—Giuliana!—balbettai, senza sapere che altro dirle, chinandomi verso di lei, temendo ch'ella venisse meno.
Ma ella abbassò le palpebre, si ricompose, si ritrasse, si restrinse in sé stessa, come presa da un gran freddo. Rimase così qualche minuto, con gli occhi chiusi, con la bocca serrata, immobile. Soltanto la pulsazione visibile della carotide nel collo e qualche contrazione convulsiva nelle mani davano indizio della vita.
Non fu un delitto? Fu ilprimodei miei delitti; e non il minore, forse.
Partii, in condizioni terribili. La mia assenza durò più di una settimana. Quando tornai e nei giorni che seguirono il mio ritorno, io stesso mi meravigliavo della mia sfrontatezza quasi cinica. Ero posseduto da una specie di malefizio che aboliva in me ogni senso morale e mi rendeva capace delle peggiori ingiustizie, delle peggiori crudeltà. Giuliana anche questa volta mostrava una forza prodigiosa; anche questa volta aveva saputo tacere. E m'appariva chiusa nel suo silenzio come in un'armatura adamantina, impenetrabile.
Andò con le figlie e con mia madre alla Badiola. Le accompagnava mio fratello. Io rimasi a Roma.
Da quel tempo incominciò per me un periodo tristissimo, oscurissimo, il cui ricordo ancora mi riempie di nausea e d'umiliazione. Tenuto da quel sentimento che meglio di ogni altro rimescola il fango essenziale nell'uomo, io patii tutto lo strazio che una donna può fare di un'anima fiacca, appassionata e sempre vigile. Accesa da un sospetto, una terribile gelosia sensuale divampò in me disseccando tutte le buone fonti interiori, alimentandosi di tutto il fecciume che posava nell'infimo della mia sostanza bruta.
Teresa Raffo non m'era parsa mai desiderabile come ora che non potevo disgiungerla da una imagine fallica, da una sozzura. Ed ella si valeva del mio stesso disprezzo per inacerbire la mia brama. Agonie atroci, gioie abiette, sottomissioni disonoranti, patti vili proposti ed accettati senza rossore, lacrime più acri di qualunque tossico, frenesie improvvise che mi spingevano sul confine della demenza, cadute nell'abisso della lussuria così violente che mi lasciavano per lunghi giorni istupidito, tutte le miserie e tutte le ignominie della passione carnale esasperata dalla gelosia, tutte io le conobbi. La mia casa mi divenne estranea; la presenza di Giuliana mi divenne incresciosa. Intere settimane passavano, talvolta, senza che io le rivolgessi una parola. Assorto nel mio supplizio interiore, io non la vedevo, non la udivo. In certi momenti, levando gli occhi su lei, mi meravigliavo del suo pallore, della sua espressione, di certe particolarità del suo volto, come di cose nuove, inaspettate, strane; e non giungevo a riconquistare intera la nozione della realtà. Tutti gli atti della sua esistenza m'erano ignoti. Io non provavo alcun bisogno d'interrogarla, di sapere; non provavo per lei alcuna inquietudine, alcuna sollecitudine, alcun timore. Una durezza inesplicabile mi fasciava l'anima contro di lei. Anche, talvolta, io avevo contro di lei una specie di vago rancore, inesplicabile. Un giorno la sentii ridere; e il suo riso m'irritò, mi fece quasi ira.
Un altro giorno palpitai forte, udendola cantare da una stanza lontana. Cantava l'aria di Orfeo:
Che farò senza Euridice?
Era la prima volta, dopo lungo tempo, che ella cantava così, movendosi per la casa; era la prima volta che io la riudiva, dopo lunghissimo tempo.—Perché cantava? Era dunque lieta? A quale affetto del suo animo rispondeva quell'effusione insolita?—Un turbamento inesplicabile mi vinse. Andai verso di lei senza riflettere, chiamandola per nome.
Vedendomi entrare nella sua stanza, ella si stupì; rimase per un poco attonita, in una sospensione manifesta.
—Canti?—io dissi, per dire qualche cosa, impacciato, meravigliato io stesso del mio atto straordinario.
Ella sorrise d'un sorriso incerto, non sapendo che rispondere, non sapendo quale contegno assumere davanti a me. E mi parve di leggere nei suoi occhi una curiosità penosa, già altre volte da me notata fuggevolmente: quella curiosità compassionevole con cui si guarda una persona sospettata di follia, un ossesso. In fatti, nello specchio di contro io scorsi la mia imagine; rividi il mio volto scarno, le mie occhiaie profonde, la mia bocca tumida, quell'aspetto di febricitante che avevo già da qualche mese.
—Ti vestivi per uscire?—le domandai, ancora impacciato, quasi peritoso, non sapendo che altro dimandare, volendo evitare il silenzio.
—Sì.
Era di mattina; era di novembre. Ella stava in piedi, presso a un tavolo ornato di merletti su cui rilucevano sparse le innumerevoli minuterie moderne destinate alla cura della bellezza muliebre. Portava un abito di vigogna oscuro; e teneva ancora in mano un pettine di tartaruga bionda con la costola d'argento. L'abito, di foggia semplicissima, secondava la svelta eleganza della persona. Un gran mazzo di crisantemi bianchi le saliva di sul tavolo all'altezza della spalla. Il sole dell'estate di San Martino scendeva per la finestra; e nella luce vagava un profumo di cipria o d'essenza che io non seppi riconoscere.
—Qual'è, ora, il tuo profumo?—le domandai. Ella rispose:
—Crab-apple.
Io soggiunsi:
—Mi piace.
Ella prese di sul tavolo una fiala e me la porse. E io la fiutai a lungo per fare qualche cosa, per avere il tempo di preparare un'altra qualunque frase. Non riuscivo a dissipare la mia confusione, a riconquistare la mia franchezza. Sentivo che ogni intimità fra noi due era caduta. Ella mi parevaun'altra donna. E intanto l'aria di Orfeo mi ondeggiava ancora su l'anima, m'inquietava ancora.
Che farò senza Euridice?
In quella luce dorata e tepida, in quel profumo così molle, in mezzo a tutti quegli oggetti improntati di grazia femminile, il fantasma della melodia antica pareva svegliare il palpito d'una vita segreta, spandere l'ombra d'un non so che mistero.
—Com'è bella l'aria che tu cantavi dianzi!—io dissi, obbedendo all'impulso che mi veniva dalla inquietudine.
—Tanto bella!—ella esclamò.
E una domanda mi saliva alle labbra: "Ma perchè cantavi?" La trattenni; e ricercai dentro di me la ragione di quella curiosità che mi pungeva.
Successe un intervallo di silenzio. Ella scorreva con l'unghia del pollice su i denti del pettine, producendo un leggero stridore. (Quello stridore è una particolarità chiarissima nel mio ricordo).
—Tu ti vestivi per uscire. Séguita dunque—io dissi.
—Non ho da mettermi che la giacca e il cappello. Che ora è?
—Manca un quarto alle undici.
—Ah, già così tardi?
Ella prese il cappello e il velo; e si mise a sedere davanti allo specchio. Io la guardavo. Un'altra domanda mi salì alle labbra; "Dove vai?" Ma trattenni anche questa, benché potesse sembrare naturale. E seguitai a guardarla attento.
Ella mi riapparve quale era in realtà: una giovine signora elegantissima, una dolce e nobile figura, piena di finezze fisiche, e illuminata da intense espressioni spirituali; una signora adorabile, insomma, che avrebbe potuto essere un'amante deliziosa per la carne e per lo spirito. "S'ella fosse veramente l'amante di qualcuno?" allora pensai. "Certo è impossibile ch'ella non sia stata molte volte insidiata e da molti. Troppo è noto l'abbandono in cui la lascio; troppo son noti i miei torti. S'ella avesse ceduto a qualcuno? O se anche stesse per cedere? S'ella giudicasse alfine inutile e ingiusto il sacrificio della sua giovinezza? S'ella fosse alfine stanca della lunga abnegazione? S'ella conoscesse un uomo a me superiore, un seduttore delicato e profondo che le insegnasse la curiosità del nuovo e le facesse dimenticare l'infedele? Se io avessi già perduto interamente il suo cuore, troppe volte calpestato senza pietà e senza rimorso?" Uno sgomento subitaneo m'invase; e la stretta dell'angoscia fu così forte che io pensai: "Ecco, ora le confesso il mio dubbio. La guarderò in fondo alle pupille dicendole:—Sei ancorapura?—E saprò la verità. Ella non è capace di mentire." "Non è capace di mentire? Ah, ah, ah! Una donna!… Che ne sai tu? Una donna è capace di tutto. Ricordatene. Qualche volta un gran manto eroico è servito a nascondere una mezza dozzina di amanti. Sacrificio! Abnegazione! Apparenze, parole. Chi potrà mai conoscere il vero? Giura, se puoi, su la fedeltà di tua moglie: non dico su quella d'oggi ma soltanto su quella anteriore all'episodio della malattia. Giura in perfetta fede, se puoi." E la voce maligna (ah, Teresa Raffo, come operava il vostro veleno!), la voce perfida mi agghiacciò.
—Abbi pazienza, Tullio—mi disse, quasi timidamente,Giuliana.—Mettimi questo spillo qui, nel velo.
Ella teneva le braccia alzate e arcuate verso la sommità della testa, per fermare il velo; e le sue dita bianche cercavano invano d'appuntarlo. La sua attitudine era piena di grazia. Le sue dita bianche mi fecero pensare: "Quanto tempo è che noi non ci stringiamo la mano! Oh le forti e calde strette di mano che ella mi dava un tempo, come per assicurarmi che non mi serbava rancore di nessuna offesa! Ora forse la sua mano è impura?" E, mentre le appuntavo il velo, provai una repulsione istantanea al pensiero della possibile impurità.
Ella si levò, e io l'aiutai anche a indossare la giacca. Due o tre volte i nostri occhi s'incontrarono fugacemente; ma ancora una volta io lessi nei suoi una specie di curiosità inquieta. Ella forse domandava a sé stessa: "Perchè è entrato qui? Perchè si trattiene? Che significa quella sua aria smarrita? Che vuole da me? Che gli accade?"
—Permetti…. un momento—disse, e uscì dalla stanza.
L'udii che chiamava miss Edith, la governante. Come fui solo, involontariamente i miei occhi andarono alla piccola scrivania ingombra di lettere, di biglietti, di libri. M'avvicinai; e i miei occhi vagarono per un poco su le carte, come tentati di scoprire…. "che cosa? forsela prova?" Ma scossi da me la tentazione bassa e sciocca. Guardai un libro che aveva una coperta di stoffa antica e tra le pagine una daghetta. Era il libro in lettura, sfogliato a metà. Era il romanzo recentissimo di Filippo Arborio,il Segreto. Lessi sul frontespizio una dedica, di pugno dell'autore:—_A voi, Giuliana Hermil,TVRRIS EBVRNEA, indegnamente offro. F. Arborio. Ognissanti '85_.
Giuliana dunque conosceva il romanziere? Quale attitudine aveva lo spirito di Giuliana verso colui? Ed evocai la figura fine e seducente dello scrittore, quale io l'aveva veduta in luoghi publici qualche volta. Certo, egli poteva piacere a Giuliana. Secondo alcune voci che erano corse, egli piaceva alle donne. I suoi romanzi, pieni d'una psicologia complicata, talora acutissima, spesso falsa, turbavano le anime sentimentali, accendevano le fantasie inquiete, insegnavano con suprema eleganza il disdegno della vita comune.Un'agonia, la Cattolicissima, Angelica Doni, Giorgio Aliora, Il Segretodavano della vita una visione intensa come d'una vasta combustione dalle figure di bragia innumerevoli. Ciascuno dei suoi personaggi combatteva per la sua Chimera, in un duello disperato con la realtà.
Non aveva questo straordinario artista, che i suoi libri mostravano quasi direi sublimato in essenza spirituale pura, non aveva egli esercitato il suo fascino anche su me? Non avevo io chiamato quel suoGiorgio Alioraun libro "fraterno?" Non avevo io ritrovato in qualcuna delle sue creature letterarie certe strane rassomiglianze col mio essere intimo? E se a punto questa nostra affinità strana gli agevolasse l'opera di seduzione forse intrapresa? "Se Giuliana gli si abbandonasse, avendogli a punto riconosciuta qualcuna di quelle attrazioni medesime per cui io mi feci un tempo da lei adorare?" pensai, con un nuovo sgomento.
Ella rientrò nella stanza. Vedendo quel libro tra le mie mani, disse con un sorriso confuso, con un po' di rossore:
—Che guardi?
—Conosci Filippo Arborio?—io le domandai subito, ma senza alcuna alterazione di voce, con il tono più calmo e più ingenuo ch'io seppi.
—Sì,—ella rispose, franca.—Mi fu presentato in casa Monterisi. È venuto anche qualche volta qui, ma non ha avuto occasione d'incontrarti.
Una domanda mi salì alle labbra. "E perché tu non me ne hai parlato?" Ma la trattenni. Come avrebbe ella potuto parlarmene, se da molto tempo io col mio contegno aveva interrotto tra noi ogni scambio di notizie e di confidenze amichevoli?
—È assai più semplice dei suoi libri—ella soggiunse, disinvolta, mettendosi i guanti con lentezza.—Hai lettoIl Segreto?
—Sì, l'ho già letto.
—T'è piaciuto?
Senza riflettere, per un bisogno istintivo di rilevare davanti aGiuliana la mia superiorità, io risposi:
—No. È mediocre.
Ed ella disse al fine:
—Io vado.
E si mosse per uscire. Io la seguii fino all'anticamera, camminando nel solco del profumo ch'ella lasciava dietro di sé fievolissimo, a pena a pena sensibile. D'avanti al domestico, ella disse soltanto:
—A rivederci.
E con un passo leggero varcò la soglia.
Io tornai alle mie stanze. Apersi la finestra, mi affacciai per veder lei nella strada.
Ella andava, col suo passo leggero, sul marciapiede dalla parte del sole: diritta, senza mai volgere il capo da nessuna banda. L'estate di San Martino diffondeva una doratura tenuissima sul cristallo del cielo; e un tepore quieto addolciva l'aria, evocava il profumo assente delle violette. Una tristezza enorme mi piombò sopra, mi tenne abbattuto contro il davanzale; a poco a poco divenne intollerabile. Rare volte nella vita avevo sofferto come per quel dubbio che faceva crollare d'un tratto la mia fede in Giuliana, una fede durata per tanti anni; rare volte la mia anima aveva gridato così forte dietro un'illusione fuggente. Ma dunque era proprio, senza riparo, fuggita? Io non potevo, non volevo persuadermene. Tutta la mia vita d'errore era stata accompagnata dalla grande illusione, che rispondeva non pure alle esigenze del mio egoismo, ma a un mio sogno estetico di grandezza morale. "La grandezza morale risultando dalla violenza dei dolori superati, perché ella avesse occasione d'essere eroica era necessario ch'ella soffrisse quel ch'io le ho fatto soffrire." Questo assioma con cui molte volte ero riuscito a placare i miei rimorsi, s'era profondamente radicato nel mio spirito, generandovi un fantasma ideale dalla parte migliore di me assunto in una specie di culto platonico. Io dissoluto obliquo e fiacco mi compiacevo di riconoscere nel cerchio della mia esistenza un'anima severa diritta e forte, un'anima incorruttibile; e mi compiacevo d'esserne l'oggetto amato, per sempre amato. Tutto il mio vizio, tutta la mia miseria e tutta la mia debolezza si appoggiavano a questa illusione. Io credevo che per me potesse tradursi in realtà il sogno di tutti gli uomini intellettuali:—essere costantemente infedele ad una donna costantemente fedele.
"Che cerchi? Tutte le ebrezze della vita? Esci, va, inèbriati. Nella tua casa, come un'imagine velata in un santuario, la creatura taciturna e memore aspetta. La lampada, dove tu non versi mai una stilla d'olio, rimane sempre accesa." Non è questo il sogno di tutti gli uomini intellettuali?
Anche: "In qualunque ora, dopo qualunque fortuna, ritornando, tu la ritroverai. Ella era sicura del tuo ritorno ma non ti racconterà la sua attesa. Tu poserai il capo su le sue ginocchia; ed ella ti passerà lungo le tempie l'estremità delle sue dita, per magnetizzare il tuo dolore."
Ben un tal ritorno era nel mio presentimento: il ritorno finale, dopo una di quelle catastrofi interne che trasformano un uomo. E tutte le mie disperazioni venivano temperate da un'intima confidenza nell'indefettibile rifugio; e in fondo a tutte le mie abiezioni scendeva un qualche lume dalla donna che per amore di me eper opera miaaveva raggiunto il sommo dell'altezza corrispondendo perfettamente a una forma delle mie idealità.
Bastava un dubbio a distruggere ogni cosa in un attimo?
Io riandai tutta la scena passata tra me e Giuliana, dal momento del mio ingresso nella stanza al momento della sua uscita.
Pur attribuendo gran parte dei miei moti intimi a uno speciale stato nervoso transitorio, non potei dissipare la strana impressione esattamente espressa dalle parole: "Ella mi parevaun'altra donna." Certo, una qualche novità era in lei. Ma quale? La dedica di Filippo Arborio non aveva più tosto un significato rassicurante? Non riaffermava a punto l'impenetrabilità della TVRRIS EBVRNEA? L'appellativo glorioso era stato suggerito a colui o semplicemente dalla fama di purezza che avvolgeva il nome di Giuliana Hermil o anche da un tentativo d'assalto fallito e forse da una rinunzia all'assedio intrapreso. La Torre d'avorio doveva essere dunque ancora intatta.
Ragionando così per medicare il morso del sospetto, io provavo in fondo a me una vaga ansietà, quasi temessi l'insorgere improvviso d'una qualche obbiezione ironica. "Tu sai: la pelle di Giuliana è straordinariamente bianca. Ella è propriopallida come la sua camicia. L'appellativo sacro potrebbe anche nascondere un significato profano…." Ma quell'indegnamente? "Eh, eh, quanti cavilli!"
Un impeto iroso d'insofferenza interruppe quel dibattito umiliante e vano. Mi ritrassi dalla finestra, scossi le spalle, feci due o tre giri per la stanza, apersi un libro macchinalmente, lo respinsi. Ma l'ambascia non diminuiva. "In somma" pensai fermandomi come per affrontare un avversario invisibile "tutto questo a che conduce? O ella è già caduta, e la perdita è irreparabile; o ella è in pericolo, e io nel mio stato presente non posso intervenire per salvarla; o ella è pura con la forza di serbarsi pura, e allora nulla è mutato. In ogni caso, io non ho alcunaazioneda compiere. Ciò che è, è necessario; ciò che sarà, sarà necessario. Questa crisi di sofferenza passerà. Bisogna aspettare. I crisantemi bianchi sul tavolo di Giuliana, dianzi, com'erano belli! Uscirò per comprarne di simili in gran quantità. Il convegno con Teresa è oggi alle due. Mancano quasi tre ore…. Non mi disse ella, l'ultima volta, che voleva trovare il caminetto acceso? Sarà ilprimo fuocod'inverno, in una giornata così tiepida. Ella è in una settimana di bontà, mi pare. Se durasse! Ma io alla prima occasione provocherò Eugenio Egano." Il mio pensiero seguì il nuovo corso, con qualche arresto repentino, con deviamenti improvvisi. Tra le stesse imagini della voluttà prossima mi balenò un'altra imagine impura, quella temuta, quella a cui volevo sfuggire. Alcune pagine ardite e ardenti dellaCattolicissimami tornarono alla memoria. E dall'uno spasimo sorgeva l'altro. E io confondevo, se bene con una diversa sofferenza, nella medesima contaminazione le due donne e nel medesimo odio Filippo Arborio ed Eugenio Egano.
La crisi passò, lasciandomi nell'animo una specie di vaga disistima mista di rancore verso lasorella. Io mi allontanai sempre più, mi feci sempre più duro, più incurante, più chiuso. La mia trista passione per Teresa Raffo divenne sempre più esclusiva, occupò tutte le mie facoltà, non mi diede un'ora di tregua. Io era veramente un ossesso, un uomo invaso da una diabolica follia, corroso da un morbo ignoto e spaventevole. I ricordi di quell'inverno sono confusi nel mio spirito, incoerenti, interrotti da strane oscurità, rari.
In quell'inverno non incontrai mai a casa mia Filippo Arborio; poche volte lo vidi in luoghi publici. Ma una sera lo trovai in una sala d'armi; e là ci conoscemmo, fummo presentati l'uno all'altro dal maestro, scambiammo qualche parola. La luce del gas, il rimbombo del tavolato, il tintinno e il luccichio delle lame, le varie pose incomposte o eleganti degli schermitori, lo scatto rapido di tutte quelle gambe inarcate, l'esalazione calda e acre di tutti quei corpi, i gridi gutturali, le interiezioni veementi, gli scoppi di risa ricompongono con una singolare evidenza nel mio ricordo la scena che si svolgeva intorno a noi mentre eravamo l'uno al conspetto dell'altro e il maestro pronunziava i nostri nomi. Rivedo il gesto con cui Filippo Arborio si levò la maschera mostrando il viso acceso, tutto rigato di sudore. Tenendo da una mano la maschera e dall'altra il fioretto, s'inchinò. Ansava troppo, affaticato e un po' convulso, come chi non ha la consuetudine dell'esercizio muscolare. Istintivamente, pensai ch'egli non era un uomo temibile sul terreno. Affettai anche una certa alterigia; a studio non gli rivolsi né pure una parola che si riferisse alla sua celebrità, alla mia ammirazione; mi contenni come mi sarei contenuto verso un qualunque ignoto.
—Dunque—mi chiese il maestro sorridendo—per domani?
—Sì, alle dieci.
—Vi battete?—fece l'Arborio con una curiosità manifesta.
—Sì.
Egli esitò un poco; quindi soggiunse:
—Con chi?, se non sono indiscreto.
—Con Eugenio Egano.
M'accorsi ch'egli desiderava di sapere qualche cosa di più, ma che lo tratteneva il mio contegno freddo e in apparenza disattento.
—Maestro, un assalto di cinque minuti—io dissi, e mi volsi per andare nello spogliatoio. Giunto su la soglia, mi soffermai a guardare in dietro e scorsi l'Arborio che aveva ripreso a schermire. Un'occhiata mi bastò per conoscere ch'egli era mediocrissimo in quel giuoco.
Quando incominciai l'assalto col maestro, sotto gli occhi di tutti i presenti, s'impadronì di me una particolare eccitazione nervosa che raddoppiò la mia energia. E sentivo su la mia persona lo sguardo fisso di Filippo Arborio.
Dopo, nello spogliatoio, ci ritrovammo. La stanza troppo bassa era già piena di fumo e d'un odore umano acutissimo, nauseante. Tutti là dentro, nudi, nelle larghe cappe bianche, si strofinavano il petto, le braccia, le spalle, con lentezza, fumando, motteggiando ad alta voce, dando sfogo nel turpiloquio alla loro bestialità. Gli scrosci della doccia si alternavano con le grasse risa. E due o tre volte, con un indefinibile senso di repulsione, con un sussulto simile a quello che mi avrebbe dato un violento urto fisico, io intravidi il corpo smilzo dell'Arborio, a cui i miei occhi andavano involontariamente. E di nuovo l'imagine odiosa si formò.
Non ebbi, dopo d'allora, altra occasione d'avvicinare colui e né pure d'incontrarlo. Né me ne curai. Né in séguito fui colpito da alcuna apparenza sospetta nella condotta di Giuliana. Di là dal cerchio sempre più angusto in cui mi agitavo, nulla era per me chiaramente sensibile, intelligibile. Tutte le impressioni estranee passavano sul mio spirito come gocciole d'acqua su una lastra arroventata, o rimbalzando o dissolvendosi.
Gli eventi precipitarono. Su lo scorcio di febbraio dopo un'ultima e vergognosa prova, avvenne tra me e Teresa Raffo la rottura definitiva. Io partii per Venezia, solo.
Rimasi là circa un mese, in uno stato di malessere incomprensibile; in una specie di stupefazione che le caligini e i silenzii della laguna addensavano. Non altro conservavo in me che il sentimento della mia esistenza isolata, tra i fantasimi inerti di tutte le cose. Per lunghe ore non altro sentivo che la fissità grave, schiacciante, della vita e il piccolo battito di un'arteria nella mia testa. Per lunghe ore mi teneva quel fascino strano che esercita su l'anima come su i sensi il passaggio continuo e monotono di qualche cosa indistinta. Piovigginava. Le nebbie su l'acqua prendevano talvolta forme lugubri, camminando come spettri con un passo lento e solenne. Spesso nella gondola, come in una bara, io trovavo una specie di morte imaginaria. Quando il rematore mi chiedeva in che luogo dovesse condurmi, io facevo quasi sempre un gesto vago; e comprendevo dentro di me la disperata sincerità delle parole: "Dovunque, fuori del mondo!"
Tornai a Roma negli ultimi giorni di marzo. Avevo della realtà un senso nuovo, come dopo una lunga eclisse della conscienza. Una timidezza, uno smarrimento, una paura senza ragione mi prendevano talvolta all'improvviso; e mi sentivo debole come un fanciullo. Guardavo intorno a me di continuo, con un'attenzione insolita, per riafferrare il significato vero delle cose, per coglierne i giusti rapporti, per rendermi conto di ciò che era mutato, di ciò che era scomparso. E, come a poco a poco rientravo nell'esistenza comune, si ristabiliva nel mio spirito l'equilibrio, si ridestava qualche speranza, risorgeva la cura dell'avvenire.
Trovai Giuliana molto abbattuta di forze, alterata nella salute, triste come non mai. Poco parlammo e senza guardarci dentro alle pupille, senza aprire i nostri cuori. Ambedue cercavamo la compagnia delle due bambine; e Maria e Natalia in una felice inconsapevolezza riempivano i silenzii con le loro fresche voci. Un giorno Maria domandò:
—Mamma, andremo quest'anno, per Pasqua, alla Badiola?
Io risposi, invece della madre, senza esitare:
—Sì, andremo.
Allora Maria si mise a saltare per la stanza, in segno di gioia, trascinando la sorella. Io guardai Giuliana.
—Vuoi che andiamo?—le chiesi, timido, quasi con umiltà.
Ella consentì col capo.
—Vedo che tu non stai bene—soggiunsi. Anche io non sto bene….Forse la campagna…. la primavera….
Ella era distesa in una poltrona, tenendo le mani bianche posate lungo i bracciuoli; e la sua attitudine mi ricordò un'altra attitudine: quella della convalescente nel mattino della levata ma dopo l'annunzio.
Fu decisa la partenza. Ci preparammo. Una speranza luceva nel profondo della mia anima, e io non osavo mirarla.
Il primo ricordo è questo.
Intendevo, quando ho incominciato il racconto, intendevo: questo è il primo ricordo che si riferisce alla cosa tremenda.
Era di aprile, dunque. Eravamo da alcuni giorni alla Badiola.
—Ah, figliuoli miei,—aveva detto mia madre, con la sua grande ingenuità—come siete sciupati! Ah quella Roma, quella Roma! Bisogna che restiate qui con me, in campagna, molto tempo, per rimettervi…. molto tempo….
—Sì—aveva detto Giuliana, sorridendo—sì, mamma, resteremo quanto vorrai.
Quel sorriso ridivenne frequente su le labbra di Giuliana, in presenza di mia madre; e, se bene la malinconia degli occhi rimanesse inalterabile, era così dolce quel sorriso, era così profondamente buono che io stesso mi lasciai illudere. Ed osai mirare la mia speranza.
Nei primi giorni, mia madre non si distaccava mai dalle care ospiti; pareva che volesse saziarle di tenerezza. Due o tre volte io la vidi, palpitando d'una commozione indefinibile, io la vidi accarezzare con la sua mano benedetta i capelli di Giuliana. Una volta la udii che chiedeva:
—Ti vuol sempre lo stesso bene?
—Povero Tullio! Sì—rispose l'altra voce.
—Dunque, non è vero….
—Che?
—Quello che mi hanno riferito.
—Che ti hanno riferito?
—Nulla, nulla…. Credevo che Tullio ti avesse dato qualche dispiacere.
Parlavano nel vano di una finestra, dietro le cortine ondeggianti, mentre di fuori stormivano gli olmi. Io mi feci innanzi, prima che s'accorgessero di me; sollevai una cortina, mostrandomi.
—Ah, Tullio!—esclamò mia madre.
E si scambiarono uno sguardo, un po' confuse.
—Parlavamo di te—soggiunse mia madre.
—Di me! Male?—chiesi con un'aria gaia.
—No, bene—disse Giuliana, subito; e io colsi nella sua voce l'intenzione, ch'ella certo ebbe, dirassicurarmi.
Il sole d'aprile batteva sul davanzale, riluceva nei capelli grigi di mia madre, svegliava qualche tenue bagliore su le tempie di Giuliana. Le cortine candidissime ondeggiavano, si riflettevano nei vetri luminose. I grandi olmi dello spiazzo, coperti di piccole foglie nuove, producevano un susurro, ora leggero ora forte, alla cui misura le ombre or meno or più si agitavano. Dal muro stesso della casa, ammantato di violacciocche innumerevoli, saliva un profumo pasquale, quasi un vapore invisibile di mirra.
—Com'è acuto quest'odore!—mormorò Giuliana, passandosi le dita su i sopraccigli e socchiudendo le palpebre.—Stordisce.
Io stavo tra lei e mia madre, un poco in dietro Una voglia mi venne, di chinarmi sul davanzale cingendo l'una e l'altra con le mie braccia. Avrei voluto mettere in quella semplice familiarità tutta la tenerezza che mi gonfiava il cuore e far intendere a Giuliana una moltitudine di cose inesprimibili e riconquistarla intera con quell'unico atto. Ma ancora mi tratteneva un senso di temenza quasi puerile.
—Guarda, Giuliana,—disse mia madre, indicando un punto del colle—la tua Villalilla. La scorgi?
—Sì, sì.
Ella, schermendosi dal sole con la mano aperta, aguzzava la vista; e io, che la osservavo, notai un piccolo tremito nel suo labbro inferiore.
—Distingui il cipresso?—le chiesi, volendo aumentare con la domanda suggestiva il suo turbamento.
E io rivedevo nella mia imaginazione il vecchio cipresso venerabile che aveva al suo piede un cespo di rose e un coro di passeri alla sua cima.
—Sì, sì, lo distinguo…. appena.
Villalilla biancheggiava a mezzo dell'altura, molto lontana, in un pianoro. La catena dei colli si svolgeva d'innanzi a noi con un lineamento nobile e pacato, per ove gli oliveti avevano un'apparenza di straordinaria leggerezza somigliando a un vapore verdegrigio cumulato in forme costanti. Gli alberi in fiore, bianchi e rosei trionfi, interrompevano l'uguaglianza. Il cielo pareva di continuo impallidire, come se nella sua liquidità un latte di continuo si diffondesse e si dileguasse.
—Andremo a Villalilla dopo Pasqua. Sarà tutta fiorita—io dissi, tentando di rimettere in quell'anima il sogno che le avevo strappato brutalmente.
E osai accostarmi, cingere con le mie braccia Giuliana e mia madre, chinarmi sul davanzale tenendo la mia testa tra l'una e l'altra testa; in modo che i capelli dell'una e dell'altra mi sfioravano. La primavera, quella bontà dell'aria, quella nobiltà dei luoghi, quella placida trasfigurazione di tutte le creature per una virtù materna, e quel cielo divino pel suo pallore, più divino come più si faceva pallido, mi davano un senso di vita così nuovo che io pensai tremando dentro di me: "Ma è possibile? Ma è possibile? Ma dunque, dopo tutto quel che è accaduto, dopo tutto quel che ho sofferto, dopo tante colpe, dopo tante vergogne, io posso ancora trovare nella vita questo sapore! Io posso ancorasperare, posso ancora avere il presentimento di una felicità! Chi dunque mi ha benedetto?" Pareva che tutto il mio essere si alleggerisse, espandendosi, dilatandosi oltre i suoi confini, con una vibrazione sottile, rapida e incessante. Nulla può dare un'idea di ciò che diveniva in me la sensazione minima prodotta da un capello che mi sfiorava la guancia.
Rimanemmo alcuni minuti in quell'attitudine, senza parlare. Gli olmi stormivano. Il tremolio innumerevole dei fiori gialli e violacei, che ammantavano il muro sotto la finestra, incantava le mie pupille. Un profumo denso e caldo saliva nel sole, col ritmo di un alito.
A un tratto, Giuliana si sollevò, si ritirò, smorta, con qualche cosa di torbido negli occhi, con la bocca sforzata come da una nausea, dicendo:
—Quest'odore è terribile. Da il capogiro. Mamma, non fa male anche a te?
E si volse per andarsene; diede qualche passo incerto, vacillante; poi si affrettò, uscì dalla stanza, seguita da mia madre.
Io le guardai allontanarsi per la fuga delle porte, ancora tenuto da un resto della sensazione primitiva, trasognato.
La mia confidenza nell'avvenire aumentava di giorno in giorno. Non mi ricordavo quasi più di nulla. La mia anima troppo affaticata si dimenticava di soffrire. In certe ore di completo abbandono tutto si dileguava, si distendeva, si fondeva, si immergeva nella fluidità originale, diveniva irriconoscibile. Poi, dopo questi strani dissolvimenti ulteriori, mi pareva che un altro principio di vita entrasse in me, che un'altra forza mi possedesse.
Una moltitudine di sensazioni involontarie, spontanee, inconscienti, istintive componeva la mia esistenza reale. Tra l'esterno e l'interno si stabiliva un giuoco di minime azioni e di minime reazioni istantanee che fremevano in infinite ripercussioni; e ciascuna di queste ripercussioni incalcolabili si convertiva in un fenomeno psichico stupendo. Tutto il mio essere veniva alterato da ciò che passava nell'aria, da un soffio, da un'ombra, da un bagliore.
Le grandi malattie dell'anima come quelle del corpo rinnovellano l'uomo; e le convalescenze spirituali non sono meno soavi e meno miracolose di quelle fisiche. D'avanti a un arbusto fiorito, d'avanti a un ramo coperto di minute gemme, d'avanti a un rampollo nato su un vecchio tronco quasi estinto, d'avanti alla più umile fra le grazie della terra, alla più modesta tra le trasfigurazioni della primavera, io mi soffermavo, semplice, candido, attonito!
Uscivo spesso con mio fratello, al mattino. In quell'ora tutto era fresco, facile, libero. La compagnia di Federico mi purificava e mi fortificava come la buona brezza selvaggia. Aveva allora ventisette anni Federico; aveva vissuto quasi sempre nella campagna, d'una vita sobria e laboriosa; pareva portare in sè raccolta la mite sincerità terrestre. Egli possedeva la Regola. Leone Tolstoi, baciandolo su la bella fronte serena, lo avrebbe chiamato suo figliuolo.
Andavamo per i campi senza meta, di rado ragionando. Egli lodava la fertilità dei nostri dominii, mi spiegava le innovazioni introdotte nelle culture, mi mostrava i miglioramenti. Le case dei nostri contadini erano larghe, ariose, linde. Le nostre stalle erano piene di un bestiame sano e ben pasciuto. Le nostre cascine erano in un ordine perfetto. Spesso, nel cammino, egli s'arrestava per osservare una pianta. Le sue mani virili erano di una delicatezza estrema quando toccavano le piccole foglie verdi in cima ai rametti novelli. Talvolta passavamo attraverso un frutteto. I peschi, i peri, i meli, i ciliegi, i prugni, gli albicocchi portavano su le loro braccia milioni di fiori; giù per la trasparenza dei petali rosei ed argentei, la luce si cangiava quasi direi in una umidità divina, in una cosa indescrivibilmente vaga e benigna; tra i minimi intervalli delle ghirlande leggere, il cielo aveva la vivente dolcezza di uno sguardo.
Egli diceva, imaginando il pensile tesoro futuro, mentre io lodavo i fiori:
—Vedrai, vedrai i frutti.
"Io li vedrò" ripetevo dentro di me. "Vedrò cadere i fiori, nascere le foglie, crescere i frutti, colorirsi, maturarsi, distaccarsi." Questa assicurazione, già passata per la bocca di mio fratello, aveva per me un'importanza grave, come se si riferisse a non so quale felicità promessa e attesa, la quale a punto dovesse svolgersi in quel periodo del parto arboreo, nel tempo che corre tra il fiore e il frutto. "Prima che io abbia manifestato il mio proposito, a mio fratello par già naturale che io rimanga omai qui, nella campagna, con lui, con nostra madre; poiché egli dice che io vedrò i frutti dei suoi alberi. Egli èsicuroche io li vedrò! Dunque è proprio vero che è ricominciata una vita nuova per me, e che questo sentimento ch'io ho dentro di me non m'inganna. In fatti, tutto ora si compie con una facilità strana, insolita, con un'abbondanza d'amore. Come amo Federico! Non l'ho mai amato così." Tali erano i miei soliloquii interiori, un po' slegati, incoerenti, qualche volta puerili per una singolare disposizione d'animo che mi portava a vedere in qualunque fatto insignificante un segno favorevole, un pronostico benigno.
Il gaudio mio più intenso era nel sapermi lontano dalle cose passate, lontano da certi luoghi, da certe persone, inaccessibile. Assaporavo talvolta la pace della campagna primaverile raffigurandomi lo spazio che mi divideva dal mondo oscuro dove io avevo tanto sofferto e di dolori tanto cattivi. Una paura indefinita mi stringeva ancora, talvolta, e mi faceva cercare con sollecitudine intorno a me le prove della sicurtà presente, mi spingeva a mettere il braccio sotto il braccio di mio fratello, a leggere negli occhi di lui l'affetto indubitabile e tutelare.
Io confidavo in Federico, ciecamente. Avrei voluto essere da lui non soltanto amato ma dominato; avrei voluto cedere la primogenitura a lui più degno e star sommesso al suo consiglio, riguardarlo come la mia guida, obedirgli. Al suo fianco non avrei più corso il pericolo di smarrirmi, poiché egli conosceva la via diritta e camminava per quella con un passo infallibile; ed egli anche aveva il braccio possente e mi avrebbe difeso. Era l'uomo esemplare: buono, forte, sagace. Nulla per me uguagliava in nobiltà lo spettacolo di quella giovinezza devota alla religione del "conscientemente bene operare", dedicata all'amore della Terra. Parevano i suoi occhi aver assunto un limpido color vegetale dalla contemplazione assidua delle cose verdi.
—Gesù della Gleba—io lo chiamai un giorno, sorridendo.
Era un mattino pieno d'innocenza, uno di quei mattini che danno imagine delle albe primordiali nell'infanzia della Terra. Sul limite di un campo, mio fratello parlava a un gruppo di agricoltori. Parlava in piedi, avanzando di tutto il corpo gli astanti; e il suo gesto calmo dimostrava la semplicità delle sue parole. Uomini vecchi incanutiti nella saggezza, uomini maturi già prossimi al limitare della vecchiaia ascoltavano quel giovine. Tutti portavano su i loro corpi nodosi la traccia della grande comune opera. Poiché nessun albero era da presso, poiché il frumento era umile nei solchi, le loro attitudini apparivano integre nella santità della luce.
Come mi vide muovere verso di lui, mio fratello licenziò i suoi uomini per venirmi incontro. Allora spontanea mi uscì dalle labbra la salutazione:
—Gesù della Gleba, osanna!
Egli aveva per tutti gli esseri vegetali una diligenza infinita. Nulla sfuggiva alle sue pupille acute, quasi onniveggenti. Nelle nostre corse mattutine, si soffermava ad ogni tratto per liberare da una chiocciola, da un bruco, da una formica una piccola foglia. Un giorno, senza badarci, camminando, battevo le erbe con la punta del bastone; e le teneri cime verdi recise ad ogni colpo s'involavano. Egli ne soffriva perchè mi tolse di mano il bastone ma con un gentile atto; ed arrossì, pensando forse che quella sua misericordia mi sarebbe parsa una esagerata morbidezza sentimentale. Oh quel rossore su quel volto così maschio!
Un altro giorno, mentre spezzavo a un melo qualche ramo fiorito, sorpresi nelli occhi di Federico un'ombra di rammarico. Subito tralasciai, ritrassi le mani, dicendo:
—Se ti dispiace…..
Egli si mise a ridere forte.
—Ma no, ma no…. Spoglia pure tutto l'albero.
Intanto il ramo già rotto, ritenuto da alcune delle sue vive fibre, penzolava lungo il fusto; e, proprio, quella frattura umida di linfa aveva un aspetto di cosa dolente; e quei fiori esili, un po' carnicini, un po' bianchi, simili a ciocche di rose scempie, che portavano un germe omai condannato, avevano all'aria un tremolio incessante.
Io dissi allora, come ad attenuare la crudezza di quella manomessione:
—È per Giuliana.
E, strappando le ultime fibrille vive, distaccai il ramo già rotto.
Non quel ramo solo portai a Giuliana, ma molti altri. Tornavo allaBadiola sempre carico di doni floreali. Una mattina, avendo su lebraccia un fascio di spine albe, incontrai nel vestibolo, mia madre.Ero un poco ansante, accaldato, agitato da una leggera ebrezza.Domandai:
—Dov'è Giuliana?
—Su, nelle sue stanze,—ella rispose, ridendo.
Io feci di corsa le scale, attraversai il corridoio, entrai franco nell'appartamento, chiamai:
—Giuliana, Giuliana! Dove sei?
Maria e Natalia mi uscirono in contro con grandi feste, rallegrate alla vista dei fiori, irrequiete, folli.
—Vieni, vieni,—mi gridarono—la mamma è qui, nella camera da letto.Vieni.
E io varcai quella soglia palpitando più forte; mi trovai alla presenza di Giuliana sorridente e confusa: le gittai il fascio ai piedi.
—Guarda!
—Oh, che cosa bella!—esclamò, chinandosi sul fresco tesoro odorante.
Portava una delle sue ampie tuniche preferite, d'un verde eguale al verde d'una foglia d'aloe. Non ancora pettinati, i suoi capelli erano mal trattenuti dalle forcine; le coprivano la nuca, le nascondevano gli orecchi, in dense matasse. L'effluvio della spina, un color misto di timo e di mandorla amara, la investiva tutta, si diffondeva per la camera.
—Bada di non pungerti—io le dissi.—Guarda le mie mani.
E le mostrai le scalfitture ancora sanguinanti, come per rendere più meritoria l'offerta. "Oh se ella ora mi prendesse le mani" pensai. E mi passò su lo spirito, vago, il ricordo di un giorno lontanissimo in cui ella mi aveva baciate le mani scalfite dalle spine e aveva voluto suggere le stille di sangue che spuntavano l'una dopo l'altra. "Se ella ora mi prendesse le mani e in questo solo atto mettesse tutto il suo perdono e tutto il suo abbandono!"
Io avevo di continuo, in quei giorni, l'aspettazione d'un momento simile. Non sapevo veramente da che mi venisse una tal fiducia; ma ero sicuro che Giuliana si sarebbe ridonata a me, così, o prima o poi, con un solo semplice atto silenzioso in cui ella avrebbe saputo mettere "tutto il suo perdono e tutto il suo abbandono".
Ella sorrise. Un'ombra di sofferenza apparve sul suo volto troppo bianco, ne' suoi occhi troppo incavati.
—Non ti senti un poco meglio, da che sei qui?—le domandai accostandomi.
—Sì, sì, meglio—ella rispose. Dopo una pausa:
—E tu?
—Oh, io sono già guarito. Non vedi?
—Sì, è vero.
Quando mi parlava, in quei giorni, mi parlava con una esitazione singolare che per me era piena di grazia ma che ora m'è impossibile definire. Pareva quasi ch'ella fosse di continuo occupata a trattenere la parola che le saliva alle labbra, per pronunziarne una diversa. Inoltre, la sua voce era, se si può dir così, più feminile; aveva perduta la primitiva fermezza e una parte di sonorità; s'era velata come quella d'uno strumento con la sordina. Ma, essendo ella dunque verso di me in tutte le sue espressioni tanto mite, che cosa ancora c'impediva di stringerci? Che cosa manteneva ancora tra lei e me quell'intervallo?
In quel periodo che rimarrà nella storia della mia anima sempre misterioso, la mia nativa perspicacia sembrava interamente abolita. Tutte le mie terribili facoltà analitiche, quelle stesse che mi avevano dato tanti spasimi, sembravano esauste. La potenza delle facoltà inquiete pareva distrutta. Innumerevoli sensazioni, innumerevoli sentimenti di quel tempo mi riescono ora incomprensibili, inesplicabili, perché non ho alcuna guida per rintracciarne l'origine, per determinarne la natura. Una discontinuità, un difetto di fusione, è tra quel periodo della mia vita psichica e gli altri.
Udii una volta raccontare, nel corso di una favola, che un giovine principe, dopo un lungo pellegrinaggio avventuroso, giunse infine al cospetto della donna che egli aveva con tanto ardore cercata. Tremava di speranza il giovine, mentre la donna gli sorrideva da vicino. Ma un velo rendeva intangibile la donna sorridente. Era un velo d'ignota materia, così tenue che si confondeva con l'aria; eppure il giovine non potè stringere l'amata a traverso un tal velo.
Questa imaginazione mi aiuta un poco a rappresentarmi il singolare stato in cui mi trovavo allora, a riguardo di Giuliana. Io sentivo che qualche cosa, inconoscibile, manteneva ancora tra lei e me l'intervallo. Ma, nel tempo medesimo, confidavo nel "semplice atto silenzioso" che, o prima o poi, doveva distruggere l'ostacolo e rendermi felice.
Come mi piaceva intanto la camera di Giuliana! Era tappezzata d'un tessuto chiaro, un po' invecchiato, a fiorami assai sbiaditi, e aveva un'alcova profonda. Come la profumavano le spine albe!
Ella disse, troppo bianca:
—È acuto questo odore. Dà alla testa. Non lo senti?
E andò verso una finestra per aprirla. Poi soggiunse:
—Maria, chiama miss Edith.
La governante comparve.
—Edith, vi prego, portate questi fiori nella stanza del pianoforte.Metteteli nei vasi. Badate di non pungervi.
Maria e Natalia vollero portare una parte del fascio. Rimanemmo soli. Ella andò ancora verso la finestra; si appoggiò al davanzale, volgendo le spalle alla luce.
Io dissi:
—Hai qualche cosa da fare? Vuoi che me ne vada?
—No, no. Resta pure. Siediti. Raccontami la tua passeggiata di stamani. Fin dove sei giunto?
Ella pronunziò queste frasi con un po' di precipitazione. Come il parapetto era all'altezza delle reni, ella teneva sul davanzale i gomiti; e il suo busto s'inclinava indietro, entrando nel rettangolo della finestra. La faccia, rivolta verso di me in pieno, si empiva d'ombra, specialmente nel cavo degli occhi; ma i capelli, ricevendo in sommo la luce, formavano una esigua aureola; gli omeri anche in sommo si rischiaravano. Un piede, su cui più premeva il peso del corpo, avanzava l'estremità della veste, mostrando un po' della calza cinerina e la babbuccia brillante. Tutta la figura, in quell'attitudine, in quella luce, aveva una straordinaria forza di seduzione. Un lembo di paesaggio turchiniccio e voluttuoso, tra l'uno e l'altro stipite, sfondava pel vano, dietro quella testa.
Allora fu che, d'improvviso, come per una rivelazione fulminea, io rividi in lei la donna desiderabile e nel mio sangue si riaccesero il ricordo e il desiderio delle carezze.
Io le parlavo guardandola fissamente. Come più la guardavo, più mi sentivo turbare; ed ella certo doveva leggere nel mio sguardo, perché l'inquietudine in lei si fece palese. Io pensai con un'acuta ansietà ulteriore: "Se ardissi? Se m'avanzassi fino a lei e la prendessi fra le mie braccia?" Anche la franchezza apparente che io cercavo di mettere nei miei discorsi leggeri, m'abbandonò. Mi confusi. Quel disagio divenne insostenibile.
Giungevano dalle stanze contigue le voci di Maria, di Natalia e diEdith, indistinte.
Io mi levai, m'accostai alla finestra, mi misi a fianco di Giuliana, fui sul punto di chinarmi verso di lei per proferire al fine le parole già tante volte ripetute dentro di me in colloqui imaginarii. Ma il timore di una interruzione probabile mi trattenne. Pensai che quel momento era forse inopportuno, che non avrei avuto forse il tempo di dirle tutto, di aprirle tutto il mio cuore, di raccontarle la mia vita interna delle ultime settimane, la misteriosa convalescenza della mia anima, il risveglio delle mie fibre più tenere, la rifioritura de' miei sogni più gentili, la profondità del mio sentimento nuovo, la tenacità della mia speranza. Pensai che non avrei avuto il tempo di raccontarle i minuti episodii recenti, quelle piccole confessioni ingenue, deliziose all'orecchio della donna che ama, fresche di verità, più persuasive di qualunque eloquenza. Io dovevo infatti riuscire a persuaderla d'una grande e forse per lei incredibile cosa, dopo tante delusioni: riuscire a persuaderla che questo mio ritorno non era ingannevole, ma sincero, definitivo, necessitato da un bisogno vitale di tutto il mio essere. Ella, certo, diffidava ancora; certo, in questo suo diffidare stava la ragione del suo ritegno. Ancora fra noi s'intrapponeva l'ombra d'un atroce ricordo. Io dovevo scacciare quell'ombra, ricongiungere la mia anima a quella di lei così strettamente che nulla più potesse intrapporsi. E questo doveva accadere in un'ora favorevole, in un luogo segreto, silenzioso, abitato soltanto dalle memorie: a Villalilla.
Noi tacevamo, intanto, ambedue nel vano della finestra, l'uno a fianco dell'altra. Giungevano dalle stanze contigue le voci di Maria, di Natalia e di Edith, indistinte. Il profumo delle spine albe era vanito. Le tende che pendevano dall'arco dell'alcova lasciavano intravedere il letto nel fondo, ove i miei occhi andavano spesso, curiosi della penombra, quasi cupidi.
Giuliana aveva chinato il capo, perché sentiva anch'ella forse il peso dolce e angoscioso del silenzio. Il vento leggero le agitava su la tempia una ciocca libera. L'irrequietudine di quella ciocca scura, un po' lionata, ove anzi qualche filo alla luce diveniva oro su quella terapia pallida come un'ostia, mi faceva languire. E, guardando, io rividi sul collo il piccolo segno fosco da cui tante volte in altri tempi era partita la favilla della tentazione.
Allora, non potendo più reggere, con un misto di temenza e di ardire, levai la mano per ravviare quella ciocca; e le mie dita tremanti di su i capelli sfiorarono l'orecchio, il collo, ma a pena a pena, con la più tenue delle carezze.
—Che fai?—disse Giuliana, scossa da un sussulto, volgendomi uno sguardo smarrito, tremando più di me forse.
E si scostò dalla finestra; sentendosi seguire, diede qualche passo come di fuga, perdutamente.
—Ah perché, perché questo, Giuliana?—esclamai, fermandomi.
Ma subito dopo:
—É vero: non sono ancora degno. Perdonami!
In quel punto le due campane della cappella incominciarono a squillare. E Maria e Natalia si precipitarono nella camera, verso la madre, gridando di gioia; e, l'una dopo l'altra, le s'appesero al collo e le coprirono il viso di baci; e dalla madre passarono a me, e io le sollevai, l'una dopo l'altra, nelle mie braccia.
Le due campane squillavano a furia; tutta la Badiola pareva invasa dal fremito del bronzo. Era il Sabato Santo, l'ora della Risurrezione.
Nel pomeriggio di quel medesimo sabato, ebbi un accesso di tristezza singolare.
Era giunta la posta alla Badiola; e io e mio fratello, nella sala del bigliardo, davamo una scorsa ai giornali. Per caso mi venne sotto gli occhi il nome di Filippo Arborio, citato in una cronaca. Un turbamento subitaneo s'impadronì di me. Così un lieve urto solleva il fondiglio in un vaso chiarito.
Mi ricordo: era un pomeriggio nebuloso, illuminato come da uno stanco riverbero biancastro. Fuori, innanzi alla vetrata che dava su lo spiazzo, passarono Giuliana e mia madre, l'una a braccio dell'altra, conversando. Giuliana portava un libro; e camminava con un'aria stracca.
Con la inconseguenza delle imagini che si svolgono nel sogno, si risollevarono nel mio spirito alcuni frammenti della vita passata: Giuliana avanti allo specchio, nel giorno di novembre; il mazzo dei crisantemi bianchi; la mia ansietà nell'udire l'aria di Orfeo; le parole scritte sul frontespizio delSegreto; il colore dell'abito di Giuliana; il mio dibattito alla finestra; il volto di Filippo Arborio, grondante di sudore; la scena dello spogliatoio, nella sala d'armi. Io pensai con un fremito di paura, come uno che si trovi d'improvviso inclinato su l'orlo di una voragine: "Potrei dunque non salvarmi?"
Sopraffatto dall'ambascia, avendo bisogno d'esser solo per guardare dentro di me, per guardare in faccia la mia paura, io salutai mio fratello, uscii dalla sala, andai nelle mie stanze.
Il mio turbamento era misto d'impazienza irosa. Io ero come uno che, in mezzo al benessere d'una guarigione illusoria, nella ricuperata sicurtà della vita, senta a un tratto il morso del male antico, si accorga di portare ancora nella sua carne il male inestirpabile e sia costretto ad osservarsi, a sorvegliarsi, per convincersi dell'orrenda verità. "Potrei dunque non salvarmi? E perché?"
Nello strano oblio che tutte le cose passate aveva sommerso, in quella specie di oscuramento che pareva aver invaso un intero strato della mia conscienza, anche il dubbio contro Giuliana, l'odioso dubbio s'era perduto, s'era disciolto. Troppo grande bisogno aveva la mia anima di cullarsi nell'illusione, di credere e di sperare. La mano santa di mia madre, accarezzando i capelli di Giuliana, aveva per me riaccesa intorno a quel capo l'aureola. Per uno di quelli abbagli sentimentali frequenti nei periodi di debolezza, vedendo le due donne respirare nel medesimo cerchio con una concordia così dolce, io le avevo confuse in una medesima irradiazione di purità.
Ora, un piccolo fatto casuale, un semplice nome letto per caso in un diario, il risveglio d'un ricordo torbido erano bastati a sconvolgermi, a sbigottirmi, a spalancarmi d'innanzi un abisso; nel quale io non osavo gittare uno sguardo risoluto e profondo, perché il mio sogno di felicità mi tratteneva, mi tirava in dietro, attaccato a me tenacemente. Ondeggiai prima in un'angoscia fosca, indefinibile, su cui passavano a quando a quando i bagliori temuti. "É possibile ch'ella non sia pura. E allora?—Filippo Arborio o un altro…. Chi sa!—Conoscendo la colpa potrei perdonare?—Che colpa? Che perdono? Tu non hai il diritto di giudicarla, tu non hai il diritto di alzare la voce. Troppe volte ella ha taciuto; questa volta dovresti tu tacere.—E la felicità?—Sogni tu la felicità tua o quella di entrambi? Quella di entrambi, certo, perché un semplice riflesso dellasuatristezza oscurerebbe qualunque tua gioia. Tu supponi che, essendo tu contento, ella sarebbe anche contenta: tu col tuo passato di licenza continua, ella col suo passato di continuo martirio. La felicità che tu sogni riposa tutta su l'abolizione del passato. Perché dunque, se ella veramente non fosse pura, non potresti tu mettere il velo o la pietra su la sua colpa come su la tua? Perché dunque, volendo far dimenticare, non dimenticheresti? Perché dunque, volendo essere un uomo nuovo, disgiunto completamente dal passato, non potresti considerar lei come una donna nuova, nelle condizioni medesime? Una tale ineguaglianza sarebbe forse la peggiore delle tue ingiustizie.—Ma l'Ideale? Ma l'Ideale? La mia felicità sarebbe allora possibile quando io potessi riconoscere in Giuliana assolutamente una creatura superiore, impeccabile, degna di tutta l'adorazione; e nel sentimento intimo di questa superiorità, nella conscienza della sua propria grandezza morale ella a punto troverebbe la massima parte della felicità sua. Io non potrei astrarre dal mio passato né dal suo, perché questa particolare felicità non potrebbe essere senza la nequizia della mia vita anteriore e senza quell'eroismo invitto e quasi sovrumano d'avanti al cui fantasma la mia anima è rimasta sempre china.—Ma sai tu quanto ci sia d'egoismo in questo tuo sogno e quanto d'elevazione ideale? Meriti tu forse la felicità, questo alto premio? Per quale privilegio? Così dunque il tuo lungo errore ti avrebbe condotto non alla espiazione ma alla ricompensa…."
Io mi scossi, per interrompere il dibattito. "In fine, non si tratta se non di un antico dubbio, assai vago, ora risorto per caso. Questo turbamento irragionevole si dileguerà. Io do consistenza a un'ombra. Fra due, fra tre giorni, dopo Pasqua, andremo a Villalilla; e là io saprò, io sentirò indubitabilmente il vero.—Ma quella profonda, inalterabile malinconia ch'ella porta negli occhi non èsospetta? Quella sua aria smarrita, quella nube d'un pensiero continuo che le pesa tra ciglio e ciglio, quella stanchezza immensa che rivelano certe sue attitudini, quell'ansietà ch'ella non riesce a dissimulare quando tu ti avvicini, non sonosospette?" Tali ambigue apparenze potevano anche spiegarsi in un senso favorevole. Però, sopraffatto da un'onda di dolore più violenta, io mi levai e andai verso la finestra col desiderio istintivo d'immergermi nello spettacolo esterno per trovarvi una rispondenza allo stato del mio spirito o una rivelazione o una pacificazione.
Il cielo era tutto bianco, simile a una compagine di veli sovrapposti in mezzo a cui l'aria circolasse producendo larghe e mobili pieghe. Qualcuno di quei veli pareva a quando a quando distaccarsi, avvicinarsi alla terra, quasi radere la cima degli alberi, lacerarsi, ridursi in lembi cadenti, tremolare a fior del suolo, vanire. Le linee dalle alture si volgevano indeterminate verso il fondo, si scomponevano, si ricomponevano, in lontananze illusorie, come un paese in un sogno, senza realità. Un'ombra plumbea occupava la valle, e l'Assòro dalle rive invisibili l'animava de' suoi luccicori. Quel fiume tortuoso, luccicante in quel golfo d'ombra, sotto quel continuo dissolvimento lento del cielo, attirava lo sguardo, aveva per lo spirito il fascino delle cose simboliche, parendo portare in sé la significazione occulta di quello spettacolo indefinito.
Il mio dolore perse a poco a poco l'acredine, divenne pacato, eguale. "Perché aspirare con tanta bramosia alla felicità, non essendone degno? Perché poggiare tutto l'edifizio de la vita futura su un'illusione? Perché credere con una fede così cieca in un privilegio inesistente? Forse tutti gli uomini, vivendo, incontrano un punto decisivo in cui ai più sagaci è dato di comprenderequale dovrebbe essere la loro vita. Tu già ti trovasti in quel punto. Ricòrdati dell'istante in cui la mano bianca e fedele, che portava l'amore, l'indulgenza, la pace, il sogno, l'oblio, tutte le cose belle e tutte le cose buone, tremò nell'aria verso di tecome per l'offerta suprema…."
Il rammarico mi gonfiò di lacrime il cuore. Appoggiai i gomiti sul davanzale, mi presi la testa fra le palme; guardando fiso il meandro del fiume in fondo alla valle plumbea, mentre la compagine del cielo si dissolveva senza posa, restai qualche minuto sotto la minaccia d'un castigo imminente, sentii sovra di me pendere una sventura ignota.
Come mi giunse dalla stanza sottoposta il suono del pianoforte, inaspettato, la greve oppressione disparve a un tratto; e mi agitò un'ansia confusa in cui tutti i sogni, tutti i desiderii, tutte le speranze, tutti i rimpianti, tutti i rimorsi, tutti i terrori si rimescolarono con una rapidità inconcepibile, soffocantemente.
Riconobbi la musica. Era unaRomanza senza paroleche Giuliana prediligeva e che miss Edith sonava spesso; era una di quelle melodie velate ma profonde in cui pare che l'Anima rivolga alla Vita con accenti sempre diversi una medesima domanda: "Perché hai delusa la mia aspettazione?"
Cedendo a un impulso quasi istintivo, uscii sollecito, attraversai il corridoio, scesi le scale, mi fermai d'innanzi alla porta d'onde veniva il suono. La porta era socchiusa; m'insinuai senza far rumore; guardai per l'apertura delle tende. Giuliana era là?—I miei occhi non videro nulla, da prima impregnati di luce, finchè non s'adattarono alla penombra ma mi ferì il profumo acuto delle spine albe, quell'odor misto di timo e di mandorla amara, fresco come un latte selvaggio. Guardai. La stanza era a pena illuminata dal chiarore verdognolo che scendeva di tra le stecche delle gelosie. Miss Edith era sola, d'avanti alla tastiera; e seguitava la sua musica, senza accorgersi di me. La cassa dell'istrumento riluceva nella penombra; i rami delle spine biancheggiavano. In quella quiete raccolta, in quel profumo effuso da rami che mi ricordavano la buona ebrezza matutina e il sorriso di Giuliana e il mio tremito, la romanza mi parve sconsolata come non mai.
Dov'era Giuliana? Era risalita? Era ancora fuori?—Mi ritrassi; discesi le altre scale; attraversai il vestibolo senza incontrare nessuno. Avevo un bisogno indomabile di cercarla, di vederla; pensavo che forse il suo solo aspetto mi avrebbe ridata la calma, mi avrebbe ridata la confidenza. Come uscii su lo spiazzo, scorsi Giuliana sotto gli olmi in compagnia di Federico.
Ambedue mi sorrisero. Disse mio fratello, sorridendo, quando fui da presso:
—Parlavamo di te. Giuliana crede che tu ti stancherai presto dellaBadiola…. E i nostri progetti, allora?
—No, Giuliananon sa—io risposi, sforzandomi di riprendere la mia disinvoltura consueta.—Ma tu vedrai. Sono, invece, così stanco di Roma…. e di tutto il resto!
Guardavo Giuliana. E una mirabile mutazione avvenne nel mio interno, poichè le tristi cose, che fino a quel minuto mi avevano oppresso, ora precipitavano al fondo, si oscuravano, si dileguavano, cedevano il luogo al sentimento salutare che il solo aspetto di lei e di mio fratello bastava a suscitarmi. Ella era seduta, un po' abbandonata su sé stessa, tenendo su le ginocchia un libro che io riconobbi, il libro che io le avevo dato pochi giorni innanzi:La Guerra e la Pace. Tutto in lei, veramente, nell'attitudine e nello sguardo era dolce ed era buono. E nacque in me qualche cosa di simile al sentimento che avrei forse provato se io avessi veduto in quel medesimo luogo, sotto gli olmi famigliari che perdevano i loro fiori morti, Costanza adulta, la povera sorella, al fianco di Federico.
Gli olmi piovevano i loro fiori innumerevoli, ad ogni fiato. Era, nella luce bianca, una discesa continua, lentissima di pellicole diafane, quasi impalpabili, che s'indugiavano nell'aria, esitavano, tremolavano come alette di libellule, tra verdognole e biondicce, dando alla vista per quella continuità e per quella labilità una sensazione quasi allucinante. Giuliana le riceveva su le ginocchia, su le spalle; di tratto in tratto faceva un debole gesto per toglierne qualcuna che rimaneva presa nei capelli delle tempie.
—Ah, se Tullio rimarrà alla Badiola—diceva Federico rivolto a lei—faremo grandi cose. Promulgheremo le nuove leggi agrarie; gitteremo le basi della nuova constituzione agraria…. Sorridi? Avrai anche tu una parte nella nostra opera. Ti affideremo l'esercizio di due o tre precetti del nostro Decalogo. Anche tu lavorerai. A proposito, Tullio, quando cominceremo questo noviziato? Tu hai le mani troppo bianche. Eh, le punture di certe spine non bastano….
Parlava gaiamente, con quella sua voce limpida e forte che trasfondeva subito in chi l'udiva un senso di sicurtà e di fidanza. Parlava dei suoi disegni vecchi e nuovi, intorno alla interpretazione della legge cristiana primitiva sul lavoro alimentario, con una gravità di pensiero e di sentimento, temperata da quella gaiezza gioviale, che era come un velo di modestia spiegato da lui medesimo contro la meraviglia e l'elogio di chi l'udiva. Tutto in lui appariva semplice, facile, spontaneo. Questo giovine, per la sola forza del suo spirito illuminato dalla sua bontà nativa, già da alcuni anni aveva intuita la teoria sociale inspirata a Leone Tolstoi dalmoujikTimoteo Bondareff. In quel tempo egli non conosceva neppureLa Guerra e la Pace, il gran libro, apparso allora allora nell'Occidente.
—Ecco un libro per te—io gli dissi, prendendo il volume di su le ginocchia di Giuliana.
—Sì; tu me lo darai. Lo leggerò.
—A te piace?—chiese a Giuliana.
—Sì, molto. È triste e consolante, insieme. Amo già Maria Bolkonsky, e anche Pietro Besoukhow….
Io mi posi accanto a lei, sul sedile. Mi pareva di non pensare a nulla, di non avere pensieri ben definiti; ma la mia anima vigilava e meditava. Un contrasto palese era tra il sentimento dell'ora, delle cose circostanti, e il sentimento rappresentato dai discorsi di Federico, da quel libro, dai nomi dei personaggi che Giuliana amava. L'ora fluiva lenta e molle, quasi accidiosa, in quel confuso vapore biancastro dove gli olmi a poco a poco si disfioravano. Giungeva fioco il suono del pianoforte, e inintelligibile, aumentando la malinconia della luce, quasi cullando la sonnolenza dell'aria.
Senza più ascoltare, assorto, io apersi quel libro, lo sfogliai qua e là, scorsi il principio di qualche pagina. M'avvidi che qualche pagina era piegata all'angolo, come per ricordo; qualche altra era solcata da un colpo d'unghia sul margine, secondo la nota consuetudine della lettrice. Volli leggere, allora, curioso, quasi ansioso. Nella scena tra Pietro Besoukhow e il vecchio incognito, alla posta di Torjok, molte frasi erano segnate.
"…. La tua vista spirituale si ripieghi sul tuo essere interiore. Domanda a te stesso se tu sei contento di te stesso. A qual esito sei giunto avendo per unica guida il tuo intelletto! Voi siete giovine, voi siete ricco, voi siete intelligente. Che avete fatto di tutti questi doni? Siete contento di voi e della vostra esistenza?
—No, l'aborro.
—Se tu l'aborri, mutala, purificati; e, secondo che ti trasformerai, imparerai a conoscere la saggezza. Come l'avete voi trascorsa questa esistenza? In orgie, in bagordi, in depravazioni: ricevendo tutto dalla società e nulla dando. Come avete usati i beni di fortuna ricevuti? Che avete fatto pel vostro prossimo? Avete pensato alle vostre migliaia di servi? Li avete aiutati moralmente e materialmente? No; è vero? Avete profittato della loro fatica per vivere una vita corrotta. Avete cercato di adoperarvi a vantaggio del vostro prossimo? No. Avete vissuto nell'ozio. Poi, vi siete ammogliato: avete accettata la responsabilità di servire da guida a una donna giovine. E allora? Invece di aiutarla a trovare la via della verità, l'avete gittata nell'abisso della menzogna e della sciagura…."
Di nuovo, l'insostenibile peso mi piombò sopra, mi schiacciò; e fu uno strazio più atroce di quello già sofferto, perché la vicinanza di Giuliana aumentava l'orgasmo. Il passo trascritto era indicato nella pagina con un solo segno. Certo, Giuliana lo aveva segnato pensando a me, ai miei errori. Ma anche l'ultima riga si riferiva a me, a noi? L'avevo io gittata, era ella caduta "nell'abisso della menzogna e della sciagura?"
Io temevo che ella e Federico udissero i battiti del mio cuore.
Un'altra pagina era piegata, portava un solco visibilissimo: quella su la morte della principessa Lisa a Lissy-Gory.
"….Gli occhi della morta erano chiusi; ma il suo volto esile non era mutato. Ed ella pareva dire pur sempre:—Che avete voi fatto di me?—Il principe Andrea non piangeva; ma si senti lacerare il cuore, pensando ch'egli era colpevole di torti ormai irreparabili e indimenticabili. Il principe vecchio anche venne, e baciò una delle fragili mani di cera, che stavano incrociate l'una su l'altra. E parve che quel povero esile volto ripetesse anche a lui:—Che avete fatto di me?…."
La dolce e terribile domanda mi ferì come un aculeo. "Che avete fatto di me?" Tenevo gli occhi fissi su la pagina, non osando di volgermi a guardare Giuliana e pur essendo ansioso di guardarla. E avevo paura che ella e Federico udissero i battiti del mio cuore e si volgessero essi a guardar me e scoprissero il mio turbamento. Così forte era il mio turbamento, ch'io credevo di avere il viso scomposto e di non potermi levare e di non poter proferire una sillaba. Un solo sguardo, rapido, obliquo, gittai a Giuliana; e il suo profilo mi s'impresse così che mi parve di continuare a vederlo su la pagina, accanto al "povero esile volto" della principessa morta. Era un profilo pensoso, reso più grave dall'attenzione, ombrato dai lunghi cigli; e le labbra serrate, un po' cadenti all'angolo, parevano involontariamente confessare una stanchezza e una tristezza estreme. Ella ascoltava mio fratello. E la voce di mio fratello mi sonava all'orecchio confusa, mi pareva remota se bene fosse tanto vicina; e tutti quei fiori degli olmi, che piovevano piovevano senza posa, tutti quei fiori morti, quasi irreali, quasi inesistenti, mi davano una sensazione inesprimibile, come se quella visione fisica mi si convertisse in uno strano fenomeno interno e io assistessi al passaggio continuo di quelle innumerevoli ombre impalpabili in un cielo intimo, nell'intimo dell'anima mia. "Che avete fatto di me?" ripetevano la morta e la vivente, ambedue senza muovere le labbra. "Che avete fatto di me?"
—Ma che leggi, ora, Tullio?—disse Giuliana volgendosi, togliendomi il libro di tra le mani, chiudendolo, posandolo di nuovo su le sue ginocchia, con una specie d'impazienza nervosa.
E subito dopo, senza alcuna pausa, come per rendere insignificante quel suo atto:
—Perché non andiamo su, da miss Edith, a fare un po' di musica?Sentite? Sta sonando, mi pare, laMarcia funebre per la morte di unEroe, quella che piace a te, Federico….