Ed ella tese l'orecchio, in ascolto. Tutt'e tre ascoltammo. Qualche gruppo di note giungeva fino a noi, nel silenzio. Ella non s'era ingannata. Soggiunse, levandosi:
—Andiamo, dunque. Venite?
Io fui l'ultimo ad alzarmi, per vederla d'innanzi a me. Ella non si curò di scuotere dalla sua veste i fiori dell'olmo; che sul terreno intorno avevano composto un tappeto soffice, seguitando a piovere, a piovere senza tregua. In piedi, rimase là qualche istante, a capo chino, a guardare lo strato dei fiori ch'ella scavava e ammonticchiava con la punta sottile della sua scarpetta, mentre anche su lei altri fiori altri fiori seguitavano a piovere a piovere senza tregua. Io non le vedevo la faccia. Era ella intenta a quell'atto ozioso o assorta in una perplessità?
La mattina dopo, tra gli altri portatori di doni pasquali, venne alla Badiola Calisto, il vecchio Calisto, il guardiano di Villalilla, con un fascio enorme di fiori di lilla ancora freschissimi, fragranti. E volle egli stesso, con le sue proprie mani offrirlo a Giuliana, rammentandole i bei tempi del nostro soggiorno, pregandola di una visita, di una visita anche breve.—La signora pareva così allegra, così contenta laggiù! Perché non ci tornava? La casa era rimasta intatta, non era mutata in nulla. Il giardino era diventato più folto. Gli alberi di lilla, un bosco!, erano in piena fioritura. Non giungeva fino alla Badiola il profumo, verso sera? La casa, il giardino, proprio, aspettavano la visita. Tutti i vecchi nidi sotto le gronde erano pieni di rondinelle. Secondo il desiderio della signora, quei nidi erano stati rispettati sempre come cose sante. Ma, proprio, erano omai troppi. Bisognava ogni settimana adoperare la pala sui balconi, su i davanzali delle finestre. E che stridìo dall'alba al tramonto! Quando sarebbe dunque venuta, la signora? Presto?
Io dissi a Giuliana:
—Vuoi che andiamo martedì?
Con un po' di esitazione, mentre reggeva a fatica il fascio smisurato che quasi le nascondeva il volto, ella rispose:
—Andiamo pure, se vuoi, martedì.
—Verremo martedì, dunque, Calisto—io dissi al vecchio, con un accento di allegrezza così vivace che io stesso ne fui sorpreso, tanto era stato spontaneo e subitaneo il moto dell'animo.—Aspettaci per martedì mattina. Porteremo con noi la colazione. Tu non preparare nulla; hai capito? Lascia la casa chiusa. Voglio aprire io stesso la porta; voglio aprire io stesso le finestre a una a una. Intendi?
Una strana allegrezza, tutta irriflessiva, mi agitava, mi suggeriva atti e parole puerili, quasi folli, che stentavo a rattenere. Avrei voluto abbracciare Calisto, accarezzargli la bella barba bianca, prenderlo a braccio e parlare con lui di Villalilla, delle cose passate, dei "nostri tempi" abbondantemente, sotto quel gran sole di Pasqua, "Ecco ancora d'avanti a me un uomo semplice, sincero, tutto d'un pezzo: un cuore fedele!" io pensavo, guardandolo. E ancora una volta mi sentivo rassicurato, come se l'affetto di quel vecchio fosse per me un altro buon talismano contro la sorte.
Ancora una volta, dopo la caduta del giorno innanzi, la mia anima si risollevava incitata dalla grande letizia ch'era nell'aria, che splendeva in tutti gli occhi, che emanava da tutte le cose. La Badiola in quella mattina pareva la meta di un pellegrinaggio. Nessuno del contado aveva mancato di portare il dono e l'augurio. Mia madre riceveva su le sue mani benedette baci innumerevoli, d'uomini, di donne, di fanciulli. Alla messa celebrata nella Cappella assisteva una turba densa che traboccava fuor della soglia dilatandosi per lo spiazzo, religiosa sotto il dòmo ceruleo. Le campane argentine squillavano con un accordo felice, quasi musicale, nell'aria senza mutamento. Su la torre l'inscrizione del quadrante solare diceva:Hora est benefaciendi. E in quella mattina di gloria, in cui pareva salire verso la dolce casa materna tutta la gratitudine dovuta al lungo benefizio, le tre parole cantavano.
Come potevo io dunque conservare dentro di me la perfidia dei dubbi, dei sospetti, delle imagini impure, dei ricordi torbidi? Che potevo io temere, dopo aver veduto mia madre premere più volte le sue labbra su la fronte di Giuliana sorridente?, dopo aver veduto mio fratello stringere nella sua mano fiera e leale la gracile mano pallida di quella che era per lui come la seconda incarnazione di Costanza?
Il pensiero della gita a Villalilla mi occupò per tutto quel giorno e pel giorno seguente, di continuo. Non mai, credo, l'attesa dell'ora stabilita pel primo convegno con un'amante mi aveva data un'ansietà così fiera. "Cattivi sogni, cattivi sogni, soliti effetti dell'esser allucinato!" io giudicavo le angosce del sabato tristo: con una straordinaria leggerezza d'animo, con una volubilità obliosa, posseduto interamente dalla pervicace illusione che scacciata ritornava e distrutta rinasceva sempre.
Lo stesso turbamento sensuale del desiderio concorreva ad oscurare la conscienza, a renderla ottusa. Io pensavo di riconquistare non l'anima sola di Giuliana ma anche il corpo; e nella mia ansietà entrava una parte di orgasmo fisico. Il nome di Villalilla suscitava in me ricordi voluttuosi: ricordi non di mite idilio ma di passione ardente, non di sospiri ma di gridi. Senza accorgermene, io avevo forse acuito e corrotto il mio desiderio con le imagini inevitabili generate dal dubbio; e portavo in me latente quel germe venefico. In fatti, sino allora in me era parsa predominante la commozione spirituale, ed io, aspettando il gran giorno, m'ero compiaciuto in puri colloquii fantastici con la donna da cui volevo ottenere il perdono. Ora in vece non tantovedevola scena patetica fra me e lei quanto la scena di voluttà, che doveva esserne conseguenza immediata. Il perdono si mutava in abbandono, il bacio trepido su la fronte in bacio cupido su la bocca—nel mio sogno. Il senso sopraffaceva lo spirito. E a poco a poco, per una eliminazione rapida e inarrestabile, una imagine escluse tutte le altre e m'occupò e mi signoreggiò, fissa, lucidissima, esatta nelle minime particolarità. "È dopo la colazione. Un piccolo bicchiere di Chablis è bastato a turbare Giuliana che è quasi un'astemia. Il pomeriggio si fa sempre più caldo; l'odore delle rose, dei giaggiòli, dei fiori di lilla si fa violento; le rondini passano e ripassano con un gran garrire assordante. E siamo soli, ambedue invasi da un tremito interiore insostenibile. E io le dico, a un tratto:—Vuoi che andiamo a rivedere la nostra stanza?—È l'antica stanza nuziale che ad arte io ho tralasciato di aprire nel nostro giro per la villa. Entriamo. C'è, là dentro, come un cupo rombo, lo stesso rombo che pare sia in fondo a certe conchiglie sinuose; e non altro è che il rumore delle mie vene. Ed ella anche forse ode quel rombo; e non altro è che il rumore delle sue vene. Tutto il resto è silenzio: pare che le rondini non garriscano più. Io voglio parlare; e, alla prima parola rauca, ella mi cade fra le braccia, quasi svenuta…."
Questa rappresentazione fantastica si arricchiva di continuo, si faceva più complessa, simulava la realità, raggiungeva una evidenza incredibile. Io non riescivo a contenderle il dominio assoluto del mio spirito, pareva che risorgesse in me l'antico libertino, così profondo era il compiacimento che io provavo a contemplare e ad accarezzare l'imagine voluttuosa. La castità mantenuta per alcune settimane, in quella primavera così fervida, produceva ora i suoi effetti nel mio organismo ristorato. Un semplice fenomeno fisiologico mutava completamente il mio stato di conscienza, dava una piega completamente diversa ai miei pensieri, mi trasformava in un altro uomo.
Maria e Natalia avevano mostrata la voglia di accompagnarci nella gita. Giuliana avrebbe voluto consentire. Io mi opposi; adoperai tutta la mia abilità e la mia grazia per raggiungere lo scopo.
Federico aveva proposto:—Martedì io debbo andare a Casal Caldore. Vi accompagno in carrozza sino a Villalilla: voi vi fermate e io proseguo. Poi, la sera, ripassando, vi riprendo in carrozza; e torniamo insieme alla Badiola.—Giuliana, me presente, aveva accettato.
Io pensavo che la compagnia di Federico, almeno nell'andata, non sarebbe stata inopportuna; mi avrebbe anzi tolto da una certa perplessità. In fatti: di che avremmo discorso, se fossimo stati soli, io e Giuliana, in quelle due o tre ore di viaggio? Quale attitudine avrei presa verso di lei? Avrei potuto anche guastare le cose, compromettere il buon esito, o almeno togliere la freschezza alla nostra commozione. Non avevo sognato io di ritrovarmi d'un tratto con lei a Villalilla, come per una magia, e di rivolgerle quivi la mia prima parola tenera e sommessa? La presenza di Federico mi avrebbe dato il modo di evitare i preliminari incerti, i lunghi silenzii tormentosi, le frasi proferite a bassa voce per riguardo agli orecchi del cocchiere, tutte insomma le piccole irritazioni e le piccole torture. Noi saremmo discesi a Villalilla, e là, soltanto là, ci saremmo ritrovati finalmente l'uno a fianco dell'altra, d'innanzi alla porta del paradiso perduto.
Così fu. M'è impossibile rappresentar con parole la sensazione ch'io provai nell'udire il tintinno delle sonagliere, lo strepito della carrozza che s'allontanava portando Federico verso Casal Caldore. Io dissi a Calisto, prendendo dalle sue mani le chiavi, con un'impazienza manifesta:
—Ora, tu puoi andare. Ti chiamerò più tardi.
E rinchiusi io stesso il cancello, dietro il vecchio che m'era parso un po' attonito e scontento di quel congedo quasi brusco.
—Ci siamo, alla fine!—esclamai, quando io e Giuliana fummo soli.Tutta l'onda di felicità che m'aveva invaso passò nella mia voce.
Io ero felice, felice, indicibilmente felice; ero posseduto come da una grande allucinazione di felicità inaspettata, insperata, che trasfigurava tutto il mio essere, suscitava e moltiplicava quanto di buono e di giovine era ancora rimasto in me, m'isolava dal mondo, concentrava a un tratto la mia vita nel cerchio delle mura che chiudevano quel giardino. Le parole mi s'affollavano alle labbra, senza nesso, improfferibili; la ragione mi si smarriva tra un balenio fulmineo di pensieri.
Come poteva Giuliana non indovinare quel che avveniva in me? Come poteva non intendermi? Come poteva non esser colpita nel mezzo del cuore dal raggio violento della mia gioia?
Ci guardammo. Vedo ancora l'espressione ansiosa di quel volto su cui errava un sorriso mal sicuro. Ella disse, con la sua voce velata, debole, sempre esitante di quella singolare esitazione già da me notata altre volte, che la faceva sembrare quasi di continuo attenta a trattenere la parola che le saliva alle labbra, per pronunziarne una diversa, disse:
—Giriamo un poco pel giardino, prima di aprire la casa. Quanto tempo è che non lo rivedo così fiorito! L'ultima volta che ci venimmo fu tre anni fa, ti ricordi?, anche d'aprile, nei giorni di Pasqua….
Ella voleva forse dominare il suo turbamento, ma non poteva; voleva forse frenare l'effusione della tenerezza, ma non sapeva. Ella stessa, con le prime parole pronunziate in quel luogo, aveva incominciato ad evocare i ricordi. Si soffermò, dopo alcuni passi; e ci guardammo. Un'alterazione indefinibile, come una violenza di cose soffocate, passò ne' suoi occhi neri.
—Giuliana!—io proruppi, non reggendo più, sentendomi sgorgare dall'intimo del cuore un flutto di parole appassionate e dolci, provando un bisogno folle d'inginocchiarmi d'avanti a lei su la ghiaia, e di abbracciarla alle ginocchia e di baciarle la veste, le mani, i polsi, furiosamente, senza fine.
Ella m'accennò che tacessi, con un gesto supplichevole. E seguitò a internarsi pel viale, con un passo più celere.
Portava un abito di panno grigio chiaro ornato di trine più oscure, un cappello di feltro grigio, un ombrellino di seta grigia a piccoli trifogli bianchi. Vedo ancora la sua persona elegante in quel colore fine e sobrio avanzarsi tra le folte masse degli alberi di lilla che s'inchinavano verso di lei carichi dei loro innumerevoli grappoli fra turchinicci e violetti.
Mancava quasi un'ora al mezzogiorno. Era una mattina calda, d'un caldo precoce, azzurra ma navigata da qualche nuvola molle. I frutici deliziosi, che davano il nome alla villa, fiorivano per ogni dove, signoreggiavano tutto il giardino, facevano un bosco a pena interrotto qua e là da cespugli di rose gialle e da mucchi di giaggiòli. Qua e là le rose si arrampicavano su per i fusti, s'insinuavano tra i rami, ricadevano miste in catene, in ghirlande, in festoni, in corimbi; a piè dei fusti le iridi fiorentine elevavano di tra le foglie simili a lunghe spade glauche le forme ampie e nobili dei loro fiori; i tre profumi si mescevano in un accordo profondo che ioriconoscevoperché dal tempo lontano era rimasto nella mia memoria distinto come un accordo musicale di tre note. Nel silenzio, non si udiva se non il garrire delle rondini. La casa a pena s'intravedeva tra i coni dei cipressi, e le rondini vi accorrevano innumerevoli come le api all'alveare.
Dopo un poco, Giuliana rallentò il passo. Io le camminavo al fianco, così vicino che di tratto in tratto i nostri gomiti si toccavano. Ella guardava intorno a sé con occhi mobili e attenti, come temendo che le sfuggisse qualche cosa. Due o tre volte io sorpresi su le sue labbra l'atto di parlare: il principio di una parola vi si disegnava, senza suono. Io le chiesi a voce bassa, timido, come un amante:
—Che pensi?
—Penso che non avremmo mai dovuto partire di qui….
—È vero, Giuliana.
Le rondini talvolta, quasi ci rasentavano, con un grido, rapide e rilucenti come strali pennuti.
—Quanto ho desiderato questo giorno, Giuliana! Ah, tu non saprai mai quanto l'ho desiderato!—io proruppi allora, in preda a una commozione così forte che la mia voce doveva essere irriconoscibile.—Nessuna ansietà, vedi, nessuna ansietà, mai nella vita ho provata eguale a questa che mi divora da jer l'altro, dal momento che tu consentisti a venire. Ti ricordi tu della prima volta che ci vedemmo in segreto, su la terrazza di Villa Oggèri, e che ci baciammo? Ero folle di te: tu te ne ricordi. E bene, l'attesa di quella notte mi par nulla al confronto…. Tu non mi credi; tu hai ragione di non credermi, di diffidare, ma io voglio dirti tutto, voglio raccontarti quel che ho sofferto, quel che ho temuto, quel che ho sperato. Oh, lo so: quel che ho sofferto è forse poco al confronto di quel che t'ho fatto soffrire. Lo so, lo so: tutti i miei dolori non valgono forse il tuo dolore, non valgono le tue lacrime. Io non ho espiato il mio fallo, e non sono degno d'essere perdonato. Ma dimmi tu, ma dimmi tu quello che io debbo fare perché tu mi perdoni! Tu non mi credi; ma io voglio dirti tutto. Te sola veramente io ho amata nella vita; amo te sola. Lo so, lo so: queste sono le cose che gli uomini dicono, per farsi perdonare; e tu hai ragione di non credermi. Ma pure, vedi, se tu pensi al nostro amore d'una volta, se tu pensi a quei primi tre anni di tenerezza mai interrotta, se tu ti ricordi, se tu ti ricordi, vedi, non è possibile che tu non mi creda. Anche nelle mie peggiori cadute, tu dovevi essere per me indimenticabile; e la mia anima si doveva volgere a te, e ti doveva cercare, e ti doveva rimpiangere, sempre, intendi?, sempre. Tu stessa non te n'accorgevi? Quando tu eri per me una sorella, certe volte non t'accorgevi che io morivo di tristezza? Te lo giuro: lontano da te, non ho provato mai una gioia sincera, non ho avuto mai un'ora di pieno oblio; mai, mai: te lo giuro. Tu eri la mia adorazione costante, profonda, segreta. La parte migliore di me è stata sempre tua; e una speranza v'è rimasta sempre accesa; la speranza di liberarmi dai miei mali e di ritrovare il mio primo unico amore intatto…. Ah, dimmi che non ho sperato inutilmente, Giuliana!
Ella camminava con estrema lentezza, senza più guardare d'innanzi a sé, a capo chino, troppo bianca. Una piccola contrattura dolorosa le appariva di quando in quando all'angolo della bocca. E poiché, ella taceva, incominciò a muoversi in fondo a me un'inquietudine vaga. Un senso vago di oppressione incominciò a venirmi da quel sole, da quei fiori, dai gridi di quelle rondini, da tutto quel riso, troppo aperto, della primavera trionfante.
—Non mi rispondi?—seguitai, prendendole la mano ch'ella teneva abbandonata lungo il fianco.—Tu non mi credi; tu hai perduto qualunque fede in me; tu temi ancora che io ti deluda; tu non osi di ridonarti perché pensi sempre aquella volta…. Sì, è vero: fu la più cruda delle mie infamie. Io n'ho rimorso come d'un delitto; e, anche se tu mi perdonerai, io non potrò mai perdonarmi. Ma non t'accorgesti tu che io ero malato, che io ero demente? Una maledizione mi perseguitava. E da quel giorno io non ebbi più un minuto di tregua, non ebbi più un intervallo di lucidezza. Non ti ricordi? Non ti ricordi? Tu, certo, sapevi che ero fuori di me, in uno stato di demenza; perché tu mi guardavi come si guarda un pazzo. Più d'una volta io sorpresi nel tuo sguardo una compassione penosa, non so che curiosità e che timore. Non ti ricordi com'ero ridotto? Irriconoscibile…. E bene, io sono guarito, io mi sono salvato, per te. Ho potuto vedere la luce. Finalmente la luce si è fatta. Te sola ho amata nella vita; amo te sola. Intendi?
Pronunziai le ultime parole con una voce più ferma e più lenta, come per imprimerle a una a una su l'anima della donna; e strinsi forte la mano che già tenevo nella mia. Ella sì fermò, nell'atto di chi sta per lasciarsi cadere, anelando. Più tardi, soltanto più tardi, nelle ore che seguirono, compresi tutta la mortale angoscia esalata in quell'anelito. Ma allora non altro compresi che questo: "il ricordo dell'orribile tradimento, evocato da me, le rinnova la sofferenza. Ho toccato piaghe che sono ancora aperte. Ah, se potessi persuaderla a credermi! Se potessi vincere la sfiducia che la tiene! Non sente ella dunque la verità nella mia voce?"
Eravamo presso ad un bivio. C'era là un sedile. Ella mormorò:
—Sediamo, un poco.
Sedemmo. Non so s'ella riconobbe subito il luogo. Io non lo riconobbi subito, smarrito come uno che abbia portata per qualche tempo la benda. Ambedue guardammo intorno; poi ci guardammo, avendo negli occhi lo stesso pensiero. Molte memorie di tenerezza erano legate a quel vecchio sedile di pietra. Il cuore non mi si gonfiò di rammarico ma d'una avidità affannosa, quasi d'un furore di vita, che mi diede in un lampo una visione dell'avvenire fantastica e allucinante. "Ah ella non sa di quali nuove tenerezze io sia capace! Io ho il paradiso per lei nella mia anima!" E l'idealità dell'amore fiammeggiò dentro di me così forte ch'io mi esaltai.
—Tu ti addolori. Ma quale creatura al mondo è stata amata come tu sei amata? Quale donna ha potuto avere una prova di amore che valga questa ch'io ti do? Non avremmo mai dovuto partire di qui—tu dicevi, dianzi.—E forse saremmo stati felici. Tu non avresti sofferto il martirio, non avresti versato tante lacrime, non avresti perduto tanta vita; ma non avresti conosciuto il mio amore, tutto il mio amore….
Ella teneva il capo reclinato sul petto e le palpebre socchiuse; e ascoltava, immobile. I cigli le spandevano a sommo delle gote un'ombra che mi turbava più d'uno sguardo.
—Io, io stesso non avrei conosciuto il mio amore. Quando mi allontanai da te la prima volta, non credevo già che tutto fosse finito? Cercavo un'altra passione, un'altra febbre, un'altra ebrezza. Volevo abbracciare la vita con una sola stretta. Tu non mi bastavi. E per anni mi sono estenuato in una fatica atroce, oh tanto atroce che n'ho orrore come un forzato ha orrore della galera dove ha vissutomorendo tutti i giorni un poco. E ho dovuto passare d'oscurità in oscurità, per anni, prima che si facesse questa luce nella mia anima, prima che questa grande verità m'apparisse. Non ho amato che una donna: te sola. Tu sola al mondo hai la bontà e la dolcezza. Tu sei la più buona e la più dolce creatura che io abbia mai sognata; sei l'Unica. E tu eri nella mia casa mentre io ti cercavo lontano…. Intendi ora? Intendi?Tu eri nella mia casa mentre io ti cercavo lontano.Ah, dimmi tu: questa rivelazione non vale tutte le tue lacrime? Non vorresti averne versate anche più, anche più per una tale prova?
—Sì, anche più—ella disse, così piano che a pena l'udii.
Fu un soffio su quelle labbra esangui. E le lacrime le sgorgarono di tra i cigli, le solcarono le gote, le bagnarono la bocca convulsa, le caddero sul petto ansioso.
—Giuliana, mio amore, mio amore!—gridai, con un brivido di felicità suprema, gittandomi in ginocchio d'innanzi a lei.
E la cinsi con le mie braccia, misi la testa nel suo grembo, provai per tutto il corpo quella tensione smaniosa in cui si risolve lo sforzo vano d'esprimere con un atto, con un gesto, con una carezza l'ineffabile passione interiore. Le sue lacrime caddero su la mia guancia. Se l'effetto materiale di quelle calde gocce viventi avesse corrisposto alla sensazione ch'io n'ebbi, porterei su la mia pelle una traccia indelebile!
—Oh, lasciami bere,—io pregai.
E, rilevandomi, accostai le mie labbra ai suoi cigli, le bagnai nel suo pianto, mentre le mie dita smarritamente la toccavano. Una pieghevolezza strana era venuta alle mie membra, una specie di fluidità illusoria per cui non avvertivo più l'impaccio delle vesti. Credevo che mi sarebbe stato possibile circondare, avviluppare tutta quanta la persona amata.
—Sognavi—io le dicevo, avendo in bocca il sapore salso che mi si diffondeva nei precordii (più tardi, nelle ore che seguirono, mi stupii di non aver trovato in quelle lagrime una intollerabile amarezza) sognavi d'essere tanto amata? Sognavi questa felicità? Sono io, guardami, sono io che ti parlo così; guardami bene, sono io…. Se tu sapessi come mi pare strano tutto questo! Se ti potessi dire!… So che ti ho conosciuta prima d'ora, so che ti ho amata prima d'ora; so che ti horitrovata. E pure mi pare di avertitrovatasoltanto ora, un momento fa, quando tu hai detto: "Sì, anche più…." Hai detto così; è vero? Tre parole sole…. un soffio…. E io rivivo, e tu rivivi; ed ecco che siamo felici, siamo felici per sempre.
Io le dicevo queste cose con quella voce che ci viene come di lontano, interrotta, indefinibile; che pare giunga all'orlo delle labbra modulata non nella materialità dei nostri organi ma nell'estremo fondo dell'anima nostra. Ed ella, che fino a quel momento aveva versato un pianto silenzioso, ruppe in singhiozzi.
Forte, troppo forte singhiozzava, non come chi sia sopraffatto da una gioia senza limiti ma come chi esali una disperazione inconsolabile. Singhiozzava così forte ch'io rimasi per qualche istante in quello stupore che suscitano le manifestazioni eccessive, i grandi parosismi della commozione umana. Inconscientemente, mi scostai un poco; ma subito dopo, notai quell'intervallo che s'era aperto tra lei e me; subito dopo, notai che non soltanto il contatto materiale era cessato ma che anche il sentimento di comunione s'era disperso in un attimo. Eravamo pur sempre due esseri ben distinti, separati, estranei. La stessa diversità delle nostre attitudini aumentava il distacco. Ripiegata su sé medesima, premendosi con le sue mani il fazzoletto su la bocca, ella singhiozzava; e ogni singhiozzo le scoteva tutta la persona, pareva rivelarne la fragilità. Io stavo ancora in ginocchio d'innanzi a lei, senza toccarla; e la guardavo: stupito e pur nondimeno stranamente lucido; attento a sorvegliare tutto ciò ch'era per accadere dentro di me, e pur nondimeno avendo tutti i sensi aperti alla percezione delle cose che mi circondavano. Udivo il singhiozzo di lei e il garrito delle rondini; e avevo la nozione del tempo e del luogo esatta. E quei fiori e quelli odori e quella grande luminosità immobile dell'aria e tutto quel riso della primavera aperto mi diedero uno sgomento che crebbe, che crebbe e diventò una specie di timor pánico, una paura istintiva e cieca a cui la ragione non poté opporsi. E, come scoppia un fulmine in un cumulo di nubi, un pensiero guizzò in mezzo a quello scompiglio pauroso, m'illuminò e mi percosse. "Ella è impura."
Ah, perché non caddi allora fulminato? Perchè non mi si spezzò un viscere vitale e non restai là su la ghiaia, ai piedi della donna che nella fuga di pochi attimi m'aveva sollevato all'apice della felicità e m'aveva precipitato in un abisso di miseria?
—Rispondi—(Le afferrai i polsi, le scopersi la faccia, le parlai da presso; e la mia voce era così sorda che io medesimo a pena la udivo tra il romorio del mio cervello.)—rispondi: che è questo pianto?
Ella cessò di singhiozzare, e mi guardò; e gli occhi benché bruciati dalle lacrime, le si dilatarono esprimendo un'ansietà estrema, come se mi avessero veduto morire. Io dovevo aver perduto, in fatti, ogni colore di vita.
—È tardi, forse? È troppo tardi?—soggiunsi, rivelando il mio pensiero terribile in quella domanda oscura.
—No, no, no…. Tullio, non è…. nulla. Tu hai potuto pensare!… No, no…. Sono tanto debole, vedi; non sono più come una volta…. Non reggo…. Sono malata tu sai; sono tanto malata. Non ho potuto resistere…. a quello che mi dicevi. Tu intendi…. M'è venuto questo accesso all'improvviso…. È una cosa dei nervi…. come una convulsione…. Si spasima; non si capisce più se si pianga di gioia o di dolore…. Ah, mio Dio!…. Vedi, mi passa…. Alzati Tullio; vieni qui accanto a me.
Mi parlava con una voce affiochita ancora dal pianto, interrotta ancora da qualche singulto; mi guardava con una espressione che io riconoscevo, con una espressione ch'ella aveva avuta già altre volte alla vista della mia sofferenza. Un tempo, ella non poteva vedermi soffrire. La sua sensibilità per questo riguardo era esagerata così che io potevo ottener tutto da lei mostrandomi dolente. Tutto ella avrebbe fatto per allontanare da me una pena, la minima pena. Spesso allora io mi fingevo afflitto, per gioco, per agitarla, per essere consolato come un fanciullo, per avere certe carezze che mi piacevano, per muovere in lei certe grazie che adiravo. Ed ora non appariva ne' suoi occhi la medesima espressione tenera e inquieta?
—Vieni qui accanto a me, siediti. O vuoi che seguitiamo a girare pel giardino? Non abbiamo ancora veduto nulla…. Andiamo verso la peschiera. Voglio bagnarmi gli occhi…. Perché mi guardi così? Che pensi? Non siamo felici? Ecco, vedi, incomincio a sentirmi bene, tanto bene.
Ma avrei bisogno di bagnarmi gli occhi, il viso…. Che ora sarà? Sarà mezzogiorno? Federico ripasserà verso le sei. Abbiamo tempo…. Vuoi che andiamo?
Parlava interrottamente, ancora un po' convulsa, con uno sforzo palese, volendo ricomporsi, riacquistare il dominio su i suoi nervi, dissipare in me qualunque ombra, apparirmi fidente e felice. La trepidazione del suo sorriso negli occhi ancora umidi e rosei aveva una dolcezza penosa che m'inteneriva. Nella sua voce, nella sua attitudine, in tutta la sua persona era questa dolcezza che m'inteneriva e m'illanguidiva d'un languore un po' sensuale. Mi è impossibile definire la delicata seduzione che emanava da quella creatura su i miei sensi e sul mio spirito, in quello stato di conscienza irresoluto e confuso. Ella pareva dirmi, mutamente: "Io non potrei essere più dolce. Prendimi dunque, già che mi ami; prendimi nelle tue braccia, ma piano, senza farmi male, senza stringermi troppo forte. Oh, io mi struggo d'essere accarezzata da te! Ma credo che tu potresti farmi morire!" Questa imaginazione mi aiuta un poco a rendere l'effetto ch'ella produceva su me col suo sorriso. Io le guardavo la bocca, quando ella mi disse:—Perché mi guardi così?—Quando ella mi disse:—Non siamo felici?—, io provai il cieco bisogno d'una sensazione voluttuosa nella quale attutire il malessere lasciatomi dalla violenza recente. Quando ella si levò, con un atto rapidissimo io me la presi fra le braccia e attaccai la mia bocca alla sua.
Fu un bacio di amante quello che io le diedi, un bacio lungo e profondo che agitò tutta la essenza delle nostre due vite. Ella si lasciò ricadere sul sedile, spossata.
—Ah no, no, Tullio: ti prego! Non più, non più! Lasciami prima riprendere un po' di forza—supplicò, stendendo le mani come per tenermi discosto.—Altrimenti non mi potrò più levare di qui…. Vedi, sono morta.
Ma in me era avvenuto uno straordinario fenomeno. Tale sul mio spirito quella sensazione quale su una riva un flutto gagliardo che spazzi qualunque traccia lasciando la sabbia rasa. Fu come un annullamento istantaneo; e subito uno stato nuovo si formò sotto l'influenza immediata delle circostanze, sotto l'urgenza del sangue riacceso. Non altro più conobbi che questo:—la donna che io desideravo era là, d'innanzi a me, tremante, prostrata dal mio bacio, tutta mia alfine; in torno a noi fioriva un giardino solitario, memore, pieno di segreti; una segreta casa ci aspettava, di là dagli alberi floridi, custodita dalle rondini familiari.
—Credi tu che io non sarei capace di portarti?—dissi, prendendole le mani, intrecciando le mie dita alle sue.—Una volta eri leggera come una piuma. Ora devi essere anche più leggera…. Proviamo?
Qualche cosa d'oscuro passò ne' suoi occhi. Ella per un istante parve alienarsi in un suo pensiero, come chi considera e risolve rapidamente. Poi scosse il capo; e arrovesciandosi in dietro e appendendosi a me con le braccia stese e ridendo (un poco della sua genciva esangue apparve nel riso), fece:
—Su, tirami su!
E alzata s'abbatté sul mio petto; e questa volta fu ella che mi baciò prima, con una specie di furia convulsa, come presa da una frenesia repentina, quasi volesse in un solo tratto estinguere una sete atrocemente patita.
—Ah, sono morta!—ripeté, quando ebbe distaccata la sua bocca dalla mia.
E quella bocca umida, un po' gonfia, semiaperta, divenuta più rosea, atteggiata di languore, in quel viso così pallido e così tenue, mi diede veramente l'impressione indefinibile d'una cosa che sola fosse rimasta viva nella sembianza d'una morta.
Bisbigliò, levando gli occhi chiusi (i lunghi cigli le tremolavano come se un sorriso esiguo di sotto alle palpebre vi stillasse), trasognata:
—Sei felice?
Io la strinsi al mio cuore.
—Andiamo, dunque. Portami dove vuoi. Reggimi tu un poco. Tullio, perché le ginocchia mi si piegano….
—Alla nostra casa, Giuliana?
—Dove vuoi….
La reggevo forte alle reni con un braccio e la sospingevo. Ella era come una sonnambula. Per un tratto, rimanemmo in silenzio. Ci volgevamo a quando a quando l'uno verso l'altra, nel tempo medesimo, per rimirarci. Ella veramente mi parevanuova. Una piccolezza fermava la mia attenzione, mi occupava: un piccolo segno appena visibile nella sua pelle, un piccolo incavo nel labbro inferiore, la curva dei cigli, una vena della tempia, l'ombra che cerchiava gli occhi, il lobo dell'orecchio infinitamente delicato. Il granello fosco sul collo era nascosto a pena dall'orlo del merletto; ma, per qualche moto che Giuliana faceva col capo, appariva talvolta e poi spariva; e la piccola vicenda incitava la mia impazienza. Ero ebro e pur tuttavia stranamente lucido. Udivo i gridi delle rondini più numerosi e il chioccolio dei getti d'acqua nella peschiera prossima. Sentivo la vita scorrere, il tempo fuggire. E quel sole e quei fiori e quelli odori e quei romori e tutto quel riso della primavera troppo aperto mi diedero per la terza volta un senso di ansietà inesplicabile.
—Il mio salice!—esclamò Giuliana in vicinanza della peschiera, cessando di appoggiarsi a me, sollecitando il passo.—Guarda, guarda com'è grande! Ti ricordi? Era un ramo….
E soggiunse, dopo una pausa pensosa, con un accento diverso, a voce bassa:
—Io l'avevo già riveduto…. Tu forse non sai: io ci venni aVillalilla,quella volta.
Non trattenne un sospiro. Ma subito, come per dissipare l'ombra ch'ella aveva messa tra noi con quelle parole, come per togliersi dalla bocca quell'amarezza, si chinò a una delle cannelle, bevve qualche sorso e risollevandosi fece l'atto di chiedermi un bacio. Aveva il mento bagnato e le labbra fresche. Ambedue, taciti, in quella stretta risolvemmo d'affrettare l'evento omai necessario, la ricongiunzione suprema che tutte le nostre fibre chiedevano. Quando ci distaccammo, ambedue ci ripetemmo con gli occhi la stessa cosa inebriante. Fu straordinario il sentimento che il volto di Giuliana espresse, ma incomprensibile allora per me. Solo più tardi, nelle ore che seguirono, potei comprenderlo; quando seppi che un'imagine di morte e una imagine di voluttà insieme avevano inebriata la povera creatura e che ella aveva fatto un voto funebre nell'abbandonarsi al languore del suo sangue. Vedo come se l'avessi d'innanzi, vedrò sempre quel volto misterioso nell'ombra prodotta dalla grande capellatura arborea che ci pioveva sopra. I baleni dell'acqua al sole, guizzando tra i lunghi rami dalle foglie diafane, davano all'ombra una vibrazione allucinante. Gli echi fondevano in una monotonia cupa e continua le voci dei getti sonori. Tutte le apparenze esaltavano il mio essere fuori della realità.
Movendo verso la casa non parlammo. Così intensa era divenuta la mia brama, la visione dell'evento prossimo rapiva la mia anima in un turbine così alto di gioia, così forte era il battito delle mie arterie che io pensai: "È il delirio? Non provai questo la prima notte nuziale, quando misi il piede su la soglia…." Due o tre volte m'assalì un impeto selvaggio, come un accesso istantaneo di follia, che contenni per prodigio: tale era il mio bisogno fisico di ripossedere quella donna. Anche in lei l'orgasmo doveva essere divenuto insostenibile, perché ella si fermò sospirando:
—Oh mio Dio, mio Dio! È troppo.
Soffocata, oppressa, m'afferrò una mano e se la portò al cuore.
—Senti!
Più che i battiti del suo cuore io seguii la mollezza del suo seno a traverso la stoffa; e le mie dita istintivamente si piegarono a stringere la piccola forma che conoscevano. Vidi negli occhi di Giuliana l'iride perdersi nel bianco sotto le palpebre che si abbassavano. Temendo ch'ella venisse meno, la mantenni, poi la sospinsi, quasi la portai di peso fino ai cipressi, fino a un sedile dove sedemmo ambedue estenuati.
Stava d'innanzi a noi la casa, come in un sogno.
Ella disse reclinando la testa su la mia spalla:
—Ah, Tullio, che cosa terribile! Non credi anche tu che potremmo morire?
Ella soggiunse, grave, con una voce venutale chi sa da quale profondità dell'essere:
—Vuoi che moriamo?
Il singolare brivido ch'io ebbi mi rivelò che un sentimento straordinario era in quelle parole, forse il sentimento medesimo che aveva trasfigurato il viso di Giuliana sotto il salice, dopo la stretta, dopo la muta risoluzione. Ma anche questa volta non potei comprendere. Soltanto compresi che ambedue eravamo posseduti omai da una specie di delirio e respiravamo in un'atmosfera di sogno.
Come in un sogno stava d'innanzi a noi la casa. Su la facciata rustica, per tutte le cornici, per tutte le sporgenze, lungo il gocciolatoio, sopra gli architravi, sotto i davanzali delle finestre, sotto le lastre dei balconi, tra le mensole, tra le bugne, dovunque le rondini avevano nidificato. I nidi di creta innumerevoli, vecchi e nuovi, agglomerati come le cellette di un alveare, lasciavano pochi intervalli liberi. Su quelli intervalli e su le stecche delle persiane e sui ferri delle ringhiere gli escrementi biancheggiavano come spruzzi di calcina. Benché chiusa e disabitata, la casa viveva. Viveva d'una vita irrequieta, allegra e tenera. Le rondini fedeli l'avvolgevano dei loro voli, dei loro gridi, dei loro luccichii, di tutte le loro grazie e di tutte le loro tenerezze, senza posa. Mentre gli stormi s'inseguivano per l'aria in caccia con la velocità delle saette, alternando i clamori, allontanandosi e riavvicinandosi in un attimo, radendo gli alberi, levandosi nel sole, gittando a tratti dalle macchie bianche un baleno, instancabili, ferveva dentro ai nidi e in torno ai nidi un'altra opera. Delle rondini covaticce alcune rimanevano per qualche istante sospese agli orifizi; altre si reggevano su le ali brillando; altre s'introducevano a mezzo, lasciando di fuori la piccola coda forcuta che tremolava vivamente, nera e bianca su la mota giallastra; altre di dentro escivano a mezzo, mostrando un po' del petto lustro, la gola fulva; altre, fino allora invisibili, si spiccavano a volo con un grido acutissimo, scoccavano. E tutta quella mobilità alacre ed ilare intorno alla casa chiusa, tutta quella vivacità di nidi intorno al nostro antico nido erano uno spettacolo così dolce, un così fino miracolo di gentilezza che noi per qualche minuto, come in una pausa della nostra febbre, ci obliammo a contemplarlo.
Io ruppi l'incanto, alzandomi. Dissi:
—Ecco la chiave. Che aspettiamo?
—Sì, Tullio, aspettiamo ancora un poco!—ella supplicò, paventando.
—Io vado ad aprire.
E mi mossi verso la porta; salii i tre gradini che parevano quelli di un altare. Mentre stavo per girare la chiave col tremito del devoto che apre il reliquiario, sentii dietro di me Giuliana che m'aveva seguito furtiva, leggera come un'ombra. Ebbi un sussulto.
—Sei tu?
—Sì, sono io—bisbigliò ella, carezzevole, spirandomi nell'orecchio il suo alito.
E, standomi alle spalle, mi cinse il collo con le braccia in modo che i suoi polsi delicati s'incrociarono sotto il mio mento.
L'atto furtivo, quel tremolio di riso ch'era nel suo bisbiglio e che tradiva la sua gioia infantile d'avermi sorpreso, quella maniera d'allacciarmi, tutte quelle grazie agili mi ricordarono la Giuliana d'un tempo, la giovine e tenera compagna degli anni felici, la creatura deliziosa dalla lunga treccia, dalle fresche risa, dalle arie di fanciulla. Un soffio della stessa felicità m'investì, sul limitare della casa memore.
—Apro?—domandai, tenendo ancora la mano su la chiave per girarla.
—Apri,—ella rispose, senza lasciarmi, spirandomi ancora il suo alito nel collo.
Allo stridere che fece la chiave nella serratura, ella mi legò più forte con le braccia, mi si serrò addosso, comunicandomi il suo brivido. Le rondini garrivano sul nostro capo; e pure quel lieve stridore ci parve distinto come in un silenzio profondo.
—Entra—ella mi bisbigliò, senza lasciarmi. Entra, entra.
Quella voce, proferita da labbra tanto vicine ma invisibili, reale e pure misteriosa, spiratami calda nell'orecchio e pure intima come se mi parlasse nel mezzo dell'anima, e femmina e dolce come nessun'altra voce fu mai, io la odo ancora, la udrò sempre.
—Entra, entra.
Spinsi la porta. Varcammo la soglia, come fusi in una sola persona, pianamente.
L'andito era rischiarato da un'alta finestra rotonda. Una rondine ci svolazzò sul capo garrendo. Levammo gli occhi, sorpresi. Un nido pendeva fra le grottesche della volta. Alla finestra, mancava un vetro. La rondine fuggì via pel varco, garrendo.
—Ora sono tua, tua, tua!—bisbigliò Giuliana, senza distaccarsi dal mio collo ma girando flessuosamente per venirmi sul petto, per incontrare la mia bocca.
A lungo ci baciammo. Io dissi, ebro:
—Vieni. Andiamo su. Vuoi che ti porti?
Se bene ebro, io mi sentivo nei muscoli la forza di portarla su per le scale in un tratto.
Ella rispose:
—No. Posso salire da me.
Ma non pareva ch'ella potesse, a udirla, a vederla.
Io la cinsi, come prima nel viale: e la sospinsi di gradino in gradino, così sorreggendola. Veramente pareva nella casa fosse quel rombo cupo e remoto che conservano in loro certe conchiglie profonde. Veramente pareva che nessun altro romore dall'esterno vi giungesse.
Quando fummo sul pianerottolo, io non aprii l'uscio di contro; ma volsi a destra pel corridoio oscuro, traendo lei per la mano, senza parlare. Tanto forte ella ansava che mi faceva pena, mi comunicava l'ambascia.
—Dove andiamo?—mi domandò.
Io risposi:
—Alla stanzanostra.
Quasi non ci si vedeva. Io ero come guidato da un istinto. Ritrovai la maniglia; aprii. Entrammo.
L'oscurità era rotta dall'albore che trapelava dagli spiragli; e vi si udiva più cupo il rombo. Io volevo correre verso quegli indizi per fare subito la luce, ma non potevo lasciare Giuliana; mi pareva di non potermi distaccare da lei, di non poter interrompere né pure per un attimo il contatto delle nostre mani, quasi che a traverso la cute le estremità vive dei nostri nervi aderissero magneticamente. Ci avanzammo insieme, ciechi. Un ostacolo ci arrestò, nell'ombra. Era il letto, il gran letto delle nostre nozze e dei nostri amori….
Fin dove s'udì il grido terribile?
Erano le due del pomeriggio. Tre ore circa erano passate dal momento del nostro arrivo a Villalilla.
Avevo lasciata sola Giuliana per alcuni minuti; ero andato a chiamare Calisto. Il vecchio aveva portato il canestro della colazione; e, non più con sorpresa ma con una certa malizia bonaria, aveva ricevuto un secondo congedo bizzarro.
Stavamo ora, io e Giuliana, seduti a tavola come due amanti, l'uno di fronte all'altra, sorridendoci. Avevamo là vivande fredde, conserve di frutti, biscotti, aranci, una bottiglia di Chablis. La sala, con la sua volta a ornati barocchi, con le sue pareti chiare, con le sue pitture pastorali nei soprapporti, aveva una certa gaiezza antiquata, un'aria del secolo scorso. Pel balcone aperto entrava una luce assai mite, poiché pel cielo s'erano diffuse lunghe vene lattee. Nel rettangolo pallido campeggiava "il vecchio cipresso venerabile che aveva al suo piede un cespo di rose e un coro di passeri alla sua cima." Più giù, a traverso i ferri curvi della ringhiera appariva la delicata selva di color gridellino, la gloria primaverile di Villalilla. Il triplice profumo, l'anima primaverile di Villalilla, esalava nella calma a onde lente eguali.
Giuliana diceva:
—Ti ricordi?
Ripeteva, ripeteva:
—Ti ricordi?
Le più lontane ricordanze del nostro amore venivano a una a una su la sua bocca, evocate a pena con qualche accenno discreto e pur riviventi con una straordinaria intensità nel luogo natale, tra le cose favorevoli. Ma quella sollecitudine affannosa, quel furore di vita, che m'avevano invaso nel giardino alla prima sosta, ora anche mi rendevano quasi insofferente, mi suggerivano visioni dell'avvenire iperboliche da contrapporre ai fantasmi del passato troppo incalzanti.
—Bisogna che noi torniamo qui, domani, fra due, fra tre giorni al più, per rimanere; ma soli. Tu vedi: qui non manca nulla; non è stato portato via nulla. Se tu volessi, potremmo anche rimanere stanotte qui…. Ma tu non vuoi! È vero che non vuoi?
Con la voce, col gesto, con lo sguardo io cercavo di tentarla. Le mie ginocchia toccavano le sue ginocchia. Ed ella mi guardava fissamente, senza rispondere.
—Imagini tula prima sera, qui, a Villalilla? Andar fuori, restar fuori sin dopo l'Ave Maria, vedere le finestre illuminate! Ah, tu intendi bene…. I lumi che si accendono in una casa per la prima volta,la prima sera! Imagini? Fino ad ora tu non hai fatto che ricordare, ricordare. E pure, vedi: tutti i tuoi ricordi non valgono per me un momento di oggi, non varranno un momento di domani. Dubiti tu, forse, della felicità che abbiamo d'avanti? Io non t'ho mai amata come t'amo ora, Giuliana; mai mai. Intendi? Io non sono mai stato tuo come ora, Giuliana…. Ti racconterò, ti racconterò le mie giornate, perchè tu conosca i tuoi miracoli. Dopo tante cattive cose, chi poteva sperare una cosa simile? Ti racconterò…. Mi pareva, in certe ore, d'essere tornato al tempo dell'adolescenza, al tempo della prima giovinezza. Mi sentivocandidocome allora; buono, tenero, semplice. Non mi ricordavo più di nulla. Tutti tutti i miei pensieri erano tuoi; tutte le mie commozioni si riferivano a te. Certe volte, la vista d'un fiore, d'una piccola foglia, bastava a far traboccare la mia anima, tanto era piena. E tu non sapevi nulla; non t'accorgevi di nulla, forse. Ti racconterò…. L'altro giorno, sabato, quando entrai nella tua stanza con quelle spine! Ero timido come un innamorato novello e mi sentivo morire, dentro, dal desiderio di prenderti fra le mie braccia…. Non te n'accorgesti? Ti racconterò tutto; ti farò ridere. Quel giorno le cortine dell'alcova lasciavano intravedere il tuo letto. Non potevo distaccare gli occhi di là, e tremavo. Come tremavo! Tu non sai…. Già due o tre altre volte io ero entrato nella tua stanza, solo, di nascosto, con una grande palpitazione; ed avevo sollevato le cortine per guardare il tuo letto, per toccare il tuo lenzuolo, per affondare la faccia nel tuo guanciale, come un amante fanatico. E certe notti, quando tutti già dormivano alla Badiola, io mi avventuravo, piano piano, fin quasi alla tua porta; credevo di ascoltare il tuo respiro…. Dimmi, dimmi: stanotte potrò venire da te? Mi vorrai? Di': mi aspetterai? Potremmo dormire lontani, stanotte? Impossibile! La tua guancia ritroverà il suo posto sul mio petto, qui,—ti ricordi? Come dormivi leggera!
—Tullio, Tullio, taci!—m'interruppe ella, supplichevole, quasi che le mie parole le facessero male.
Soggiunse, sorridendo:
—Bisogna che tu non mi ubriachi così…. Te lo dicevo, dianzi. Sono tanto debole; sono una povera malata…. Tu mi dai le vertigini. Io non reggo. Vedi come mi hai già ridotta? Mi hai lasciata con mezz'anima….
Ella sorrideva, con un sorriso tenue, stancamente. Aveva le palpebre un poco arrossite; ma sotto quella stanchezza delle palpebre gli occhi le ardevano d'un ardore febrile e mi guardavano di continuo, con una fissità quasi intollerabile se bene temperata dall'ombra dei cigli. In tutta la sua attitudine era qualche cosa d'innaturale che la mia vista non riusciva a cogliere né il mio spirito a definire. Quando mai la sua fisonomia aveva avuto quel carattere di mistero inquietante? Pareva che di tratto in tratto la sua espressione si complicasse, si oscurasse fino a divenire enigmatica. Ed io pensavo: "Ella è travagliata dal vortice interiore. Non vede ancora chiaramente in sé medesima quel che è accaduto. Tutto, forse, dentro di lei è sconvolto. La sua esistenza non è mutata in un attimo?" E quella espressione profonda mi attirava e mi appassionava sempre più. L'ardore del suo sguardo mi penetrava nelle midolle come un fuoco vorace. Benché io la vedessi così affranta, ero impaziente di prenderla ancora, di stringerla ancora, di udire un altro suo grido, di beverle tutta l'anima.
—Non mangi nulla—io le dissi, facendo uno sforzo per dissipare il vapore che mi saliva al capo rapidamente.
—Anche tu.
—Almeno bevi un sorso. Non riconosci questo vino?
—Oh, lo riconosco.
—Ti ricordi?
E ci guardammo dentro le pupille, alterati, nell'evocare il ricordo d'amore su cui ondeggiava il fumo di quel delicato vino amaretto e biondo ch'ella prediligeva.
—Beviamo dunque insieme, alla nostra felicità!
Urtammo i bicchieri ed io bevvi con foga; ma ella non bagnò né pure le labbra, come presa da una ripugnanza invincibile.
—E bene?
—Non posso, Tullio.
—Perché?
—Non posso. Non mi forzare. Credo che anche una goccia mi farebbe male.
Ella s'era coperta d'un pallore cadaverico.
—Ma tu ti senti male, Giuliana.
—Un poco, alziamoci. Andiamo sul balcone.
Cingendola sentii la viva mollezza del suo fianco, poiché nella mia assenza ella s'era liberata del busto. Le dissi:
—Vuoi stenderti sul letto? Tu ti riposerai e io ti starò accanto….
—No, Tullio. Sto già bene, vedi.
E ci fermammo sul limitare del balcone, al conspetto del cipresso.Ella s'appoggiò allo stipite, e posò una mano su la mia spalla.
Dalla sporgenza dell'architrave, di sotto alla cimasa, pendeva un gruppo di nidi. Le rondini vi accorrevano e se ne partivano con un'attività incessante. Ma così piena era la calma del giardino sottoposto, così ferma era la cima del cipresso innanzi a noi, che quei frulli, quei voli, quei gridi mi diedero un senso di fastidio, mi dispiacquero. Poiché tutto s'attenuava, si velava, in quella luce quieta, desiderai una pausa, un lungo intervallo di silenzio, un raccoglimento, per assaporare tutta quanta la soavità dell'ora e della solitudine.
—Ci saranno ancora gli usignuoli?—dissi, ricordando le violente melodìe vespertine.
—Chi sa! Forse.
—Cantano verso sera. Non ti piacerebbe di riudirli?
—Ma a che ora ripasserà Federico?
—Tardi, speriamo,
—Oh sì, tardi, tardi!—ella esclamò, con una sincerità d'augurio così calda ch'io n'ebbi un fremito di gioia.
—Sei felice?—le domandai, cercandole negli occhi la risposta.
—Sì, sono felice—ella rispose, abbassando i cigli.
—Sai che amo te sola, che sono tutto tuo per sempre?
—Lo so.
—E tu ora…. come mi ami?
—Come non potrai mai sapere, povero Tullio!
E, dicendo queste parole, ella si staccò dallo stipite e si appoggiò tutta su me con una di quelle sue movenze indescrivibili in cui era quanto di abbandonata dolcezza la più femmina delle creature può emanare verso un uomo.
—Bella! bella!
Veramente bella appariva, illanguidita, arrendevole, molle, quasi direi fluida così che mi faceva pensare alla possibilità di assorbirla a poco a poco, d'imbevermene. Sul pallore del viso la massa dei capelli rilasciata sembrava che stesse per diffondersi in fiotto. I cigli le spandevano a sommo delle gote un'ombra che mi turbava più d'uno sguardo.
—Anche tu non potrai mai sapere…. Se ti dicessi i pensieri folli che mi nascono dentro! È una felicità così grande che mi dà l'angoscia, mi dà quasi il desiderio di morire.
—Morire!—ella ripetè sommessamente, con un sorriso tenue.
—Chi sa, Tullio, che io non ti muoia…. presto!
—Oh, Giuliana!
Ella si sollevò diritta per guardarmi; e soggiunse:
—Dimmi, che faresti tu se io ti morissi, all'improvviso?
—Bambina!
—Se, per esempio, domani io fossi morta?
—Ma taci!
E io la presi alle tempie e incominciai a baciarla su la bocca, su le gote, su gli occhi, su la fronte, su i capelli, con baci rapidi e leggeri. Ella si lasciava baciare. Anzi, quando io mi arrestai, mormorò:
—Ancora!
—Ritorniamo nella nostra stanza—io pregai, traendola.
Ella si lasciava trarre.
Anche nella nostra stanza il balcone era aperto. Entrava con la luce l'odore muschiato delle rose gialle che fiorivano là presso. Sul fondo chiaro delle tappezzerie i minuti fiori azzurri erano tanto sbiaditi che a pena si vedevano. Un lembo del giardino si rifletteva nello specchio di un armadio, sfondando in una lontananza chimerica. I guanti, il cappello, un braccialetto di Giuliana, posati su un tavolo, parevano aver già ridestata là dentro l'amorosa vita di un tempo, aver già diffusa un'aria nuova d'intimità.
—Domani, domani bisogna tornare qui; non più tardi—io dicevo, ardendo d'impazienza, sentendo venire a me da tutte quelle cose non so quale incitazione e quale lusinga.—Bisogna che domani noi dormiamo qui. Tu vuoi; non è vero?
—Domani!
—Ricominciare l'amore, in questa casa, in questo giardino, con questa primavera…. Ricominciare l'amore, come se nulla ci fosse noto; ricercare a una a una le nostre carezze e trovare in ognuna un sapore nuovo, come se non le avessimo provate mai; e avere d'innanzi a noi molti giorni, molti giorni….
—No, no, Tullio; non si parla dell'avvenire…. Non sai che è un cattivo augurio? Oggi, oggi… Pensa a oggi, all'ora che passa….
Ed ella si strinse a me, perdutamente, con un ardore incredibile, serrandomi a furia di baci la bocca.
—M'è parso di udire i sonagli dei cavalli—fece Giuliana, sollevandosi.—Arriva Federico.
Ascoltammo. Ella doveva essersi ingannata.
—Non è l'ora?—mi domandò.
—Sì, sono quasi le sei.
—Oh, mio Dio!
Ascoltammo di nuovo. Non si udiva alcuno strepito che annunziasse la carrozza.
—Ma è meglio che tu vada a vedere, Tullio.
Uscii dalla stanza: scesi le scale. Vacillavo un poco; avevo una nebbia su gli occhi; mi sembrava che un vapore mi s'involasse dal cervello. Per la piccola porta laterale del muro di cinta, chiamai Calisto che aveva la sua abitazione là presso. Lo interrogai.—La carrozza non si vedeva ancora.
Il vecchio avrebbe voluto trattenermi a discorrere.
—Sai, Calisto, che torneremo qui probabilmente domani, per rimanerci?—gli dissi.
Alzò le braccia verso il cielo, in segno d'allegrezza.
—Davvero?
—Davvero. Avremo tempo di discorrere! Quando vedi la carrozza, vieni ad avvertirmi. Addio, Calisto.
E lo lasciai per rientrare. Cadendo il giorno, le rondini aumentavano i clamori. L'aria s'era accesa, e gli stormi veementi la fendevano luccicando.
—E bene?—mi chiese Giuliana, volgendosi dallo specchio d'innanzi a cui stava già per mettersi il cappello.
—Nulla.
—Guardami. Sono ancora troppo scapigliata?
—No.
—Ma che viso! Guardami.
Pareva veramente ch'ella si fosse levata dalla bara tanto era disfatta. I suoi occhi avevano un gran cerchio violaceo.
—E pure sono viva—ella soggiunse; e volle sorridere.
—Tu soffri?
—No, Tullio. Ma già, non so. Mi pare di essere tutta vuota, di avere la testa vuota, le vene vuote, il cuore vuoto…. Tu potrai dire che t'ho dato tutto. Non ho lasciato per me, vedi, che a pena a pena un'apparenza di vita….
Ella sorrideva, pronunziando tali parole, stranamente; sorrideva d'un sorriso tenue e sibillino che mi turbava a dentro movendo indefinite inquietudini. Troppo ero intorpidito dalla voluttà, troppo ero offuscato dall'ebrezza; e i moti del mio spirito erano per ciò pigri, la mia conscienza era ottusa. Non mi penetrava ancora nessun sospetto sinistro. Pure, io la guardavo con attenzione, la esaminavo angustiato senza sapere perché.
Ella si rivolse allo specchio, si mise il cappello; poi andò verso il tavolo, prese il braccialetto, i guanti.
—Sono pronta—disse.
Parve cercare qualche altro oggetto, con lo sguardo. Soggiunse:
—Avevo un ombrello; è vero?
—Sì, credo.
—Ah, ecco: devo averlo lasciato laggiù, sul sedile, al bivio.
—Andiamo a cercarlo?
—Sono troppo stanca.
—Vado io solo, allora.
—No. Manda Calisto.
—Vado io. Ti coglierò qualche ramo di lilla, un mazzo di rose muscate. Vuoi?
—No. Lascia stare i fiori….
—Vieni qui. Siediti, intanto. Forse Federico tarderà.
Accostai al balcone una poltrona, per lei; ed ella vi si abbandonò.
—Già che scendi—mi disse—guarda se il mio mantello è da Calisto.Non sarà rimasto nella carrozza; è vero! Ho un poco di freddo.
Rabbrividiva in fatti.
—Vuoi che ti chiuda il balcone?
—No, no. Lasciami guardare il giardino. A quest'ora, com'è bello!Vedi? Com'è bello!
Il giardino si dorava qua e là, vagamente. Le cime fiorite degli alberi di lilla pendevano in un color paonazzo vivo; e, come il resto dei rami fioriti in una massa tra bigia e turchiniccia ondeggiava all'aria, parevano i riflessi d'una seta cangiante. Su la peschiera i salici di Babilonia inchinavano le loro capellature soavi; e l'acqua vi traspariva col fulgore della madreperla. Quel fulgore immobile e quel gran pianto arboreo e quella selva di fiori così delicata in quell'oro morente componevano una visione maliosa, incantevole, senza realtà.
Ambedue per qualche minuto rimanemmo taciturni, in potere di quei prestigi. Una malinconia confusa m'invadeva l'anima; l'oscura disperazione che è latente in fondo ad ogni amore umano si moveva dentro di me. D'avanti a quello spettacolo ideale, la mia stanchezza fisica, il torpore de' miei sensi, parevano appesantirsi. Mi occupavano il malessere, lo scontento, l'indefinito rimorso che seguono la cessazione delle voluttà troppo acute e troppo lunghe. Io soffrivo.
Giuliana disse, come in un sogno:
—Ecco, ora vorrei chiudere gli occhi e non riaprirli più.
Soggiunse, rabbrividendo:
—Tullio, ho freddo. Va.
Distesa nella poltrona, ella si restrinse in sé stessa come per resistere ai brividi che l'assalivano. Il suo volto, specie intorno alle narici aveva la trasparenza di certi alabastri lividicci. Ella soffriva.
—Tu ti senti male, povera anima!—io le dissi, accorato, con un po' di sbigottimento, guardandola fiso.
—Ho freddo. Va. Portami il mantello, subito…. Ti prego.
Corsi giù da Calisto, mi feci dare il mantello; risalii subito. Ella aveva fretta d'indossarlo. L'aiutai. Quando si riadagiò nella poltrona, nascondendo le mani dentro le maniche, disse:
—Sto bene, così.
—Vado allora a prendere l'ombrello, laggiù, dove l'hai lasciato?
—No. Che importa?
Io aveva una strana smania di tornare laggiù, a quel vecchio sedile di pietra dove avevamo fatta la prima sosta, dove ella aveva pianto, dove ella aveva pronunziate le tre parole divine: "Sì, anche più…." Era una tendenza sentimentale? Era la curiosità d'una sensazione nuova? Era il fascino che esercitava su me l'aspetto misterioso del giardino in quell'ora ultima?
—Vado e torno in un minuto—dissi.
Uscii. Come fui sotto il balcone, chiamai:
—Giuliana!
Ella si mostrò. Ho ancora avanti gli occhi dell'anima, evidentissima, la muta apparizione crepuscolare: quella figura alta, resa più alta dalla lunghezza del mantello amaranto, e sul cupo colore quella bianca bianca faccia. (Le parole di Jacopo ad Amanda si sono legate, nel mio spirito, con l'imagine inalterabile. "Comebianca, questa sera, Amanda! Vi siete voi svenata per colorare la vostra veste?")
Ella si ritrasse; anzi meglio è dire, per esprimere la sensazione ch'io n'ebbi; disparve. Ed io m'avanzai pel viale rapidamente, non avendo la piena consapevolezza di ciò che mi spingeva. Udivo risonare i miei passi nel mio cervello. Tanto ero smarrito che dovetti fermarmi per riconoscere i sentieri. Da che mi veniva quell'agitazione cieca? Da una semplice causa fisica, forse; da uno stato particolare de' miei nervi, Così pensai. Incapace d'uno sforzo riflessivo, d'un esame ordinato, d'un raccoglimento, io ero in balìa de' miei nervi; su i quali le apparenze si riflettevano provocando fenomeni d'una straordinaria intensità, come nelle allucinazioni. Ma alcuni pensieri balenavano chiari sopra gli altri, si distinguevano; accrescevano in me quel senso di perplessità che già alcuni incidenti impreveduti avevano mosso.—Giuliana in quel giorno non m'era apparsa tale quale avrebbe ella dovuto apparire essendo la creatura ch'io conoscevo, "la Giuliana d'una volta." Ella non aveva assunto verso di me, in certe date circostanze, le attitudini che io m'aspettavo. Un elemento estraneo, qualche cosa d'oscuro, di convulso, di eccessivo, aveva modificata, difformata la sua personalità. Dovevano queste alterazioni attribuirsi a uno stato morboso del suo organismo? "Sono malata, sono molto malata", ella aveva spesso ripetuto, come per giustificarsi. Certo, la malattia produceva alterazioni profonde, poteva rendere irriconoscibile un essere umano. Ma qual'era la sua malattia? L'antica, non distrutta dal ferro del chirurgo, complicata forse? Insanabile? "Chi sa che io non ti muoiapresto!" ella aveva detto, con un accento singolare che avrebbe potuto essere profetico. Più d'una volta ella aveva parlato di morte. Sapeva ella dunque di portare in sé un germe letale? Era ella dunque dominata da un pensiero lugubre? Un tal pensiero avea forse accesi in lei quelli ardori cupi, quasi disperati, quasi folli, tra le mie braccia. La gran luce subitanea della felicità aveva forse reso a lei più visibile e più terribile il fantasma che la perseguitava….
"Ella potrebbe dunque morire! La morte potrebbe dunque colpirla anche tra le mie braccia, in mezzo alla felicità!" pensai, con una paura che mi agghiacciò tutto e per qualche attimo m'impedì di proseguire, quasi che il pericolo apparisse imminente, quasi che Giuliana avesse presagito il vero quando aveva detto: "Se, per esempio,domaniio fossi morta?"
Il crepuscolo cadeva, umidiccio. Qualche soffio di vento passava tra i cespugli imitando il fruscìo che vi avrebbero messo animali veloci nel trascorrere. Ancora qualche rondine dispersa gettava un grido, rombando per l'aria come il sasso d'una fionda. Su l'orizzonte occidentale la luce persisteva come il riverbero d'una vasta fucina sinistra.
Giunsi fino al sedile, trovai l'ombrello; non mi indugiai se bene i ricordi recenti, ancor vivi, ancora caldi, mi toccassero l'anima. Là ella s'era lasciata cadere, affievolita, vinta; là io le avevo detto le parole supreme, le avevo fatto la rivelazione inebriante; "Tu eri nella miacasa, mentre io ti cercava lontano"; là io avevo raccolto dalle sue labbra quel soffio per cui la mia anima era balzata all'apice della gioia; là io avevo bevuto le sue prime lacrime, e avevo udito i suoi singhiozzi, e avevo proferito la domanda oscura: "È tardi, forse? È troppo tardi?"
Poche ore erano trascorse e tutte quelle cose erano già così lontane! Poche ore erano trascorse e la felicità pareva già dileguata! Con un altro senso, non meno terribile, si ripeteva dentro di me la domanda: "È tardi, forse? È troppo tardi?" E la mia angoscia cresceva; e quella luce dubbia, e quella discesa tacita dell'ombra, e quei rumori sospetti nei cespugli già intenebrati, e tutte quelle parvenze ingannevoli del crepuscolo presero nel mio spirito un significato funesto. "Se veramente fosse troppo tardi? Se veramente ella si sapesse condannata, sapesse di portare già dentro di sé la morte? Stanca di vivere, stanca di patire, non sperando più nulla da me, non osando di uccidersi a un tratto con un'arma o con un veleno, ella forse ha coltivato, ha aiutato il suo male, l'ha tenuto nascosto perché si diffondesse, perché s'approfondisse, perché divenisse immedicabile. Ella ha voluto essere condotta a poco a poco, segretamente, verso la liberazione, verso la fine. Sorvegliandosi, ella ha acquistato la scienza del suo male; ed orasa,è sicuradi dover soccombere; sa anche forse che l'amore, la voluttà, i miei baci precipiteranno l'opera. Io torno a lei per sempre; una felicità insperata le si apre d'innanzi; ella mi ama e sa di essere immensamente amata; in un giorno, un sogno è divenuto per noi una realtà. Ed ecco, una parola viene alla sua bocca:—Morire!—" In confuso mi passarono d'innanzi le imagini truci che m'avevano travagliato nelle due ore d'attesa in quella mattina dell'operazione chirurgica, quando m'era parso di avere sotto gli occhi, precise come le figure di un atlante anatomico, tutte le spaventevoli devastazioni prodotte dai morbi nel grembo femminile. E un altro ricordo, anche più lontano, mi tornò portando imagini precise:—la stanza nell'ombra, la finestra spalancata, le tende palpitanti, la fiammella inquieta della candela contro lo specchio pallido, aspetti malaugurosi, e lei, Giuliana, in piedi, addossata a un armario, convulsa, che si torceva come se avesse inghiottito un veleno… E la voce accusatrice, la medesima voce, anche ripeteva: "Per te, per te ha voluto morire. Tu, tu l'hai spinta a morire."
Preso da uno sgomento cieco, da una specie di pànico, quasi che quelle imagini fossero tutte realtà indubitabili, io mi misi a correre verso la casa.
Alzando gli occhi vidi la casa inanimata, le aperture delle finestre e dei balconi piene d'ombra.
—Giuliana!—gridai, con un'ambascia estrema, slanciandomi su per i gradini, quasi che temessi di non giungere in tempo a rivederla.
Ma che avevo? Che demenza era quella?
Anelavo, su per le scale quasi buie. Entrai nella stanza a precipizio.
—Che è accaduto?—mi domandò Giuliana, sollevandosi.
—Nulla, nulla… Credevo che tu avessi chiamato. Ho corso, un poco.Tu come stai ora?
—Ho tanto freddo, Tullio; tanto freddo. Sentimi le mani.
Ella mi tese le mani. Erano di gelo.
—Sono tutta gelata così….
—Mio Dio! Come ti sarà venuto questo freddo? Che potrei fare per riscaldarti?
—Non ti prender pena, Tullio. Non è la prima volta…. Mi dura ore ed ore. Non c'è nulla che giovi. Bisogna aspettare che passi…. Ma perchè tarda tanto Federico? È quasi notte.
Ella si riabbandonò alla spalliera, come se avesse consumata tutta la sua forza in quelle parole.
—Ora chiudo—io dissi, volgendomi al balcone.
—No, no; lascia aperto…. Non è l'aria che mi dà questo freddo. Ho bisogno, anzi, di respirare…. Vieni qui, piuttosto, accanto a me. Prenditi quello sgabello.
Io m'inginocchiai. Ella mi passò la sua mano gelida sul capo, con un gesto fievole, mormorando:
—Povero Tullio mio!
—Ma dimmi, Giuliana, amore, anima—proruppi, non potendo più reggere—dimmi la verità! Tu mi nascondi qualche cosa. Qualche cosa tu hai, certo, che non vuoi confessare: un pensiero fisso, qui, nel mezzo della fronte, un'ombra che non t'ha lasciata mai, da che siamo qui, da che siamo…. felici. Ma siamo veramente felici? Sei tu, puoi tu essere felice? Dimmi la verità. Giuliana! Perché vorresti ingannarmi? Sì, è vero; tu hai avuto male, tu stai male; è vero. Ma non è questo, no.È un'altra cosa, che non comprendo, che non conosco…. Dimmi la verità, anche se la verità dovesse fulminarmi. Stamani, quando tu singhiozzavi, io ti ho chiesto: "È troppo tardi?" E tu mi hai risposto: "No, no…." E io ti ho creduta. Ma non potrebbe esseretroppo tardiper un'altra ragione?Qualche cosapotrebbe impedirti di godere questa grande felicità che oggi s'è aperta? Intendo: qualche cosa che tu sappia, che sia già nel tuo pensiero…. Dimmi la verità! E la fissai; e, come ella rimaneva muta, a poco a poco non vidi se non gli occhi suoi larghi, straordinariamente larghi, e cupi ed immobili. Tutto disparve, in torno. E io dovetti chiudere le palpebre per dissipare la sensazione di terrore che quelli occhi avevano messa in me. Quanto durò la pausa? Un'ora? Un secondo?