X.

—Sono malata—ella disse alfine, con una lentezza angosciosa.

—Ma come malata?—io balbettai, fuori di me, credendo sentire nel suono di quelle due parole una confessione che corrispondeva al mio sospetto.—Come malata?Da morirne?

Non so in che modo, non so con quale voce, non so con quale atto proferii la domanda estrema; non so veramente neppure se mi uscì intera dalle labbra, se ella la udì intera.

—Tullio, no; non volevo dire questo, no, no…. Volevo dire che non è colpa mia se sono così, un poco strana…. Non è colpa mia…. Bisogna che tu abbia pazienza con me, bisogna che tu mi prenda ora così come sono…. Non c'è null'altro, credi; non ti nascondo nulla…. Potrò guarire, poi; guarirò…. Tu avrai pazienza; è vero? Tu sarai buono…. Vieni qui, Tullio, anima. Anche tu sei un poco strano, mi sembra; sospettoso…. Ti spaventi subito; ti fai bianco; chi sa che imagini…. Vieni qui, vieni qui; dammi un bacio…. Ancora uno…. ancora uno…. Così. Baciami; riscaldami…. Ora arriva Federico.

Parlava interrottamente, un po' roca, con quella intraducibile espressione, carezzevole, tenera, inquieta, ch'ella aveva già avuto verso di me alcune ore prima, sul sedile, per calmarmi, per consolarmi. Io la baciavo. Poiché la poltrona era ampia e bassa, ella che era sottile mi fece posto al suo fianco e mi si strinse addosso rabbrividendo e con una mano prese un lembo del suo mantello e mi coprì. Stavamo come in un giaciglio, avvinti, a petto a petto, mescolando gli aliti. E io pensavo: "Se il mio alito, se il mio contatto potessero trasfonderle tutto il mio calore!" E facevo uno sforzo di volontà illusorio perché la trasfusione avvenisse.

—Stasera—bisbigliai—stasera, nel tuo letto, ti terrò meglio. Tu non tremerai più….

—Sì, sì.

—Vedrai come saprò tenerti. Ti addormenterò. Mi dormirai tutta la notte sul cuore….

—Sì.

—Io ti veglierò, mi beverò il tuo fiato, ti leggerò sul viso i sogni che sognerai. Forse mi nominerai, in sogno….

—Sì, sì.

—Qualche notte,allora, parlavi in sogno. Come mi piacevi! Ah che voce! Tu non puoi sapere…. Una voce che tu non hai potuto mai intendere e che io solo ti conosco, io solo…. E la riudrò. Chi sa che dirà! Forse mi nominerai. Quanto è caro l'atto della tua bocca mentre pronunzia l'udel mio nome! Pare l'accenno di un bacio…. Lo sai? E ti suggerirò qualche parola all'orecchio, per entrare nel tuo sogno. Ti ricordi,allora, quando certe mattine indovinavo qualche cosa di quello che tu avevi sognato? Oh, vedrai, anima: sarò più dolce di allora. Vedrai di che tenerezze sarò capace, per guarirti. Tu hai bisogno di tante tenerezze, povera anima….

—Sì, sì—ella ripeteva ad ogni tratto, abbandonatamente, favorendo la mia illusione ultima, aumentando quella specie di ebrietà torpida che mi veniva dalla mia stessa voce e dal credere che ella ne fosse cullata come da una cantilena voluttuosa.

—Hai udito?—le chiesi, sollevandomi un poco per ascoltar meglio.

—Che? Arriva Federico?

—No. Ascolta.

Ambedue ascoltammo, guardando verso il giardino.

Il giardino s'era confuso in una massa violacea, rotta ancora dal luccichio cupo della vasca. Una zona di luce persisteva ai confini del cielo, una larga zona tricolore: sanguigna in basso, poi arancia, poi verde del verde d'un vegetale morente. Nel silenzio crepuscolare una voce liquida e forte risonò, simile al preludio d'un flauto.

Cantava l'usignuolo.

—È sul salice—mi susurrò Giuliana.

Ambedue ascoltammo, guardando verso l'estrema zona che impallidiva sotto la cenere impalpabile della sera. La mia anima era sospesa, quasi che da quel linguaggio aspettasse una qualche alta rivelazione d'amore. Che provò in quei minuti d'ascolto, al mio fianco, la povera creatura? A quale sommità di dolore giunse la povera anima?

L'usignuolo cantava. Da prima fu come uno scoppio di giubilo melodioso, un getto di trilli facili che caddero nell'aria con un suono di perle rimbalzanti su per i vetri di un'armonica. Successe una pausa. Un gorgheggio si levò, agilissimo, prolungato straordinariamente come per una prova di forza, per un impeto di baldanza, per una sfida a un rivale sconosciuto. Una seconda pausa. Un tema di tre note, con un sentimento interrogativo, passò per una catena di variazioni leggère, ripetendo la piccola domanda cinque o sei volte, modulato come su un tenue flauto di canne, su una fistula pastorale. Una terza pausa. Il canto divenne elegiaco, si svolse in un tono minore, si addolcì come un sospiro, si affievolì come un gemito, espresse la tristezza di un amante solitario, un desio accorato, un'attesa vana; gittò un richiamo finale, improvviso, acuto come un grido di angoscia; si spense. Un'altra pausa, più grave. Si udì allora un accento nuovo, che non pareva escire dalla stessa gola, tanto era umile, timido, flebile, tanto somigliava al pigolio delli uccelli appena nati, al cinguettio d'una passeretta; poi, con una volubilità mirabile, quell'accento ingenuo si mutò in una progressione di note sempre più rapide che brillarono in volate di trilli, vibrarono in gorgheggi nitidi, si piegarono in passaggi arditissimi, sminuirono, crebbero, attinsero le altezze soprane. Il cantore s'inebriava del suo canto. Con pause così brevi che le note quasi non finivano di spegnersi, effondeva la sua ebrietà in una melodia sempre varia, appassionata e dolce, sommessa e squillante, leggera e grave, e interrotta ora da gemiti fiochi, da implorazioni lamentevoli, ora da improvvisi impeti lirici, da invocazioni supreme. Pareva che anche il giardino ascoltasse, che il cielo s'inchinasse su l'albero melancolico dalla cui cima un poeta, invisibile, versava tali flutti di poesia. La selva dei fiori aveva un respiro profondo ma tacito. Qualche bagliore giallo s'indugiava nella zona occidentale; e quell'ultimo sguardo del giorno era triste, quasi lugubre. Ma una stella, spuntò, tutta viva e trepida come una goccia di rugiada luminosa.

—Domani!—io mormorai quasi inconscio, rispondendo a una sollecitazione interiore quella parola che conteneva per me tante promesse.

Poichè per ascoltare ci eravamo sollevati alquanto ed eravamo rimasti qualche minuto in quell'attitudine assorti; io sentii all'improvviso abbattermisi contro la spalla il capo di Giuliana pesantemente come una cosa inanimata.

—Giuliana!—gridai sbigottito.—Giuliana! E, pel moto che io feci, quel capo si arrovesciò in dietro pesantemente come una cosa inanimata.

—Giuliana!

Ella non udiva. Scorgendo il pallore cadaverico di quel volto che rischiaravano gli ultimi barlumi gialligni avversi al balcone, io fui percosso dall'idea terribile. Fuori di me, lasciando ricadere su la spalliera Giuliana inerte, non cessando di chiamarla per nome, mi misi ad aprirle l'abito sul petto con le dita convulse, ansioso di sentirle il cuore….

E la voce gaia di mio fratello chiamò:

—Colombi, dove siete?

Ella aveva ricuperata in breve la conoscenza. A pena in grado di reggersi, aveva voluto subito montare in carrozza per tornare alla Badiola.

Ora, coperta dei nostriplaids, stava rannicchiata nel suo posto, silenziosa. Io e mio fratello di tratto in tratto ci guardavamo inquieti. Il cocchiere sferzava i cavalli. E il trotto serrato risonava forte su la strada che le siepi qua e là fiorite limitavano: in una sera d'aprile mitissima, sotto un cielo puro.

Di tratto in tratto io e Federico domandavamo:

—Come ti senti, Giuliana?

Ella rispondeva:

—Eh, così…. un po' meglio.

—Hai freddo?

—Sì…. un poco.

Rispondeva con uno sforzo manifesto. Pareva quasi che le nostre domande la irritassero; tanto che, insistendo Federico a muovere qualche discorso, ella disse alfine:

—Scusa, Federico…. Mi dà fastidio parlare.

Essendo spiegato il mantice, ella stava nell'ombra, nascosta, immobile sotto le coperte. Più d'una volta io mi chinai verso di lei per scorgerle il viso, o credendo ch'ella si fosse assopita o temendo ch'ella fosse ricaduta nel deliquio. Tutte le volte ebbi la stessa sensazione inaspettata di sgomento, accorgendomi ch'ella teneva nell'ombra gli occhi sbarrati e fissi.

Seguì un lungo intervallo di silenzio. Anche io e Federico ammutolimmo. Il trotto dei cavalli non mi pareva a bastanza rapido. Avrei voluto ordinare al cocchiere di spingerli al galoppo.

—Sferza, Giovanni!

Erano quasi le dieci quando giungemmo alla Badiola.

Mia madre ci aspettava, in pena per l'indugio. Quando vide Giuliana in quello stato, disse:

—Me l'imaginavo io, che lo strapazzo ti avrebbe fatto male….

Giuliana volle rassicurarla.

—Non è nulla, mamma…. Vedrai che domattina starò bene. Un po' di stanchezza….

Ma, guardandola alla luce, mia madre esclamò spaventata:

—Dio mio! Dio mio! Tu hai un viso che fa paura…. Tu non ti reggi in piedi…. Edith, Cristina, presto, correte su a scaldare il letto. Vieni, Tullio, che la portiamo su….

—Ma no, ma no—insisteva Giuliana, opponendosi—non ti spaventare, mamma, che non è nulla….

—Io vado a Tussi con la carrozza a prendere il medico—proposeFederico.—Tra mezz'ora son qui.

—No, Federico, no!—gridò Giuliana; quasi con violenza, come esasperata.—Non voglio. Il medico non può farmi nulla. So io quel che debbo prendere. Ho tutto, su. Andiamo, mamma. Dio mio! Come v'allarmate subito! Andiamo, andiamo….

Ed ella parve aver riacquistata la forza a un tratto. Diede alcuni passi, franca. Su per le scale, io e mia madre la sorreggemmo. Nella stanza, ella fu assalita da un vomito convulso che le durò alcuni minuti. Le donne incominciavano a spogliarla.

—Va, Tullio, va—ella mi pregò.—Tornerai dopo a vedermi. Resta qui la mamma, intanto. Non ti prender pena….

Uscii. Rimasi in una delle stanze attigue, seduto su un divano, ad aspettare. Ascoltavo il passo delle donne di casa affaccendate; mi rodevo d'impazienza. "Quando potrò rientrare? Quando potrò rimanere solo con lei? La veglierò; starò tutta la notte al suo capezzale. Forse fra qualche ora ella si calmerà, si sentirà bene. Accarezzandole i capelli, forse riescirò ad addormentarla. Chi sa! Dopo un poco, tra la veglia ed il sonno, mi dirà:—Vieni." Avevo una strana fede nella virtù delle mie carezze. Speravo ancora che quella notte potesse avere una dolce fine. E come sempre, tra le angosce che mi dava il pensiero delle sofferenze di Giuliana, l'imagine sensuale si determinava diventando una visione lucida e durevole. "Pallida come la sua camicia, al chiaror della lampada che arde dietro le cortine dell'alcova, ella si sveglia dopo il primo sonno breve, mi guarda con gli occhi semiaperti, languida, mormorando:—Vieni a dormire anche tu…."

Entrò Federico.

—E bene?—disse affettuosamente.—Pare che non sia nulla. Ho parlato con miss Edith or ora, per le scale. Non vuoi scendere a mangiar qualche cosa? Giù, hanno preparato….

—No, non ho appetito, ora. Forse più tardi…. Aspetto che mi chiamino dentro.

—Intanto io vado, se non c'è bisogno di me.

—Va pure, Federico. Scenderò poi. Grazie.

Lo seguii con lo sguardo, mentre s'allontanava. E ancora una volta mi venne dal buon fratello un sentimento di confidenza; ancora una volta mi s'allargò il cuore.

Passarono tre minuti circa. L'orologio a pendolo, ch'era su la parete di contro a me, li misurò col suo ticchettio. Le sfere segnavano le dieci e tre quarti. Mentre io mi levavo impaziente per andare verso la stanza di Giuliana, entrò mia madre commossa dicendo sotto voce:

—S'è calmata. Ora ha bisogno di riposo. Povera figliuola!

—Posso andare?—le domandai.

—Sì, va; ma lasciala riposare.

Come io mi mossi, ella mi richiamò.

—Tullio!

—Che vuoi, mamma?

Ella pareva esitante.

—Dimmi…. Dal tempo dell'operazione, hai più parlato col dottore?

—Ah, sì, qualche volta…. Perché?

—T'ha rassicurato sul pericolo….

Ella esitava.

—…. sul pericolo che potrebbe correre Giuliana, in un altro parto?

Io non avevo parlato col dottore; non sapevo che rispondere.

Confuso, ripetei:

—Perché?

Ella esitava ancora.

—Non ti sei accorto che Giuliana è incinta?

Percosso come da un colpo di maglio nel mezzo del petto, da prima non afferrai la verità.

—Incinta!—balbettai.

Mia madre mi prese le mani.

—E bene, Tullio?

—Non sapevo….

—Ma tu mi fai paura. Il dottore dunque….

—Già, il dottore….

—Vieni, Tullio, siediti.

E mi fece sedere sul divano. Mi guardava sbigottita, aspettando che io parlassi. Per qualche attimo, benché io l'avessi lì d'avanti agli occhi, non la vidi più. Una luce violentissima si fece nel mio spirito, a un tratto; e mi si presentò il dramma.

Chi mi diede la forza di resistere? Chi mi conservò la ragione? Forse nell'eccesso medesimo del dolore e dell'orrore io trovai il sentimento eroico che mi salvò.

A pena riacquistai la sensibilità fisica, la percezione delle cose esteriori, e vidi mia madre che mi guardava da presso con ansia, compresi che prima di tutto bisognava assicurare mia madre.

Le dissi:

—Non sapevo…. Giuliana non m'ha detto nulla. Non mi sono accorto di nulla…. È una sorpresa…. Il dottore, sì, mi parlò di qualche pericolo…. Per ciò la notizia mi fa quest'impressione…. Sai, Giuliana ora è così debole…. Ma veramente il dottore non accennò a nulla di troppo grave; perché, essendo riescita l'operazione…. Vedremo. Lo chiameremo qui; lo consulteremo….

—Sì, sì; è necessario.

—Ma tu, mamma, sei sicura della cosa? Te l'ha confessata Giuliana, forse? O pure….

—Io me ne sono accorta, sai, dai soliti segni, impossibile ingannarsi. Fino a due o tre giorni fa, Giuliana negava o almeno diceva di non esserne certa…. Sapendoti così apprensivo, m'ha pregata di non parlartene per ora. Ma io ho voluto avvisarti…. Giuliana, tu la conosci, è così trascurata per la sua salute! Vedi: qui, in vece di migliorare, mi sembra che vada ogni giorno peggiorando; mentre prima bastava una settimana di campagna per farla rifiorire. Ti ricordi?

—Sì, è vero.

—Le precauzioni, in questi casi, non sono mai troppe. Bisogna che tu ne scriva subito al dottor Vebesti.

—Sì, subito.

E, poiché sentivo che non avrei potuto dominarmi più oltre, mi alzai soggiungendo:

—Vado da Giuliana.

—Va; ma stasera lasciala riposare, lasciala tranquilla. Io scendo e poi torno su.

—Grazie, mamma.

E le sfiorai la fronte con le labbra.

—Figlio benedetto!—ella mormorò, allontanandosi.

Su la soglia della porta opposta mi fermai e mi volsi; e vidi sparire quella dolce figura ancora diritta, così nobile nella veste nera.

Ebbi una sensazione indescrivibile, simile forse a quella che avrei avuta dal crollo fulmineo di tutta la casa. Tutto crollò, ruinò, dentro di me, intorno a me, irresistibilmente.

Chi non ha udito qualche volta proferire da uomini sventurati una frase di questo genere? "In un'ora ho vissuto dieci anni." Una tal cosa è inconcepibile. Bene, io la comprendo. Nei pochi minuti di quel dialogo quasi pacato tra me e mia madre, io non vissi più di dieci anni? L'accelerazione della vita umana interiore è il più meraviglioso e il più spaventoso fenomeno dell'universo.

Ora, che doveva io fare? Impeti folli mi venivano, di fuggire lontano nella notte, o di correre alle mie stanze per chiudermi, per rimaner solo a considerare la mia ruina, a conoscerla tutta quanta. Ma seppi resistere. La superiorità della mia natura si mostrò in quella notte. Seppi svincolare dall'atroce torsione qualcuna delle mie facoltà più virili. E pensai: "È necessario che nessuno dei miei atti apparisca singolare, inesplicabile, a mia madre, a mio fratello, a qualunque persona di questa casa."

Innanzi all'uscio della stanza di Giuliana m'arrestai, impotente a frenare il tremore fisico che mi scoteva. Udendo giungere pel corridoio suono di passi, entrai risoluto.

Miss Edith usciva dall'alcova su la punta dei piedi. Mi accennò di non far rumore. Mi disse sotto voce:

—Sta per addormentarsi.

Se ne andò, socchiudendo l'uscio dietro di sè, pianamente.

La lampada ardeva sospesa nel mezzo della volta, con un chiarore placido eguale. Su una sedia era posato il mantello amaranto; su un'altra sedia, il busto di raso nero, il busto che Giuliana s'era tolto a Villalilla nella mia breve assenza; su un'altra sedia, l'abito grigio, quel medesimo ch'ella aveva portato con tanta finezza tra i fiori di lilla eleganti. La vista di quelle cose mi diede un tale spasimo che di nuovo ebbi l'impeto di fuggire. Mi volsi all'alcova, discostai le cortine; vidi il letto, vidi sul guanciale la macchia cupa dei capelli, non la faccia: vidi il rilievo del corpo rattratto sotto le coperte. Mi si presentò allo spirito la verità brutale in tutta la sua più ignobile brutalità. "Ella è stata posseduta da un altro, ha ricevuta l'escrezione di un altro, porta nel ventre il seme di un altro." E una serie d'imagini fisiche odiose mi si svolse d'avanti agli occhi dell'anima, che io non potevo serrare. E non furono soltanto le imagini di ciò che era accaduto, ma anche quelle di ciò che doveva necessariamente accadere. Bisognò anche ch'io vedessi, con una precisione inesorabile, Giuliana nel futuro (il mio Sogno, la mia Idealità!) difformata da un ventre enorme, gravida d'un feto adulterino….

Chi avrebbe potuto imaginare un castigo più feroce? E tutto era vero, tutto eracerto!

Quando il dolore eccede le forze, istintivamente l'uomo cerca nel dubbio un'attenuazione momentanea della sofferenza insofferibile; pensa: "Forse io m'inganno; forse la mia sciagura non è quale mi appare; forse tutto questo dolore è irragionevole." E, per protrarre la tregua, intende lo spirito perplesso ad acquistare una nozione più esatta della realtà. Ma a me il dubbio non si presentò né pure per un attimo; io non ebbi né pure un attimo d'incertezza. M'è impossibile esplicare il fenomeno che si svolse nella mia coscienza divenuta straordinariamente lucida. Pareva che per un segreto spontaneo processo, compiutosi in una sfera ulteriore oscura, tutti gli inavvertiti indizii relativi alla cosa tremenda si fossero coordinati tra loro formando una nozione logica, completa, coerente, definitiva, irrefragabile; la quale ora mi si manifestasse d'un tratto assorgendo nella mia conscienza con la rapidità di un oggetto che, non più trattenuto al fondo da legami ignoti, venga su la linea dell'acqua a galleggiare e vi rimanga insommergibile. Tutti gli indizii, tutte le prove erano là, in ordine. Io non dovevo compiere alcuno sforzo per ricercarli, per scegliergli, per riunirli. Fatti insignificanti, lontani, s'illuminavano nella nuova luce; lembi di vita recente si ricolorivano. E l'avversione insolita di Giuliana per i fiori, per gli odori, i suoi turbamenti singolari, le sue nausee mal dissimulate, i suoi pallori subitanei, quella specie di nube continua tra ciglio e ciglio, quella stanchezza immensa di certe sue attitudini e le pagine segnate con l'unghia nel libro russo, il rimprovero del vecchio al conte Besoukhow, la domanda estrema della piccola principessa Lisa, e quel gesto con cui ella mi aveva tolto di mano il libro; e poi le scene di Villalilla, le lacrime, i singhiozzi, le frasi ambigue, i sorrisi sibillini, i quasi lugubri ardori, le volubilità quasi folli, le evocazioni della morte, tutti gli indizii si aggruppavano intorno alle parole di mia madre incise nel centro della mia anima.

Mia madre aveva detto: "È impossibile ingannarsi.Fino a due o tre giorni fa Giuliana negava o almenodiceva di non esserne certa…. Sapendoti così apprensivo,m'ha pregata di non parlartene…." La verità non poteva essere più chiara. Tutto, dunque, omai era certo!

Entrai nell'alcova; m'appressai al letto. Dietro di me le cortine ricaddero; la luce divenne più fievole. L'ansietà mi tolse il respiro, tutto il sangue mi si fermò nelle arterie, quando io giunsi al capezzale e mi chinai per guardare più da vicino la testa di Giuliana quasi celata dal lenzuolo. Io non so che sarebbe avvenuto s'ella avesse alzato la faccia ed avesse parlato, in quel momento.

Dormiva ella? Soltanto la fronte, fino ai sopraccigli, era scoperta.

Rimasi là qualche minuto, in piedi, aspettando. Ma dormiva ella? Non si moveva, giacendo sul fianco. La bocca nascosta dal lenzuolo non dava segno di respirazione al mio udito. Soltanto la fronte, fino ai sopraccigli, era scoperta.

Come mi sarei contenuto s'ella si fosse accorta della mia presenza? Non era quella l'ora delle interrogazioni, l'ora del colloquio. S'ella avesse sospettato che tutto m'era noto, a quali estremità si sarebbe spinta in quella notte? Avrei io dunque dovuto simulare un'ingenua tenerezza, avrei dovuto mostrarmi perfettamente ignaro, persistere nella espressione del sentimento che m'aveva dettato le dolci parole, quattro ore innanzi, a Villalilla. "Stasera, stasera, nel tuo letto…. Vedrai come saprò tenerti. Ti addormenterò. Mi dormirai tutta la notte sul cuore…."

Girando lo sguardo in torno smarrito, scorsi sul tappeto gli scarpini lucidi e sottili, su la spalliera d'una sedia le lunghe calze di seta cinerina, le giarrettiere d'amoerro, un altro oggetto di segreta eleganza, tutte cose di cui i miei occhi d'amante s'erano già dilettati nelle intimità recenti. E la gelosia dei sensi mi morse con tanta furia che fu un prodigio se io mi trattenni dal gittarmi su Giuliana per risvegliarla e per gridarle le parole folli e crude che mi suggeriva la collera subitanea.

Mi ritrassi vacillando, uscii dall'alcova. Pensai con un cieco sgomento: "Come finiremo?"

Mi disponevo ad andarmene. "Scenderò. Dirò a mia madre che Giuliana dorme, che ha un sonno molto calmo; le dirò che anch'io ho bisogno di riposo. Mi ritirerò nella mia stanza. Domattina poi…." Ma rimanevo là perplesso, incapace di varcare la soglia, assalito da mille paure. Mi volsi ancora verso l'alcova, con un moto repentino, come se avessi sentito uno sguardo sopra di me. Mi parve che le cortine ondeggiassero; ma fu un abbaglio. E pure qualche cosa come un'onda magnetica a traverso le cortine veniva a penetrarmi; qualche cosa a cui non resistevo. Entrai nell'alcova una seconda volta, rabbrividendo.

Giuliana giaceva nella medesima attitudine. Dormiva? Soltanto la fronte, fino ai sopraccigli, era scoperta.

Mi sedetti, presso al capezzale; ed aspettai. Guardavo quella fronte pallida come il lenzuolo, tenue e pura come una particela, sororale, che tante volte le mie labbra avevano baciata religiosamente, che tante volte avevano baciata le labbra di mia madre.

Non v'appariva segno di contaminazione; alla vista era sempre la stessa. E nulla al mondo poteva omai cancellare la macchia che vedevano su quel pallore gli occhi della mia anima!

Alcune parole, proferite da me nell'ultima ebrezza, mi tornarono alla memoria. "Io ti veglierò, ti leggerò sul viso i sogni che sognerai." Ripensai: "Ella ripeteva ad ogni tratto:—Sì, sì." Domandai a me medesimo: "Di che vita ella vive, entro di sé? Quali sono i suoi propositi? Che ha ella risoluto?" E guardavo la sua fronte. E non più considerai il mio dolore; ma mi piegai tutto a raffigurare il suo dolore, a comprendere il suo dolore.

Certo, doveva essere una disperazione inumana, la sua; senza tregua, senza limite. Il mio castigo era anche il suo castigo, ed era per lei forse un castigo anche più terribile. Laggiù, a Villalilla, pel viale, sul sedile, nella casa, ella aveva certo sentita la verità nelle mie parole, aveva certo letta la verità nella mia faccia. Ella aveva creduto al mio amore immenso.

"…. Tu eri nella mia casa mentre io ti cercavo lontano.Ah, dimmi tu: questa rivelazione non vale tutte le tue lacrime? Non vorresti averne versate anche più, anche più, per una tale prova?

—Sì, anche più!…"

Così aveva ella risposto, così tutta la sua anima aveva risposto, con un soffio che veramente m'era parso divino. "Sì, anche più!…"

Ella avrebbe voluto aver versato altre lacrime, avrebbe voluto aver sofferto un altro martirio per quella rivelazione! E, vedendo ai suoi piedi appassionato come non mai l'uomo da anni perduto e pianto, vedendo aprirsi d'innanzi a sé un gran paradiso ignoto, ella s'era sentita impura, aveva avuta la sensazione materiale della sua impurità, aveva dovuto sopportare la mia testa sul grembo fecondato dal seme di un altro uomo. Ah come mai, veramente le sue lacrime non mi avevano piagata la faccia? Come mai avevo potuto io beverle senza avvelenarmi?

Rivissi in un attimo tutta la nostra giornata d'amore. Rividi tutte le espressioni, anche le più fuggevoli, apparse sul volto di Giuliana dal momento del nostro ingresso a Villalilla; e tutte le compresi. Una gran luce s'era fatta in me. "Ah quando io le parlavo del domani, le parlavo dell'avvenire!… Che spaventosa parola doveva essere per lei quelDomanisu le mie labbra!" E mi tornò alla memoria il breve dialogo avvenuto sul limitare del balcone al conspetto del cipresso. Ella aveva ripetuto sommessamente, con un sorriso tenue: "Morire!" Aveva parlato di fine prossima. Aveva domandato: "Che faresti tu se io ti morissi all'improvviso? Se, per esempio,domaniio fossi morta?" Più tardi, nella nostra stanza, ella aveva gridato stringendosi a me: "No, no, Tullio; non si parla dell'avvenire…. Pensa a oggi, all'ora che passa!" Non tradivano tali atti, tali parole un proposito di morte, una risoluzione tragica? Era manifesto ch'ella aveva risoluto di uccidersi, ch'ella si sarebbe uccisa, forse in quella notte medesima, prima deldomaniindifferibile, non essendoci per lei altro scampo.

Quando cessò il raccapriccio che mi venne dal pensiero del pericolo imminente, io considerai in me stesso: "Sarebbero più gravi le conseguenze della morte di Giuliana o quelle della sua incolumità? Poiché la ruina è senza riparo e l'abisso è senza fondo, una catastrofe immediata è forse preferibile alla prolungazione indefinita del dramma spaventevole." E la mia imaginazione mi faceva assistere alle fasi della nuova maternità di Giuliana, mi faceva vedere il nuovo essere procreato, l'intruso che avrebbe portato il mio nome, che sarebbe stato il mio erede, che avrebbe usurpato le carezze di mia madre, delle mie figliuole, di mio fratello. "Certo, soltanto la morte può interrompere il corso fatale di questi eventi. Ma il suicidio resterebbe segreto? Con qual mezzo Giuliana si ucciderebbe? Accertata la morte volontaria, che penserebbero mia madre, mio fratello? Qual colpo ne riceverebbe mia madre? E Maria? E Natalia? E che farei allora io della mia vita?"

Non riuscivo, veramente, a concepire la mia vita senza Giuliana. Io amavo quella povera creatura anche nella sua impurità. Tranne quell'impeto subitaneo di collera suscitatomi dalla gelosia carnale, io non avevo ancor provato contro di lei un senso d'odio o di rancore o di disdegno. Non m'era balenato alcun pensiero di vendetta. In vece, io avevo di lei una misericordia profonda. Io accettavo, fin da principio, tutta la responsabilità della sua caduta. Un sentimento fiero e generoso mi sollevò, mi esaltò. "Ella ha saputo chinare il capo sotto i miei colpi, ha saputo soffrire, ha saputo tacere; mi ha dato l'esempio del coraggio virile, dell'abnegazione eroica. Ora è venuta la mia volta. Io le debbo il contraccambio. Debbo salvarla ad ogni costo." E questa sollevazione dell'anima, questa cosa buona, mi veniva da lei.

La guardai da presso. Rimaneva come immobile, nella medesima attitudine, con la fronte scoperta. Pensai: "Ma dorme? Se invece fingesse di dormire per allontanare ogni sospetto, per farsi credere calma, per esser lasciata sola? Certo, se il suo proposito è di non arrivare a domani, ella cerca di favorirne l'esecuzione con ogni mezzo. Ella simula il sonno. Se il sonno fosse reale, non sarebbe così tranquillo, così fermo, in lei che ha i nervi sovreccitati. Ora la scuoto…." ma esitai: "Se realmente dormisse? Talvolta, dopo una grande dispersione di forza nervosa, anche in mezzo alle più fiere inquietudini morali il sonno piomba grave come una sincope. Oh le durasse questo sonno fino a domani e potesse ella domani levarsi rinfrancata, a bastanza forte per sostenere il colloquio tra noi inevitabile!" Guardavo fissamente quella fronte pallida come il lenzuolo; e, chinandomi un poco più, m'accorsi che diveniva madida. Una stilla di sudore spuntava sul sopracciglio. E quella stilla mi suscitò l'idea del sudor freddo che annuncia l'azione dei veleni narcotici. Subito mi balenò un sospetto. "La morfina!" E per istinto il mio sguardo corso al tavolo da notte, di là dal capezzale, come a cercarvi la fiala di vetro contrassegnata dal piccolo teschio nero, dal noto simbolo mortuario.

Erano su quel tavolo una boccia d'acqua, un bicchiere, un candeliere, un fazzoletto, alcune forcine che rilucevano; non v'era altro. Feci un esame rapido di tutta l'alcova. Un'ansietà angosciosa mi stringeva. "Giuliana ha la morfina. Ne ha sempre avuta una certa quantità, liquida, per le iniezioni. Son sicuro che ha pensato di avvelenarsi con quella. Dove tiene nascosta la bottiglietta?" Io avevo fissa dentro le pupille l'imagine della piccola fiala di vetro veduta una volta tra le mani di Giuliana, distinta da quel segno sinistro che usano i farmacisti per distinguere un tossico. La fantasia eccitata mi suggerì: "E se ella avesse già bevuto?… Quel sudore…." Tremavo, su la sedia; e un dibattito rapido si agitava dentro di me. "Ma quando? Ma come? Ella non è rimasta mai sola.—Basta un attimo per vuotare una fiala.—Ma in lei non sarebbe forse mancato il vomito….—E quell'accesso di vomito convulso, dianzi, a pena ella è giunta qui? Avendo premeditato il suicidio, forse ella portava seco la morfina. Non può essere ch'ella l'abbia bevuta prima di giungere alla Badiola, in carrozza, nell'ombra? In fatti, ella ha impedito che Federico andasse a chiamare il medico…." Io non conoscevo bene i sintomi dell'avvelenamento per morfina. Nel dubbio, la fronte bianca e madida, la immobilità perfetta di Giuliana mi atterrivano. Stavo per scuoterla. "Ma se m'inganno? Ella si sveglia ed io che cosa le dico?" Mi pareva che la prima parola di lei, il primo sguardo scambiato tra lei e me, la prima comunicazione diretta tra lei e me, dovessero cagionarmi un effetto straordinario, d'una violenza imprevedibile, inimaginabile. Mi pareva che non avrei potuto dominarmi, dissimulare, e che ella subito, guardandomi, avrebbe indovinata la mia consapevolezza. E allora?

Tesi l'orecchio, sperando e temendo che sopraggiungesse mia madre. Poi (non avrei tremato così nel sollevare il lembo d'un lenzuolo funebre per rivedere la sembianza di una persona estinta) scopersi a poco poco il volto di Giuliana.

Ella aprì gli occhi.

—Ah, Tullio, sei tu?

Ella aveva la sua voce naturale. Cosa inaspettata: io potevo parlare.

—Dormivi?—le dissi, evitando di guardarla nelle pupille.

—Sì, m'ero assopita.

—Io dunque t'ho svegliata…. Perdonami…. Volevo scoprirti la bocca. Temevo che tu non respirassi bene…. che le coperte ti affogassero….

—Sì, è vero. Ora ho caldo, troppo caldo…. Levami qualcuna di queste coperte; ti prego.

E io mi alzai per alleggerirla di qualche coperta. M'è ora impossibile definire il mio stato di conscienza relativo a quelli atti che io facevo, a quelle parole che io dicevo e udivo, a quelle cose che accadevano naturalmente come se nulla fosse mutato, come se io e Giuliana fossimo ignari e immuni, come se là dentro non fossero l'adulterio, il disinganno, il rimorso, la gelosia, la paura, la morte, tutte le atrocità umane, in quell'alcova tranquilla. Ella mi domandò:

—È molto tardi?

—No, non è ancora mezzanotte.

—La mamma è andata a letto?

—Non ancora.

Dopo una pausa:

—E tu…. non vai? Devi essere stanco….

Non seppi rispondere. Dovevo rispondere che rimanevo? pregarla di lasciarmi rimanere? ripeterle le parole tènere proferite su la poltrona, nellanostrastanza, a Villalilla? Ma, rimanendo, in che modo avrei passata la notte? Là, sulla sedia, a vegliare, o nel letto accanto a lei? in che modo mi sarei condotto? Avrei potuto simulare sino in fondo?

Ella soggiunse:

—È meglio che tu vada, Tullio…. per questa sera…. Io non ho bisogno più di nulla; non ho bisogno d'altro che di riposo. Se tu rimanessi…. sarebbe male…. È meglio che tu vada, per questa sera, Tullio.

—Ma tu potresti aver bisogno….

—No. E poi, in ogni caso, c'è Cristina che dorme qui accanto.

—Io mi stendo là, sul canapè, con una coperta….

—Perché vuoi soffrire? Tu sei molto stanco: si vede dalla faccia….E poi, se io ti sapessi là, non dormirei. Sii buono, Tullio!Domattina, presto, tu verrai a vedermi. Ora abbiamo bisogno di riposo,tutt'e due: d'un riposo completo….

Ella aveva la voce fioca e carezzevole, senza alcun accento insolito. Tranne l'insistenza nel persuadermi ad andarmene, null'altro accusava in lei il proposito funesto. Ella pareva prostrata di forze ma calma. Di tratto in tratto chiudeva gli occhi, come se il sonno le aggravasse le palpebre.—Che fare? Lasciarla? Ma la sua calma a punto mi spaventava. Una tale calma non poteva venirle che dalla fermezza del proposito. Che fare? Tutto considerato, anche la mia presenza durante la notte sarebbe stata vana. Ella avrebbe potuto benissimo mandare ad effetto il suo pensiero, essendosi preparata, avendo pronto il mezzo. Questo mezzo era veramente la morfina? E dove teneva ella nascosta la fiala? sotto il guanciale? Nel cassetto del tavolo da notte? In che modo farne ricerca? Bisognava palesare tutto, dire all'improvviso: "Io so che tu ti vuoi uccidere." Ma quale scena sarebbe seguita? Non sarebbe stato possibile nascondere il resto. E che notte, allora, sarebbe stata quella?—Tante perplessità esaurivano ogni mia energia, mi dissolvevano. I miei nervi si rilasciavano. La stanchezza fisica diveniva sempre più grave. Tutto il mio organismo entrava in quello stato di sfinimento estremo in cui ogni funzione volontaria sta per essere sospesa, in cui azioni e reazioni non si corrispondono più o non si compiono. Io mi sentivo incapace di resistere più oltre, di lottare, di operare in una qualunque maniera utile. Il sentimento della mia debolezza, il sentimento della necessità di ciò che accadeva ed era per accadere mi paralizzavano. Il mio essere pareva colpito come da una paralisia repentina. Io provavo un bisogno cieco di sfuggire anche a quell'ultima oscura conscienza dell'essere. E finalmente tutte le mie ansietà si risolsero in un pensiero disperato. "Avvenga che può, c'è anche per me la morte."

—Sì, Giuliana,—dissi—ti lascio in pace. Dormi. Ci vedremo domani.

—Non ti reggi!

—Già, è vero; non mi reggo…. Addio. Buona notte!

—Non mi dai un bacio, Tullio?

Un brivido di ripugnanza istintiva mi attraversò. Esitai.

In quel punto entrava mia madre.

—Come? Sei sveglia?—esclamò mia madre.

—Sì, ma ora mi riaddormento.

—Sono stata a vedere le bambine. Natalia era desta. M'ha domandato subito: "È tornata la mamma?" Voleva venire….

—Perché non dici a Edith che me la porti? S'è messa a letto Edith?

—No.

—Addio, Giuliana—interruppi.

E m'appressai, e mi chinai a baciarle la guancia ch'ella mi porgeva sollevandosi un poco su i gomiti.

—Addio, mamma. Vado a coricarmi perché ho un sonno che m'acceca.

—E non prendi nulla? Federico è rimasto giù ad aspettarti….

—No, mamma; non ho voglia. Buona notte!

E baciai su la guancia anche lei. Ed uscii senza indugio, senza volgere uno sguardo a Giuliana; raccolsi le poche forze che mi restavano e, a pena fuori della soglia, mi misi a correre verso le mie stanze, per tema di cadere prima di aver raggiunta la mia porta.

Mi gettai bocconi sul letto. M'agitava quell'orgasmo che precede i grandi scoppi di pianto, quando il nodo dell'angoscia sta per disciogliersi, quando la tensione sta per allentarsi. Ma l'orgasmo durava, e il pianto non veniva. La sofferenza era orribile. Un peso enorme mi gravava in tutto il corpo, un peso che io sentivo non sopra ma dentro di me come se le mie ossa e i miei muscoli fossero divenuti di piombo compatto. E il mio cervello pensava ancora! E la mia conscienza era ancora vigile!

"No, non dovevo lasciarla, non dovevo consentire ad andarmene così. Certo, quando mia madre si sarà ritirata, ella si ucciderà, il suono della sua voce quando ha espresso il desiderio di rivedere Natalia!…" Un'allucinazione s'impadronì di me, subitamente.—Mia madre usciva dalla stanza. Giuliana si levava a sedere sul letto, si metteva in ascolto. Poi, sicura d'essere alfine sola, prendeva dal cassetto del tavolo da notte la bottiglia della morfina; non esitava un attimo; con un gesto risoluto, la vuotava d'un fiato; si ritraeva sotto le coperte; si metteva supina, ad aspettare….—La visione imaginaria del cadavere giunse a una tale intensità che io, come un ossesso, m'alzai; girai tre o quattro volte intorno alla stanza urtando contro i mobili, inciampando nei tappeti, gesticolando paurosamente. Aprii una finestra.

La notte era tranquilla, piena d'un gracidare di rane monotono e continuo. Le stelle palpitavano.

L'Orsa brillava in contro, distinta. Il tempo fluiva.

Rimasi alcuni minuti al davanzale, in attesa, fissando la grande costellazione che pareva alla mia vista perturbata avvicinarsi. Non sapevo, veramente, che attendessi. Mi smarrivo. Avevo un sentimento particolare della vacuità di quel cielo immenso. All'improvviso, in quella specie di pausa dubitosa, come se un qualche influsso oscuro avesse operato sul mio essere nella profondità dell'inconscienza, risorse spontanea la domanda non ancora bene compresa: "Che avete fatto di me?" E la visione del cadavere, per poco interrotta, si riaffacciò.

L'orrore fu tale che io, pur non sapendo quale azione volessi compiere, mi volsi, uscii senza esitare, mi diressi verso la stanza di Giuliana. Incontrai miss Edith nell'andito.

—Di dove venite, Edith?—le chiesi.

M'accorsi ch'ella si stupì del mio aspetto.

—Ho portato Natalia dalla signora che la voleva vedere; ma ho dovuto lasciarla là. Non è stato possibile persuaderla a tornarsene nel suo letto. Ha pianto tanto che la signora ha consentito a tenerla con sé. Speriamo che Maria non si svegli ora….

—Ah dunque….

Il cuore mi batteva con tal veemenza, che non potevo parlare di seguito.

—Ah, dunque, Natalia è rimasta nel letto della madre….

—Sì, signore.

—E Maria…. Andiamo a vedere Maria.

La commozione mi soffocava. Giuliana per quella notte era salva! Non era possibile ch'ella pensasse a morire in quella notte, avendo la bambina al suo fianco. Per miracolo, il tenero capriccio di Natalia aveva salvato la madre. "Benedetta! Benedetta!" Prima di guardare Maria addormentata, io guardai il piccolo letto vuoto dov'era rimasto un piccolo solco. Strane voglie mi venivano, di baciare il guanciale, di sentire se il solco fosse ancora tiepido. La presenza di Edith mi teneva in disagio. Mi volsi a Maria, mi chinai trattenendo il respiro, la contemplai a lungo, ricercai a una a una le note somiglianze ch'ella aveva con me, quasi numerai le vene tenui che le trasparivano nella tempia, nella guancia, nella gola. Dormiva sul fianco, tenendo la testa abbandonata in dietro così che tutta la gola rimaneva scoperta sotto il mento alzato. I denti, minuti come grani di riso mondi, lucevano nella bocca socchiusa. I cigli, lunghi come quelli della madre, spandevano dal cavo degli occhi un'ombra che toccava il sommo delle gote. Una gracilità di fiore prezioso, una finezza estrema distinguevano quella forma infantile in cui iosentivofluire il mio sangue assottigliato.

Quando mai, da che le due creature vivevano, quando mai avevo provato per loro un sentimento così profondo, così dolce e così triste?

Mi tolsi di là a fatica. Avrei voluto sedermi tra i due piccoli letti e riposare il capo su la sponda di quello vuoto, aspettando ildomani.

—Buona notte, Edith,—dissi uscendo; e la mia voce tremava d'un tremito diverso.

Come giunsi alla mia stanza, di nuovo mi gittai bocconi sul letto. E ruppi alfine in singhiozzi, perdutamente.

Quando mi svegliai dal sonno greve e quasi direi brutale che a una certa ora della notte m'era piombato sopra di schianto, durai fatica a ricuperare la nozione esatta della realtà.

Dopo un poco, al mio spirito scevro dalle eccitazioni notturne, la realtà si presentò fredda, nuda, incommutabile. Che erano le angosce recenti al paragone dello sgomento che allora m'invase?—Bisognava vivere! Ed era come se qualcuno mi presentasse una coppa profonda, dicendomi: "Se tu vuoi bere, oggi, se tu vuoi vivere, bisogna che tu sprema qui dentro, fino all'ultima goccia, il sangue del tuo cuore." Una ripugnanza, un disgusto, un ribrezzo indefinibili mi salirono dall'intimo dell'essere. E, intanto, bisognava vivere, bisognava accettare anche in quel mattino la vita! E bisognava, sopra tutto,agire!

Il confronto ch'io feci dentro di me, tra quel risveglio reale e il risveglio sognato e sperato a Villalilla il giorno innanzi, aumentò la mia insofferenza. Pensai: "È impossibile che io accetti un tale stato; è impossibile che io mi levi, che io mi vesta, che io esca di qui, che io riveda Giuliana, che io le parli, che io seguiti a dissimulare innanzi a mia madre, che io aspetti l'ora opportuna per un colloquio definitivo, che in quel colloquio io stabilisca le condizioni della nostra esistenza avvenire. È impossibile. E allora? La distruzione assoluta istantanea di tutto ciò che in me soffre…. Liberarmi, sfuggire….Non c'è altro." E, considerando la facilità della cosa, imaginando l'azione rapida, lo scatto dell'arma, l'effetto immediato del piombo, l'oscurità consecutiva, io provai in tutto il corpo una tensione particolare, angosciosa e pur mista d'un senso di sollievo, quasi di dolcezza. "Non c'è altro." E, benché l'ansia di sapere mi agitasse, pensai con sollievo che non avrei saputo più nulla di nulla, che quella stessa ansia sarebbe d'un tratto cessata, che tutto in somma avrebbe avuto fine. Udii battere alla porta. E la voce di mio fratello gridò:

—Tullio, non ti sei ancora levato? Sono le nove. Posso entrare?

—Entra, Federico.

Egli entrò.

—Sai che è tardi? Sono passate le nove….

—Mi sono addormentato tardi, ed ero stanchissimo.

—Come stai?

—Così….

—La mamma è levata. M'ha detto che Giuliana sta a bastanza bene. Vuoi che t'apra la finestra? È una mattinata stupenda.

Spalancò la finestra. Un flutto d'aria fresca, inondò la stanza; le tende si gonfiarono come due vele; apparve nel vano l'azzurro.

—Vedi?

La luce viva scoprì forse nel mio volto i segni dello strazio perché egli soggiunse:

—Ma anche tu stanotte ti sei sentito male?

—Credo d'aver avuto qualche po' di febbre.

Federico mi guardava con i suoi limpidi occhi glauchi; e in quel momento mi parve di avere su l'anima tutto il peso delle menzogne e delle dissimulazioni future. Oh, s'egli avesse saputo! Ma, come sempre, la sua presenza fugò da me la viltà che già mi teneva. Una energia fittizia, come dopo un sorso di cordiale, mi rialzò. Pensai: "In che modo si condurrebbe egli nel mio caso?" Il mio passato, la mia educazione, l'essenza stessa della mia natura contrastavano qualunque riscontro probabile; però questo al meno era certo:—in caso di sciagura, simile o dissimile, egli si sarebbe condotto da uomo forte e caritatevole, avrebbe affrontato il dolore eroicamente, avrebbe preferito al sacrificio degli altri il sacrificio di sé.

—Fammi sentire….—disse, accostandosi.

E mi toccò la fronte con la palma della mano, mi prese il polso.

—Ora sei libero, mi sembra. Ma che polso ineguale!

—Lasciami levare, Federico, che è tardi.

—Oggi, dopo mezzogiorno, vado al bosco d'Assòro. Se tu vuoi venire, faccio sellare per te Orlando. Ti ricordi tu del bosco? Peccato che Giuliana non stia bene! Altrimenti, condurremmo anche lei…. Vedrebbe le carbonare accese.

Quando nominava Giuliana, pareva che la sua voce divenisse più affettuosa, più dolce, quasi direi più fraterna. Oh, s'egli avesse saputo!

—Addio, Tullio. Vado a lavorare. Quando comincerai ad aiutarmi?

—Oggi stesso, domani, quando vorrai.

Egli si mise a ridere.

—Che ardore! Basta: ti vedrò alla prova. Addio, Tullio.

Ed uscì con quel suo passo alacre e franco, poiché lo sollecitava di continuo l'esortazione inscritta nel quadrante solare:—Hora est benefaciendi.

Erano le dieci quando io uscii. La gran luce di quel mattino d'aprile, che inondava la Badiola per le finestre e per i balconi spalancati, m'intimidiva. Come portare la maschera sotto quella luce?

Cercai di mia madre, prima d'entrare nelle stanze di Giuliana.

—Ti sei levato tardi—ella disse, vedendomi.

—Come stai!

—Bene.

—Sei pallido.

—Credo d'aver avuto un po' di febbre, stanotte, ma ora sto bene.

—Hai veduta Giuliana?

—Non ancora.

—Ha voluto levarsi, quella benedetta figliuola! Dice che non si sente più nulla; ma ha un viso….

—Vado da lei.

—E bisogna che tu non trascuri di scrivere al dottore. Non dar retta a Giuliana. Scrivi oggi stesso.

—Tu le hai detto…. che ioso?

—Sì, le ho detto che tusai.

—Vado, mamma.

La lasciai d'avanti ai suoi grandi armarii di noce, profumati d'ireos, dove due donne accumulavano la bella biancheria di bucato, l'opulenza di Casa Hermil. Maria, nella sala del pianoforte, prendeva la lezione da miss Edith; e le scale cromatiche si succedevano rapide ed eguali. Passava Pietro, il più fedele dei servitori, canuto, un po' curvo, portando un vassoio pieno di cristalli che tintinnivano poiché le braccia tremavano di vecchiaia. Tutta la Badiola, inondata d'aria e di luce, aveva un aspetto di letizia tranquilla. V'era non so qual sentimento di bontà diffuso per ogni dove: qualche cosa come il sorriso tenue e inestinguibile dei Lari.

Mai quel sentimento, quel sorriso m'avevano penetrata l'anima così a dentro. Tanta pace, tanta bontà circondavano l'ignobile segreto che io e Giuliana dovevamo custodire in noi senza morirne.

"Ed ora?" pensai, al colmo dell'angoscia, girando per l'andito come un estraneo smarrito, non potendo dirigere il mio passo verso il luogo temuto, quasi che il mio corpo si rifiutasse d'obedire all'impulso della volontà, "Ed ora? Ella sa che io conosco il vero. Tra noi due ogni dissimulazione è omai inutile. Ed è necessario che noi ci guardiamo in faccia, che noi parliamo della cosa tremenda. Ma non è possibile che questo duello avvenga stamani. Le conseguenze sono imprevedibili. Ed è necessario, ora più che mai, è necessario che nessuno dei nostri atti apparisca singolare, inesplicabile a mia madre, a mio fratello, a qualunque persona di questa casa. Il mio turbamento di iersera, le mie inquietudini, le mie tristezze si possono spiegare con la preoccupazione del pericolo a cui Giuliana va incontro essendo incinta; ma logicamente, agli occhi altrui, questa preoccupazione deve rendermi verso di lei più tenero, più sollecito, più premuroso che mai. La mia prudenza oggi dev'essere estrema. Bisogna che io eviti ad ogni costo una scena tra me e Giuliana, oggi. Bisogna che io sfugga l'occasione di rimaner solo con lei, oggi. Ma bisogna anche ch'io trovi subito il modo di farle comprendere il sentimento che determina queste mie attitudini verso di lei, il proposito che regola la mia condotta. E se ella persistesse nella volontà di uccidersi? Se ella avesse soltanto differita di qualche ora l'esecuzione? Se ella stesse già aspettando l'opportunità?" Questo timore troncò gli indugi e mi spinse ad agire. Somigliavo quei soldati orientali che erano spinti alla battaglia a colpi di frusta.

Mi diressi verso la sala del pianoforte. Vedendomi, Maria interruppe i suoi esercizi e corse a me tutta leggera e allegra, come a un liberatore. Ella aveva la grazia, l'agilità, la leggerezza delle creature alate. La sollevai tra le mie braccia per baciarla.

—Mi porti con te?—mi chiese ella.—Sono stanca. È un'ora che miss Edith mi tiene qui…. Non ne posso più. Portami con te, fuori!Let us take a walk before breakfast.

—Dove?

—Where you please, it is the same to me.

—Ma andiamo prima dalla mamma….

—Eh, ieri voi ve n'andaste a Villalilla e noi rimanemmo alla Badiola. Fosti tu, proprio tu, che non volesti condurci; perché la mamma voleva. Cattivo!We should like to go there. Tell me how you amused yourselves….

Ella cantava come un uccello, in quella lingua non sua, deliziosamente. Quel cinguettio non intermesso accompagnava la mia ansietà, mentre andavamo verso le stanze di Giuliana. Poiché io esitavo, Maria battè alla porta chiamando:

—Mamma!

Giuliana aprì, ella medesima, non sospettando la mia presenza. Mi vide. Sussultò forte come se avesse veduto un fantasma, uno spettro, qualche cosa di terrifico.

—Sei tu?—balbettò, tanto piano che a pena l'udii, mentre le labbra nel muoversi le si scoloravano: divenuta a un tratto, dopo il sussulto, più rigida di un'erma.

E ci guardammo, là, su la soglia; ci fissammo; fissammo per un istante l'uno su l'altra la nostra stessa anima. Tutto disparve in torno; tutto fra noi due fu detto, fu compreso, fu risoluto, in un istante.

Dopo, che avvenne? Non so bene, non ricordo bene. Ricordo che per qualche tempo ebbi di ciò che avveniva una conscienza quasi direi intermittente, come per una successione di brevi eclissi. Era, credo, un fenomeno simile in parte a quello prodotto dall'indebolimento dell'attenzione volontaria in certi infermi. Smarrivo la facoltà dell'attenzione: non vedevo, non udivo, non afferravo più il senso delle parole, non comprendevo più. Poi, dopo un poco, ricuperavo quella facoltà, esaminavo d'intorno a me le cose e le persone, ridiventavo attento e consciente.

Giuliana era seduta; aveva Natalia su le ginocchia. Anch'io ero seduto. E Maria andava da lei a me e da me a lei, con una mobilità continua, parlando senza posa, incitando la sorella, rivolgendoci una quantità di domande a cui non rispondevamo se non con qualche cenno del capo. Quel favellìo vivace riempiva il nostro silenzio. In uno dei frammenti che io udii, Maria diceva alla sorella:

—Ah, tu hai dormito con la mamma, stanotte. È vero?

E Natalia:

—Sì, perché io sono piccola.

—Ah, ma la notte che viene, sai, tocca a me. È vero, mamma? Prendi me nel tuo letto, la notte che viene….

Giuliana taceva, non sorrideva, assorta. Poiché Natalia le stava su le ginocchia volgendole le spalle, ella la teneva cinta con le braccia alla vita; e le sue mani posavano nel grembo della figliuola congiunte, più bianche della vestetta bianca su cui posavano, e affilate, e dolenti, così dolenti che rivelavano esse sole una immensità, di tristezza. Giungendole la testa di Natalia a fiore del mento, ella reclinata pareva premere la bocca su quei riccioli; così che quando io le gettavo uno sguardo, non vedevo la parte inferiore del volto, non le vedevo l'espressione della bocca. Né incontravo mai gli occhi. Ma ogni volta vedevo le palpebre abbassate, un poco rosse, che ogni volta mi turbavano a dentro come se lasciassero trasparire la fissità della pupilla che coprivano.

Aspettava ella che io dicessi qualche parola? Salivano intanto alla sua bocca nascosta parole improfferibili?

Quando alfine con uno sforzo mi riuscì di sottrarmi a quello stato d'inazione in cui s'erano avvicendate lucidità e oscurità straordinarie, io dissi, (ed ebbi, credo, l'accento che avrei avuto nel continuare un dialogo già iniziato, nell'aggiungere nuove parole alle dette) io dissi piano:

—La mamma vuole che io avvisi il dottore Vebesti. Le ho promesso di scrivere. Scriverò.

Ella non sollevò le palpebre; rimase muta. Maria, nella sua profonda inconsapevolezza, la guardò attonita; poi guardò me.

Io m'alzai, per uscire,

—Oggi, dopo mezzogiorno, andrò al bosco d'Assòro, con Federico. Ci vedremo stasera, al ritorno?

Poiché ella non accennava a rispondere, ripetei con una voce che significava tutte le cose non espresse:

—Ci vedremo, stasera, al ritorno?

Le sue labbra tra i riccioli di Natalia spirarono:

—Sì.

Nella violenza delle mie agitazioni diverse e contrarie, nel primo tumulto del dolore, sotto la minaccia dei pericoli imminenti, io non m'era ancora fermato a considerare l'Altro. Ma anche, fin dal principio, non avevo avuto né pur l'ombra di un dubbio su la giustezza del mio antico sospetto. Subito, nel mio spirito, l'Altro aveva preso l'imagine di Filippo Arborio; e, al primo impeto di gelosia carnale che m'aveva assalito dentro l'alcova, l'imagine abominevole s'era accoppiata con quella di Giuliana in una serie di visioni orrende.

Ora, mentre io e Federico andavamo cavalcando verso la foresta, lungo quel fiume tortuoso che io avevo contemplato nel torbido pomeriggio del sabato santo, l'Altro veniva con noi. Tra me e mio fratello s'intrapponeva la figura di Filippo Arborio, vivificata dal mio odio, resa dal mio odio così intensamente viva che io provavo, guardandola,in sensazione reale, un orgasmo fisico, qualche cosa di simile al fremito selvaggio da cui ero stato preso talvolta trovandomi sul terreno, di fronte all'avversario spogliato di camicia, al segnale dell'attacco.

La vicinanza di mio fratello aumentava straordinariamente il mio male. Al paragone di Federico, la figura di quell'uomo, così fine, così nervosa, così feminea, si rimpiccioliva, s'immiseriva, diveniva spregevole per me ed ignobile. Sotto l'influsso del nuovo ideale di forza e di semplicità virile, ispiratomi dall'esempio fraterno, io non soltanto odiavo ma disprezzavo quell'essere complicato ed ambiguo che pure apparteneva alla mia stessa razza e aveva comuni con me alcune particolarità di constituzione cerebrale, come appariva dalla sua opera d'arte. Io me lo imaginavo, a simiglianza d'uno dei suoi personaggi letterarii, affetto dalle più tristi malattie dello spirito, obliquo, doppio, crudelmente curioso, isterilito dall'abitudine dell'analisi e dell'ironia riflessa, di continuo occupato a convertire i più caldi e spontanei moti dell'animo in nozioni chiare e glaciali, avvezzo a considerare qualunque creatura umana come un soggetto di pura speculazione psicologica, incapace d'amore, incapace d'un atto generoso, d'una rinuncia, d'un sacrificio, indurito nella menzogna, ottuso dal disgusto, lascivo, cinico, vile.

Da un tale uomo Giuliana era stata sedotta, era stata posseduta: certo, non amata. Lamanieranon appariva anche in quella dedica scritta sul frontespizio delSegreto, in quella dedica enfatica che era l'unico documento a me noto risguardante la relazione passata tra il romanziere e mia moglie? Certo, ella era stata nelle mani di colui una cosa di voluttà, non altro. Espugnare la Torre d'avorio, corrompere una donna pubblicamente vantata incorruttibile, esperimentare un metodo di seduzione sopra un soggetto tanto raro:—impresa ardua ma piena di attrattive, degna in tutto di un artista raffinato, del difficile psicologo che aveva scrittoLa CattolicissimaeAngelica Doni.

Come più riflettevo, i fatti mi apparivano nella loro crudità bruta. Certo, Filippo Arborio aveva incontrata Giuliana in uno di quei periodi in cui la donna così detta "spirituale", che ha sofferta una lunga astinenza, è commossa da aspirazioni poetiche, da desiderii indefiniti, da languori vaghi; i quali non sono se non le larve di cui si mascherano i bassi stimoli dell'appetito sessuale. Filippo Arborio, esperto, avendo indovinato la special condizione fisica della donna ch'egli voleva possedere, s'era servito del metodo più conveniente e più sicuro, che è questo:—parlare d'idealità, di zone superiori, di alleanze mistiche, ed occupare nel tempo medesimo le mani alla scoperta d'altri misteri; unire in somma un brano di pura eloquenza a una delicata manomessione.—E Giuliana,la Turris eburnea, la grande taciturna, la creatura composta d'oro duttile e d'acciaio, l'Unica, s'era prestata a quel vecchio giuoco, s'era lasciata prendere a quel vecchio inganno, aveva anch'ella obedito alla vecchia legge della fragilità muliebre. E il duetto sentimentale era finito con una copula disgraziatamente feconda….

Un orribile sarcasmo mi torceva l'anima. Mi pareva d'avere non nella bocca ma dentro di me la convulsione provocata da quell'erba che ci fa morire a modo di chi ride.

Spronai il cavallo; e lo misi al galoppo, lungo l'argine del fiume.

L'argine era periglioso, strettissimo nelle lunate, minacciato di frana in taluni punti, in altri ingombrato dai rami di qualche grosso albero torto, in altri attraversato da radici a fior di terra enormi. Io avevo perfetta conscienza del pericolo a cui mi esponevo; e, in vece di trattenere, spingevo sempre più il cavallo, non con l'intenzione d'incontrare la morte ma volendo trovare in quell'ansietà una tregua allo spasimo intollerabile. Conoscevo già l'efficacia di una tale follia. Dieci anni fa, quando'ero assai giovine, addetto all'ambasciata in Costantinopoli, per sfuggire a certi accessi di tristezza prodotti da ricordi recenti di passione, nelle notti di luna entravo a cavallo in uno di quei cimiteri musulmani densi di tombe, su le pietre lisce in pendio, correndo mille volte il rischio di uccidermi in una caduta. Stando con me in groppa, la morte cacciava ogni altra cura.

—Tullio! Tullio! Férmati!—mi gridava Federico a distanza.—Férmati!

Io non gli davo ascolto. Più d'una volta, per prodigio, evitai di battere la fronte contro qualche ramo orizzontale. Più d'una volta per prodigio impedii al cavallo di urtare contro un tronco. Più d'una volta, nei passi angusti, vidi certa la caduta nel fiume che mi luccicava sotto. Ma quando udii dietro di me un altro galoppo e m'accorsi che Federico m'inseguiva alla gran carriera, temendo per lui, con una strappata violenta arrestai il povero animale che s'impennò, rimase un istante inalberato come per precipitarsi nell'acqua, poi ricadde. Io ero incolume.

—Ma sei impazzito?—mi gridò Federico, sopraggiungendo, pallidissimo.

—T'ho fatto paura? Perdonami. Credevo che non ci fosse pericolo. Volevo provare il cavallo…. Poi non lo potevo più fermare…. È un po' duro, di bocca….

—Duro di bocca Orlando!

—Non ti pare?

Egli mi guardò fiso, con un'espressione inquieta. Io tentai di sorridere. Il suo pallore insolito mi faceva pena e tenerezza.

—Non so come tu non ti sia spezzato il capo contro uno di questi alberi; non so come tu non sia precipitato….

—E tu?

Per inseguirmi egli aveva corso lo stesso pericolo, forse anche maggiore perché il suo cavallo era più pesante ed egli aveva dovuto metterlo a tutta carriera volendo raggiungermi in tempo. Ambedue considerammo la via dietro di noi.

—È un miracolo—egli disse.—Già, salvarsi dall'Assòro è quasi impossibile. Non vedi?

Ambedue considerammo sotto di noi il fiume mortifero. Cupo, luccicante, rapido, pieno di mulinelli e di gorghi, l'Assòro correva tra gli argini cretacei con un silenzio che lo rendeva più torvo. Il paesaggio rispondeva a quell'aspetto di perfidia e di minaccia. Il cielo pomeridiano s'era impregnato di vapori e biancheggiava stancamente con un riverbero diffuso, sopra una distesa di macchioni rossastri che la primavera non aveva ancor vinti. Le foglie morte si mescevano quivi con le viventi nuove, gli stecchi aridi con i virgulti, i cadaveri coi neonati vegetali, in un denso intrico allegorico. Su la turbolenza del fiume, sul contrasto della boscaglia biancheggiava il cielo stancamente, dissolvendosi.

"Un tonfo improvviso; e non avrei più pensato, non avrei più sofferto, non avrei più portato il peso della mia carne miserabile. Ma forse avrei trascinato con me nel precipizio mio fratello: una forma nobile di vita, un Uomo. Io sono salvo per miracolo com'egli è salvo per miracolo. La mia follia lo ha esposto al rischio estremo. Un mondo di cose belle e di cose buone sarebbe scomparso con lui. Quale fatalità vuole che io sia così nocivo alle persone che mi amano?"

Guardai Federico. Egli era divenuto pensoso e grave. Non osai interrogarlo; ma provai un acuto rammarico d'averlo contristato.—Che pensava egli? Qual pensiero alimentava il suo turbamento? Aveva forse indovinato che io dissimulavo una sofferenza inconfessabile e che soltanto l'aculeo d'una idea fissa m'aveva spinto alla corsa mortale?

Seguitammo lungo l'argine, l'uno dietro l'altro, al passo. Poi volgemmo per un sentiero che s'inoltrava nella macchia; e, come il sentiero era abbastanza largo, di nuovo cavalcammo l'uno a fianco dell'altro mentre i cavalli sbuffavano avvicinando le froge come per parlarsi in segreto e mescolavano la schiuma dei loro freni.

Pensavo, gittando di tratto in tratto un'occhiata a Federico e vedendolo ancora severo: "Certo, se io gli rivelassi la verità, egli non mi crederebbe. Egli non potrebbe credere al fallo di Giuliana, alla contaminazione della sorella. Io non so decidere veramente, tra l'affetto di lui e l'affetto di mia madre per Giuliana, quale sia più profondo. Non ha egli sempre tenuto sul suo tavolo il ritratto della nostra povera Costanza e il ritratto di Giuliana riuniti come in un dittico per la stessa adorazione? Anche stamani! come s'addolciva la sua voce nominandola!" Subitamente, per contrasto, la bruttura mi si ripresentò anche più turpe. Era il corpo intraveduto nello spogliatoio della sala d'armi quello che si atteggiava nelle mie visioni. E il mio odio pur troppo operava su quell'imagine come l'acido nitrico su i tratti segnati nella lastra di rame. L'incisione diveniva sempre più netta.

Allora, mentre mi durava nel sangue l'eccitamento della corsa, per quell'esuberanza di coraggio fisico, per quell'istinto di combattività ereditario che tanto spesso si risvegliava in me al rude contatto degli altri uomini, io sentii che non avrei potuto rinunziare ad affrontare Filippo Arborio. "Andrò a Roma, cercherò di lui, lo provocherò in qualche modo, lo costringerò a battersi, farò di tutto per ucciderlo o per renderlo invalido." Io me lo imaginavo pusillanime. Mi tornò alla memoria una mossa un po' ridicola che gli era sfuggita, nella sala d'armi, al ricevere in pieno petto una botta dal maestro. Mi tornò alla memoria la sua curiosità nel chiedermi notizia del mio duello: quella curiosità puerile che fa spalancare gli occhi a chi non s'è trovato mai nel cimento. Mi ricordai che, durante il mio assalto, egli aveva tenuto lo sguardo sempre fisso su me. La conscienza della mia superiorità, la certezza di poterlo sopraffare mi sollevarono. Nella mia visione, un rivo rosso rigò quella sua pallida carne ributtante. Alcuni frammenti di sensazioni reali, provate in altri tempi a fronte di altri uomini, concorsero a particolarizzare quello spettacolo imaginario nel quale m'indugiavo. E vidi colui sanguinoso e inerte su un pagliericcio, in un casale lontano, mentre i due medici accigliati gli si curvavano sopra. Quante volte io, ideologo e analista e sofista in epoca di decadenza, m'ero compiaciuto d'essere il discendente di quel Raimondo Hermil de Penedo che alla Goletta operò prodigi di valore e di ferocia sotto gli occhi di Carlo Quinto! Lo sviluppo eccessivo della mia intelligenza e la miamultanimitànon avevano potuto modificare il fondo della mia sostanza, il substrato nascosto in cui erano inscritti tutti i caratteri ereditarii della mia razza. In mio fratello, organismo equilibrato, il pensiero s'accompagnava sempre all'opera; in me il pensiero predominava ma senza distruggere le mie facoltà di azione che anzi non di rado si esplicavano con una straordinaria potenza. Io ero insomma un violento e un appassionato consciente, nel quale l'ipertrofia di alcuni centri cerebrali rendeva impossibile la coordinazione necessaria alla vita normale dello spirito. Lucidissimo sorvegliatore di me stesso, avevo tutti gli impeti delle nature primitive indisciplinabili. Più d'una volta io ero stato tentato da improvvise suggestioni delittuose. Più d'una volta ero rimasto sorpreso dall'insurrezione spontanea d'un istinto crudele.

—Ecco le Carbonare—disse mio fratello, mettendo il cavallo al trotto.


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