del potere imperiale. Graziano e Teodosio furono due strumenti nelle sue mani, coi quali egli è riuscito ad erigere l'ortodossia cattolica a religione dello Stato. Atanasio, invece, ebbe una vita di lotte incessanti e gigantesche. Egli aveva l'impero contro di sè. Se si eccettui Costantino, ai tempi del Concilio di Nicea, e il fuggevole Gioviano, egli ebbe persecutori tutti gli imperatori che vide succedersi nella sua lunga vita, sul trono di Costantinopoli, Costanzo, Giuliano, Valente.Nato negli ultimi anni del secolo terzo, Atanasio passava la sua prima giovinezza in Alessandria, al [pg!303] fianco del vescovo Alessandro, di cui fu l'ispiratore in quei primi dissensi fra il vescovo ed il presbitero Ario, che poi condussero alla guerra civile nel seno del Cristianesimo. Al Concilio di Nicea, Atanasio era già una figura dominante, e l'Arianesimo potè vedere in lui il più poderoso dei suoi nemici. Morto Alessandro, fu eletto nel 328 vescovo di Alessandria. Ma l'opposizione del clero che arianeggiava si destò così energica, e tali furono le accuse che piombarono sul capo del neoeletto, che Costantino, il quale, intanto, visto l'insuccesso della politica ortodossa, stava piegando all'Arianesimo, chiamò l'accusato a giustificarsi prima davanti a lui a Nicomedia, poi, rinnovandosi ancora le accuse, davanti ad un Concilio raccolto a Cesarea, nel 334. Ma Atanasio indugiò a presentarsi e, sottomano, riusciva a persuadere Costantino della sua innocenza ed a riguadagnarsene il favore. Se non che, i suoi nemici avevano giurata la sua rovina. Eusebio di Nicomedia, il futuro educatore di Giuliano che viveva presso l'imperatore, lo indusse a convocare, nel 335, un altro sinodo a Tiro, che giudicasse il vescovo d'Alessandria. Questi si presentò al Concilio, con un seguito imponente di cinquanta vescovi, ma, convintosi che l'assemblea avrebbe sentenziato contro di lui, non aspettò il verdetto di destituzione, e s'imbarcò per Costantinopoli, fidando nell'influenza della sua persona sull'animo di Costantino. Nè s'ingannava, chè l'imperatore, posto fra il Concilio ed Atanasio, inclinava più a questo che a quello, quando Eusebio mosse al rivale una nuova accusa, questa volta, d'indole non teologica, e tale che doveva far grande impressione sull'animo dell'imperatore; accusò Atanasio di aver minacciato di far sospendere l'annuale provvista di granaglie che [pg!304] da Alessandria giungeva a Costantinopoli. Costantino non volle più udire Atanasio, e, senz'altro, lo esigliò a Treviri, in Germania, dove, del resto, trovò cortese accoglienza dal figlio dell'imperatore, ed un ardente collega di opinioni teologiche nel vescovo Massimino.Morto Costantino nel maggio del 337, Atanasio ritornò trionfante in Alessandria, e riprese il suo ufficio. Fu il segnale di una nuova tempesta. Atanasio, che, certo, non era un uomo tollerante, depose dagli uffici ecclesiastici tutti coloro che erano stati suoi avversari e li sostituì con amici, infiammando sempre di più la collera degli Ariani. Sul trono di Costantinopoli sedeva Costanzo, semiariano, il quale non vedeva che con gli occhi di Eusebio. Mandò, pertanto, ad Alessandria un nuovo vescovo Gregorio, e lo fece accompagnare da una scorta militare, onde imporlo con la forza se si trovasse resistenza. Infatti, la venuta di Gregorio fu causa di sommosse e di scene di violenza. Ma Atanasio vedendo inutile ogni sforzo, nel marzo del 340, partiva, pel suo secondo esiglio, e si recava a Roma presso il vescovo Giulio. In Occidente, Atanasio trovava amici ed appoggio, cominciando dall'imperatore Costante che, diversamente del fratello Costanzo, era propenso all'ortodossia. Per cinque anni, l'infaticabile Atanasio, protetto dall'imperatore, si agita a difesa ed a gloria della fede da lui professata con sì eroica convinzione. A Milano, nelle Gallie, ad Aquileja, egli è il legislatore religioso. Ma, intanto, anche in Oriente, le cose volgevano al meglio per lui. Costanzo, stimando conveniente di non staccarsi troppo aspramente dal fratello, accennava ad un più mite contegno; così che, morto nel 345 il vescovo Gregorio, Atanasio potè presentarsi a Costanzo in Antiochia, ed [pg!305] ottenere da lui di esser ripristinato nella sua sede di Alessandria. Nel 346, egli, infatti, vi rientrava fra il giubilo del popolo. Ma la pace ebbe breve durata. Morto Costante nel 350, Costanzo non ebbe più ritegno a parteggiare per l'Arianesimo. E, di conseguenza, ricominciò la guerra contro Atanasio, accusato di essere il disturbatore della tranquillità della Chiesa. Vari tentativi per impadronirsi della persona del vescovo riuscirono vani pel minaccioso atteggiamento della popolazione alessandrina. Ma, finalmente, nella notte del 9 febbraio del 356, il governatore Siriano, con buon nerbo di soldati, riesce a penetrare nella chiesa, dove il vescovo celebrava un servizio divino. Ne viene un sanguinoso tumulto, durante il quale Atanasio sparisce. Gli Ariani, vittoriosi, riprendono tutti gli uffici che erano stati costretti ad abbandonare, e alla sede vescovile è nominato quel Giorgio, di cui abbiamo già fatta la triste conoscenza.Durante questo terzo esiglio, che durò dal 356 al 361, Atanasio visse negli eremi dell'alto Egitto, ritornando, però, di nascosto, più volte in Alessandria, dove egli alimentava il suo partito con gli scritti che andava componendo nella sua feconda solitudine. Per verità , se si dovesse prestar fede a Sozomene, il fiero vescovo avrebbe passato meno duramente questo lungo periodo di rinnovata persecuzione. Narra lo storico che Atanasio rimase in Alessandria, nascosto presso una vergine di singolare bellezza, di tale bellezza che nessuna donna d'Alessandria poteva esserle eguagliata. Ma riproduciamo le parole di Sozomene che ci presentano uno strano manicaretto di santità e di romanzo, una miscela che a noi pare eterogenea, e che pur riusciva prelibata ai palati letterari del secolo quarto. «A quanti vedevano quella vergine, essa [pg!306] appariva un miracolo, ma coloro che ci tenevano alla fama di temperanza e di saggezza la fuggivano, pel timore che si sospettasse di loro. Poichè era proprio nel fiore dell'età , e supremamente dignitosa e modesta... Ora, Atanasio, mosso a salvarsi da una visione divina, si rifugiò presso quella vergine. E, se io investigo l'evento, mi par proprio di vedervi la mano di Dio, il quale non voleva che gli amici di Atanasio soffrissero molestia, se mai alcuno volesse interrogarli intorno a lui o costringerli a giurare, mentre, intanto, Atanasio se ne stava nascosto presso colei, la cui bellezza era troppo grande per permettere il sospetto che il sacerdote potesse trovarsi con lei301. Essa lo ricevette con coraggio e lo salvò con la prudenza, e fu una custode così fedele ed una servente così premurosa, da lavargli i piedi, da provvedere essa sola al cibo, ed a tutte le altre cose che la natura ci rende indispensabili negli urgenti bisogni302. Di più si procurava dagli altri i libri che gli erano necessari. E malgrado che ciò durasse lunghissimo tempo, nessuno dei cittadini di Alessandria mai lo seppe»303.Del resto, sia che Atanasio si rifugiasse nei nascondigli del deserto, sia che rimanesse celato nei penetrali della casa verginale della bellissima fanciulla, la sua azione e la presenza erano spiritualmente sentite nell'ambiente eccitato di Alessandria; così che il vescovo Giorgio, il quale, come sappiamo, era un imprudente, non aveva la vita tranquilla, ed era, ad [pg!307] ogni istante, esposto alle sommosse di una popolazione irritata contro di lui, finchè giunto al trono Giuliano, le ire ammassate scoppiarono terribili e lo trascinarono alla catastrofe, alla quale gli Atanasiani assistettero impassibili e, probabilmente, conniventi.Pubblicato il decreto di Giuliano che permetteva il rimpatrio ai vescovi esigliati dall'ariano suo antecessore, Atanasio, non solo ritornò in Alessandria, ma rioccupò, senz'altro, il seggio vescovile, e riprese, con rinnovata energia, la sua azione di propaganda e di combattimento.Ora, la condotta di Atanasio disturbava la politica di Giuliano, il quale voleva tenere i due partiti cristiani sul piede d'eguaglianza, e di reciproca tolleranza, nella previsione che si sarebbero indeboliti a vicenda. Ma nulla era più lontano dalle sue intenzioni che il dar mano forte all'ortodossia per vincere l'Arianesimo, e nessuno, pertanto, poteva essergli più sospetto e più odioso dell'ardente Atanasio. Egli, pertanto, s'inalberò davanti alla ricomparsa brillante del vescovo d'Alessandria e sentì di non poterla tollerare. Vide in Atanasio un nemico più forte di lui, che avrebbe reso vano il tentativo a cui aveva dedicata la sua vita, e decise di soffocarlo. Cominciò la persecuzione col pretesto che Atanasio era uscito dalla legge. Infatti l'imperatore aveva, con un editto, concesso il rimpatrio dei Cristiani esigliati, ma, in quell'editto, non era detto che potessero riprendere il governo delle rispettive chiese. Atanasio, invece, non aveva esitato un istante a mettersi al posto del massacrato Giorgio. Ed ecco che Giuliano manda tosto questo nuovo decreto agli Alessandrini. «Un uomo, esigliato da tanti decreti di tanti imperatori, avrebbe dovuto aspettare una speciale autorizzazione, prima di rientrare in patria, [pg!308] e non già offendere, con audacia e con follia, le leggi, quasi non avessero valore. Noi abbiamo concesso ai Galilei, esigliati da Costanzo, non già il ritorno nelle loro chiese, ma, bensì, il ritorno in patria. Ed ora apprendo che l'audacissimo Atanasio, gonfiato dall'abituale impudenza, ha ripreso quello che essi chiamano il trono vescovile, ciò che non è poco sgradevole al pio popolo di Alessandria. Noi, pertanto, gli ordiniamo di uscire dalla città , immediatamente nel giorno in cui avrà ricevuto questa lettera, che si deve considerare come un segno della nostra mitezza. Ma, s'egli rimane, noi gli decreteremo maggiori e più molesti castighi».304Pare che Atanasio restasse, malgrado le minacce, ed, anzi, non pago di combattere gli Ariani, facesse opera di feconda propaganda presso i Pagani, guadagnando al Cristianesimo sopratutto le donne. Giuliano, furente, manda al governatore dell'Egitto, Edichio, questo biglietto:«Se non volevi scrivermi d'altra cosa, dovevi però scrivermi di quel nemico degli dei che è Atanasio, tanto più che ti è noto ciò che, già da tempo, fu da me saviamente stabilito. Io giuro pel grande Serapide che se, prima delle calende di Decembre, quell'Atanasio, nemico degli dei, non se n'è andato dalla città , anzi, da tutto l'Egitto, io imporrò alla provincia da te amministrata una multa di cento libbre d'oro. Tu sai quanto io sia lento nel condannare, ma molto più lento nel perdonare, se ho una volta condannato».Pare che fin qui, Giuliano, dettasse il suo decreto ad un segretario. Preso da un subitaneo impulso di sdegno, afferra lui lo stilo, e scrive: «Di mia propria [pg!309] mano. — A me duole assai essere disobbedito. Per tutti gli dei, nulla potresti farmi di più grato che lo scacciare, da ogni angolo d'Egitto, Atanasio, quello scellerato che ha osato, me imperante, battezzare le donne greche di illustri cittadini. Sia perseguitato!»305.Nel primo decreto agli Alessandrini, l'imperatore comandava che Atanasio fosse bandito dalla città . Ora, ciò non gli basta, deve esser esigliato da tutto l'Egitto. E questo nuovo ordine, trasmesso al governatore con quel biglietto di poche frasi iraconde, è poi svolto largamente in questo proclama al popolo d'Alessandria:«Giuliano agli Alessandrini».
Finchè Giuliano visse sotto le minacce di Costanzo o come suo rappresentante nel Governo della Gallia, egli tenne celate le sue idee, la sua fede ed i suoi eventuali propositi, dato che un giorno avesse in sua mano la somma delle cose. Durante tutti quegli anni di necessario infingimento, il giovane entusiasta, che, in mezzo alle cure della guerra e del governo, non dimenticava mai lo studio e la meditazione, s'infervorava nel suo amore per l'Ellenismo, nel suo desiderio di poterlo salvare dalle minacce del Cristianesimo invadente, con un ardore intimo, reso, direi quasi, più intenso dall'impossibilità di espandersi apertamente. Ma egli non si è mai compromesso con un atto che potesse poicreargli, nella pericolosa posizione in cui si trovava davanti a Costanzo, difficoltà insuperabili. Anzi, noi abbiamo veduto come, già creato imperatore dai suoi soldati, mentre però ancora non s'era risoluto alla guerra civile e sperava in un accordo con Costanzo, partecipasse, con una prudenza tanto grande che può dirsi simulazione, alla festa solenne dell'Epifania.
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Ma, quando, svanita ogni illusione di accordo, Giuliano si gettò nell'avventura, che doveva parer disperata, di marciare contro Costanzo, egli depose la maschera, e, risoluto di giocare il tutto pel tutto, si rivelò restauratore della religione antica. Non è ben chiaro ch'egli facesse atto pubblico di fede politeista, prima della sua partenza dalla Gallia, ma, durante il viaggio dalla Gallia a Sirmio, diede apertamente, con una certa ostentazione, alla sua spedizione il carattere di un'impresa posta sotto il patrocinio degli dei. Giuliano stesso ce lo dice, in una lettera da lui diretta al suo venerato maestro, il filosofo Massimo, e scritta, appunto, mentre egli era in marcia verso i Balcani. In mezzo alle cure urgenti da cui è premuto, Giuliano è grato agli dei che gli permettono di poter scrivere a Massimo, e che spera gli permetteranno di rivederlo. Egli protesta, e chiama in testimonio gli dei, di esser diventato imperatore contro la sua volontà 262. Poi, con quella facilità e grazia di descrizione che gli è naturale, racconta l'incontro da lui fatto, con un inviato di Massimo stesso, e gli esprime tutta l'ansia che aveva provata al pensiero dei pericoli ai quali il maestro e l'amico del Cesare ribelle poteva esser esposto. Infine chiude la lettera parlando del favore con cui gli dei accompagnano la sua impresa che si compie senza violenza e con grande facilità , e così finisce: «Noi adoriamo gli dei apertamente, e la maggior parte dell'esercito che mi accompagna è devoto ad essi. Noi sacrifichiamo in faccia a tutti, ed offriamo agli dei il dono di molte ecatombi. Gli dei mi comandano di santificare ogni mia azione, ed io obbedisco con [pg!269] tutta l'anima, ed essi mi assicurano grandi frutti della mia impresa, pur che si persista»263. Qui si sente la fiducia e l'entusiasmo del riformatore che è ai primi suoi passi, ed a cui tutto par facile e pieno di speranze. Basteranno pochi mesi a fargli perdere le illusioni, così da indurlo a scrivere quello sfogo di amarezza che è ilMisobarba!
Morto il cugino, Giuliano, proclamato imperatore, pel consenso di tutti, fatto il solenne ingresso in Costantinopoli, diede alla sua volontà la sanzione della legge. «Scomparso — scrive Ammiano Marcellino — ogni pericolo ed acquistata la facoltà di fare tutto ciò che volesse, Giuliano aperse i segreti del suo cuore e, con chiari e precisi decreti, stabilì che si spalancassero i templi, si presentassero le vittime agli altari, si restituisse il culto degli dei»264.
Che Giuliano prendesse queste risoluzioni, appena avuta la piena libertà d'azione, era nell'ordine naturale delle cose. Ma quale è stata la sua condotta nei rapporti col Cristianesimo, in cui vedeva un odiato nemico col quale iniziava un duello mortale? Qui è il punto più interessante dello studio che stiamo facendo sulla persona e sulle azioni dell'imperatore Giuliano. La prima mossa ch'egli fece indicò chiaramente l'indirizzo che intendeva di prendere. Mentre provvedeva alla riapertura dei templi ed alla restaurazione del culto pagano, chiamava nel suo palazzo i capi della Chiesa cristiana, divisa, come sappiamo, in due partiti che si detestavano a vicenda, ed, in presenza della plebe cristiana, ammessa anch'essa al cospetto dell'imperatore, li ammoniva cortesemente, [pg!270] affinchè, sopite le discordie, ognuno servisse la propria religione, senza paura di nessun divieto —ut, discordiis consopitis, quisque, nullo vetante, religioni suæ serviret intrepidus—265. Con questo discorso ai Cristiani di Costantinopoli, Giuliano riprendeva quel principio di tolleranza religiosa che, inaugurato da Costantino col decreto di Milano, poi da lui dimenticato, doveva spegnersi con Giuliano per non risorgere che dopo quindici secoli di completo oscuramento. A tale principio, Giuliano è rimasto fedele in tutta la sua breve carriera. I polemisti e gli storici cristiani, Gregorio di Nazianzo, Socrate, Sozomene, Rufino, si battono i fianchi per porre in cattiva luce l'azione dell'imperatore, ma non riescono, in nessun modo, a farne un persecutore. Certo, qualche atto di violenza è avvenuto, durante il breve suo regno. Ma era la conseguenza inevitabile delle passioni partigiane e delle abitudini del tempo. L'acerbo Gregorio insinua che Giuliano era lieto di lasciar mano libera al popolo, per riservare a sè stesso la parte più nobile di chi vuol convertire con la persuasione, e afferma che il suo scopo era di far violenza ai Cristiani, senza però dare ad essi l'opportunità di atteggiarsi a martiri266, ciò che, in realtà , equivale al riconoscimento, da parte del polemista, che non è constatabile nessuna violenza, voluta dall'imperatore. Rufino deve pur ammettere che Giuliano, più astuto dei suoi predecessori, invece delle inutili crudeltà , applicava le lusinghe, i premi, le esortazioni. E Socrate che usa la parolapersecuzione, dichiara ch'egli comprende, sotto quel nome, qualsiasi [pg!271] atto che possa disturbare, anche nel più lieve modo, delle persone tranquille267.
Certo, gli storici ecclesiastici ci narrano alcuni episodi, da cui risulterebbe giustificata la taccia di persecutore attribuita a Giuliano. Ma, non bisogna dimenticare che quegli storici scrivevano un secolo dopo la morte di Giuliano, quando la leggenda si era già formata, e che, privi, com'erano, di ogni senso critico, quanto più una notizia era inverosimile, e tanto più era loro accetta. Di alcune di quelle storie il carattere leggendario è troppo evidente, perchè si possa, in alcun modo, prenderle sul serio; di altre, che forse contengono qualche elemento di verità , non si deve far risalire la responsabilità all'imperatore. Che Giuliano, avuto il potere in sua mano, tendesse ad usarne a vantaggio della causa ch'egli difendeva, che, pertanto, nei suoi giudizî, non adoperasse coi due partiti, una bilancia assolutamente eguale, che le sue preferenze pei Pagani si rivelassero con segni manifesti, lo si può riconoscere e si può anche scusare, perchè, infine, Giuliano era un uomo che mirava ad un determinato scopo, ed era inevitabile che, nello studio per raggiungerlo, si lasciasse trascinare qualche passo più in là di quello che una rigorosa imparzialità avrebbe voluto. Ma questa non può dirsi persecuzione. La persecuzione consiste nel ricercare e nel punire gli avversari solo perchè avversari, nel prendere l'iniziativa di atti diretti a distruggerli, nell'usare la violenza come arma regolare e legittima. Ora, di ciò non è traccia nella condotta di Giuliano. Se fu presa, durante il suo breve regno, qualche misura di rigore, ciò fu opera quasi sempre di prefetti [pg!272] che interpretavano, a loro modo, l'intenzione dell'imperatore, e, quello che più conta, fu la conseguenza di tumulti e di disordini, di cui i Cristiani avevano la colpa principale. Così, dato anche che fosse esatta la notizia, in parte evidentemente leggendaria, riferita da Socrate, del martirio di Teodulo e di Taziano, per ordine del prefetto della provincia di Frigia, bisogna notare che quei due, infiammati di zelo, si erano posti alla testa di una sommossa di Cristiani e, penetrando in un tempio appena riaperto nella città di Mero, avevano spezzate tutte le statue degli dei268. Pretendere che il governo di Giuliano assistesse impassibile ad azioni come questa, e chiamarlo persecutore, perchè un suo magistrato ne ha puniti gli autori, è cosa da polemista, non è cosa da storico.
Giuliano, come tutti i riformatori si sarà illuso che il giorno in cui egli potesse manifestare la sua idea ed inaugurare un'era nuova, il mondo gli sarebbe caduto ai piedi. Ma, invece, toccato il potere, egli trovò un'inaspettata resistenza e sentì che l'impresa era assai più ardua di quanto imaginasse. Da qui un turbamento nel suo giudizio, ed un sentimento di irritazione che diede una certa asprezza alla sua azione, nell'ultimo periodo nel suo regno. Ma non si può dire ch'egli rinnegasse mai i principi razionali a cui s'era ispirato e che partecipasse al cieco pregiudizio che aveva promosso la spietata e stolta persecuzione degli imperatori precedenti. Del resto, la moderazione di Giuliano è riconosciuta, esplicitamente, come osservammo, dallo stesso Socrate, il quale dice che Giuliano, avendo constatato che le recenti vittime della persecuzione di Diocleziano erano onorate dai Cristiani [pg!273] e che, col loro esempio, li eccitavano ad affrontare il martirio, prese una via diversa. Depose la crudeltà di Diocleziano, ma non per questo si astenne dal perseguitare, perchè, soggiunge Socrate, «io chiamo persecuzione il disturbare, in qualsiasi modo, la gente tranquilla»269.
Ora i modi con cui Giuliano disturbava la gente tranquilla ed esercitava la sua persecuzione sarebbero stati, secondo Socrate, il famoso divieto ai Cristiani di insegnare lettere greche — e di questo parleremo, più avanti, — il non volere nella reggia, presso la sua persona, dei soldati cristiani, il non voler affidare ai Cristiani il governo delle provincie, il cercar di persuadere, con le blandizie e coi doni, i Cristiani oscillanti a ritornare al culto degli dei, e, finalmente, l'essersi procurato un tesoro di guerra, per la spedizione di Persia, col mezzo di multe inflitte ai Cristiani che si ostinavano a non convertirsi. Di questi modi di persecuzione, è chiaro che solo l'ultimo potrebbe dirsi propriamente riprovevole, sebbene sempre assai lontano dall'abituale atrocità degli imperatori che davvero avevano perseguitato. Ma di questo provvedimento tirannico non abbiamo nessuna prova contemporanea, nessun accenno nè in Libanio, nè in Ammiano, nè in Giuliano stesso. Che ci sia stato qualche atto di prevaricazione è assai probabile, ma una propria e vera legge che ponesse i Cristiani in una difficile condizione finanziaria non esistette che nella fantasia degli storici posteriori.
Sozomene, come al solito, si attiene all'esposizione di Socrate, amplificandola ed intensificando il colorito leggendario. Le scene di martirio, da lui narrate, anche [pg!274] se fossero veritiere, non si potrebbero far risalire alla responsabilità dell'imperatore, senza porre in contraddizione con sè stessi Socrate e Gregorio, i quali riconoscono la tolleranza di Giuliano, pur attribuendola ad un calcolo perfido. Una notizia interessante che troviamo in Sozomene è quella dell'abolizione dei privilegi di cui godeva il clero cristiano, abolizione che, certo, sarà stata considerata acerba persecuzione. Giuliano tolse ad esso l'esenzione di cui godeva delle imposte e le prebende di cui era stato investito da Costantino e da Costanzo, ed obbligò i suoi membri a rientrare, se chiamati, nei consigli comunali, ciò che era quasi sempre un forte gravame, per la responsabilità dei singoli consiglieri nel pagamento delle tasse e delle spese municipali, un gravame a cui i cittadini cercavano ansiosamente di sfuggire. Questa persecuzione amministrativa è lamentata da Sozomene, come poco meno dannosa della crudeltà degli antichi imperatori. Ma la storia imparziale deve pur riconoscere che il meno che Giuliano potesse pretendere, dal momento che voleva restaurare il Paganesimo, era di togliere i privilegi dei Cristiani e di porre tutti i cittadini sul piede dell'eguaglianza270.
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La tolleranza di Giuliano è dimostrata e commentata da Libanio, nel discorso necrologico, in modo da non lasciar dubbio che essa costituisse propriamente, per l'imperatore, un principio fondamentale di condotta. [pg!275] Dopo aver narrato come Giuliano rendesse i dovuti onori alla salma del suo nemico Costanzo, Libanio ci dice ch'egli inaugurava il culto degli dei «rallegrandosi di coloro che lo seguivano, deridendo gli oppositori, tentando di persuadere, ma non lasciandosi mai indurre a far violenza»271. Eppure, continua Libanio, non gli mancavano gli eccitamenti a rinnovare le sanguinose persecuzioni d'un tempo, ma Giuliano stette fermo, convinto che «non è col ferro e col fuoco che si può imporre la rinuncia ad un falso concetto degli dei, poichè se anche la mano sacrifica, la coscienza rimprovera272ed allora si ha un'ombra di conversione, non già un cambiamento di opinione273. E poi avviene che, più tardi, costoro ottengono il perdono, mentre quelli che furono uccisi, vengono onorati al pari degli dei. Persuaso dunque di tutto ciò, e vedendo che dalla persecuzione la causa dei Cristiani ha giovamento, se ne astenne. Coloro che volevano il bene, egli li addusse alla verità , ma non fece violenza a quelli che amavano il male274..... Egli godeva nel visitare le città che avevano conservati i templi, e le credeva meritevoli dei suoi benefici; quelle che, in tutto o in parte, si erano staccate dal culto degli dei, egli le riteneva impure, ma dava loro, come agli altri sudditi, ciò di cui avevano bisogno, certo non senza dispiacere»275.
[pg!276]
Giuliano, nella sua carriera, non ebbe che un solo momento di rigore eccessivo, al dire dello stesso Ammiano, un momento in cui lasciò libero sfogo allo sdegno che gli si era accumulato nel cuore. Entrato in Costantinopoli, trovò il palazzo imperiale pieno dei cortigiani di Costanzo. Costoro formavano una casta che, fattasi opulenta con le spoglie dei templi e con ogni abuso, dava un esempio spaventoso di corruzione, di lusso e di vizio276. Giuliano li cacciò via, con una precipitazione che, secondo l'onesto Ammiano Marcellino, gli tolse la serenità del giudizio e la possibilità di qualsiasi scelta. Ma, insieme a costoro, Giuliano trovava gli alti ufficiali e consiglieri di Costanzo, primo, fra tutti, quello sciagurato eunuco Eusebio, che era stato l'istigatore dell'assassinio di Gallo e il più implacabile nemico ch'egli avesse presso il cugino. Giuliano non seppe trattenere il desiderio della vendetta, e nominò una commissione inquirente e giudicante, a cui deferirli, e questa, credendo di seguire le intenzioni dell'imperatore, infierì contro gli accusati, macchiando di sangue, non sempre giustamente sparso, l'esordio del regno277.
La corte di Costanzo era stata tutta cristiana, perchè Costanzo era un cristiano intollerante, che non avrebbe permessa, vicino a sè, la presenza di un cortigiano che fosse rimasto fedele alla religione antica, e cristiani erano, dunque, gli intimi suoi consiglieri di cui Giuliano si prese vendetta. Ma ci voleva davvero l'acciecamento partigiano di Gregorio per insinuare che Giuliano, nell'infliggere le pene, era spinto non già dall'odio contro i consiglieri di Costanzo quanto dall'odio [pg!277] contro i Cristiani, come se fosse possibile che l'imperatore iniziasse una persecuzione sanguinosa proprio nei giorni in cui chiamava i Cristiani alla sua Corte, per invitarli alla concordia e per annunciar loro la piena e sicura libertà di culto! Che i cortigiani di Costanzo fossero cristiani e che, da questa circostanza, Giuliano traesse una ragione per condannare, nel suo giudizio, anche il Cristianesimo, è chiaro e naturale. Ma ciò non toglie che, nella sua condotta, egli fosse mosso da sentimenti in cui il parteggiamento religioso non entrava per nulla. Ciò vediamo, in tutta luce, in una lettera da lui diretta all'amico Ermogene, proprio nei giorni in cui aveva nominata la Commissione inquirente: «Permettimi di esclamare, come un parlatore poetico. — Oh! io che non sperava d'essere salvato, non sperava di udire che tu sei scampato dall'idra dalle tre teste! — Per Giove, non credere che io parli di Costanzo! Costui era quello che era. Voglio parlare di quelle belve che erano intorno a lui e che spiavano tutti, e che lo rendevano ancor più crudele: e sì che, per sè stesso, non era affatto mite, sebbene a molti paresse tale. Ma a lui, dal momento che è morto, sia lieve la terra, come si dice. Quanto a coloro, Giove lo sa, io non vorrei che avessero a soffrire contro giustizia. Ma, siccome si presentano molti accusatori, io ho istituito un tribunale. Tu, intanto, amico mio, vieni, e cerca di affrettarti più che puoi. È già da tempo che io supplico gli dei che ti possa vedere, ed ora che tu sei salvo, con massima letizia ti esorto a venire«278.
E in un'altra lettera, deplorando certi soprusi sofferti [pg!278] dagli Ebrei, Giuliano ne dà la responsabilità a coloro che «barbari nel giudizio, empi nell'anima, sedevano alla sua mensa, e che io, prendendo nelle mie mani, ho annientati, scagliandoli nel baratro, così che io non abbia più a sopportare nemmeno la memoria della loro scelleraggine»279.
È indubitabile, pertanto, che anche questo, che pure fu il solo atto duro e spietato, commesso da Giuliano, non può dirsi, per nessun modo, un episodio di persecuzione. Giuliano, come vedremo dalle sue lettere, è rimasto fedele al principio da lui posto, inaugurando il suo regno, il principio della tolleranza religiosa. Questo principio armonizzava con le tendenze del suo spirito equanime e ragionatore, al quale ripugnava la violenza. Egli aveva l'amore della discussione e del dibattito logico, e, del resto, doveva comprendere, anche senza il recente insuccesso di Diocleziano, come dovesse riuscire del tutto inefficace, anzi, impossibile una persecuzione contro una religione che aveva ormai invasa, certo, più della metà dell'impero. Ma noi crediamo, però, che vedesse pur bene ed acutamente Ammiano Marcellino, quando attribuiva la tolleranza religiosa di Giuliano anche ad un calcolo di abilità opportunista280. Le discordie intestine del Cristianesimo erano un lievito potente di dissoluzione, erano l'impedimento più forte alla costituzione di una Chiesa che potesse imporsi con un'autorità assoluta ed indiscussa. La tolleranza era una virtù che il Cristianesimo ignorava affatto, una virtù che era in contraddizione con le sue tendenze essenziali, una virtù che [pg!279] diventava per lui un vizio. L'intolleranza dogmatica era un fenomeno nuovo nel mondo, era la conseguenza necessaria del fatto che, intorno al nucleo monoteista della fede, si formava un complesso di dottrine metafisiche, le quali venivano a far parte integrante della religione, come una manifestazione di verità divina. Da qui la conseguenza che l'eresia diventava una colpa, che i dissensi intestini nel Cristianesimo non potevano essere tollerati, e che i Cristiani di parti avverse si guardavano e si combattevano gli uni gli altri, con un odio assai maggiore di quello che tenevano in serbo pei Pagani. Ora, Giuliano, abilmente, ed era arte di buona guerra, volle e seppe approfittare di tale condizione di cose per indebolire il nemico. E, siccome l'Arianesimo, avendo stretta alleanza con Costanzo, era diventato potentissimo, era diventato una vera religione di Stato, che aveva perseguitati e cacciati in bando i vescovi atanasiani. Giuliano non esitò un istante a pubblicare un decreto con cui concedeva agli esigliati la facoltà del ritorno in patria281, non dubitando, e con ragione, che, dal contatto delle due parti, si sarebbe immediatamente riacceso il foco delle ire e delle lotte. Qui stava propriamente il pericolo pel Cristianesimo. E Giuliano qui mostrava una grande acutezza. Se Giuliano fosse ritornato vittorioso dalla Persia ed avesse avuto un lungo regno, il Cristianesimo, abbandonato a sè stesso, divorato dalle sue discordie, poteva consumarsi e forse trasformarsi essenzialmente. Il Cristianesimo, fosse ariano, fosse atanasiano, aveva ormai bisogno del braccio imperiale. Il Cristianesimo, tralignato dalle sue origini, non poteva vivere che a [pg!280] patto d'essere intollerante. E l'intolleranza, per essere efficace, richiede d'aver per sè la forza materiale. La morte prematura di Giuliano rese possibile, pochi anni dopo, a S. Ambrogio di dare, con l'aiuto di Graziano e di Teodosio, la vittoria definitiva al dogmatismo cattolico.
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Le lettere di Giuliano, fra le quali, insieme a confidenze amichevoli, troviamo decreti e manifesti imperiali, ci danno il modo migliore e più sicuro di penetrare nelle intenzioni di lui e di giudicare la sua condotta nelle sue relazioni coi Cristiani. Che, malgrado l'odio cordiale che sentiva per questi, Giuliano volesse astenersi da ogni atto di violenza contro la loro persona e non esitasse a condannar questi atti, quando avvenivano all'infuori della sua volontà e per effetto di passioni popolari, è dimostrato dai più chiari documenti. Ad Artabio egli scrive: «Per gli dei, io voglio che i Galilei non siano uccisi nè maltrattati contro giustizia, nè che abbiano a soffrire danno alcuno. Dico solo che si devono tenere in maggior conto gli adoratori degli dei, poichè, la stoltezza dei Galilei ci manderebbe in rovina, se non fossimo salvati dalla benevolenza degli dei»282. E in un manifesto diretto agli abitanti di Bostra, in occasione di minacciati tumulti fra Cristiani e Pagani, così conclude: «Mettetevi d'accordo e nessuno commetta violenza od ingiustizia. I traviati [pg!281] non devono offendere chi adora gli dei rettamente e giustamente, secondo le norme date a noi da tutta l'eternità , e gli adoratori degli dei, dal canto loro, non devono assalire le case di quelli che errano più per ignoranza che per convinzione. Dobbiamo persuadere ed istruire gli uomini con la ragione, non già con le percosse, con le violenze o coi tormenti del corpo. Ora, come già da tempo, io esorto coloro che procedono nella via della vera pietà di non recar danno alle turbe dei Galilei, di non dar loro addosso, di non far loro violenza. Noi dobbiamo non già odiare, ma compiangere coloro che hanno una cattiva condotta nelle cose di suprema importanza. Ora, il massimo dei beni è la pietà , e il massimo dei mali è l'empietà . Coloro che, abbandonando il culto degli dei, si son dati a quello dei morti e delle reliquie trovano in sè stessi il loro castigo. Noi dobbiamo compiangerli, come compiangiamo chi è affetto da qualche malattia, mentre ci rallegriamo di quelli che dagli dei furono liberati e salvati»283.
Certo, non si può essere più espliciti, più ragionevoli e temperati, dirò anche, più moderni di quello che è Giuliano nelle sue dichiarazioni: più moderni, perchè il principio di tolleranza religiosa, posto dal restauratore del Paganesimo, non doveva rivivere se non quando fosse caduto l'impero del dogmatismo infallibile. Ma Giuliano doveva trovare qualche difficoltà ad applicare intieramente quel suo principio, in mezzo alle accese passioni popolari. I Cristiani, diventati, dopo Costantino, dominatori della posizione, eran diventati a loro volta persecutori, ed avevano, in più luoghi, distrutti e saccheggiati i templi antichi. Era, [pg!282] dunque, inevitabile che nascesse nei Pagani tornati al potere, il desiderio della rappresaglia. Ma la situazione, già intricata per sè stessa, lo diventava ancor di più per le discordie intestine del Cristianesimo, discordie che, come notammo, tornavano a vantaggio di Giuliano, ma che pure egli non poteva lasciar divampare, senza ferir quel principio di rispetto e tolleranza reciproca che doveva essere il perno della sua politica religiosa. Come Giuliano si destreggiasse in mezzo a queste difficoltà , lo vediamo nell'episodio dell'uccisione del vescovo Giorgio d'Alessandria.
Sotto il regno di Costanzo era governatore d'Alessandria un suo fidato consigliere, Artemio, e vescovo l'ariano Giorgio. L'uno e l'altro, per le loro delazioni al sospettoso imperatore e per la tirannia crudele del loro governo, erano odiati dal popolo di una città , la quale, come dice Ammiano Marcellino, il verace narratore dell'episodio284, era sempre pronta alle sommosse, appena se ne presentasse l'occasione. Successo Giuliano, egli fece venire a Costantinopoli Artemio, che, trovato reo di grandi delitti, fu condannato a morte. Gli Alessandrini, che avevano, per qualche tempo, vissuto nel timore di un possibile ritorno di Artemio e di una ripresa del suo crudele arbitrio, avuta la notizia della sua morte, insorsero contro il vescovo Giorgio, il quale poi era specialmente odioso alla parte pagana della popolazione alessandrina, perchè eccitava i Cristiani alla distruzione dei templi. Giorgio fu miseramente massacrato dalla turba furente, e lo furono con lui due suoi compagni di fede e di intrighi, Draconzio e Diodoro. I cadaveri furono bruciati, e le ceneri disperse nel mare, pel timore che le loro tombe, [pg!283] come quelle dei martiri, diventassero luoghi sacri. Ammiano osserva che i Cristiani, se avessero voluto, avrebbero potuto impedire il misfatto, ma rimasero, invece, spettatori inerti. Probabilmente questi inerti Cristiani erano i fautori di Atanasio, ai quali la morte dell'ariano Giorgio non sarà stata sgradita.
Giuliano, che confondeva in un odio solo, e col solo nome spregiativo di Galilei, Ariani ed Atanasiani, non doveva, dal suo punto di vista di restauratore del Paganesimo, essere scontento di una così chiara prova dello zelo degli Alessandrini. Ma egli era imperatore e si atteggiava a reggitore imparziale e giusto. Non poteva, quindi, lasciar passare impunito il delitto. E Ammiano ci narra che, infatti, egli era risoluto a infliggere il meritato castigo. Ma gli amici, che gli stavano al fianco, e che, come sempre avviene, erano più imperialisti dell'imperatore, lo persuasero a limitarsi all'invio di un editto, che rimproverasse gli Alessandrini, lasciandoli, nel fatto, impuniti. Questo editto, che ci è conservato integralmente, è di un grande interesse per la conoscenza di Giuliano e del suo indirizzo governativo:
«L'imperatore Cesare Giuliano Massimo Augusto al popolo degli Alessandrini».
«Se anche voi non rispettate il vostro fondatore Alessandro e, meglio ancora, il grande e santissimo dio Serapide, come mai, vi domando, non vi venne il pensiero del vostro dovere davanti all'Impero ed all'umanità ? Aggiungerò anche il pensiero di noi, che gli dei tutti e, fra i primi, il grande Serapide, credettero degni di governare la Terra? Di noi, che avevamo il diritto di istituire il processo contro coloro che vi avevano offeso? Ma, forse, vi trasse in inganno l'ira e la passione, la quale è solita [pg!284] a fare il male ed a sconvolgere il giudizio, così che voi, malgrado il vostro impulso che, sulle prime vi aveva ben consigliato, siete poi corsi a trasgredire la legge, e non vi vergognaste di commettere, tutti insieme, quei delitti, che, giustamente, condannaste negli altri.
«In nome di Serapide, ditemi, per quale colpa inferociste contro Giorgio? Risponderete, certo, che egli eccitava contro di voi Costanzo, e introdusse un esercito nella città sacra, e indusse il governatore dell'Egitto ad impadronirsi del tempio più venerato del dio, violando le imagini, le offerte votive e gli ornamenti sacri. Contro di voi che, infiammati di uno sdegno ben naturale, tentavate di difendere il dio, dirò meglio, la proprietà del dio, il governatore, iniquamente, illegalmente ed empiamente, mandò i suoi soldati, temendo, più che Costanzo, Giorgio, il quale lo sorvegliava, se mai si comportasse con voi, non già tirannicamente, ma con temperanza e civiltà . Irritati, perciò, contro quel nemico degli dei che era Giorgio, avete deturpata la sacra città , mentre voi potevate consegnarlo ai voti dei giudici. E così non vi sarebbe stata uccisione nè delitto, ma giustizia perfetta, che avrebbe difeso voi innocenti, e punito quello scellerato sacrilego, e, insieme, resi saggi tutti gli altri, quanti sono, che non rispettano gli dei, e non hanno riguardo a città come la vostra, ed a popoli fiorenti, e ritengono la crudeltà quasi un'appendice della loro potenza. Confrontate questa mia lettera con quella che vi mandai, ora è poco tempo, e vedete la differenza! Quante lodi io vi faceva! E anche ora vorrei lodarvi, ma non lo posso, per la vostra trasgressione. Il popolo vostro ha osato, come i cani, sbranare un uomo; e poi non si è vergognato [pg!285] di innalzare agli dei delle mani lorde di sangue! Ma Giorgio, voi dite, meritava questo castigo. Certo, io rispondo, anzi uno più grave e più acerbo. Per causa vostra, voi direte. Lo ammetto. Ma se voi diceste, per mano vostra, io direi di no. Poichè vi sono leggi che ognuno di voi deve onorare ed amare. E, se avviene che taluno le trasgredisce, voi, nella vostra maggioranza, dovete seguirle ed obbedirle, e non traviare da ciò che in antico fu provvidamente istituito. Siete ancora fortunati, o Alessandrini, di aver commessa la colpa vostra, sotto l'impero mio, poichè, per rispetto alla divinità e per riguardo al mio zio e mio omonimo, che ha governato l'Egitto e la vostra città , io serbo per voi una benevolenza fraterna. Ma una autorità rigorosa e pura tratterebbe l'audacia colpevole del popolo come una grave malattia che bisogna risanare con acerba medicina. Eppure io vi presento, per le ragioni che ho testè dette, ciò che vi sarà ben più grato, esortazioni e ragionamenti, dai quali ben so che voi sarete persuasi, se voi siete, come mi si dice, Greci d'antica stirpe e se di quella origine rimane ancora la traccia mirabile e gentile nell'animo vostro e nelle vostre abitudini.
«Ciò si renda noto ai miei cittadini di Alessandria»285.
Quando si riflette che questo editto è uscito dalla penna del più convinto nemico che abbia avuto il Cristianesimo, non è possibile non vedervi un esempio di moderazione e di padronanza delle passioni. Il vescovo Giorgio doveva essere doppiamente odioso a Giuliano, e come cristiano intollerante, e come amico e confidente di Costanzo. Pertanto la sommossa [pg!286] degli Alessandrini poteva esser considerata da lui come una prova di zelo e di devozione, come la dimostrazione più solenne del favore che la restaurazione, da lui iniziata, trovava nella capitale del commercio e del pensiero d'Oriente. Ma Giuliano, fedele al suo programma, non vuole nè sangue, nè violenze, nè turbolenze. Egli, certo, non permetteva la violenza dei Cristiani che correvano a perseguitare chi non credeva ciò che essi credevano, ma non permetteva nemmeno la violenza dei Pagani che da sè stessi si facevano giustizia. L'ordine nella tolleranza reciproca era il suo programma, ed egli ancor s'illudeva che il Paganesimo avesse in sè tanta forza d'attrazione che, riposto nella libertà della sua azione e del suo svolgimento, avrebbe visto ritornare a lui le turbe guarite del loro traviamento!
Se non che l'ordine nella tolleranza non era facile a conservarsi, in mezzo alle passioni esaltate. L'esempio degli Alessandrini fu seguito, a quel che narra Sozomene286, in altre città , a Gaza, ad Aretusa di Siria, dove avvennero tumulti e scene di sangue, promosse da Pagani che si vendicavano di Cristiani, mentre altrove i Cristiani, non spaventati, anzi, parrebbe, irritati dall'inaspettata risurrezione del Politeismo, si riponevano con maggior ardore a distruggere i templi. Il fatto più grave fu quello di Cesarea di Cappadocia, dove la popolazione, in grande maggioranza, cristiana, dopo aver abbattuti i templi di Giove e di Apollo, distruggeva, regnante Giuliano, il tempio della Fortuna287. L'imperatore non rispose alla sfida che con [pg!287] castighi, certo, assai gravi, ma d'indole amministrativa. Depose il Prefetto della Cappadocia, confiscò i beni delle chiese cristiane, impose una multa pesante e tolse alla città i suoi privilegi. Ma sarebbe ingiustizia il dare a tale procedimento il carattere di una persecuzione. Dato il compito ch'egli si era imposto, Giuliano poteva lasciar tranquilli i suoi nemici, ma non poteva permettere che impunemente gli si ribellassero, e lo ferissero in ciò che più gli stava a cuore.
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Coloro che accusano Giuliano di violenza e di persecuzione per questi atti di difesa dimenticano che il Cristianesimo, appena ottenuta, con Costantino, la vittoria, non seppe sottrarsi alle condizioni dei tempi e dei costumi, e divenne tosto persecutore a sua volta. Come saggio della intolleranza dei primi imperatori cristiani e della persecuzione da loro iniziata, valga questo decreto di Costanzo e Costante, promulgato nell'anno 353. «Decretiamo che, in ogni luogo ed in ogni città , siano chiusi i templi, che nessuno vi possa entrare, e che sia negata agli empi la licenza di delinquere. Vogliamo che tutti si astengano dal far sacrificio. Se taluno perpetrasse qualche cosa di simile sia ucciso con la spada vendicatrice. Decretiamo che le sostanze dell'ucciso siano attribuite al fisco, e vogliamo che siano puniti i governatori delle Provincie che fossero negligenti nel reprimere i delitti»288. Certo, nè un Decio nè un Diocleziano potevano [pg!288] far meglio. Ma il documento più interessante per farci conoscere l'oppressione esercitata dai Cristiani sui Pagani, è il discorsointorno ai templidiretto da Libanio all'imperatore Teodosio. Sebbene questo discorso sia posteriore di alcuni anni al regno di Giuliano, pure esso dipinge una condizione di cose che, già da tempo, esisteva, ed è sintomatico dello stato degli animi in mezzo al conflitto di due religioni ancora rivali. L'origine del discorso è questa. L'imperatore Teodosio, con parecchi decreti, e specialmente con uno diretto al Prefetto d'Oriente, Cinegio, nel 385, aveva confermata la disposizione dei precedenti imperatori, vietante i sacrificî. Tollerava però la continuazione di alcuni riti, come l'incensamento e la preghiera, e non aveva imposta e nemmeno incoraggiata la distruzione dei templi. Ma i Cristiani, tale incoraggiamento, pare lo trovassero nella logica delle cose, e, quindi, senza aspettare nè leggi, nè ordini imperiali, si ponevano all'opera di abbattere i templi, fra i quali insigni monumenti, coprendo, coll'apparenza del fanatismo religioso, privati interessi ed avidità di guadagno. Contro tale abuso Libanio innalza la sua voce in un discorso da lui diretto all'imperatore, la cui data può determinarsi nei sei anni che corsero dal 385 al 391289.
Leggendo quel discorso si raccolgono le prove della decadenza, della corruzione morale in cui era precipitato il Cristianesimo, appena diventato dominatore. Questa impressione, che abbiamo già raccolta da tutti i documenti contemporanei, è confermata fortemente dal discorso di Libanio. Perchè costui potesse rivolgersi ad un imperatore, di fede cristiana, e quale [pg!289] imperatore! accusando così esplicitamente i Cristiani, e in particolare modo i chierici ed i monaci, di ogni sorta di soprusi, per la smania del lucro, bisogna pur dire che la verità dell'accusa fosse, almeno in parte, tanto lampante, da togliere ogni pericolo per chi osasse esporla e dichiararla. Noi vediamo, in Libanio, come il Politeismo si fosse ritirato dalle città nei campi, dov'era gelosamente conservato dai coloni, dagli agricoltori, i quali, con la tenacità della gente semplice e lontana dai perturbamenti sociali, adempivano le antiche cerimonie e chiamavano le note e care divinità a proteggere i loro lavori. È contro costoro che maggiormente si esercitava la prepotenza del clero cristiano che poi si arricchiva di spogliazioni, compiute in nome di un principio divino! Queste sono rivelazioni preziose. Per comprendere un movimento, come quello tentato da Giuliano, bisogna, dunque, ricordare che il Cristianesimo, perdendo affatto il suo carattere di rivendicazione morale e di sublime eroismo, si era abbassato alle condizioni del tempo, ed era diventato, nella realtà , una religione alla cui ombra pullulavano tutte le passioni e tutti i vizî che essa, se avesse effettivamente rigenerata la società , avrebbe dovuto estinguere.
Ma, prendiamo qualche fiore dal mazzo di scherni e di accuse che ci offre Libanio. «Tu — egli dice, rivolgendosi a Teodosio — tu non hai ordinato che si chiudessero i templi, nè che nessuno vi avesse accesso, nè che si allontanassero dagli altari il fuoco e l'incenso o l'onore di altri profumi. Ma quella gente, vestita di nero, che mangia più degli elefanti, e che, per le ripetute bicchierate, dà un gran da fare a coloro che, quando canta, la provvedono di vino, e nasconde tutto ciò sotto una pallidezza artificiale, [pg!290] ad onta della legge, o imperatore, corre ai templi, alcuni portando bastoni e sassi e ferri, altri senza di ciò, nell'intento di adoperare le mani e i piedi. Quindi abbattono i tetti, scavano le pareti, strappano le statue, spezzano gli altari. E i sacerdoti devono o tacere o morire. Distrutti i primi templi, corrono ai secondi, poi ai terzi, e, contro la legge, accumulano trofei su trofei. Ciò si osa fare nelle città , ma molto più nei campi... Li percorrono, come torrenti, devastandoli, sotto il pretesto di distruggere i templi. E quando, in un campo, hanno abbattuto il tempio, è come se ne spegnessero ed uccidessero l'anima. Poichè, o imperatore, i templi sono l'anima dei campi, e furono il primo nucleo delle costruzioni cresciute, attraverso molte generazioni, fino allo stato presente. E nei templi son poste le speranze degli agricoltori per la prosperità degli uomini, delle donne, dei figli, dei buoi, delle seminagioni e delle messi. Un campo che ha sofferto tale danno, è rovinato, ed è perduta, insieme alle speranze, la confidenza degli agricoltori. Vano credono il loro lavoro, quando son privati degli dei che lo rendono proficuo... Così l'audacia di quella gente, che si esercita scelleratamente nei campi, conduce ai più deplorevoli risultati. Dicono di far guerra ai templi; ma la guerra si risolve nel rubare, nello strappare ai poverelli ciò che loro appartiene, le loro provviste, raccolte dal suolo, pel loro nutrimento, e se ne partono, portando via, come conquistatori, le spoglie dei debellati. E non basta, chè si appropriano la terra del primo malcapitato, dicendo che è terra sacra, e così molti, per questa parola falsa, son privati dei beni paterni. Ed essi, che pretendono di servire, così dicono, col digiuno il loro dio, gozzovigliano nei [pg!291] mali altrui. E se poi gli sventurati, andando alla città , si lamentano col Pastore (così chiamano un uomo tutt'altro che buono) ed espongono le loro sofferenze, il Pastore loda gli offensori e licenzia gli offesi, dicendo che hanno fatto un guadagno nel non aver sofferto di più. Eppure, o imperatore, anche questi infelici fan parte del tuo impero, e son tanto più utili dei loro offensori, di quanto i lavoratori son più utili degli oziosi. Quelli son simili alle api e questi ai calabroni. Appena essi hanno notizia di qualcuno che possegga un campicello di cui lo si può spogliare, tosto affermano che colui sacrifica e fa cose riprovevoli, e che bisogna far impeto contro di lui, ed ecco entrano in scena imoralisti290, poichè questo è il nome che danno ai ladri, se pure io non dico troppo poco, poichè i ladri cercano di nascondersi, e negano ciò che osano fare, e si ritengono offesi se li chiami ladri. Ma quelli invece si vantano di ciò che fanno, e sono rispettati, e lo narrano a chi lo ignora, e affermano di essere degni di premio..... E perchè mai, o imperatore, tu raccogli tanta forza, e prepari le armi, e chiami a consiglio i generali, e li spedisci dove maggiore è il bisogno, e a questi scrivi, a quelli rispondi? E perchè queste nuove mura, questi lavori estivi? A che mira, a che serve tutto ciò per le città e pei campi? A vivere senza timore, a riposare tranquillamente, a non esser turbati dalle minacce dei nemici, ad esser certi che, se alcuno ci venisse addosso, se ne andrebbe dopo aver subìto più che recato danni. E dunque se, mentre tu raffreni i nemici esterni, alcuni tuoi sudditi maltrattano altri che sono pure sudditi tuoi, e non permettono [pg!292] loro di godere dei beni comuni, non è, forse, vero che essi offendono la tua provvidenza, la tua saggezza e le tue cure? Non è, forse, vero che, con le loro azioni, essi fan guerra alla tua volontà ?»291.
In questo appello, nel quale lo scherno si unisce all'invettiva ed al ragionamento, Libanio ci pare davvero eloquente e pieno di abilità . E si sente nella parola dell'oratore un accento di verità , il sentimento di un diritto offeso, il grido dei vinti ingiustamente calpestati. Gli uomini non mutano nelle loro passioni. I Cristiani, diventati vittoriosi, avevano preso il posto dei dominatori di prima, e rinnovavano, in nome di un nuovo principio, quei procedimenti e quegli eccessi che già erano stati compiuti, in nome di un principio opposto. E Libanio, da pagano perseguitato, confuta energicamente l'argomento che i Cristiani persecutori presentavano a difesa delle loro violenze, cioè, che con esse costringevano i Pagani a convertirsi. Con tale procedimento, dice Libanio, non si ottengono che [pg!293] conversioni di apparenza. Ed allora, esclama Libanio, quale vantaggio ne avranno i Cristiani, se i nuovi convertiti lo saranno a parole, ma nol saranno a fatti? «In cose di questa natura bisogna persuadere e non costringere. Colui che, non potendo persuadere, usa la violenza, sebbene creda di riuscire, in realtà non riesce a nulla»292. Ma la colpa di questa tristissima condizione di cose non è di Teodosio, pel quale l'abile e prudente Libanio non ha che parole di lode, ma di un perfido consigliere. E par che Libanio voglia indicare Cinegio, prefetto d'Oriente, marito di Acantia, matrona che godeva fama di santità . «Questo uomo ingannatore, empio e nemico degli dei, e crudele e avaro, funesto alla terra che lo riceve, godendo di una fortuna irragionevole e male usandone, è servo della moglie, a cui compiace in ogni cosa, a cui tutto subordina. E costei deve, a sua volta, obbedire a coloro che le si impongono, e che fanno pompa di virtù coll'indossare vesti di lutto, anzi, per pompa ancor maggiore, vesti di quella tela di cui i tessitori fanno i sacchi. Questa combriccola inganna, illude, agisce sotto mano, e dice il falso»293. Curioso, davvero, questo quadretto di un prefetto d'Oriente che è guidato dalla moglie, la quale, a sua volta, è guidata dai monaci! E come è strana la diversità dei giudizî degli uomini, a seconda del colore della lente passionale con cui guardano gli oggetti! Libanio vede la perfidia ed il ridicolo, là dove un Gregorio ed un Atanasio avranno veduto l'espressione più pura della santità delle intenzioni e della condotta!
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Ma Teodosio, dice Libanio, non ha mai emanata nessuna legge che sanzionasse questi eccessi. «Tu non hai mai imposto questo giogo all'anima umana. E se credi che il culto del tuo dio sia preferibile al culto degli altri, non hai dichiarato che questo sia un'empietà , e che giustamente lo si possa vietare». Chè, anzi, egli chiama presso di sè, come consiglieri e commensali, uomini notoriamente devoti agli dei, e non diffida di un amico, perchè ripone negli dei le sue speranze. E, ricordando Giuliano, la cui imagine non è mai lontana dal pensiero di Libanio, egli esclama: «tu non ci perseguiti, imitando colui che, coll'armi ha sconfitti i Persiani, ma coll'armi non ha perseguitati quelli dei suoi sudditi che gli erano nemici.»294.
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Durante il soggiorno di Giuliano in Antiochia avvenne un fatto che lo ha singolarmente irritato. Non v'era cosa che fosse più ripugnante a Giuliano del culto che i Cristiani rendevano ai sepolcri dei loro martiri, dei loro uomini illustri. Questa adorazione dei morti, com'egli la chiamava, offendeva il suo senso estetico di antico greco, gli pareva assurda, e probabilmente gli era odiosa come uno dei mezzi più efficaci per esaltare gli animi in un'aspirazione devota. Quando viene a toccare di questo culto dei morti, egli ha sempre qualche parola di disprezzo o di sarcasmo, e, più ancora, che la distruzione delle chiese, egli desiderava la scomparsa o l'abbandono di quelle tombe che erano diventate luoghi sacri. Tale era appunto la [pg!295] tomba del martire Babila che si trovava nel sobborgo di Dafne, presso Antiochia. Quel sobborgo era un luogo di delizie per la bellezza delle piante e dei fiori, per la vista e la giocondità dell'aura. La leggenda narrava che lì la ninfa Dafne, fuggendo da Apollo, si fosse trasformata in lauro. E questa memoria, congiunta all'eccitante amenità del luogo, faceva dei boschetti di Dafne il ritrovo degli amanti. «Chi — dice Sozomene — passeggiava per Dafne, senz'essere accompagnato da un'amante, era considerato come un uomo stolto e rozzo»295. E, in mezzo a quei boschi, sorgeva la più bella statua d'Apollo, e vicino uno splendido tempio di marmo, dedicato al dio.
Se non che, quando Gallo, il fratello di Giuliano, fatto Cesare da Costanzo, e investito del governo d'Oriente, si stabilì in Antiochia, gli venne il pensiero, da quell'esaltato cristiano ch'egli era, di togliere il prestigio a quel famoso santuario dell'Ellenismo, e, per riuscirvi, pensò di costrurre, in faccia al tempio d'Apollo, un tabernacolo e di portarvi le reliquie del martire Babila. Pare che lo scopo, voluto da Gallo, fosse stato raggiunto. La presenza delle reliquie del martire, chiamando nei boschetti profumati di Dafne le turbe devote dei Cristiani, allontanava gli amanti, e spargeva un'aria di tristezza in cui spariva il sorriso del raggio apollineo.
Avvenuta la rivoluzione religiosa, Giuliano, entrato in Antiochia, volle restituire all'antico splendore il tempio ed il culto d'Apollo, e ciò non poteva farsi se non si trasportavano altrove le reliquie del martire, che deturpavano il luogo sacro. Ed infatti ordinò che si eseguisse il trasporto. Quest'ordine fu causa di [pg!296] una grande dimostrazione dei Cristiani d'Antiochia, i quali, al dire di Sozomene, accompagnarono in folla, cantando salmi, per quaranta stadi, la cassa dove giaceva il martire. Giuliano fu per questa dimostrazione irritatissimo e si sarebbe lasciato andare ad atti di rappresaglia, se non fosse stato rimesso sulla buona strada dal prefetto Sallustio. Se non che, pochi giorni dopo, un terribile incendio divorava il tempio d'Apollo. I Cristiani affermarono che un fulmine mandato da Dio aveva posto in fiamme il tempio, ma Giuliano non dubitò un istante a darne la colpa ai Cristiani. Con grande amarezza egli ricorda, nelMisobarba, questo fatto, e pone a raffronto la condotta degli Antiochesi con quella di altre città in cui si rialzavano i templi e si distruggevano le tombe degli atei, cioè dei Cristiani, e si giungeva contro questi ad eccessi ch'egli deplorava. Gli Antiochesi, invece, rovesciavano gli altari appena rialzati, e la mitezza con cui egli li ammoniva a nulla aveva giovato. «Infatti, quando noi facemmo trasportare il cadavere, quelli di voi che non rispettavano le cose divine, consegnarono il tempio del dio agli sdegnati pel trasporto delle reliquie, e questi, non so se nascosti o no, accesero quel fuoco che negli stranieri destò orrore, e nel vostro popolo piacere, e che lasciò e lascia ancora indifferente il vostro Senato!»296. E, forse, fu sotto l'impressione di questo fatto che Giuliano diede l'ordine, con un decreto riportato da Sozomene, di distruggere due santuari di martiri che si costruivano, in Mileto, presso il tempio di Apollo297.
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Tutte queste violenze parziali, che hanno un carattere episodico e che non erano che l'inevitabile rappresaglia vicendevole di due partiti pressochè equivalenti, non bastano a togliere il fatto sostanziale della tolleranza religiosa che Giuliano confidava di poter usare come lo strumento più efficace della restaurazione da lui iniziata. Noi abbiamo già parlato di quel provvedimento così interessante e così caratteristico, preso da Giuliano, del richiamo in patria dei Cristiani, esigliati da Costanzo, in causa dei dissensi teologici. Nelle lettere di Giuliano,troviamonotizie veramente curiose ed istruttive intorno a quel provvedimento.
Il partito che aveva dominato alla corte di Costanzo non era quello dell'Arianesimo puro, ma, bensì, di un Arianesimo opportunista, il quale non ammetteva la consostanzialità del Padre e del Figlio, voluta da Atanasio e dal Concilio di Nicea, ma non affermava nemmeno la distinzione e la subordinazione del Figlio al Padre voluta dagli Ariani schietti. Costanzo, come sappiamo, aveva accettata la così detta formolaomoica, che diceva esser il Figlio simile al Padre, secondo le Scritture, e vietava ogni analisi e determinazione di tale somiglianza. Costanzo impose questa formola ai due Concilî di Rimini e di Seleucia, nel 359, e poi mandò in esiglio tutti i vescovi, tanto dell'estrema destra atanasiana, quanto dell'estrema sinistra ariana, che non si piegavano ad essa. Giuliano li richiamava, tutti insieme, senza distinzione. Però è singolare la diversità di trattamento ch'egli usa verso due eroi di [pg!298] quelle lotte teologiche, il diacono Aezio che rappresentava l'Arianesimo intransigente, ed il grande Atanasio, il legislatore del Concilio di Nicea. Al primo, Giuliano manda questo biglietto298.
«Io richiamai dall'esiglio tutti coloro, quali essi siano, che da Costanzo furono esigliati, per la stoltezza dei Galilei. Quanto a te, non solo ti richiamo, ma, ricordando la nostra antica conoscenza e consuetudine, t'invito a venir da me. Tu potrai servirti pur di giungere al mio accampamento, della vettura di Stato e di un cavallo di rinforzo».
Chi era quest'Aezio che Giuliano tratta con speciali riguardi? Era una vecchia conoscenza dell'imperatore. Ma guardiamolo, per un istante; poi gli porremo accanto la grande figura di Atanasio, e così avremo davanti a noi due profili caratteristici del tipo cristiano del secolo quarto. Aezio, Siro di origine, si era dato, in gioventù, alle arti più varie. Era stato fonditore di metalli, poi medico, ed, a poco a poco, si era fatto conoscere per l'inquietudine del suo spirito e per la singolare attitudine alle discussioni teologiche che erano la passione intellettuale del tempo. Se dobbiamo creder a Socrate, egli era assai più versato nella dialettica di Aristotele che nella conoscenza degli scrittori cristiani, e professava il disprezzo per Clemente ed Origene299. Allontanato da Antiochia come disturbatore della pace religiosa, Aezio, soggiornando in Cilicia e, specialmente, a Tarso, strinse amicizia coi seguaci delle idee lucianiste e ne divenne un apostolo ardente.
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Ritornato poi in Antiochia, Aezio si fa amico del presbistero Leonzio che apparteneva alla medesima scuola lucianista. Corre poi ancora in Cilicia, quindi ad Alessandria, a disputare con gnostici e manichei, finchè, diventato Leonzio vescovo di Antiochia, ritorna a metterglisi al fianco, ed è fatto diacono. Ma egli desta intorno al vescovo tale un turbinio di discordie e di dispute, che Leonzio è costretto a tenerlo lontano dalle sacre funzioni, conservandogli, però, l'ufficio d'insegnante. Pare che egli prendesse parte, nel 351, al Sinodo di Sirmio, dove avrebbe ferocemente combattuto gli Atanasiani. Questi avrebbero cercato di muovere contro di lui i sospetti di Gallo, il fratello di Giuliano, che, come sappiamo, era stato dall'imperatore Costanzo eletto alla dignità di Cesare. Ma non ci sarebbero riusciti. Infatti Aezio è tanto padrone della situazione e della fiducia di Gallo che costui lo manda, più volte, come suo confidente, al fratello Giuliano. Da qui la relazione fra il principe ed il diacono ariano, e gli speciali riguardi ch'egli ha per lui, appena salito al trono. Gregorio di Nissa accusa Aezio di essere stato consigliere di Gallo nell'uccisione del prefetto Domiziano e del questore Monzio, delitto orribile che poi ebbe per conseguenza la catastrofe di Gallo. Ma quale fede si possa avere nella narrazione del vescovo atanasiano, non è dato saperlo, poichè atanasiani ed ariani si accusavano, gli uni gli altri, senza punto scrupoli. Nel 356 Aezio va ad Alessandria, il gran focolare delle ire teologiche, e prende posizione come un ariano intransigente e di estrema sinistra, e vi parla e scrive come uno dei capi di un giovane Arianesimo. Richiamato in Antiochia dal vescovo Eudossio, lo compromette per modo, con la sua politica irritante, che i semiariani finiscono per aver [pg!300] buon gioco sull'animo di Costanzo, ed ottengono l'allontanamento del vescovo e l'esiglio di Aezio in Frigia. Un anno dopo, nel 360, avendo Costanzo, risolutamente presa in mano la formola omoica, con cui s'illudeva di imporre la pace ai partiti che squarciavano la Chiesa, si accrebbero i rigori contro Aezio che dal Sinodo di Costantinopoli fu dichiarato decaduto dal suo diaconato, e dall'imperatore confinato in Pisidia. Venuto al trono Giuliano, le sorti di Aezio volsero al meglio. Richiamato dall'esiglio, dichiarata nulla la sua deposizione, fu riconsacrato da un sinodo raccolto in Antiochia, insieme ad altri Ariani. Il focoso polemista morì, probabilmente, poco dopo, perchè di lui non si ha più traccia.
Noi non sappiamo se Aezio abbia accettato l'invito dell'imperatore che, mentre lo chiamava a sè, qualificava di stoltezza il Cristianesimo, ma, se ha accettato, non è riuscito a farlo parteggiare a favore dell'Arianesimo. Giuliano era affatto indifferente ed imparziale per tutte le sette cristiane ch'egli confondeva in un odio comune. E che di tale odio gli Ariani avessero la parte a loro spettante, ce lo prova una lettera, scritta in occasione di tumulti promossi, in Edessa, dagli Ariani, che è tanto giusta nella sua ispirazione quanto acerba nella sua ironia.
«Ad Ecebolio. — Io tratto i Galilei tutti con tanta mitezza e filantropia che nessuno ebbe mai a soffrire violenza, e non voglio che siano trascinati al tempio, o costretti a cosa alcuna contraria alla loro intima convinzione. Ma quelli della Chiesa ariana, inorgogliti della loro ricchezza, assalirono i Valentiniani, e commisero, in Edessa, disordini tali, quali non dovrebbero mai verificarsi in una savia città . Se non che, siccome una legge mirabilissima insegna [pg!301] loro che bisogna esser poveri per aver più facile l'accesso al regno dei cieli, così, per aiutarli, noi comandiamo che tutti i beni della Chiesa degli Edesseni siano confiscati e distribuiti ai soldati, e le sue terre aggregate ai nostri domini. Per tal modo, impoveriti, diverranno saggi ed otterranno lo sperato regno dei cieli!»300.
Bisogna, dunque, dire che la sua cortesia per Aezio avesse proprio solo un movente di simpatia personale, e non possiamo dedurre che Giuliano arianeggiasse, ciò che sarebbe stato veramente inesplicabile, dato che, nella corte semiariana di Costanzo, egli aveva avuto i suoi più fieri avversari. Tuttavia, il personaggio che destava, nell'imperatore, la più implacabile antipatia, si trovava nel campo opposto, ed era nientemeno che il grande Atanasio, il fondatore dell'ortodossia cattolica. Questi due uomini, geniali l'uno e l'altro, di cui l'uno rappresentava il passato e l'altro l'avvenire, l'uno l'Ellenismo risorgente, l'altro il Cristianesimo dominatore, erano incompatibili l'uno all'altro. Il fatto che Giuliano tanto si incollerisce contro Atanasio, che era stato una vittima di Costanzo, mostra che, malgrado la sua giovinezza, egli conosceva a fondo gli uomini e vedeva dove stava il pericolo. Egli sentiva che la forza del Cristianesimo non stava già nel corrotto Arianesimo, sebbene dominasse sovra metà del mondo cristiano; ma bensì, nell'energia entusiasta del partito che, sventolando il vessillo del mistero mistico della Trinità , si stringeva intorno alla grande figura del vescovo d'Alessandria. Se Atanasio fosse scomparso, l'ortodossia cattolica non si sarebbe fondata, e il Cristianesimo non avrebbe avuta quella [pg!302] organizzazione che lo fece traviare dal suo carattere originale, ma che pur gli era necessaria per vivere.
Per comprendere l'importanza del duello fra Giuliano ed Atanasio, diamo un'occhiata alla figura di quest'ultimo.
Nessuna esistenza più burrascosa e più eroica di quella d'Atanasio. Un romanziere, di fervida fantasia, un Sienkiewicz, potrebbe costruirgli intorno un epico racconto. Nulla può servire a dare un'idea viva dell'ambiente del secolo quarto meglio che lo studio di questa grande figura e delle sue tempestose avventure. L'uomo era grande davvero, era un carattere dominatore per eccellenza, una tempra inflessibile di combattente, un'anima dal volo largo e potente. C'è molta analogia fra Atanasio ed Ambrogio. Ma Ambrogio si è trovato in condizioni assai meno difficili e pericolose. Ambrogio non trovò contrasti nell'esercizio della sua autorità , fuor che durante la reggenza di Giustina. Ma il vescovo era troppo forte in confronto all'imperatrice, per poter dubitare della vittoria finale. All'infuori di quest'urto passaggero, Ambrogio dominò sovrano, ed ebbe, nella guerra contro l'Arianesimo, a sua disposizione l'aiuto del potere imperiale. Graziano e Teodosio furono due strumenti nelle sue mani, coi quali egli è riuscito ad erigere l'ortodossia cattolica a religione dello Stato. Atanasio, invece, ebbe una vita di lotte incessanti e gigantesche. Egli aveva l'impero contro di sè. Se si eccettui Costantino, ai tempi del Concilio di Nicea, e il fuggevole Gioviano, egli ebbe persecutori tutti gli imperatori che vide succedersi nella sua lunga vita, sul trono di Costantinopoli, Costanzo, Giuliano, Valente.
Nato negli ultimi anni del secolo terzo, Atanasio passava la sua prima giovinezza in Alessandria, al [pg!303] fianco del vescovo Alessandro, di cui fu l'ispiratore in quei primi dissensi fra il vescovo ed il presbitero Ario, che poi condussero alla guerra civile nel seno del Cristianesimo. Al Concilio di Nicea, Atanasio era già una figura dominante, e l'Arianesimo potè vedere in lui il più poderoso dei suoi nemici. Morto Alessandro, fu eletto nel 328 vescovo di Alessandria. Ma l'opposizione del clero che arianeggiava si destò così energica, e tali furono le accuse che piombarono sul capo del neoeletto, che Costantino, il quale, intanto, visto l'insuccesso della politica ortodossa, stava piegando all'Arianesimo, chiamò l'accusato a giustificarsi prima davanti a lui a Nicomedia, poi, rinnovandosi ancora le accuse, davanti ad un Concilio raccolto a Cesarea, nel 334. Ma Atanasio indugiò a presentarsi e, sottomano, riusciva a persuadere Costantino della sua innocenza ed a riguadagnarsene il favore. Se non che, i suoi nemici avevano giurata la sua rovina. Eusebio di Nicomedia, il futuro educatore di Giuliano che viveva presso l'imperatore, lo indusse a convocare, nel 335, un altro sinodo a Tiro, che giudicasse il vescovo d'Alessandria. Questi si presentò al Concilio, con un seguito imponente di cinquanta vescovi, ma, convintosi che l'assemblea avrebbe sentenziato contro di lui, non aspettò il verdetto di destituzione, e s'imbarcò per Costantinopoli, fidando nell'influenza della sua persona sull'animo di Costantino. Nè s'ingannava, chè l'imperatore, posto fra il Concilio ed Atanasio, inclinava più a questo che a quello, quando Eusebio mosse al rivale una nuova accusa, questa volta, d'indole non teologica, e tale che doveva far grande impressione sull'animo dell'imperatore; accusò Atanasio di aver minacciato di far sospendere l'annuale provvista di granaglie che [pg!304] da Alessandria giungeva a Costantinopoli. Costantino non volle più udire Atanasio, e, senz'altro, lo esigliò a Treviri, in Germania, dove, del resto, trovò cortese accoglienza dal figlio dell'imperatore, ed un ardente collega di opinioni teologiche nel vescovo Massimino.
Morto Costantino nel maggio del 337, Atanasio ritornò trionfante in Alessandria, e riprese il suo ufficio. Fu il segnale di una nuova tempesta. Atanasio, che, certo, non era un uomo tollerante, depose dagli uffici ecclesiastici tutti coloro che erano stati suoi avversari e li sostituì con amici, infiammando sempre di più la collera degli Ariani. Sul trono di Costantinopoli sedeva Costanzo, semiariano, il quale non vedeva che con gli occhi di Eusebio. Mandò, pertanto, ad Alessandria un nuovo vescovo Gregorio, e lo fece accompagnare da una scorta militare, onde imporlo con la forza se si trovasse resistenza. Infatti, la venuta di Gregorio fu causa di sommosse e di scene di violenza. Ma Atanasio vedendo inutile ogni sforzo, nel marzo del 340, partiva, pel suo secondo esiglio, e si recava a Roma presso il vescovo Giulio. In Occidente, Atanasio trovava amici ed appoggio, cominciando dall'imperatore Costante che, diversamente del fratello Costanzo, era propenso all'ortodossia. Per cinque anni, l'infaticabile Atanasio, protetto dall'imperatore, si agita a difesa ed a gloria della fede da lui professata con sì eroica convinzione. A Milano, nelle Gallie, ad Aquileja, egli è il legislatore religioso. Ma, intanto, anche in Oriente, le cose volgevano al meglio per lui. Costanzo, stimando conveniente di non staccarsi troppo aspramente dal fratello, accennava ad un più mite contegno; così che, morto nel 345 il vescovo Gregorio, Atanasio potè presentarsi a Costanzo in Antiochia, ed [pg!305] ottenere da lui di esser ripristinato nella sua sede di Alessandria. Nel 346, egli, infatti, vi rientrava fra il giubilo del popolo. Ma la pace ebbe breve durata. Morto Costante nel 350, Costanzo non ebbe più ritegno a parteggiare per l'Arianesimo. E, di conseguenza, ricominciò la guerra contro Atanasio, accusato di essere il disturbatore della tranquillità della Chiesa. Vari tentativi per impadronirsi della persona del vescovo riuscirono vani pel minaccioso atteggiamento della popolazione alessandrina. Ma, finalmente, nella notte del 9 febbraio del 356, il governatore Siriano, con buon nerbo di soldati, riesce a penetrare nella chiesa, dove il vescovo celebrava un servizio divino. Ne viene un sanguinoso tumulto, durante il quale Atanasio sparisce. Gli Ariani, vittoriosi, riprendono tutti gli uffici che erano stati costretti ad abbandonare, e alla sede vescovile è nominato quel Giorgio, di cui abbiamo già fatta la triste conoscenza.
Durante questo terzo esiglio, che durò dal 356 al 361, Atanasio visse negli eremi dell'alto Egitto, ritornando, però, di nascosto, più volte in Alessandria, dove egli alimentava il suo partito con gli scritti che andava componendo nella sua feconda solitudine. Per verità , se si dovesse prestar fede a Sozomene, il fiero vescovo avrebbe passato meno duramente questo lungo periodo di rinnovata persecuzione. Narra lo storico che Atanasio rimase in Alessandria, nascosto presso una vergine di singolare bellezza, di tale bellezza che nessuna donna d'Alessandria poteva esserle eguagliata. Ma riproduciamo le parole di Sozomene che ci presentano uno strano manicaretto di santità e di romanzo, una miscela che a noi pare eterogenea, e che pur riusciva prelibata ai palati letterari del secolo quarto. «A quanti vedevano quella vergine, essa [pg!306] appariva un miracolo, ma coloro che ci tenevano alla fama di temperanza e di saggezza la fuggivano, pel timore che si sospettasse di loro. Poichè era proprio nel fiore dell'età , e supremamente dignitosa e modesta... Ora, Atanasio, mosso a salvarsi da una visione divina, si rifugiò presso quella vergine. E, se io investigo l'evento, mi par proprio di vedervi la mano di Dio, il quale non voleva che gli amici di Atanasio soffrissero molestia, se mai alcuno volesse interrogarli intorno a lui o costringerli a giurare, mentre, intanto, Atanasio se ne stava nascosto presso colei, la cui bellezza era troppo grande per permettere il sospetto che il sacerdote potesse trovarsi con lei301. Essa lo ricevette con coraggio e lo salvò con la prudenza, e fu una custode così fedele ed una servente così premurosa, da lavargli i piedi, da provvedere essa sola al cibo, ed a tutte le altre cose che la natura ci rende indispensabili negli urgenti bisogni302. Di più si procurava dagli altri i libri che gli erano necessari. E malgrado che ciò durasse lunghissimo tempo, nessuno dei cittadini di Alessandria mai lo seppe»303.
Del resto, sia che Atanasio si rifugiasse nei nascondigli del deserto, sia che rimanesse celato nei penetrali della casa verginale della bellissima fanciulla, la sua azione e la presenza erano spiritualmente sentite nell'ambiente eccitato di Alessandria; così che il vescovo Giorgio, il quale, come sappiamo, era un imprudente, non aveva la vita tranquilla, ed era, ad [pg!307] ogni istante, esposto alle sommosse di una popolazione irritata contro di lui, finchè giunto al trono Giuliano, le ire ammassate scoppiarono terribili e lo trascinarono alla catastrofe, alla quale gli Atanasiani assistettero impassibili e, probabilmente, conniventi.
Pubblicato il decreto di Giuliano che permetteva il rimpatrio ai vescovi esigliati dall'ariano suo antecessore, Atanasio, non solo ritornò in Alessandria, ma rioccupò, senz'altro, il seggio vescovile, e riprese, con rinnovata energia, la sua azione di propaganda e di combattimento.
Ora, la condotta di Atanasio disturbava la politica di Giuliano, il quale voleva tenere i due partiti cristiani sul piede d'eguaglianza, e di reciproca tolleranza, nella previsione che si sarebbero indeboliti a vicenda. Ma nulla era più lontano dalle sue intenzioni che il dar mano forte all'ortodossia per vincere l'Arianesimo, e nessuno, pertanto, poteva essergli più sospetto e più odioso dell'ardente Atanasio. Egli, pertanto, s'inalberò davanti alla ricomparsa brillante del vescovo d'Alessandria e sentì di non poterla tollerare. Vide in Atanasio un nemico più forte di lui, che avrebbe reso vano il tentativo a cui aveva dedicata la sua vita, e decise di soffocarlo. Cominciò la persecuzione col pretesto che Atanasio era uscito dalla legge. Infatti l'imperatore aveva, con un editto, concesso il rimpatrio dei Cristiani esigliati, ma, in quell'editto, non era detto che potessero riprendere il governo delle rispettive chiese. Atanasio, invece, non aveva esitato un istante a mettersi al posto del massacrato Giorgio. Ed ecco che Giuliano manda tosto questo nuovo decreto agli Alessandrini. «Un uomo, esigliato da tanti decreti di tanti imperatori, avrebbe dovuto aspettare una speciale autorizzazione, prima di rientrare in patria, [pg!308] e non già offendere, con audacia e con follia, le leggi, quasi non avessero valore. Noi abbiamo concesso ai Galilei, esigliati da Costanzo, non già il ritorno nelle loro chiese, ma, bensì, il ritorno in patria. Ed ora apprendo che l'audacissimo Atanasio, gonfiato dall'abituale impudenza, ha ripreso quello che essi chiamano il trono vescovile, ciò che non è poco sgradevole al pio popolo di Alessandria. Noi, pertanto, gli ordiniamo di uscire dalla città , immediatamente nel giorno in cui avrà ricevuto questa lettera, che si deve considerare come un segno della nostra mitezza. Ma, s'egli rimane, noi gli decreteremo maggiori e più molesti castighi».304Pare che Atanasio restasse, malgrado le minacce, ed, anzi, non pago di combattere gli Ariani, facesse opera di feconda propaganda presso i Pagani, guadagnando al Cristianesimo sopratutto le donne. Giuliano, furente, manda al governatore dell'Egitto, Edichio, questo biglietto:
«Se non volevi scrivermi d'altra cosa, dovevi però scrivermi di quel nemico degli dei che è Atanasio, tanto più che ti è noto ciò che, già da tempo, fu da me saviamente stabilito. Io giuro pel grande Serapide che se, prima delle calende di Decembre, quell'Atanasio, nemico degli dei, non se n'è andato dalla città , anzi, da tutto l'Egitto, io imporrò alla provincia da te amministrata una multa di cento libbre d'oro. Tu sai quanto io sia lento nel condannare, ma molto più lento nel perdonare, se ho una volta condannato».
Pare che fin qui, Giuliano, dettasse il suo decreto ad un segretario. Preso da un subitaneo impulso di sdegno, afferra lui lo stilo, e scrive: «Di mia propria [pg!309] mano. — A me duole assai essere disobbedito. Per tutti gli dei, nulla potresti farmi di più grato che lo scacciare, da ogni angolo d'Egitto, Atanasio, quello scellerato che ha osato, me imperante, battezzare le donne greche di illustri cittadini. Sia perseguitato!»305.
Nel primo decreto agli Alessandrini, l'imperatore comandava che Atanasio fosse bandito dalla città . Ora, ciò non gli basta, deve esser esigliato da tutto l'Egitto. E questo nuovo ordine, trasmesso al governatore con quel biglietto di poche frasi iraconde, è poi svolto largamente in questo proclama al popolo d'Alessandria:
«Giuliano agli Alessandrini».
«Giuliano agli Alessandrini».
«Giuliano agli Alessandrini».